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Autore: edoardo811    11/09/2022    2 recensioni
La Foschia è svanita. I confini del campo sono scomparsi e ora tutto il mondo può vedere i mostri per quello che sono realmente.
DANIEL non è mai stato un ragazzo socievole, per un motivo o per un altro, si è sempre trovato meglio da solo, lontano da tutti, perfino dal Campo Giove. Nemmeno i mostri hanno mai provato ad ucciderlo, come se non fosse mai esistito realmente.
CAMILLE è un pericolo, per sé stessa e per gli altri, una figlia di Trivia abbandonata in fasce, indesiderata, costretta a convivere con un lato di sé che non vuole fronteggiare, per paura di quello che potrebbe scatenare.
KIANA è una figlia di Venere, orgogliosa e testarda, che dovrà fare i conti con le conseguenze delle sue azioni.
Tra auguri scansafatiche, eroici pretori e conflitti interiori nel Campo Giove, tre ragazzi diversi tra loro, tre nullità della Quinta Coorte, si ritroveranno con un obiettivo comune: imbarcarsi in un viaggio tra mostri, traditori, nuovi e vecchi nemici per impedire che il mondo sprofondi nel caos.
Genere: Avventura, Fantasy, Hurt/Comfort | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Dei Minori, Ecate, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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XXIV

Corsa contro il tempo



Camille non credeva di essersi mai sentita peggio. Negli ultimi giorni le erano capitate una cosa più orribile dell’altra, per non parlare di tutto quello che le era successo da bambina. Eppure nulla di tutto quello sembrava comparabile a quello che stava provando in quel momento, mentre osservava il punto esatto in cui Daniel era svanito nel terreno. A decine di chilometri di altezza sopra di lei, sentiva il cielo che rimbombava, lampi e fulmini che si agitavano in mezzo ai nuvoloni scuri. Daniel e Ashley stavano combattendo, probabilmente. Forse lei avrebbe potuto raggiungerli. Forse avrebbe potuto intervenire, impedire che si uccidessero a vicenda… ma non le importava.  

Ashley, la persona che per così tanto tempo aveva ammirato, e Daniel, il ragazzo che tanto aveva amato… entrambi l’avevano delusa. Poteva sopportare le prese in giro dei ragazzi delle altre coorti, poteva accettare che qualcuno di insignificante come Maxwell le infilasse una gomma da masticare tra i capelli, o cose del genere, ma quello… quello no. Non da loro, non da due persone di cui aveva sempre creduto di potersi fidare.

Voleva diventare pretore, un’eroina, come Ashley, come Reyna, come Jason Grace.

«Ora sei una romana» si era detta un milione di volte, quando era arrivata al campo, per autoconvincersi ad andare avanti, a sopportare gli abusi e i soprusi di chiunque.

Un tempo, le sarebbe bastato quello per superare un brutto momento. Oppure pensare a sua madre, al fatto che lei l’avesse guidata, che l’avesse protetta. Ora non poteva fare nessuna delle due. Sua madre rischiava di essere distrutta e gli stessi romani che avrebbero dovuto aiutarla a salvarla la stavano ostacolando in ogni maniera possibile.

Era stata una stupida. Di nuovo. L’avevano presa in giro. Di nuovo. 

Non era giusto.

Non. Era. Giusto.

«Che fate lì impalati?!» gridò Cassie, ancora legata a Nathan. «Arrestate quelle due traditrici! E liberatemi, maledizione!»

I legionari si riscossero. Tutti quanti circondarono lei, Kiana e Penelope. Camille osservò tutte quelle persone, tutti quei volti che le avevano rivolto sorrisi di scherno, che l’avevano guardata dall’alto verso il basso fin dal suo primo giorno, che l’avevano chiamata “strega” e che si erano approfittati della sua gentilezza.

Era sempre stata il bersaglio preferito di tutti, perché sapevano che non si sarebbe mai ribellata. Era soltanto la piccola, stupida figlia di Trivia che perdonava qualsiasi crudeltà. Perfino in quel momento, era sicura che nel profondo si stessero prendendo gioco di lei.

Con che coraggio una sfigata come lei aveva deciso di lasciare il campo, per andare a salvare quella dea di serie B di sua madre? Avrebbe dovuto lasciare il posto ai veri eroi, come loro.

Glielo leggeva in faccia. Lo stavano pensando.

Piccola, stupida, strega. 

I legionari si avvicinarono. Maxwell sollevò le manette. Camille si conficcò le unghie nei palmi fino a sentire dolore. Al Tartaro Ashley, al Tartaro Daniel. Non le importava più nulla di loro. E soprattutto, non le importava nulla dei romani.

Nessuno si sarebbe più preso gioco di lei. Chiuse gli occhi. Sentì la magia ribollire nelle sue vene. Quando parlò, la sua voce giunse dieci volte più profonda alle sue orecchie: «Nessuno di voi riesce più a muoversi.»

Tutti i legionari smisero di avvicinarsi all’improvviso. Le loro espressioni si tramutarono in stupore. Cominciarono a tremare per lo sforzo di camminare.

«M-Ma… ma cosa…» sussurrò Maxwell. «S-Strega, che diavolo hai…»

«Nessuno di voi riesce più a parlare.»

«Mh… MHHHH!» La bocca del figlio di Mercurio si serrò come cucita da un filo invisibile. Per poco gli occhi non gli schizzarono fuori dalle orbite, e con lui quelli di tutti gli altri.

Alcuni pennacchi di fumo grigio si sollevarono da terra, mentre Camille osservava il suo operato. Provò un sadico piacere nel vedere tutti quei bulletti immobili come statue, con le labbra sigillate e gli sguardi incollati su di lei.

«Tu.» Fece un passo verso di Maxwell. Finalmente aveva perso quel suo ghigno beffardo. Ma non era abbastanza. Doveva pagare per tutto quello che aveva fatto. «Sei solo un maiale. Mettiti a quattro zampe.»

Poco per volta, con il corpo che tremava come se ogni movimento gli costasse uno sforzo immane, il ragazzo si mise carponi. Camille sorrise soddisfatta. Adesso era lei a guardarlo dall’alto, mentre lui sicuramente rimpiangeva di averla chiamata “strega”. Ma era troppo tardi. Se voleva chiamarla davvero così, allora gli avrebbe dato un valido motivo per farlo.

La nebbia grigia si alzò ancora di più mentre asseriva: «I maiali grugniscono. Avanti, bel maialino, grugnisci

«O-O… ink… oink…» gemette Maxwell, con una goccia di sangue che gli scivolava dal naso. «Oink… o-oink…»

«Ecco» commentò Camille soddisfatta. «Adesso sì che sei carin…»

«A… m…»

Quella voce la fece trasalire. Si voltò di scatto e inorridì quando si rese conto di Kiana, anche lei immobile, anche lei con il sangue che colava dal naso. «C… am…»

«Kiana!» Camille si riscosse dalla trance in cui lei stessa era caduta. «B-Basta così!»

Tutti quanti stramazzarono in ginocchio, ansimanti. La figlia di Trivia si fiondò subito accanto alla sua amica. Le posò una mano sulla schiena mentre si rialzava a fatica. «Stai bene?»

«S-Sì, sì…» Kiana si pulì il sangue dal naso e Camille realizzò che invece non stava per niente bene. Il suo viso aveva assunto sfumature giallognole e stava tremando come se non si trovassero più nel deserto ma sulla cima di una montagna.

«M-Mi dispiace, Kiana. I-Io non volevo…»

«Lascia perdere, dobbiamo… andarcene…» gemette Kiana, accennando con il mento ai legionari che si stavano riprendendo.

E nessuno di loro sembrava felice.

Camille indietreggiò di scatto. La sua mente andò in panne. Non aveva idea di cosa fare, come comportarsi. Tutta l’energia che aveva provato prima era svanita, lasciando spazio soltanto a un profondo sconforto. Se Penelope non fosse apparsa di fronte a loro, probabilmente avrebbe permesso ai romani di farle quello che avrebbero fatto a una vera strega

«Salite, presto!»

La figlia di Trivia riuscì a riscuotersi. Aiutò Kiana a salire e non appena furono sulla sua groppa, Penelope scavalcò i legionari con un salto, in un turbinio di grida di protesta e di sorpresa, e si precipitò il più lontano possibile da lì.

 

***

 

Si fermarono in un incavo tra le montagne, una specie di galleria a cielo aperto con le pareti che sembravano fatte di senape cristallizzata. C’era a malapena lo spazio per tre persone, figurarsi per due e una centaura alta due metri. Come nascondiglio però funzionò, perché sopra le loro teste udirono lo sfrecciare delle bighe e gli schiamazzi dei romani infuriati che sicuramente avrebbero con molta gioia voluto mettere le mani su Camille.

Quando vide le figure dei loro inseguitori smarrirsi nel cielo nuvoloso, la ragazza scivolò con la schiena lungo la parete fino a sedersi. Inorridiva al pensiero di quello che aveva appena fatto.

«Cos’è successo, Cam?» domandò Kiana. «Che… che cavolo ti è preso?»

Aveva riacquisito un po’ di colore durante quel breve lasso di tempo, ma sembrava ancora un po’ scossa. Per forza, l’aveva piegata al suo volere come una marionetta, contro la sua volontà. Camille non riuscì a reggere il suo sguardo. «Io… non… non lo so…» bisbigliò mortificata. «Ho… cominciato a parlare e… e…»

Ripensò al fumo grigio che si era sollevato. Deglutì. Sapeva benissimo che quello non era fumo. Era Foschia. Non l’aveva semplicemente manipolata, l’aveva usata su tutte quelle persone tutte insieme. Non aveva fatto distinzioni, aveva parlato, e tutti avevano obbedito. Se Kiana non l’avesse fatta rinsavire… non aveva idea di cos’altro avrebbe potuto fare. Chissà quanto le era costato parlare nonostante avesse detto che nessuno poteva farlo.

Dopo l’incidente nella prigione, aveva promesso, giurato che non sarebbe più successo, che non avrebbe più perso il controllo. Aveva fallito.

Tutti i discorsi che aveva fatto, sul fatto che i suoi poteri fossero pericolosi, sul fatto che dovesse fare attenzione, che avrebbe potuto causare gravi danni anche alle persone a cui voleva bene… era stato tutto inutile.

Era successo ancora. Quante altre volte sarebbe dovuto succedere prima che accadesse l’irreparabile?

Le immagini di quei bambini dell’orfanotrofio balenarono nella sua mente. I loro sorrisetti cattivi che diventavano sguardi di terrore puro. Chiuse gli occhi con un gemito spaventato.

«Mi… mi dispiace…» ripeté, e quella fu l’unica cosa che riuscì a dire. «Penserai che… che io…»

«Cam, ascoltami.»

Kiana si mise di fronte a lei. Le posò entrambe le mani sulle spalle e incrociò il suo sguardo. La figlia di Trivia pensò che le avrebbe rifilato un ceffone, o che le avrebbe sbraitato in faccia, e si sarebbe meritata entrambe le cose. Invece quando parlò usò un tono incredibilmente calmo: «So che… che sei arrabbiata. Infuriata. Per tutto quello che è successo con… con Daniel. Ma adesso lui non c’è più. Ashley è fuori controllo, i nostri amici sono rimasti al Campo Giove, a difenderlo da soli, mentre tutti gli altri ci stanno dando la caccia. E Ecate… insomma, non ci rimane molto tempo per salvarla. E solo tu puoi trovarla. Siamo… siamo solo tu e io, adesso. Ho… ho bisogno di te. Ma non di questa te. Non voglio la Cam arrabbiata. Ho bisogno… ho bisogno della vera Cam. Quella che ho conosciuto tanto tempo fa’. Quella buona, quella gentile, quella che si infastidiva quando la punzecchiavo. Mi serve… mi serve la mia amica. Okay?»

Camille sentì gli occhi inzupparsi di lacrime. «Kiana…»

Le due ragazze si abbracciarono. Camille affondò il viso sulla spalla di Kiana e cominciò a piangere, mentre lei le accarezzava schiena. Non aveva idea di come potesse ancora rivolgerle la parola dopo quello che aveva fatto.

«Insieme, ricordi?» domandò Kiana.

La figlia di Trivia si separò da lei e annuì. «Insieme.»

Kiana le sorrise e sollevò il mignolo. Anche Camille riuscì di nuovo a sorridere. Il loro sciocco saluto. Una cosa così semplice, così banale, e che eppure aveva cementato la loro amicizia. Intrecciò il mignolo con quello della figlia di Venere, sentendosi subito molto meglio. Tante cose potevano essere cambiate, ma non quello, non il loro saluto. L’ultimo appiglio che le rimaneva prima di superare il punto di non ritorno.  

Si rese conto che Penelope era rimasta in disparte, gli occhi tristi smarriti lungo la superficie del loro nascondiglio di fortuna. Tremolante, Camille si scostò da Kiana e si rimise in piedi. «Penelope.»

La centaura si voltò verso di lei.

«Scusa se… se t’ho spaventata, prima. Non volevo. E… e scusa anche per averti coinvolta in questa storia.»

«Non… devi scusarti. Ho scelto io di rimanere. E non preoccuparti per prima. So che… che eri arrabbiata per Daniel. Anch’io… anch’io mi fidavo di lui.»

Camille sentì il petto stringersi in una morsa. «Penny…»

«Anch’io voglio aiutarti a trovare tua madre.» La centaura si abbassò in modo da guardarla faccia a faccia. Sorrise determinata. «Puoi contare anche su di me.»

Kiana posò una mano sulla spalla di Cam e sollevò il pollice. La figlia di Trivia non riusciva a credere ai propri occhi. Si fidavano ancora di lei nonostante tutto. Dovevano essere davvero disperate. Anche lei lo era, in realtà. Chiunque probabilmente si sarebbe disperato in una situazione come quella.

«Però… però il legame è sparito quando siamo arrivati all’Occhio dell’Ago…» mormorò affranta. «Non so più dove dobbiamo…»

«Cam.» Kiana la fissò dritta negli occhi. «Nelle ultime ventiquattr’ore ti ho vista fare una cosa più incredibile dell’altra. Un po’ spaventose, anche, ma soprattutto incredibili. Se c’è qualcuno che può trovare Ecate, quella sei tu.»

Camille si morse un labbro. Il fatto che Kiana la vedesse sotto quella luce la faceva sentire in soggezione. Però era vero, lei era l’unica che poteva trovare Ecate. Il campo, i loro amici, forse il mondo intero adesso dipendevano da lei.

«Va bene… ci provo.»

S’inginocchiò, mentre Kiana e Penelope le lasciavano un po’ di spazio. Aveva creduto che la sua capacità di avvertire il legame con Ecate dipendesse dalla distanza, ma forse non era così. Forse dipendeva da qualcos’altro, e lei doveva scoprire cosa al più presto. Altrimenti i loro nemici avrebbero devastato il mondo.

Un pensiero molto rassicurante, considerando che qualche minuto prima stava per spaccare a metà il cervello di un poveraccio, non c’era che dire.

«Mi è venuta un’idea» disse a Kiana. «Ma ho bisogno che tu mi sorvegli per un po’. Va bene?»

«Ehm… certo, ma perché?»

«Ora vedrai.»

Camille prese un respiro tremolante e chiuse gli occhi. Quello che stava per fare la spaventava moltissimo, ma non aveva scelta. Era l’unica possibilità che aveva di trovare sua madre.

“Io ho… ho molto sonno” pensò. “Ho… bisogno di dormire. Solo un po’. Il tempo per trovare mia madre.”

Riaprì gli occhi. All’inizio non accadde nulla, al punto che in lei sorse il dubbio di non poter usare i suoi poteri su sé stessa. Poi arrivò la nebbia. Cominciò a sorgere dal terreno a circondarla. Era… fredda. Come se un gigante iperboreo le avesse appena alitato addosso.

«Cam? Che sta succedendo?» domandò Kiana, con tono spaventato.

«Tranquilla» la rassicurò lei. «Ho visto mia madre in sogno. Se dormo di nuovo, forse riuscirò a vederla ancora.»

«E se non dovesse funzionare?».

«Speriamo funzioni» tagliò corto Camille, con il batticuore. Stava correndo un grosso rischio, ma non vedeva altre soluzioni.

«Tranquilla» disse, più a sé stessa che Kiana. «È l’unico mooooooo…»

La nebbia le si infilò nel naso e il resto della frase si trasformò in un grugnito molto poco elegante. Camille sentì la testa appesantirsi e le palpebre trasformarsi in granito. La forza di gravità si fece cento volte più forte e il suo corpo fu trascinato pesantemente a terra.

All’improvviso le sembrò di levitare, come se il suo corpo si fosse trasformato in aria. Pregò gli dei e soprattutto sua madre che tutto filasse liscio, poi s’addormentò.

 

***

 

Non era sicura di cosa stesse succedendo. Era certa di aver riaperto gli occhi, ma allora perché era tutto buio? Li aveva ancora chiusi? O era davvero tutto buio?

Si guardò attorno, o almeno pensò di starsi guardando attorno. Dov’era? Che posto era quello? Stava dormendo? Aveva funzionato?

Una voce ruppe il silenzio: «Assassina.»

Camille gridò per lo spavento. Dall’oscurità cominciarono ad emergere alcune figure. Dei corpi bianchi come lenzuoli, il cui bagliore strideva tremendamente con l’ambiente circostante. La ragazza si sentì travolta dall’orrore. Erano dei bambini. Ed erano dei fantasmi. Come i lari del Campo Giove, anche se nessun lare aveva mai emanato una simile ostilità nei suoi confronti. 

«Assassina» ripeterono, mentre si avvicinavano a lei. 

La ragazza si sentì pietrificata per lo sgomento. Conosceva quei bambini. Li conosceva molto bene. Tutt’attorno a loro sorsero delle fiamme, che gettarono luci color sangue sui corpi pallidi, rendendoli ancora più spaventosi. Camille sentì gli occhi gonfiarsi di lacrime. Nella sua mente riapparve la scena in cui quegli stessi bambini fuggivano terrorizzati da lei, mentre lingue di fuoco incandescente si sprigionavano in ogni direzione. 

«No…» sussurrò, riuscendo finalmente a sbloccarsi. 

Indietreggiò, mentre loro continuavano ad avvicinarsi. 

«Tu ci hai ucciso» disse uno di loro.

«Assassina» fece un altro. 

«V-Vi prego» bisbigliò Camille. «N-Non l’ho fatto apposta…»

«Assassina.»

«Strega.»

«Mostro.»

Le voci continuarono a tormentarla. I visi vitrei dei bambini si cicatrizzarono nella sua mente. Occhi vuoti che non avevano mai conosciuto una vita al di fuori di quelle mura grigie dell’orfanotrofio, per colpa sua. Creature abbandonate, come lei, vite spezzate, da lei. 

«No…» sussurrò. Non era vero. Lei non era un’assassina. Lei… lei non avrebbe fatto del male a nessuno! 

«STREGA!»

«ASSASSINA!»

«MOSTRO!»

«NO!» gridò Camille. Si accovacciò a terra e si premette le mani sulle tempie. «Andate via! ANDATE VIA!»

Le urla cessarono all’improvviso. La ragazza rimase immobile, con il fiato pesante e il cuore che batteva all’impazzata nel petto. Non aveva il coraggio di riaprire gli occhi, per paura di trovarsi ancora di fronte quei volti spettrali, quei fantasmi letterali del suo passato che tornavano a perseguitarla: il memento di ciò che aveva fatto.

«Camille.»

Quella voce. Quella voce… la conosceva. Camille sollevò la testa e sentì le proprie gambe tramutarsi in gelatina alla vista di Daniel.

«D-Daniel?» bisbigliò incredula.

Attorno a lei nulla era cambiato. C’era ancora oscurità a perdita d’occhio, eppure riusciva a vedere bene il suo amico. Vecchio amico. Con quel viso inespressivo, i capelli mossi, gli occhi neri… il vecchio amico che le aveva fatto battere il cuore come nessun altro aveva mai fatto. 

«Non piangere Camille» disse lui. Camille si rese conto che Daniel stava sorridendo, ma era un sorriso sadico, cattivo, accentuato dal divertimento nel suo sguardo. «Smettila di essere così patetica.»

Tutto il sollievo provato alla sua vista svanì. Le sembrò che un ago incandescente le fosse appena stato conficcato nel petto. 

«Daniel…»

«Non fai altro che piagnucolare. Cresci un po’. Abbi un po’ di rispetto per te stessa.»

Le gambe di Camille cominciarono a tremare, non sapeva se per la tristezza, per la rabbia, o per chissà che altro. 

«Daniel» ripeté, con tono fermo.

«Pensavi davvero che avrei potuto amare una come te? Guardati. Sei ridicola. Una mocciosa. Un peso. Una seccatura.»

Camille strinse i pugni. Sapeva che quello non era reale. Sapeva che la sua mente le stava giocando brutti scherzi. Eppure non riusciva a non pensare al fatto che lui avesse ragione, che lei fosse davvero così. Più pensava a come si era comportata e più si vergognava. Doveva essergli sembrata così patetica, così disperata, che probabilmente aveva deciso di non cacciarla via soltanto per pietà.

E lei si era innamorata di lui. E anche in quel momento, nel profondo, sperava che lui tornasse, che tutto si chiarisse. Che chiedesse scusa, che l’afferrasse, che la baciasse, che tutto venisse dimenticato. 

Già. Pensava ancora a quello nonostante il mondo stesse per finire. 

Sì, era patetica. 

Daniel García. Il suo vecchio amico. Bello come un angelo. Spietato come un demone.

La scena cambiò di nuovo. Si ritrovò nel bel mezzo del Campo Giove, ma non era come lo ricordava. Il suo cuore si fermò quando vide i dormitori distrutti, i palazzi della Via Principalis rasi al suolo, la Principia ridotta a un cumulo di macerie fumante. Lungo la strada giacevano decine e decine di corpi senza vita, con indosso le armature della Fulminata. In mezzo alla devastazione, l’asta con l’Aquila della Legione era stata conficcata nel terreno, l’animale con un ala spezzata.

Avrebbe gridato con tutto il fiato che le rimaneva in corpo, se avesse potuto. Pensò che fosse troppo tardi, che il campo fosse già caduto, che non avevano salvato Ecate in tempo. Poi, vide ai suoi piedi i corpi di Dante, Kiana, Elias e perfino Ashley. 

Fu la scena più raccapricciante che avesse mai visto. Ma in un angolo del suo cervello, nella parte razionale che ancora non era caduta nel panico, prese forma la realizzazione che quello non poteva essere reale. Kiana era con lei. Le si era addormentata proprio accanto. Era tutto falso, come il resto di quello spaventosissimo sogno. 

Rimase così presa da loro, dal pensiero paralizzante che quella avrebbe potuto essere la realtà se non avesse salvato sua madre in tempo, che non si accorse dell’ombra che aveva cominciato a stagliarsi tutt’attorno a loro, andando a coprire l’intero Campo Giove, o ciò che ne rimaneva. 

Si voltò con il cuore in gola. In lontananza, dietro al cielo arancione coperto di nuvole e fumo, una figura gigantesca si stava innalzando lentamente. Un’ombra colossale da cui si diramarono diverse protuberanze, lunghe e sinuose, che andarono a toccare le stelle con la loro altezza. Realizzò che non erano soltanto ombre: erano teste. Sette teste di serpente gigantesche, con lunghe creste irte e occhi rossi sangue che brillavano come fari.

Ogni singolo millimetro del suo corpo fu pervaso da un brivido di terrore puro. Nonostante il sogno, nonostante non fosse una scena reale, quella cosa, qualunque essa fosse, le infuse un terrore nel corpo che non credeva di aver mai provato prima, nemmeno dopo la vista di Kiana morta. 

La creatura inarcò tutte le teste all’indietro e ruggì così forte da scuoterle le ossa. Quel verso si conficcò dritto nella sua testa, in un angolo da cui, era certa, non sarebbe mai più riuscita a rimuoverlo. Un verso rabbioso, potente, e soprattutto sconosciuto. Non sapeva cosa fosse quel mostro, e sperava di non doverlo scoprire mai. 

Quattordici occhi incandescenti si conficcarono su di lei e Camille rimase pietrificata come se si fosse trovata di fronte a Medusa in persona. Le teste si abbassarono con una calma straziante, consapevoli del fatto che il loro bersaglio non sarebbe potuto fuggire da nessuna parte. Poi spalancarono le bocche, e una valanga di fiamme travolse ogni cosa, divorandosi tutto il Campo Giove fino ad arrivare a lei. 

Il fiato le si mozzò e cadde a terra, mentre la luce arancione che l’aveva accecata si affievoliva, lasciando spazio, ancora una volta, all’oscurità. Le sembrò di essere stata colpita da un camion, il che era un notevole miglioramento rispetto all’essere incenerita.

Quanto riaprì gli occhi pensò di essersi svegliata. Invece, dopo quella lunga straziante maratona, vide proprio quello che stava cercando. Era di nuovo in piedi, ed Ecate era lì, a un palmo dal suo naso, ancora in catene. Era così bianca che la sua pelle riluceva sotto la luce flebile delle torce, e aveva la testa a penzoloni. Non sembrava nemmeno più viva.

«Mamma…» 

Era come se quel sogno avesse deciso di portarla in un viaggio attraverso tutti i suoi fallimenti, tutti i suoi rimpianti e tutte le sue paure. Aveva fallito a controllare i suoi poteri e aveva attaccato quei bambini, Daniel l’aveva tradita e abbandonata, e il pensiero che il Campo Giove avrebbe potuto essere distrutto la stava consumando dall’interno lentamente e inesorabilmente. 

Adesso, Ecate. Finalmente l’aveva trovata, ma non aveva idea di come fare per ripristinare il legame. Avvertiva l’energia di sua madre ma era offuscata, come se ci fosse un muro invisibile tra di loro. 

Si accorse che non erano sole. Clizio era lì, in un angolo della stanza, nascosto tra le ombre, ma gli occhi brillanti ben visibili. Sembrava un fantasma fatto di fumo, una figura incorporea appoggiata contro le pareti. 

Camille sentì il proprio cuore accelerare il battito. Quegli occhi la scrutavano dritto nell’anima. Ecate gemette proprio in quel momento, attirando la sua attenzione. Non credeva si fosse accorta di lei. Ormai sembrava al limite. Forse avevano perfino meno tempo di quello che si aspettavano. 

Il campo era in pericolo. Sua madre rischiava di non farcela. Non c’era più tempo. Il mondo intero non aveva più tempo. E l’unica persona che poteva fare qualcosa era lei. Si voltò di nuovo verso Clizio, che non aveva mosso un muscolo. Ripensò a Daniel, a Elias, ad Ashley, a tutti quelli che l’avevano trattata come spazzatura. La voce le uscì con un tremolio nervoso: «Riesci a vedermi?»

Passarono un paio di secondi e gli occhi si mossero lentamente, prima verso il basso e poi verso l’alto. Camille inghiottì la paura e cominciò a muoversi verso di lui. 

«Dov’è quella donna? Quella col vestito rosso.»

Clizio non si mosse e soprattutto non rispose. Camille si ritrovò ai suoi piedi. La stanza era abbastanza alta da permettergli di stare eretto in tutta la sua statura. Un gigante fatto di fumo, in tutti i sensi della parola, con zampe di drago color ebano e occhi di diamante. La sua armatura di Ferro dello Stige era tanto elegante quanto intimidante. Uno strato di materiale rarissimo e pregiatissimo, che soltanto i figli degli Inferi e del Tartaro potevano utilizzare.

«Non puoi parlare senza il permesso della padroncina?»

Vi fu uno sbuffo divertito da parte del gigante, ma ancora nessuna risposta. 

«Non importa. Non serve che tu risponda.» Camille incrociò il suo sguardo dal basso. Una parte di lei avrebbe voluto svenire per la paura. Un’altra parte, invece, era stanca di avere paura di tutto e tutti. E soprattutto era stanca di essere vista dall’alto. «Quando la vedi, portale questo messaggio: io vi troverò. E vi sconfiggerò. E salverò mia madre.»

Tra le ombre, Camille riuscì a scorgere il sorriso beffardo che prese forma sul volto del gigante. Poteva immaginare cosa stesse pensando. Era una piccola, sciocca figlia di Trivia che cercava di intimidire qualcuno.

La stessa piccola, sciocca figlia di Trivia che aveva raso al suolo una prigione intera con i suoi poteri.

La stessa piccola, sciocca, stupida, insignificante “strega” che avrebbe potuto spazzare via qualsiasi gigante si fosse parato di fronte a lei.

«Anche Encelado ha sorriso in quel modo. Vuoi sapere cosa gli è successo? L’ho fatto scappare con la coda tra le gambe. E so cosa stai pensando, tu sei più forte di lui. Molto più forte. Ma lascia che ti dica una cosa. Ti reputi “l’antimagia”, ma la magia non può essere contenuta da niente e nessuno. È la magia che ti permette di fare quello che fai. Tu non governi la magia. La magia governa questo mondo, incluso te. E presto te ne accorgerai.»

Camille espulse quelle parole come se fossero state una tossina velenosa dal proprio corpo. Daniel aveva ragione. Che si fosse trattato di una proiezione della sua mente o meno, non aveva importanza: era patetica. Ed era stanca, stanca, di esserlo. Era stanca di apparire debole ed era stanca di apparire vulnerabile. 

Notte, Discordia, i Giganti, Daniel, non aveva importanza, tutti loro avrebbero imparato a non sottovalutarla.

«Io ti distruggerò, Clizio. Vi distruggerò tutti.»

Clizio schiuse le labbra. Ora il suo sorriso era una fila di perle bianche. Anche Camille sorrise. 

Il guanto era stato lanciato. E lei non avrebbe perso. I suoi poteri erano pericolosi… ma lo erano anche per i suoi nemici. E gliel’avrebbe fatto capire.

Per sua madre, per il campo, per Kiana, per i suoi amici. Le sembrò che un peso le fosse scivolato via dallo stomaco. Forse per tutto quel tempo aveva soltanto avuto bisogno di dire quelle parole ad alta voce. Forse, aveva soltanto bisogno di un po’ di fiducia, e rispetto, in sé stessa. 

Diede le spalle a Clizio e tornò di fronte alla dea in catene. Il gigante non glielo impedì. Forse credeva che non rappresentasse davvero una minaccia, o forse non poteva fare nulla di concreto per allontanarla. Non aveva importanza. Approfittò del momento per concentrarsi su quella specie di barriera che avvertiva tra loro due. All’inizio pensò che fosse tutta opera di Clizio e della sua aura, poi si ricordò dei glifi dipinti sul pavimento. Trivia aveva detto che erano dei sigilli, probabilmente creati da lei stessa come protezione per guadagnare tempo. Forse anche loro stavano interferendo.

Camille rimuginò per qualche istante, poi si fece coraggio e avvicinò la mano a sua madre. Sentì il cuore aumentare i battiti. Non aveva idea di che cosa sarebbe successo se avesse provato a toccarla. Per un istante non accadde nulla, e pensò che forse i sigilli non la vedevano come una minaccia. Non appena arrivò quasi a sfiorare il viso della dea, però, una fitta di dolore atroce le percorse il braccio arrivando fino al cervello, strappandole un grido di dolore così forte da svegliare un morto. Le sembrò di avere del fuoco liquido iniettato nelle vene, una scia di veleno che la corrodeva dall’interno. Cominciò a vedere sfocato, credeva di avere la pelle in fiamme, sentiva la propria mente sgretolarsi. Non aveva mai provato niente del genere, mai. Il cuore batté così forte da scoppiare, mentre il corpo tremava e la fronte diventava fradicia di sudore nonostante fosse soltanto un sogno. 

In mezzo alle macchie rosse apparse di fronte a lei, riuscì a scorgere Trivia che riapriva lentamente gli occhi. 

«Camille…? Camille!» chiamò spaventata. «Fermati!»

La ragazza riuscì a incrociare lo sguardo di sua madre e strinse i denti. 

No. Non si sarebbe fermata.

Con un grido ancora più forte e con l’ultimo residuo di energia che le rimaneva in corpo, spinse il proprio braccio in avanti fino a toccare la fronte di Trivia. 

Una luce accecante la travolse. Diverse immagini cominciarono a scorrerle di fronte agli occhi. Vide la grotta in cui Trivia era stata rinchiusa, ma senza catene, senza simboli e senza torce. Vide la dea in mezzo alla stanza e le catene di Ferro dello Stige che uscivano dalle pareti, immobilizzandola. Vide l’ingresso di quella che aveva l’aria di essere una miniera abbandonata, in mezzo a colline desertiche sotto un cielo grigio, spento, mentre la risata di una donna si alzava nell’aria.

E poi la visione cambiò. Il dolore svanì, riducendosi a una pulsazione sorda. Sentiva il braccio sussultare, come se ogni centimetro di pelle le stesse lanciando maledizioni per aver fatto qualcosa di così stupido. Adesso era di fronte a Ecate, ancora incatenata, ma erano solo più loro due. La stanza era svanita, Clizio pure, rimanevano soltanto madre e figlia in mezzo a sconfinata oscurità. Un lieve bagliore argenteo sorgeva dalla dea, dirigendosi fino al petto di Camille, come un filo fatto di luce. La ragazza lo osservò con la bocca schiusa. 

Il legame. Riusciva a vederlo.

«Camille…» Trivia la stava ancora guardando. Questa volta però non c’era allarme nel suo tono, né nel suo guardo. Sembrava… colpita. Ammirata, perfino. «Non… rimane molto tempo. Fai presto.»

Camille si posò una mano sul petto. La luce le attraversò la mano senza che accadesse nulla. Annuì determinata. «Sto arrivando.»

Trivia chiuse gli occhi e abbassò la testa. La luce si fece accecante, fino a ricoprire tutto quanto. Camille sollevò un braccio per proteggersi il viso, e quella fu l’ultima cosa che riuscì a fare. 

 

***

 

Quando riaprì gli occhi, per un attimo pensò che ci fosse un terremoto, poi si rese conto che Kiana la stava strattonando e chiamando: «Cam! CAM!»

Camille drizzò la testa. Provò a rispondere ma le uscì soltanto un mugugno infastidito: «Mhhh!»

«Miei dei, Cam!» esclamò Kiana sollevata. «Ti stavi dimenando nel sonno! Che cavolo è successo?»

La figlia di Trivia si massaggiò la testa. «Io…»

Non terminò la frase, perché si accorse del cielo ormai scuro al di là delle nuvole. Il suo cuore saltò di un battito. «M-Ma quanto ho dormito?!»

«Non lo so. So soltanto che non ti svegliavi più.» Adesso Kiana sembrava angosciata. «Ti prego almeno dimmi che il tuo piano ha funzionato.»

Cam osservò il proprio petto. La luce c’era ancora, ma era molto, molto più flebile. Un lungo filo sottile che guidava verso l’uscita del canyon, dritta nel cuore della Death Valley. Quella vista le infuse coraggio.

Si rimise in piedi, e per poco non cadde a terra per lo sforzo. Per fortuna Kiana la prese al volo e l’aiutò.

«Grazie» mormorò, per poi tornare a guardare il cielo. Era sera, il tempo era sempre meno, ma ce n’era ancora. Poco, ma le sarebbe bastato. Doveva bastarle. «So dove dobbiamo andare.»

Kiana annuì. «Ti serve qualche minuto o…»

«No. Abbiamo perso troppo tempo.» La figlia di Trivia cercò Penelope con lo sguardo. Non dovette dire nulla però, perché la centaura le apparve subito di fronte.

«Salite.»

Camille salì sulla sua groppa e si strinse attorno alla sua vita. «Grazie, Penny.»

Penelope le rivolse un sorriso con la coda dell’occhio. «Fai strada. Sarò più veloce di un lampo.»

Cam ricambiò il sorriso, genuinamente grata. Si voltò verso Kiana, anche lei seduta, e le rivolse un cenno. «Insieme?»

«Insieme. Andiamo a salvare il mondo!»

Un senso di sicurezza si infuse nel corpo di Camille. Avrebbe sconfitto Clizio. Avrebbero prevalso e sarebbero tornate al campo, sane e salve. Con, o senza Daniel, non aveva importanza.

«Allora andiamo.»

Penelope scattò, il vento ululò contro di loro, e Camille abbandonò i propri rimpianti assieme alla polvere alle sue spalle.

   
 
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