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Autore: Parmandil    05/09/2022    0 recensioni
La Destiny doveva esplorare il Multiverso, ma qualcosa è andato storto e l’equipaggio è stato ucciso. Anni dopo, una banda di contrabbandieri ha abbordato la nave alla deriva, venendo risucchiata nel Multiverso, senza le coordinate di ritorno. Agli avventurieri non resta che esplorare una realtà dopo l’altra, in cerca d’indizi sulla via di casa, mentre cercano di riscoprire in loro quello spirito che creò la Federazione.
La prima tappa della Destiny la porta in uno strano cosmo in cui pensiero e realtà si confondono. La peggior minaccia per gli avventurieri potrebbe annidarsi in loro stessi, in quel subconscio che è uno spazio inesplorato, pieno di terrori e traumi, ma anche di rimpianti e bramosie. Riusciranno i nostri eroi a fuggire dallo Spazio Caotico, prima che siano i loro stessi demoni a distruggerli? Ma soprattutto, vorranno davvero andarsene?
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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-Capitolo 1: Illusione o realtà?
Data Stellare 2610.55
Luogo: Spazio Caotico

   L’USS Destiny era stata costruita per esplorare il Multiverso. Ma con l’equipaggio originale sterminato e le coordinate di ritorno cancellate dal nemico, gli avventurieri che l’avevano occupata dovevano muoversi a tentoni. L’unico, flebile indizio era dato da una lista di coordinate che l’Ingegnere Capo aveva ricostruito con un algoritmo di deframmentazione dati. A tali coordinate, però, non era più abbinata alcuna descrizione. Dunque ogni viaggio era un salto nel buio; e bisognava provarle tutte per trovare la combinazione giusta, che li avrebbe riportati a casa. A peggiorare le cose, non c’era modo di sapere se la lista era completa. Forse l’indirizzo di ritorno era perduto per sempre; ma gli avventurieri lo avrebbero saputo solo dopo averle tentate tutte. Così fu con un misto di speranza e paura che iniziarono la loro odissea nel Multiverso.
   Abbandonato il Vuoto – l’Universo senza stelle in cui aveva sostato – la Destiny si trovò in un nuovo cosmo, completamente diverso. Non c’erano stelle in vista, ma nemmeno l’oscurità dello spazio. Al contrario, l’astronave era sospesa tra volute azzurre, simili a nubi in perenne cambiamento. Alcune zone parevano più dense, altre meno, ma tutte mutavano forma. L’elemento più sconcertante erano le luci bianche, radunate in piccoli sciami, che sfrecciavano attorno all’astronave, uscendo dalle nubi e sparendovi subito dopo. Tutto era in continua trasformazione, nulla restava uguale più di qualche secondo.
   «E questa che roba è?!» chiese il Capitano Rivera, osservando lo strano cosmo. «Analisi sensoriale completa!» ordinò.
   «Forse siamo finiti dentro una nebulosa» ipotizzò Shati, la timoniera. «Anche se non capisco cosa siano quegli sciami luminosi. Magari fulmini globulari?».
   «Non siamo in una nebulosa» la smentì Talyn, l’addetto a sensori e comunicazioni. «Non rilevo gas né polveri. E non capto nemmeno fulmini o altri fenomeni elettrici».
   «E allora che cosa rilevi?» chiese il Capitano, girandosi a mezzo verso di lui.
   «Io... ho difficoltà a stabilirlo» rispose il giovane El-Auriano, azionando nervosamente un comando dopo l’altro. «È come se non ci fosse nulla, là fuori».
   «Ma qualcosa c’è, lo vediamo coi nostri occhi!» insisté Rivera.
   «Ci sono indubbiamente dei fotoni, ma proprio non capisco che cosa li emetta!» disse il ragazzo-prodigio, sempre più frustrato e imbarazzato.
   «Va bene, non ti preoccupare» lo rassicurò il Capitano. «Sapevamo che alcune realtà hanno leggi fisiche diverse dalle nostre. È probabile che, qualunque cosa ci sia là fuori, i nostri sensori non riescano a individuarlo».
   «Okay, qui abbiamo finito. Proviamo un’altra di quelle coordinate!» suggerì Losira.
   «Ehi, piano! Siamo appena arrivati e già vuoi andartene?!» protestò Rivera, urtato dal suo disinteresse.
   «Non siamo scienziati della Flotta Stellare. Siamo solo gente normale che vuol tornare a casa» gli ricordò Losira. Lei infatti vestiva ancora casual... se si potevano definire casual gli appariscenti abiti da diva e i capelli a caschetto che cambiavano spesso colore. Adesso, ad esempio, erano di un rosso porpora.
   «Va bene, ma non possiamo guardarci intorno e dire: “Okay ragazzi, in questo Universo non c’è niente d’interessante, passiamo al prossimo”!» si spazientì il Capitano. «Forse è la prima volta che una nave federale viene qui, e potrebbe passare molto tempo prima che accada di nuovo... se mai accadrà. Abbiamo il dovere di trattenerci almeno qualche giorno e raccogliere dati».
   «Il dovere? Noi non abbiamo alcun obbligo verso la Flotta Stellare!» ribadì Losira.
   Rivera alzò gli occhi al soffitto. Ora capiva che era stato un errore cominciare quell’odissea senza prima mettere in chiaro come l’avrebbero condotta. «Facciamo un passo indietro» disse, cercando di dominarsi. «Ci sono tre ragioni logiche per cui non possiamo visitare decine di Universi in rapida successione.
   Primo: ogni passaggio da una realtà all’altra costituisce un terribile stress per la nave. Quindi a ogni tappa gli ingegneri devono fare un check-up completo dei sistemi. Ti ricordo che il minimo guasto ci farebbe saltare in aria al prossimo viaggio.
   Secondo: siamo avventurieri e ciascuna di queste realtà inesplorate può essere uno scrigno di tesori inimmaginabili. Quindi voglio guardarmi attorno e fare un po’ d’esplorazione, prima di andarcene per sempre.
   Terzo: quando finalmente torneremo a casa, non potremo tenerci la Destiny. La Flotta Stellare la rivorrà indietro, con le buone o con le cattive. Se al momento della restituzione avremo qualcosa da mercanteggiare, fossero anche solo informazioni sul Multiverso, potremo ottenere l’amnistia. Non so te, ma io sono stanco di fuggire da tutte le pattuglie federali. Potrebbe essere la volta buona che ci mettiamo in regola con la legge» concluse il Capitano.
   Losira valutò attentamente le sue argomentazioni. «Approvo i primi due punti» disse infine. «Ma non il terzo. Ho imparato a mie spese che fare del bene non serve a niente, perché si ottiene solo ingratitudine. Nessuna buona azione resta impunita!» citò. Era il suo motto e non perdeva occasione per ricordarlo.
   «Forse hai ragione» sospirò Rivera. «Ma restano validi i primi due punti. Capitano a equipaggio!» aggiunse, aprendo un canale con tutti i ponti. «Come vedete abbiamo raggiunto una nuova realtà, che per ora sfugge alle nostre capacità d’analisi. Tuttavia agli ingegneri serve tempo per controllare i sistemi, prima di passare alle prossime coordinate. Inoltre, considerando che siamo i primi a visitare questo Universo e che una volta andati non lo rivedremo, voglio esplorarlo almeno per qualche giorno, per verificare se ci sono occasioni di profitto. Per ora seguirete i vostri turni; se ci saranno novità sarete informati. Plancia, chiudo».
   Per un attimo vi fu silenzio, poi Shati prese la parola. «Ehm... che rotta dovrei tracciare, Capitano?» volle sapere.
   Rivera guardò quello spazio azzurrino, privo di una reale fisionomia. Non c’erano stelle, pianeti o altri corpi celesti verso cui dirigersi. Una direzione valeva l’altra. «Avanti a metà impulso. Se ci troviamo nell’equivalente di una nebulosa, cerchiamo d’uscirne» ordinò. Ciò detto lasciò la poltrona del Capitano e si accostò allo schermo, per osservare gli sciami lucenti che sfrecciavano attorno all’astronave. «Uhm, non mi piacciono quelle strane luci. Naskeel, alzi gli scudi e mi avverta se qualcosa prova a superarli» aggiunse rivolto all’Ufficiale Tattico, un inquietante Tholiano di cui non si fidava pienamente.
   «Scudi alzati» disse il Tholiano, con la voce sintetica del traduttore. «Per ora nessuna reazione dai bagliori. Vuole che provi a colpirli?».
   «No, per carità! Se fossero qualcosa di senziente, non dobbiamo danneggiarli» raccomandò il Capitano. «In generale le proibisco di sparare per primo. Useremo le armi solo per difenderci in caso d’attacco».
   «Bizzarro» commentò Naskeel. «Ma il Capitano è lei».
   «Già, veda di non dimenticarlo» ammonì Rivera, squadrandolo con diffidenza. Appena tre settimane prima il Tholiano li aveva abbordati da nemico. Solo una fortuita serie d’eventi li aveva costretti a collaborare contro una minaccia comune, e solo la mancanza di un Ufficiale Tattico professionista aveva costretto il Capitano a designare proprio lui. Tra tutte le sue decisioni, era quella che più gli dava da pensare; ma col resto dell’equipaggio non poteva mostrare tentennamenti.
   Per distrarsi, l’Umano tornò a osservare lo strano spazio azzurrino. Quando s’era arruolato nella Flotta Stellare, sperava proprio di vivere avventure del genere. Se solo non fosse stato espulso per un incidente, lo avrebbe fatto da ufficiale anziché da avventuriero. Si trovò a pensare con malinconia agli anni d’Accademia, quando la vita sembrava sorridergli. Aveva una fidanzata, all’epoca. Al termine degli studi avevano fatto domanda per servire sulla stessa astronave, ma la richiesta era stata rifiutata. Così avevano dovuto dirsi addio; era da allora che non la rivedeva.
   «Ah, Debora... che penseresti, se mi vedessi ora?» si chiese con un misto di sentimenti agrodolci. Ovunque fosse la sua vecchia fiamma, poteva solo augurarsi che fosse più al sicuro di lui.
 
   Quella notte il Capitano stentò a prendere sonno. Aver pensato a Debora, per la prima volta dopo tanto tempo, lo aveva colmato di rimpianti. Quando finalmente riuscì ad assopirsi, il sonno fu agitato. Rivide alcuni dei momenti terribili che aveva passato dopo aver abbordato la Destiny, quando lui e l’equipaggio erano finiti nello Spazio Fluido e avevano dovuto affrontare i micidiali Undine. A un certo punto si svegliò per l’emozione.
   L’alloggio era buio, ma Rivera ebbe l’impressione che ci fosse qualcosa di strano. Era come se non fosse da solo... come se qualcuno lo spiasse. Ancora mezzo addormentato, l’Umano cercò di scostare le coperte per alzarsi. Le coltri fecero resistenza, come se qualcosa le trattenesse. Fu allora che Rivera percepì un respiro accanto a lui. «Computer, luci!» farfugliò.
   «Cucù!» trillò una voce femminile, mentre due mani gli calavano sugli occhi.
   «CARAMBA!» gridò Rivera, mentre il cuore gli balzava nel petto. D’un tratto fu completamente sveglio. Afferrò le mani sconosciute e le se levò dalla faccia. Poi balzò giù dal letto, ma era così invischiato nelle coperte che cadde a terra. Si rotolò sul pavimento, cercando di districarsi dall’involto. La sua mano corse al cassetto del comodino: lo aprì e ne estrasse il phaser. Solo allora alzò gli occhi allo sconosciuto aggressore... che si rivelò essere una bella ragazza sul principio della ventina, in lingerie.
   «Ehi, calmati!» disse la ragazza appollaiata sul letto. «Sono io, amore. Perché mi guardi in quel modo? Ti ho spaventato?».
   «Non è possibile... Debora?!» la riconobbe Rivera. «Come sei salita a bordo?» ansimò, il cuore ancora a mille.
   «Di che parli? Siamo nel tuo alloggio all’Accademia» corresse Debora, o chiunque fosse.
   L’Umano si guardò brevemente attorno, senza smettere di tenerla sotto tiro. Quello era indiscutibilmente il suo lussuoso alloggio sulla Destiny; non certo il monolocale che aveva all’Accademia.
   «Amore, si può sapere che ti piglia? Perché mi punti contro quell’arma?» chiese Debora, turbata. Fece per scendere dal letto, ma Rivera si rialzò e la minacciò ancora più da vicino.
   «Non ti muovere, pupa! Qualunque sia il tuo sporco gioco, con me non attacca!» avvertì il Capitano, studiandola da vicino. Non era invecchiata di un giorno dall’ultima volta che l’aveva vista, tanti anni prima: aveva ancora il faccino pulito di una ventenne. Per un attimo l’Umano si lasciò quasi distrarre dal resto, così generosamente in vista, ma poi tornò a concentrarsi. «Tu non puoi essere Debora... quindi chi sei?» la interpellò.
   «Ma certo che sono io! Chi dovrei essere, altrimenti? Ti stai prendendo gioco di me, mattacchione! Sei spiritoso, per questo mi piaci...» disse, provando ad abbracciarlo.
   Rivera si ritrasse come se fosse appestata. «Ho detto ferma, straniera! Tu non puoi essere Debora. Ci siamo lasciati anni fa, quando ci destinarono a navi diverse. Da allora non ci siamo più rivisti. E in ogni caso tu non avresti mai potuto raggiungermi. Non ci troviamo più nel nostro Universo!».
   «Questa è buona! E in quale Universo ci troviamo, allora?» rise la ragazza.
   «Te lo mostro subito. Computer, finestre in modalità diurna!» ordinò il Capitano.
   Le finestre dell’alloggio – inclusa quella dietro la testata del letto – divennero trasparenti, grazie ai materiali intelligenti di cui erano composte. Ora mostravano le mutevoli nubi azzurre e gli agili sciami luminosi di quello strano cosmo.
   «Hai visto? Ti pare la Terra, questa?!» fece Rivera, dando un’occhiata al panorama alieno. «Siamo su una nave stellare che ha raggiunto una realtà parallela, e tu devi dirmi come diavolo sei...». La sua voce si smorzò e s’interruppe, perché rigirandosi verso il letto lo aveva trovato vuoto. Debora, o chiunque fosse, era sparita.
   Per un attimo il Capitano pensò di avere le traveggole, ma allungando la mano constatò che effettivamente il letto era vuoto. Ci girò intorno, nell’improbabile caso che la ragazza vi si nascondesse dietro. Arrivò persino a sbirciare sotto al letto, ma niente: la sua ex si era volatilizzata. «Come se non fosse mai stata qui» si disse l’Umano con un brivido. Però, che strano: Debora gli era apparsa proprio dopo che aveva pensato a lei. Non poteva essere un sogno o un’allucinazione? «Non un sogno, perché ormai sono sveglio. E se era un’allucinazione, era la più realistica di sempre. L’ho vista, ho udito la sua voce... sentivo persino il suo profumo...».
   Incapace di lasciar perdere la faccenda, Rivera tornò al comodino e prese il comunicatore. Esitò per un attimo, incerto su chi chiamare. Dopotutto era il turno di notte: in plancia c’era solo una manciata d’ufficiali di basso grado. In quella gli venne in mente che Naskeel, in quanto Tholiano, non dormiva.
   «Rivera a Naskeel, è ancora in plancia?».
   «Certo, Capitano. A cosa devo la sua chiamata?» rispose l’Ufficiale Tattico.
   «Io... ehm... credo ci sia stata un’intrusione nel mio alloggio» farfugliò il Capitano, incerto su cosa dire.
   «Vengo subito con una squadra» disse il Tholiano.
   «No! Non c’è bisogno, ora sono da solo» precisò Rivera. «Mi dica soltanto se i sensori interni hanno rilevato intrusi nell’alloggio».
   «Verifico» disse Naskeel, consultando i diari dei sensori. «Negativo, signore».
   «Strano» borbottò l’Umano, interrogandosi sull’accaduto.
   «Se vuole fornirmi un identikit dell’intruso, esaminerò l’equipaggio in cerca del colpevole» si offrì il Tholiano.
   «Come no! Bionda, sui vent’anni e indossa solo biancheria intima!» pensò Rivera, scuotendo la testa. L’equipaggio lo avrebbe preso per un maniaco se si metteva a setacciare la nave in cerca di quella pupa uscita dai suoi sogni. «Lasci stare, io... non l’ho visto bene» mentì. «Forse è stato solo un sogno particolarmente realistico. Anzi, ora che mi conferma l’assenza d’intrusi, sono certo che lo fosse».
   «Solo un sogno» ripeté Naskeel. «Sa Capitano, più conosco gli Umani e più sono lieto d’essere nato Tholiano. Buonanotte, signore».
   «Buona... veglia, Tenente» sospirò Rivera, e chiuse la comunicazione. Dette un’altra occhiata alle nubi azzurrognole, che gli apparivano sempre meno amiche. Poi raccolse il fagotto di coperte e si rifece il letto. Accomodatosi sotto le coltri, ordinò al computer d’opacizzare nuovamente le finestre. In qualche modo riuscì a riprendere sonno.
 
   La mattina dopo il Capitano decise di fare colazione in sala mensa, anziché nel suo alloggio. Voleva osservare la ciurma, per verificare se altri avevano avuto strane visioni. «Un caffelatte. Poco latte e molto caffè» ordinò al replicatore. Presa la tazza fumante, andò a sorbirsela a un tavolino, avendo cura d’osservare gli altri avventori. Gli ufficiali del turno principale stavano arrivando proprio in quel momento; poteva sentire le loro ordinazioni al replicatore.
   «Una cioccolata calda» ordinò Talyn, che da quando non viveva più per strada cercava di approfittare delle comodità.
   «Un latte doppio con un cucchiaino di miele, in una ciotola!» volle Shati. Prontamente accontentata, la Caitiana si portò la ciotola a un tavolino e prese a sorbire il latte con la lingua, alla maniera dei gatti. Rivera cercò d’ignorarla.
   «Un succo di larve ben spremute, con la cannuccia» ordinò Irvik, l’Ingegnere Capo di razza Voth. Anche lui fu accontentato e andò a un tavolino per sorbirsi la squisitezza.
   Losira non si fece vedere. Del resto anche quand’erano sul mercantile Ishka preferiva mangiare nel suo alloggio, per non dover fraternizzare con l’equipaggio. In compenso apparve la dottoressa Giely, il medico di bordo.
   «Un tè alla cicuta!» trillò come se niente fosse.
   «Attenzione, la cicuta è tossica per 325 specie umanoidi» avvertì il replicatore.
   «Lo so. Bypassare i protocolli di sicurezza, autorizzazione medica Giely 88-sigma» ordinò la dottoressa.
   «Autorizzazione valida, protocolli sospesi» riconobbe il replicatore, e sfornò la tazza fumante. Giely la prese e si guardò attorno, in cerca di un tavolo libero.
   «Sei sicura di volerlo bere?» chiese Rivera, seduto a poca distanza dal replicatore.
   «Oh sì, è la mia bevanda preferita» confermò Giely. «Posso sedermi, Capitano?».
   «Certo, accomodati» la invitò Rivera, accennando alla sedia di fronte a lui. «Fammi indovinare: un altro dono della fenomenale fisiologia Vorta?».
   «I Fondatori ci hanno potenziati affinché fossimo i servitori ideali, specialmente in ambito diplomatico» sospirò Giely, soffiando sulla tazza calda. «Un buon diplomatico, per avere successo, non può farsi avvelenare dal nemico. Quindi i Fondatori ci hanno resi immuni a quasi tutti i veleni conosciuti. Alla tua salute, Capitano!» brindò, e bevve la cicuta.
   «Saresti l’invidia di Socrate» commentò l’Umano. «Senti, non è che per caso stanotte hai fatto strani sogni?».
   «Definisci “strani”» chiese la Vorta.
   «Mah, non so... tipo vedere persone che non dovrebbero essere qui?» fece Rivera, un po’ imbarazzato.
   «Ah, quel genere di stranezza. No, niente affatto» lo affossò Giely. «Però ieri sera ho ricevuto un paio di chiamate strane dall’equipaggio. Uno diceva di aver trovato il suo alloggio infestato da ragni uncinati talariani, che poi erano scomparsi. Un altro asseriva che, guardandosi allo specchio, gli sembrava d’aver perso tutti i denti; ma a un successivo esame li aveva trovati al loro posto. Ho prescritto a entrambi un leggero sedativo per la notte. Pensavo che fossero sotto stress, per via di questo nuovo Universo» disse, accennando alla finestra panoramica. «Per caso anche tu hai notato qualcosa di strano?».
   «No, io... ho solo sentito che qualcuno aveva visto una persona estranea» mentì il Capitano, non volendo sembrare eccentrico. Ma la sua risposta suonò poco convincente. «Senti, se ti arrivassero altre chiamate del genere, voglio esserne informato» aggiunse.
   «Come vuoi, Capitano. Pensi che siamo di fronte a un’epidemia di allucinazioni? Magari provocata da questo strano spazio?» chiese la dottoressa, accennando alle nubi azzurre oltre la finestra panoramica.
   «Non saprei, ma... siamo i primi visitatori di questa dimensione. Tutto è possibile» disse Rivera, chiedendosi se non fosse meglio lasciarla finché potevano.
 
   Più tardi Irvik stava ultimando il controllo dei sistemi. L’Ingegnere Capo era a una consolle secondaria, in un angolo della sala macchine, quando udì una risata infantile alle sue spalle. Questo era molto strano: sulla Destiny non c’erano bambini. Il Voth si girò di scatto, in tempo per vedere un cucciolo della sua specie che saliva con l’elevatore al livello superiore. Il bambino lo salutò con la mano, prima di sparire alla vista. Per assurdo che fosse, a Irvik parve suo figlio Dryos.
   «Ehi, fermo là! Dove stai andando?!» si allarmò l’Ingegnere Capo, lasciando la consolle. Era tardi per fermare l’elevatore, quindi dovette attendere che salisse del tutto, per poi richiamarlo. Salito a sua volta al livello superiore, formato da passerelle di servizio affacciate sul salone principale, Irvik si guardò attorno. Vide il nucleo quantico, che pulsava a bassa intensità, e una serie di condotti d’alimentazione e scarico. Ma del bambino nessuna traccia. Fatto un giro completo su se stesso, il Voth ne fece un altro, per sicurezza... e si trovò di fronte il piccolo. Era così vicino che non capì da dove fosse spuntato.
   «Figliolo, tu qui?!» si sgomentò Irvik, riconoscendo il suo primogenito. «Dovresti essere a casa, con tua madre. Come sei arrivato su questa nave?».
   Per tutta risposta, il monello gli fece una pernacchia con la lingua da camaleonte e scappò via.
   Sconcertato, il Voth non poté far altro che seguire il pargolo; ma scoprì che si era volatilizzato nel momento in cui era passato dietro al nucleo. Allora lo chiamò a gran voce.
   «Signore, che sta facendo?» chiese uno degli ingegneri dal piano inferiore. Guardando giù, Irvik vide che una decina di colleghi si erano radunati al centro del salone e lo guardavano con tanto d’occhi.
   «Beh, non state lì impalati! Mio figlio è qui da qualche parte; cercatelo!» ordinò il Voth.
   «Suo figlio?! Ma signore, la sua famiglia non è qui. Ce l’ha detto lei stesso!» obiettò il sottoposto.
   «Eppure l’ho visto. Cercatelo, ho detto!» insisté Irvik, sempre più agitato. Ispezionò tutte le passerelle, senza trovarlo; allora tornò al pianterreno. Aveva appena cominciato a chiedersi se non l’avesse sognato quando vide Psitta, la sua secondogenita.
   «Ciao, babbo!» trillò la bambina, salutandolo con la manina tridattila. E fuggì a sua volta. Con orrore, Irvik la vide infilarsi nella camera stagna che portava al miscelatore thalaronico.
   «Ferma, ci sono ancora le radiazioni!» si disperò il Voth. Non erano più così intense da uccidere in pochi secondi, ma erano pur sempre pericolose. L’ingegnere lottò con il padre, finché fu il secondo a prevalere. Riaprì la camera stagna senza aver perso tempo a indossare la tuta protettiva, con l’idea di portar fuori la figlia prima che le radiazioni lo facessero collassare.
   «Ma che fa, è impazzito?! Le radiazioni!» protestò un collega Ferengi, afferrandolo da dietro per impedirgli d’entrare.
   «Lasciami, devo salvare mia figlia!» protestò il Voth, cercando di divincolarsi. Altri ingegneri accorsero, bloccandolo prima che potesse lanciarsi in quella missione suicida.
   «Che succede qui? Fermatevi!» squillò una voce perentoria. Losira era sull’ingresso della sala macchine e guardava la colluttazione con tanto d’occhi.
   «Comandante, gli dica di lasciarmi! Mia figlia è là dentro, in grave pericolo!» si disperò Irvik.
   «Sua figlia? Ma sta scherzando?!» fece Losira, avvicinandosi in tutta fretta. «Mi ha detto che la sua famiglia è rimasta al sicuro sulla vostra colonia. E del resto posso confermarle che non abbiamo bambini a bordo».
   «È come impazzito» disse l’ingegnere Ferengi, sempre trattenendo il superiore. «Prima diceva di vedere suo figlio, poi la figlia. Ma nessuno di noi ha visto niente, e del resto come potrebbero essere qui?!».
   «Infatti è impossibile» convenne Losira. «Irvik, mi ascolti. Qualunque cosa abbia visto, non possono essere i suoi figli. Se vuole analizzeremo quella camera, e anche il resto della nave, coi sensori interni; ma sono certa che daranno esito negativo».
   «D’accordo» mormorò il Voth, calmandosi. Solo allora i colleghi si fidarono a lasciarlo andare. Gli ingegneri si recarono a una vicina consolle, da dove esaminarono la camera del miscelatore. Risultò che non c’erano segni vitali all’interno, e anche le telecamere di sicurezza confermarono che era del tutto vuota. Allora Irvik scansionò l’intera astronave, verificando che c’era un solo segno vitale Voth: il suo.
   «Non capisco come sia potuto accadere» mormorò l’Ingegnere Capo, con le scaglie arrossate dalla vergogna. «Non ho mai sofferto d’allucinazioni, e loro erano così vividi...».
   «Forse soffre la nostalgia di casa» ipotizzò Losira. «Ma come sua superiore, devo capire se lei è abile al lavoro. Quindi voglio che vada in infermeria: descriva ciò che ha visto a Giely e si lasci visitare. Se la dottoressa darà l’assenso, potrà riprendere servizio. E se in futuro dovesse nuovamente vedere i suoi cari, che siano o meno in pericolo, si ricordi che non può essere vero» raccomandò.
   «Io... farò come vuole, Comandante» mormorò Irvik, oltremodo avvilito. Si ricompose e lasciò la sala macchine, con passo lento, sotto gli occhi preoccupati della Risiana.
 
   Nel corso della giornata a Rivera giunsero rapporti simili da quasi tutte le sezioni. Le allucinazioni erano sempre più frequenti, realistiche e prolungate nel tempo. Le vittime asserivano di vedere materializzate cose o persone a cui avevano pensato di recente. A volte ne erano liete, perché era come veder avverato un desiderio; ma in altri casi vedevano apparire le loro peggiori paure. Tuttavia non c’erano stati contatti fisici, a riprova che erano solo visioni. L’unico rischio era che qualcuno si facesse male nel tentativo d’inseguirle, com’era quasi successo a Irvik.
   Nel pomeriggio il Capitano decise d’andare in infermeria, per discutere della faccenda con Giely. Voleva vedere le scansioni cerebrali dei pazienti e sentire le ipotesi della dottoressa. Era circa a metà strada fra plancia e infermeria, quando si trovò il corridoio sbarrato da un estraneo. Era un Talariano che indossava l’uniforme bianca dei Pacificatori; impugnava una frusta neurale.
   «Ah, eccoti qui, Rivera! Perdi tempo come al solito, invece di produrre! Ma stavolta non mi scappi... avrai una punizione coi fiocchi!» minacciò il Pacificatore, impugnando l’arma.
   Il Capitano si sentì mozzare il fiato. Aveva già visto quell’individuo, anche se gli servì qualche attimo per riconoscerlo. Era il sorvegliante che spesso si accaniva su di lui quando, durante la Guerra Civile, era stato ridotto in schiavitù e costretto a lavorare nella Forgia, il grande cantiere militare dei Pacificatori. Quell’aguzzino gli aveva fatto assaggiare parecchie volte la frusta neurale. Rivera non aveva mai saputo se fosse sopravvissuto alla distruzione della Forgia; ma era improbabile trovarselo davanti proprio in quel luogo e in quel momento.
   «Tu non sei davvero qui. Forse sei morto; in ogni caso non sei sulla mia nave» disse il Capitano, un po’ per convincere se stesso e un po’ per capire se si poteva ragionare con l’allucinazione.
   «Non fai che dire fesserie, come tutti gli Umani. Ma se credi di sfuggire alla punizione, ti sbagli!» avvertì il Pacificatore. Attivò la frusta neurale e gli dette una sferzata.
   Per Rivera fu un’esplosione di dolore. L’Umano cadde all’indietro, gridando a squarciagola, e si rotolò sul pavimento. A differenza delle fruste neurali dei Ferengi, il cui principale effetto era stordire gli avversari, quelle dei Pacificatori erano modificate in modo da provocare i dolori più atroci, ma senza stordire. Così gli aguzzini potevano infierire a lungo sulle vittime. L’Umano ne aveva già fatto esperienza da adolescente; rifarla ora portò a galla i ricordi peggiori della sua vita.
   «Lo sapevo che avresti strillato come un maiale! E questo è solo l’inizio... ho ben altro in serbo!» promise il Pacificatore, levando la frusta per colpire di nuovo.
   «Altro che allucinazione!» si disse Rivera, intravedendolo con occhi offuscati dalle lacrime. In qualche modo, quel sadico era davvero tornato a tormentarlo. «Ma ha fatto male i conti; non sono più indifeso!». Si portò la mano in cintura, impugnando la frusta neurale che aveva ereditato dal DaiMon Grilk, precedente capo degli avventurieri.
   «Oh-oh, mi sfidi? Peggio per te, avrai doppia punizione!» rise il Pacificatore, e dette una sferzata con la sua frusta blu. Nello stesso attimo, Rivera ne dette una con la sua frusta gialla. I due flussi d’energia si scontrarono a mezza strada, provocando un’onda d’urto che scagliò i combattenti all’indietro.
   Rivera atterrò di schiena, coi capelli dritti per l’elettricità. «Ouch!» si lamentò. Ma non c’era tempo da perdere: l’avversario poteva colpire di nuovo. Il Capitano tornò in piedi con un colpo di reni. Aveva la vista offuscata dal dolore e dallo shock elettrico, per cui frustò a casaccio, sperando di beccare comunque il Talariano nello spazio angusto del corridoio.
   «Aaaahhh!». Lo strillo era troppo acuto per venire dal Pacificatore.
   Confuso, Rivera si asciugò le lacrime con una manata e tornò a guardare. Del Pacificatore non c’era traccia. In compenso Talyn era a terra, mezzo stordito. Il Capitano comprese che era stato lui a colpirlo.
   «Mi dispiace, muchacho, t’ho preso per sbaglio» si scusò. «Volevo colpire quella carogna di Pacificatore. Hai visto dov’è andato?».
   «Quale Pacificatore? Qui nel corridoio ci siamo solo io e lei!» protestò Talyn, massaggiandosi il braccio paralizzato.
   «Stai dicendo che non hai visto nessuno correre per di là?».
   «No, nel modo più assoluto! Mi sa che anche lei ha avuto un’allucinazione» borbottò il giovane.
   «Mi dispiace, non avrei mai voluto colpirti» si scusò il Capitano, scosso dall’accaduto. «Ma quel Pacificatore mi ha colpito per primo e io... ho provato dolore. Non era una semplice visione!» rivelò.
   «È come temevo» disse Talyn. «Vede, scavando negli archivi della Flotta Stellare ho trovato un precedente per la nostra situazione. Stavo andando nel laboratorio d’astrometria, perché lì è più facile raccogliere i dati dei sensori e confrontarli con quelli in archivio».
   «Ti accompagno. Nella nostra situazione, nessuno dovrebbe aggirarsi da solo» disse il Capitano, decidendo di posticipare la visita in infermeria. «Ce la fai a camminare?».
   «Credo di sì. Urgh!». Con l’aiuto del Capitano, il giovane si rimise in piedi.
   Andarono nel laboratorio astrometrico, dove Talyn radunò tutti i dati raccolti dai sensori, producendo uno schema della regione di spazio che finora avevano attraversato.
   «Allora, qual è il precedente che hai trovato?» chiese Rivera, impaziente.
   «Eccolo» disse l’El-Auriano, richiamando i dati dagli archivi. «Data stellare 2364.84, Enterprise-D. Il vascello, appena varato, aveva accolto lo specialista di curvatura dottor Kosinski e il suo misterioso assistente. Dovevano condurre degli esperimenti volti ad accrescere la velocità di curvatura. Accadde invece che l’Enterprise compì dei prodigiosi balzi in avanti, ben oltre la resa di qualsiasi motore a curvatura. Il primo balzo li portò a 2.700.000 anni luce, vale a dire nella Galassia del Triangolo, dove osservarono una regione d’intensa formazione stellare». Così dicendo il giovane richiamò sullo schermo principale le immagini raccolte all’epoca dall’Enterprise. Centinaia di protostelle brillavano nel firmamento, ancora avvolte dalla nebulosa che le aveva generate.
   «E le visioni?» incalzò Rivera.
   «Quelle arrivarono col balzo successivo, che portò l’Enterprise ancora più lontano, addirittura oltre i confini dell’Universo osservabile» rivelò Talyn, emozionato. «Guardi un po’... le dice niente?». Proiettò un filmato girato dall’Enterprise: nubi celesti in perenne movimento, sciami di luci bianche.
   «È identico a dove ci troviamo ora» convenne il Capitano. «Però non capisco: per quanto fosse giunta lontano, l’Enterprise era pur sempre nel nostro Universo d’origine. Noi invece ne abbiamo raggiunto un altro».
   «Sì, è strano» ammise Talyn. «La mia ipotesi è che l’Enterprise avesse raggiunto un’interfase di spazio, cioè un luogo in cui le due dimensioni si sovrapponevano. Sta di fatto che l’equipaggio sperimentò visioni sempre più realistiche... e pericolose. I loro ricordi, i desideri, ma anche le paure si materializzavano. E loro avevano poco o nulla controllo sulle apparizioni».
   «Proiezioni dell’inconscio» comprese Rivera, rabbrividendo fino al midollo.
   «Come, signore?».
   «La nostra mente è come un iceberg, muchacho» spiegò il Capitano. «La parte visibile sopra l’acqua, cioè quella di cui siamo consapevoli, è la mente conscia. Ma al di sotto si trova la parte sommersa, dieci volte più grande: è l’inconscio, di cui non abbiamo il minimo controllo. È il luogo in cui si trovano i nostri ricordi più traumatici, in cui si formano i sogni e gli incubi. Ed è anche il luogo in cui releghiamo gli aspetti peggiori della nostra personalità, quelli che ci sforziamo di negare. Ma il nostro lato oscuro e bestiale è sempre lì in agguato, in attesa del momento di sfogarsi. Se davvero ci troviamo in un luogo in cui pensiero e realtà si confondono, allora i nostri demoni interiori potrebbero approfittarne per liberarsi... e vendicarsi».
   Dopo un breve silenzio, l’Umano riprese con urgenza: «Quelle apparizioni, quant’erano consistenti? Potevano ferire, uccidere...?».
   «Qui dice che parecchi membri dell’equipaggio rimasero feriti, anche se non vi fu nessuna vittima» lesse l’El-Auriano, consultando l’archivio a una velocità che nessun Umano poteva eguagliare. «Le apparizioni, se così vogliamo chiamarle, erano ai limiti della realtà. Ad esempio, se appariva un incendio le persone si ustionavano. Poi magari le fiamme svanivano senza lasciare traccia, ma i feriti restavano tali».
   «Okay, cerchiamo di non pensarci troppo» raccomandò Rivera, temendo che bastasse quello per evocare le fiamme. «Come ne uscirono quelli dell’Enterprise?».
   «Saltò fuori che i fantastici balzi in avanti dell’astronave non dipendevano dalle equazioni di Kosinski, bensì dalle strane facoltà mentali del suo assistente, detto il Viaggiatore. La vera portata dei suoi poteri non fu mai chiarita» lesse Talyn. «Qui dice solo che alla fine il Viaggiatore accettò di riportare indietro l’Enterprise, chiedendo a quanti erano a bordo d’indirizzare i pensieri su di lui, per sostenerlo con la loro energia mentale. Funzionò, nel senso che l’astronave tornò nello spazio federale, ma nel far questo il Viaggiatore svanì misteriosamente. Negli anni seguenti quelli dell’Enterprise ebbero un paio d’altri contatti con lui, segno che era sopravvissuto. Ma la sua natura non fu mai chiarita, né lo furono i suoi scopi».
   «Uhm, strano che non ne fossi al corrente» rimuginò il Capitano. «Forse questi fatti furono secretati dalla Flotta. Ma ora sappiamo quanto basta».
   «Ce ne andremo da questo Universo, vero signore?» chiese Talyn.
   «Eccome, e di volata. Vieni muchacho, torniamo in plancia. Non vedo l’ora di tornare al sicuro nel Vuoto... OOOOOHHHHH!». L’ultima parola si trasformò in un urlo. Perché nel momento in cui la porta del laboratorio si apriva e Rivera la varcava, il suo piede non trovò alcuna superficie su cui posarsi. Il Capitano cadde in avanti, in uno spazio infinitamente vasto e oscuro. All’ultimo istante riuscì ad afferrarsi allo stipite della porta. La sua mano scivolò verso il basso, finché l’Umano restò precariamente aggrappato al pavimento del laboratorio, che terminava in corrispondenza della soglia. Il resto del suo corpo penzolava nel Vuoto.
   «Resista, signore!» gemette Talyn, correndogli appresso. «Mi dia l’altra mano!».
   Con uno sforzo, Rivera si rigirò e allungò la mano libera, quel tanto da permettere al giovane di afferrarla. Allora Talyn puntò i piedi contro gli stipiti della porta e fece forza, aiutando il Capitano a issarsi. Servì un intero minuto di sforzi affannosi da parte di entrambi, ma infine l’Umano fu in salvo. Strisciò sul pavimento, allontanandosi il più possibile da quella soglia maledetta, finché la vide richiudersi. Solo allora lui e Talyn tirarono un sospiro di sollievo.
   «Che era quello?!» ansimò l’El-Auriano.
   «Il Vuoto, direi. Stavo pensando a quanto mi sarebbe piaciuto tornarci... ma con la Destiny, non da solo!» sbuffò l’Umano. «Sembra che questo Universo prenda i nostri desideri troppo alla lettera».
   «E adesso come facciamo a tornare in plancia?» si chiese Talyn, occhieggiando la porta come se conducesse direttamente all’Inferno.
   «Se ho ben capito le regole del gioco, basta desiderare intensamente d’arrivarci» rispose Rivera. «Forza, concentrati anche tu: dobbiamo tornare in plancia».
   «Tornare in plancia... tornare in plancia...» mormorò l’El-Auriano, figurandosi la destinazione.
   Si riaccostarono alla porta, circospetti. Il Capitano si avvicinò tanto da provocarne l’apertura automatica, pur stando attento a non varcarla prima di aver verificato cosa c’era dall’altra parte. Sperava di rivedere il corridoio: invece trovò direttamente la plancia, come se i due ambienti fossero comunicanti.
   «Beh?» fece Losira, alzando gli occhi da un d-pad.
   «Salve a tutti!» salutò Rivera, millantando una sicurezza che non aveva. Varcò la soglia, trovandosi effettivamente in plancia. Talyn lo seguì con più apprensione. I colleghi di plancia però non avevano occhi che per il laboratorio astrometrico alle loro spalle, che si trovava là dove avrebbe dovuto esserci la scalinata d’accesso. Continuarono a fissarlo finché la porta si richiuse.
   «E voi da dove sbucate?» chiese Losira con educato stupore.
   «Lunga storia... bisognerà avvertire l’equipaggio di stare attento alle porte. Non sempre portano dove uno si aspetta» disse il Capitano. Si stava ancora chiedendo dove sarebbe finito, se fosse realmente precipitato nel Vuoto. «Signori, dopo attenta valutazione sono giunto alla conclusione che in questo Universo non c’è nulla che faccia per noi. Di conseguenza leviamo il disturbo!» annunciò.
   «Oh, finalmente ti sei deciso ad ascoltarmi» lo motteggiò Losira, cedendogli la poltrona del Capitano.
   «Plancia a sala macchine, aprite immediatamente un portale. Torniamo nel Vuoto» ordinò Rivera, non appena si fu accomodato.
   «Ricevuto, signore. Ci dia solo un minuto per caricare il deflettore» rispose Irvik. Passò un minuto... poi due... poi tre.
   «Ancora niente» avvertì Shati, osservando i comandi del timone. «Non hanno nemmeno cominciato a dare energia».
   «Plancia a sala macchine, è tutto a posto?» chiese il Capitano, cercando di celare il nervosismo.
   «Temo di no, signore» disse Irvik, che in quel momento passava frettolosamente da una consolle all’altra. «Abbiamo un problema, potrebbe essere il trasformatore d’energia. Mi faccia controllare... sì, è proprio il trasformatore. Mi spiace Capitano, ma finché non lo avremo accomodato non andremo da nessuna parte».
   «Ed è un lavoro lungo?» chiese Rivera, sulle spine.
   «Almeno un giorno, forse di più. Devo ancora valutare l’entità del guasto» avvertì l’Ingegnere Capo.
   «Un giorno! Riusciremo a trascorrerlo senza autodistruggerci?» si chiese Rivera, osservando le forme cangianti sullo schermo. 
 
   
 
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