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Autore: _Frame_    11/09/2022    0 recensioni
- Insomma l’ideale dell’ostrica! - direte voi. - Proprio l’ideale dell’ostrica! e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo, che quello di non esser nati ostriche anche noi -.
(Giovanni Verga, Fantasticheria)
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«Io sono l’ostrica, Alberto. Sono nato su uno scoglio ed è lì che sarei dovuto rimanere, perché non c’è altro modo per me di sopravvivere. Ho creduto di essere un pesce più grande di quello che sono, mi sono buttato in una corrente che alla fine mi ha rigettato, e ora non so più a quale mondo appartengo. E se un giorno dovessi finire per nuotare così in là da non avere più la forza di tornare indietro, quando avrò bisogno di aiuto? Cosa ne sarà di me? Non potrò sempre contare sul fatto che ci sarete tu e Giulia a venirmi a ripescare.»
Genere: Angst, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le Cronache di Portorosso'
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Alberto non fu sicuro di cosa l’avesse svegliato. Forse l’ennesimo schiaffo del vento sbattuto sulle ante della finestra, o l’accavallarsi più lento e regolare delle onde che schiumavano fra le rocce della spiaggia, o ancora il tremolare della torre annaffiata dall’incessante frastuono della pioggia, oppure il respiro sibilante di Luca che, rabbrividendo lungo la schiena, si trasmetteva anche al suo petto.

Alberto aprì gli occhi, e la sua vista si ritrovò invasa da uno sciame di scintille scoppiettanti. Bianche e abbaglianti, erano le stesse che erano solite stordirlo dopo una corsa a perdifiato o dopo una lunga e pesante nottata di sonno ininterrotto.

Ancora in bilico nella nebbia che regnava fra sonno e veglia, respirò a fondo, strinse le braccia attorno al busto di Luca, arricciò le punte dei piedi fra le sue caviglie, spostò la guancia infilando il viso nell’incavo della sua nuca, e inspirò più piano fra le labbra poggiate a sfioro della sua pelle. Trovò conforto nel suo profumo dolce e nel tepore della sua semplice vicinanza.

Alberto strizzò le palpebre in una smorfia dolorante, mugugnò un gemito lamentoso e, facendo leva sui gomiti, tirò su la testa dalle coperte.

Urgh.

Le scintille vorticarono, lo costrinsero a battere gli occhi. Una scossa di emicrania gli perforò la fronte, discese la nuca, e sparse un dolore acuto lungo la schiena, indurendo i muscoli che Alberto aveva forzato per sostenere il peso di Luca durante il tragitto di ritorno compiuto a nuoto, cavalcando onde così alte da non riuscire a vedere oltre la cima delle loro creste.

Alberto stropicciò le palpebre, si spalmò un massaggio sulle tempie, attraversò i riccioli con una manata, scese a grattarsi il collo, e fece sparire le scintille che lo avevano stordito.

Che male…

La sua vista, di nuovo limpida, cadde sulla finestra sprangata, scossa da uno degli ultimi singhiozzi di temporale brillati fra le fessure della serranda.

L’ululato di vento si ritirò, risucchiato dalle fauci del mare. La pioggia smise di cadere di sbieco, pur continuando a scrosciare in abbondanza, e il brontolio del tuono si allontanò, otturato dalle nuvole che oscuravano il cielo già buio come fosse stata notte fonda. E forse lo era per davvero.

Alberto sospirò, finse di consolarsi accantonando il ricordo del mare ingrossato dalla burrasca. Almeno ha smesso di soffiare così tanto vento. Forse il peggio è passato. Però…

Rabbrividì fino all’osso. Incrociò le braccia e si strofinò la pelle raggrinzita dal freddo, grattandosi fin sotto le maniche della maglietta.

Però si muore dal freddo. Che sia il caso di accendere il fuoco?

Si guardò attorno. Assottigliò le palpebre e mise a fuoco le pareti per quanto glielo permettevano le righe di luce bluastra che penetravano dalle fessure delle serrande. Il tavolo di legno, gli scaffali occupati dai barattoli di vernice e lacca, i pannelli tappezzati dai poster e dalle carte raffiguranti tutti i suoi progetti. Fu facile immaginare qualche scintilla schizzare fuori dalle braci, accendere la torre in un’enorme vampata di fuoco, e carbonizzarla come un fiammifero.

Alberto arricciò la bocca. No, qua dentro non posso di certo mettermi ad attizzare falò. Rischierei di incendiare tutta la baracca, o che il fumo si accumuli fra le pareti, soffocandoci. Però, almeno la lanterna…

La individuò sul fondo dell’armadio dove aveva rovistato in cerca delle coperte.

Se non altro per fare un po’ di luce…

E la lanterna fu davvero un’immagine rassicurante, l’unica in grado di scacciare tutte quelle ombre e quelle voci che lo avevano tormentato durante il sonno.

Alberto spostò la mano, il suo tocco scivolò fra le pieghe delle coperte e incontrò qualcosa, il corpicino di Luca che gli dormiva affianco soffiando solo qualche sibilo fra le labbra socchiuse. A quella vista, una fitta gli straziò il cuore. Alberto gli rimboccò la coperta attorno alle spalle, gli massaggiò la schiena, si chinò per essere certo di sentirlo respirare, e solo in quel momento si accorse di come il suo petto salisse e scendesse al passaggio dell’aria.

Avvilito, distante da lui come se ci fosse ancora l’intero oceano a dividerli, gli scostò una ciocca dalla fronte. Luca…

L’aspetto di Luca era migliorato, anche se non si poteva di certo definire fiorente. Aveva smesso di tremare, ma era ancora molto pallido in volto. Alberto lo toccò per sentire se bruciasse di febbre, e trovò la sua guancia fresca ma non congelata come lo era stata nell’istante in cui si erano ricongiunti in mare aperto. Lo sguardo disteso e pacifico di un bambino addormentato, non una singola smorfia di dolore a contaminarlo. Il peggio era passato; Luca se la sarebbe cavata.

Nonostante quella consolazione, Alberto indugiò col tocco sulla sua guancia, scese lungo il profilo del viso, incapace di scollarsi, e lo chiamò pianissimo. «Luca?» Si chinò più vicino a lui. «Luca, sei sveglio?»

Il respiro di Luca fu attraversato da un fremito. Le ciglia si strinsero in un’espressione scura e sofferente, i pugni si chiusero sotto le coperte, e anche le gambe si rattrappirono.

Davanti a quel breve e intenso brivido di malessere, Alberto stesso fu vittima di un crampo di dolore. Provò l’irrefrenabile desiderio di tornare a infilarsi sotto le coperte, di stringersi a Luca e di assorbire ogni suo spasmo, di sciogliere tutto il freddo che lo teneva prigioniero, di scacciare le ombre che lo tormentavano, e di placare così tutti quegli incubi che lo avevano spinto alla fuga.

E così fece. Alberto scivolò in silenzio sotto le coperte e si strinse Luca al petto, intrecciò le mani alle sue, incastrò le ginocchia fra le sue gambe e poggiò il capo sulla sua fronte.

Così vicino a lui, senza più gli affanni della paura ad appannargli la testa, lo pervase un desiderio bizzarro e sconosciuto. Un fuoco nascosto gli bruciò nella pancia e fiammeggiò fino al petto, formicolò lungo la sua pelle accaldata e gli diede la sensazione di essere sommerso dal solletico di una foresta di alghe sottilissime e pungenti.

Alberto deglutì, trovò la bocca asciutta, e si scoprì incapace di staccare gli occhi dal volto addormentato di Luca. Fece scendere le nocche lungo la curva del suo viso, indugiò all’angolo delle labbra e si bloccò, accorgendosi di quanto fosse forte quel desiderio, a un punto tale da fargli male, perché Alberto soffriva del bisogno di accostare il viso al suo, di respirare il suo stesso respiro, di sentire Luca sciogliersi fra le sue braccia, di farlo arrossire di gioia e di vederlo smarrirsi nel suo sguardo, in un luogo che sarebbe appartenuto a loro due soltanto, un luogo dove sarebbero stati in grado di elevarsi fino alla Luna solo stringendosi la mano e correndo a piedi nudi come quando erano piccoli.

Scosse il capo: una cosa del genere non sarebbe mai potuta accadere. Luca non era come lui, dopotutto.

Alberto si limitò a poggiare la fronte su quella di Luca, a chiudere gli occhi per percepire il suo tiepido respiro, il regolare alzarsi e abbassarsi del suo petto, e intanto gli passò le punte delle dita su e giù lungo la schiena – un tocco piacevole ma poco invadente, le stesse carezze che regalava a Principe e a Machiavelli per ingraziarseli e per suscitare le loro fusa. Coccolandolo come il più prezioso dei tesori, realizzò che quell’abbraccio e l’affetto di quelle carezze era tutto quello di cui avrebbe dovuto accontentarsi, perché il suo era un desiderio proibito e irrealizzabile.

Ma mi sta bene così.

Piuttosto che rischiare di perderlo un’altra volta, piuttosto che provare di nuovo tutta quella paura che lo aveva attanagliato dopo averlo recuperato in mare, quando aveva creduto di non farcela a portarlo in salvo, quando lo aveva visto accasciarsi sul pavimento della torre… non aveva bisogno di nient’altro, gli bastava ringraziare il Cielo di poterlo di nuovo tenere al sicuro fra le sue braccia. Tutto il resto non era importante.

Consolato da quei compromessi, Alberto tornò ad assopirsi.

A questo punto, anche io posso tornarmene a dormire fino a domani mattina.

Si accoccolò al calduccio e rilassò il respiro, già sentendosi rapire dalla dolce e opaca nuvoletta di sonno che calò e gli si addensò attorno, isolandolo dal fruscio delle onde e dalla caduta della pioggia.

Tanto è da pazzi pensare di tornare a Portorosso entro questa notte, con Luca ridotto in queste condizioni e con la pioggia ancora così fitta. Aspetta…

Lo trafisse una realizzazione improvvisa, saettante come uno schioppo di tuono.

Portorosso!

Spalancò gli occhi e spezzò un gemito fra i denti.

Portorosso, il porto, Massimo! Devo fargli segnale con la lanterna, devo fargli sapere che ho trovato Luca e che siamo in salvo qui sull’isola!

«Oh, cavoli…»

Alberto calciò via le coperte – naturalmente senza dimenticarsi di tornare a coprire Luca –, si affrettò poi a raggiungere la finestra, spalancò le imposte senza temere gli sbuffi di maltempo, dato che ormai non pioveva più di traverso, tese una mano davanti alla fronte, respingendo solo qualche graffiata di vento, e guardò verso l’orizzonte, puntando la costa.

La pioggia continuava a rovesciarsi in abbondanza. Formava un’ombra color fumo che spumeggiava fondendosi alla superficie del mare, coprendo così le cime degli scogli e appannando le luci delle barche che galleggiavano attorno al porto.

Anche l’altura del paese era puntellata da lumini che traballavano dalle finestre delle case. Uno in particolare, più rosso e intenso degli altri, lampeggiava a intervalli regolari, e catturò nell’immediato lo sguardo di Alberto.

Alberto non fece fatica a capire di cosa si trattasse. Era la luce che stava cercando. Era il segnale di Massimo.

Massimo!

Si rimise a frugare fra gli scaffali dell’armadio, scansò i barattoli di chiodi e di cacciaviti, recuperò la lanterna, spalancò il cassetto del tavolo da lavoro, pescò dal fondo una scatola di fiammiferi, e ne sfregò uno sulla carta abrasiva, gettando scintille che gli pizzicarono le dita tremanti. «Andiamo, andiamo.» Si rosicchiò il labbro. «Accenditi…»

Il fiammifero prese fuoco. Alberto lo avvicinò allo stoppino della lanterna, aspettò che l’olio facesse presa, che la fiammella si mettesse a danzare fra le pareti di vetro color ambra, e tornò davanti alla finestra.

Speriamo che anche lui mi riesca a vedere, con tutta questa pioggia…

Girò e rigirò più volte la manovella che regolava l’intensità dell’olio, alzò e abbassò la fiaccola per rispondere al segnale di Massimo, e aspettò. Il tambureggiare del suo cuore in attesa era una scossa che gli pulsava nel sangue, dal petto alle tempie.

La luce sulla costa reagì. Anch’essa si alzò e si abbassò, rispose al segnale trasmettendo ad Alberto l’immagine rassicurante di Massimo che sventolava il braccio in direzione dell’isola e che gli sorrideva da sotto i baffi.

Alberto sospirò, rincuorato e alleggerito dal peso di quella preoccupazione.

E almeno adesso giù in paese sanno che siamo tutti e due al sicuro, così possono anche smettere di pattugliare il porto e di cercare Luca lungo la costa. Speriamo che avvertano anche Giulia, così si tranquillizza.

Spostandosi, mosso dal solo desiderio di tornare a rannicchiarsi sotto le coperte e di sonnecchiare fino alla mattina dopo, Alberto attraversò il fascio di luce che aveva riempito la stanza e rischiarito il fagotto in cui Luca era ancora imbozzolato. Aiutato dalla luce, Alberto scoprì qualcosa di lui che prima non aveva fatto in tempo a notare. Uno spazio di colore blu che non sapeva a cosa potesse appartenere. Non di certo alle squame di Luca.

Alberto raccolse il manico della lanterna, andò a inginocchiarsi davanti a Luca stando attento a non puntare la luce sul suo viso addormentato, e sollevò un lembo della coperta. Rimase di sasso.

Ma questa…

Luca indossava la sua vecchia camicia a quadri blu e azzurri, quella che Alberto credeva di aver perduto qualche estate prima.

Questa è la mia vecchia camicia, quella che… ma no, impossibile. L’avevo persa chissà dove fra i vestiti del guardaroba, era…

L’aveva sempre avuta Luca.

Alberto rimase stordito come se avesse ricevuto una botta in testa.

Ma perché Luca l’ha portata via? Perché non mi ha detto niente? Per tutto questo tempo, lui…

Ripensò agli innumerevoli abbracci scambiati durante i loro innumerevoli saluti. Le strette di Luca si erano fatte più ingorde, con il trascorrere degli anni. C’era quel suo modo di aggrapparsi ad Alberto quasi a volere strappare il ricordo del suo profumo, del suo calore, e di avvolgerselo attorno come un abito, trovando così conforto nei periodi più bui e freddi.

Lui ha sempre sentito la mia mancanza?

Al gelo dello stupore si sovrappose l’amarezza dei sensi di colpa.

Luca aveva avuto un bisogno disperato della sua vicinanza, tanto da spingersi a quella folle fuga, e Alberto era sempre stato così cieco e superficiale da non accorgersene. Aveva sempre e solo considerato i suoi desideri, la paura di perderlo. Aveva messo a tacere quella parte di se stesso che avrebbe tanto voluto portare Luca via da Genova solo per placare la sua solitudine, senza rendersi conto che la sofferenza di quella distanza era condivisa da entrambi.

E Giulia gliel’aveva detto. Anche lei aveva intuito che qualcosa fosse cambiato fra i due, e che l’unico modo per alleviare il reciproco dolore era parlarsi apertamente. Alberto aveva negato fino all’ultimo, ignorando le parole di Giulia e scostandosi da Luca per timore di uscirne ferito e deluso. Essere ricambiato da Luca con lo stesso sentimento? Impossibile. Meglio non farsi illusioni.

Giulia, ascolta” le aveva detto, “tu lo sai che io sarei il primo a prendere Luca per mano e a portarmelo dietro, se questo davvero servisse a farlo sentire meglio. Ma non servirà. Non è di me che Luca ha bisogno.”

Incassò un palpito di dolore così forte da rimanere senza fiato, come se un sasso gli fosse sprofondato fra le costole.

E invece Luca ha sempre avuto bisogno di me. Mi ha sempre cercato e io sono sempre stato così egoista da non accorgermene, perché pensavo soltanto a quanto lui mancasse a me.

Quindi Luca era scappato da Genova per andare in cerca di Alberto. Si era addentrato nella tempesta perché aveva avuto bisogno del suo aiuto. Era per colpa di Alberto che aveva rischiato di morire.

Alberto si morsicò la bocca per ingoiare un singhiozzo.

Se solo ci fossimo parlati.

Si sentì rimpicciolire come una semplice ombra carbonizzata dal fascio della lanterna.

Se solo io lo avessi ascoltato per davvero. Se fossi stato in grado di capirlo. Se avessi insistito di più e lo avessi portato con me a Portorosso, lo scorso Natale, allora forse tutto si sarebbe risolto, e Luca non avrebbe mai commesso questa pazzia. Che stupido…

Strizzò i pugni graffiando la stoffa dei jeans, il respiro gli tremò fra le labbra.

Non merito davvero di considerarmi un adulto. Non merito nemmeno di considerarmi suo amico.

Una prima lacrima gli si staccò dalle ciglia, piovve sulla guancia, e il tocco umido e tiepido sulla pelle lo sorprese, facendolo sobbalzare.

Alberto si strofinò il viso, ma altre lacrime si sovrapposero e gli squamarono guance e dita. Si tappò il viso con entrambe le mani e trattenne il fiato. Un sapore aspro e salato gli scivolò sul labbro pinzato fra i denti.

Dannazione.

Il pianto bruciava senza dar cenno di fermarsi, così Alberto prese la lanterna, si rialzò dal pavimento e si allontanò da Luca, quasi per paura che lui potesse svegliarsi e scoprirlo ridotto in quello stato. Trascinò i piedi nudi fino alla finestra, e fu di nuovo come galleggiare sballottato dalla tempesta e sconquassato dalle onde, soffocando per lo spavento, tirando fiato per il sollievo, ma restando imprigionato nella centrifuga di quella realizzazione così inaspettata.

Alberto posò la lanterna sul cornicione di pietra e ci salì sopra senza fatica. Strinse le gambe al petto, piegò un gomito sul ginocchio e si appoggiò al palmo della mano sbavato di lacrime e colorato dalle squame. Guardò Portorosso annacquata dalla tenda di pioggia e dal velo del suo pianto. Le luci pallide della costa, quelle dondolanti delle piccole barche da pesca, la lanterna di Massimo che sarebbe rimasta accesa per loro fino a quando non avrebbero fatto ritorno a casa.

Altre lacrime gli grondarono lungo la pelle del viso, la rigarono di blu e gocciolarono fino al mento. Alberto si affrettò a strofinare, a tapparsi gli occhi e a frenare il gocciolio delle lacrime che continuavano a scioglierglisi addosso.

Ringhiò di frustrazione: stupide lacrime.

Premette entrambe le mani sulla faccia. Un forte crampo al cuore – un’azzannata di sensi di colpa – fece rimbalzare i primi singhiozzi che sfuggirono rapidamente al suo controllo.

Vegliato dal lento e caldo dondolio della lanterna, dal profumo di olio bruciato, dalla presenza sicura e rassicurante di Luca che dormiva lì nella torre, dove tutto era cominciato, Alberto smise di lottare e si lasciò andare a quel pianto amaro, silenzioso e senza freni. Un pianto doloroso e consapevole. Un pianto da adulto. Il primo della sua vita.

 

   
 
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