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Autore: Adeia Di Elferas    26/09/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Luffo Numai entrò nel suo palazzo provando un enorme sollievo, non solo perché finalmente si poteva sottrarre alla pioggia battente di quel giorno di metà novembre, ma soprattutto perché era riuscito a sgusciare via prima del previsto dalle chiacchiere di Bernardi.

Anche se per convenienza non aveva mai smesso di salutarlo e scambiare con lui quattro chiacchiere, da qualche giorno a quella parte non riusciva più a sopportare i toni magniloquenti con cui spiegava a chiunque lo incontrasse il come e il perché Cesare Borja fosse riuscito a vincere tutti i suoi nemici e ad annientare sul nascere l'alleanza che si era creata tra i cosiddetti condottieri ribelli.

Perfino quella mattina, approfittando proprio dell'acquazzone per trattenere il povero Luffo sotto a un porticato, lo storico che un tempo si era guadagnato da vivere tagliando barbe e capelli altro non aveva fatto se non esporgli i grandi progressi del Valentino.

Numai aveva ascoltato, in realtà, con un certo interesse la prima parte del discorso, dato che Andrea tendeva a lasciarsi scappare anche dettagli che, forse, non avrebbe dovuto spargere ai quattro venti, ma poi, quando la solfa tornò a essere sempre la stessa, Numai aveva addotto varie scuse e se n'era andato sfidando la pioggia.

Tuttavia, anche mentre rientrava a casa e si faceva aiutare da una serva a togliersi il mantello zuppo d'acqua, il forlivese tornava con il pensiero alla prima parte del monologo di Bernardi. Gli aveva detto che, a Imola, il Borja aveva infine trovato un accordo 'molto vantaggioso' con i Bentivoglio e, come effetto immediato della loro rinnovata amicizia, Michele Ramazzotto, al soldo del signore di Bologna, aveva lasciato il fronte di battaglia, tornando in patria, per andare a prelevare Ermes Bentivoglio e scortarlo fino a Firenze, dove avrebbe riconsolidato il trilatero con la Repubblica e i borgiani.

Oltre a ciò, aveva detto Bernardi, Dionigi Naldi aveva interrotto subito il reclutamento di nuovi soldati nel Montefeltro, dato che l'accordo tra il Duca di Valentinois e Bologna rendeva inutile una simile operazione.

L'ex barbiere aveva anche notizie fresche circa i capi della rivolta dei condottieri ribelli. Sosteneva, infatti, che Oliverotto fosse andato a Fano con duemila fanti e duecento cavalleggeri e, in barba agli accordi, avesse razziato una grande quantità di frumento. A detta di Andrea il Borja aveva chiuso un occhio, per il momento, solo per non compromettere la recente riappacificazione.

Vitellozzo, invece, aveva razziato bestiame di ogni tipo nei dintorni di Pesaro, Fano e Senigallia, inviando tutta la refurtiva a Città di Castello. Qualcuno diceva che stesse facendo addirittura il doppio gioco, accettando da un lato l'amicizia del Borja, ma, dall'altro, sostenendo economicamente e militarmente Guidobaldo da Montefeltro. Anche in questo caso il Bernardi si era detto propenso a credere che il Valentino sapesse ogni cosa, ma stesse dando prova di grande magnanimità per non rovinare l'alleanza ritrovata.

“Ti aspettavo più tardi...” la voce di Caterina Paulucci, moglie di Luffo, riempì l'ingresso silenzioso e l'uomo, voltandosi verso di lei, rispose con un sorriso.

“Con questo tempaccio ho preferito rientrare prima...” disse e poi, vedendo che il volto della moglie era reso più severo del solito da una profonda ruga di preoccupazioni, chiese: “Va tutto bene?”

“Di là c'è Tonell che ti aspetta...” rispose lei, abbassando appena il tono: “Gli ho detto che dovrebbe farsi vedere meno spesso in casa nostra, ma dice che si tratta di qualcosa di importante...”

“Va bene...” soffiò Luffo, passandosi una mano sul volto anziano e ancora umido di pioggia: “Lo farò ragionare e vedrai che per un po' diraderemo gli incontri...”

“Non siamo stati così cauti per anni, per farci piombare addosso i sospetti a causa della sua impazienza.” rimarcò la Paulucci.

“Certo che no.” convenne Luffo, che ricordava anche troppo bene i rischi passati e gli anni trascorsi a fingersi qualcosa che non era mai stato, ossia un traditore: “Ripeto, lo farò ragionare. Ma ora lasciami sentire che novità ha...”

Giambattista, che attendeva il padrone di casa nella saletta di rappresentanza, in piedi davanti al camino acceso, non perse tempo in convenevoli e, appena lo vide, cominciò subito a snocciolare le ultime notizie che gli erano arrivate da fuori Forlì.

Miguel de Corella, lo sapeva per certo, aveva fatto ogni suo comodo a Pesaro, arrivando perfino a impiccare alle finestre del palazzo che era stato di Giovanni Sforza quattro cittadini che avevano in animo di organizzare una congiura per far insediare di nuovo proprio lo Sforza.

Dopo aver fatto ciò, Michelotto aveva fatto radunare nella piazza del Vescovado tutti gli uomini in grado di portare le armi, e non erano pochi, a Pesaro. Aveva dato ordine che venissero inquadrati e addestrati dai suoi e poi, all'improvviso e senza dare spiegazioni, era partito verso Imola, per ricongiungersi con il Borja, portando con sé centocinquanta schioppettieri.

“E questo, a parer mio – spiegò Tonello, con aria cospiratrice – ha un significato ben preciso.”

“Ossia?” domandò Luffo, che stava ancora ragionando sulle parole riportate dall'amico.

“Ossia ha paura, per qualche motivo, e vuole qui in Romagna il suo amico.” rispose Giambattista, con tono d'ovvietà: “Dobbiamo scoprire cosa lo impensierisce, e poi dobbiamo capire se può trattarsi del momento buono per agire.”

Numai rimase un momento in silenzio. In effetti, da quello che aveva sentito dire da Bernardi, il Valentino aveva più di un motivo per sentirsi in pericolo... Checché ne dicesse lo storico, sia le azioni di Oliverotto, sia quelle di Vitellozzo non lasciavano ben sperare e, anche se formalmente un accordo coi ribelli c'era, non si poteva dire che, per il momento, fosse stato rispettato da tutte le parti in causa.

“Pensateci, Luffo...” insistette Tonello: “Colpiamo adesso, intanto che il Valentino ha altri pensieri... Scriviamo a Madonna e chiediamole di tornare e guidare l'esercito e...”

“La Contessa – lo interruppe Luffo, che non aveva mai smesso, salvo in presenza di testimoni scomodi, di chiamare a quel modo la Tigre – non ha ancora recuperato in modo stabile il suo figlio più piccolo e finché non l'avrà con sé senza più timore che le venga portato via, non accetterà mai di imbracciare di nuovo le armi...”

Giambattista si adombrò per qualche secondo, ma poi tornò alla carica: “Suo figlio Galeazzo, allora. Che venga acclamato come nuovo Conte. Che venga qui, guidando l'esercito in modo che...”

“Messer Galeazzo è troppo giovane.” lo frenò una volta di più Numai.

“Ha già diciassette anni!” sbottò a quel punto Tonello, che, in effetti, si sbagliava di pochissimo, dato che il Riario ne aveva ancora sedici, ma in dicembre ne avrebbe fatti davvero diciassette: “Alla sua età molti sono già uomini fatti e finiti! Non vorrete dirmi che il figlio prediletto di Madonna Sforza a diciassette è ancora un bambino!”

“Ci vuole pazienza, amico mio.” lo smorzò una volta per tutte Luffo: “Vediamo come va l'inverno... Lasciamo che sia il Valentino stesso a stremarsi correndo dietro ad alleati che non vogliono per nessun motivo fare i suoi interessi...”

“Ma...” provò a dire l'altro, che, invece, avrebbe voluto sfruttare l'effetto sorpresa e piombare sugli uomini del Borja già quel giorno, spazzandoli via e riportando a Forlì e Imola la pace e la stabilità che la Leonessa di Romagna, con alti e bassi, era stata in grado di forgiare.

“Non possiamo rovinare tutto solo perché tu ti stai stufando di aspettare!” fece Luffo, fingendosi molto spazientito: “Abbiamo lavorato anni! Vuoi rovinare tutto per qualche mese? Il ragno mangia la preda solo se le dà il tempo di restare avviluppata nella ragnatela! Se è troppo frettoloso resta digiuno, perché la preda capisce e scappa!”

Dopo ancora qualche scambio di battute, alla fine Tonello parve convincersi che il vecchio amico avesse ragione e si dichiarò disposto a pazientare ancora un po', anche se fece presente che nella sua prossima missiva alla Tigre avrebbe fatto cenno al bisogno impellente della Romagna di essere liberata dal giogo pontificio.

“Come volete, amico mio...” sospirò infine Luffo: “Ma per qualche tempo è meglio che non ci facciamo vedere troppo assieme o potremmo sollevare qualche chiacchiera indesiderata, ora che il Borja è a Imola e che i suoi uomini sono ovunque...”

“Va bene, va bene...” accettò l'altro, andando già verso la porta: “Già che stiamo attenti, tanto vale farlo per bene...”

Dopo che i due uomini si furono salutati e Tonello se ne fu andato, Caterina Paulucci chiese al marito di scambiare due parole nella loro stanza. Luffo sapeva bene che voleva essere, come sempre, edotta su tutte le decisioni eventualmente prese e così, senza fare una piega, le riportò quasi parola per parola il suo incontro con Giambattista.

Alla fine del resoconto, la donna annuì e concluse, cambiando radicalmente argomento: “Oggi è arrivata anche una nota di Tommaso Fiamberti.”

Nel sentire il nome dell'artista, Numai si fece attento e chiese: “E che aveva da notificare?”

“Dice che il monumento funerario che gli abbiamo commissionato nella Basilica di San Pellegrino Laziosi sarà pronto entro fine anno.” fece Caterina.

Luffo, mettendole un braccio attorno alle spalle, commentò: “Buon Dio... Ce ne ha messo di tempo, vero?”

“Hai fretta di finire in quella tomba, per caso?” domandò la donna, tra il serio e il faceto.

L'uomo rise di gusto, felice di avere una compagna che sapesse sì mostrare il volto duro e implacabile della padrona di casa, ma anche quello ironico e scherzoso della ragazza che aveva sposato così tanti anni addietro: “No, no, più tardi ci finisco, meglio è...”

“Lo so che non vuoi morire prima di veder tornare la tua amata Tigre regnare su Forlì...” si lasciò scappare la Paulucci, con un mal celato velo di gelosia.

Era sempre stata gelosa di Caterina Sforza, non perché credesse che suo marito ne fosse invaghito, tanto meno che la Leonessa la fosse di lui. Si trattava di una gelosia diversa, più difficile da combattere. Era come se la Contessa – come ancora la chiamava Luffo in privato – fosse una sorta di forza superiore, una sorta di divinità, il fine ultimo di quasi ogni sua azione. Per Numai, la Tigre di Forlì era prima e soprattutto un ideale. E dunque la battaglia era abbastanza impari, per la povera Caterina Paulucci...

“Eh, cara moglie mia...” sussurrò, dolente, Luffo: “Se potessi morire dopo averla vista tornare, sarei pronto a morire oggi stesso. Ma io la vedo difficile, così difficile...”

Aggrappandosi a sua volta al marito, la donna gli chiese perché pensasse che il progetto di restaurare nuovamente la Sforza in Romagna gli sembrasse impossibile e così, per quasi un'ora, i due rimasero vicini come due piccioni innamorati, parlottando a voce bassa e scambiandosi, di quando in quando, qualche piccolo gesto d'affetto. Malgrado la presenza sempre ingombrante della Leonessa tra loro, la Paulucci, stretta al suo Luffo, ancora in piedi nonostante gli anni difficili e i pericoli, si sentiva felice.

 

Caterina era finalmente riuscita ad andare una mezza giornata da suo figlio Giovannino. Per quanto lo trovasse in salute e, tutto sommato, sereno, non sopportava di vederlo, a quattro anni e mezzo ancora vestito da femmina e rinchiuso tra quattro mura.

Era palese che il piccolo Medici avesse uno spirito libero e ribelle e tutte quelle costrizioni a lungo andare rischiavano di farlo esplodere o, ancor peggio secondo la Tigre, si spegnerlo.

Per tenerlo tranquillo, mentre era con lui al convento d'Annalena, la Sforza gli aveva raccontato tanti aneddoti di battaglie e guerre, rendendosi conto che il figlio capiva solo in parte quello che lei gli diceva, prendendo ogni ricordo come una favola, qualcosa di grandioso e di affascinante, senza valutare minimamente i lati negativi della vita militare.

Di contro, Giovannino aveva voluto dirle a voce alta tutte le nuove preghiere che stava imparando, tutte in latino e tutte piena di desinenze e pronomi sbagliati. Pur incoraggiandolo, la Tigre gli aveva fatto capire che era necessario conoscere prima la lingua, per poi usarla per pregare, ma il bambino si era distratto subito e si era messo a correre, per mostrarle quanto fosse diventato veloce.

Prima di andarsene la Leonessa era passata dalla suora che avrebbe dovuto occuparsi in modo particolare dell'istruzione del Medici. Le spiegò come la pensava sul latino, ma questa fece orecchie da mercante e in breve la Sforza capì che anche per la monaca, per quanto d'alta estrazione sociale, la lingua degli antichi romani era poco più che un insieme sconnesso di sillabe dal significato oscuro.

La suora, comunque, non perse occasione di ribattere, dicendo che invece di imparare il latino a nemmeno cinque anni, Giovannino avrebbe fatto meglio a imparare la buona creanza e l'autocontrollo.

“E poi – aveva aggiunto, non senza una certa soddisfazione – tra non molto sarà troppo grande per stare qui e fingere che sia una bambina... Non starebbe bene avere un giovanotto in mezzo a tante giovani caste e devote...”

“Infatti la mia intenzione è riportarlo a casa ben prima che sia in grado di importunare qualche novizia!” aveva ribattuto Caterina e aveva lasciato il convento, ripromettendosi di tornarci prestissimo e di fare peste e corna, pur di riuscire a riportare a Castello il suo ultimogenito, sano e salvo.

Tornata alla villa, quindi, aveva cominciato ad arrovellarsi su come eludere la sorveglianza – a distanza, ma sempre pressante – di Lorenzo e riportare Giovannino presso di lei senza rischiare di vederselo strappare via nottetempo.

Per quanto cercasse di concentrarsi su quell'annoso problema, però, venne distratta da alcune lettere, di cui, per fortuna, nessuna portava notizie gravi, e da un regalo di Scipione Riario che, con qualche traffico che aveva preferito non specificare, era riuscito a farle omaggio di un po' di cuoio, un paio di cani da caccia di pregiatissima razza e perfino di una piccola somma in denaro. Fosse arrivata da chiunque altro, la Tigre avrebbe visto quella cifra come un'offesa, ma da Scipione l'accettava volentieri, dato che, malgrado tutto, lo considerava quasi alla stregua di un figlio adottivo e non poteva scordare l'appoggio sincero e disinteressato che il ragazzo le aveva dato durante l'assedio del Borja.

Nel messaggio di accompagnamento ai doni, il Riario aveva anche lasciato intendere come fosse intenzionato – non sapeva dire nemmeno lui entro quando – a prendere moglie a Firenze e stabilirsi in via definitiva in quella città. Pregava anche Caterina, nel caso volesse, di inviargli per qualche giorno uno dei fratelli, o anche Bernardino, se ne aveva voglia, in modo da avere qualcuno che gli facesse compagnia. Avrebbe fatto volentieri visita alla Leonessa in persa, spiegava, ma gli era stato sconsigliato da Fortunati, che sosteneva fosse ancora presto per sbandierare le vecchie amicizie e rischiare di essere additati come pericolosi sovversivi intenti e organizzare la riconquista della Romagna.

La Sforza era ancora intenta a rileggere le parole di Scipione, in tranquillità, nella biblioteca, dove anche Sforzino stava leggendo, immerso nell'agiografia di qualcuno, quando un vociare concitato sollevò entrambi dai fogli su cui erano chini.

“Aspetta qui.” disse la donna, con fare imperioso, facendo cenno al figlio di rimanere seduto, e andò a controllare che stesse accadendo.

“Ho detto di no!” stava ribadendo frate Lauro, con un'espressione arrabbiata che di rado gli si poteva vedere in volto: “Siete impazzito? Se non vi avessi trovato..! Che credevate di fare? Ma lo sapete che è lunga la strada, da qui alla città?!”

Bernardino, che si divincolava come un pesce, non riusciva a liberarsi dalla presa adamantina di Bossi che, con prontezza, l'aveva afferrato contemporaneamente per la collottola e per un braccio.

“Io faccio quello che voglio!” ribatteva il ragazzino, quasi senza fiato per la smania di divincolarsi e scappare: “Voi non siete mio padre, né il mio tutore! Quello che dite non vale nulla!”

“Ma quello che dice vostra madre vale, giusto?” chiese a quel punto frate Lauro, vedendo Caterina avanzare verso di loro a passo marziale.

Il Feo, improvvisamente senza voce, smise all'istante di muoversi e guardo la genitrice con un'espressione strana. Sembrava che la volesse sfidare, da un lato, ma anche che da lei si aspettasse di veder riconosciuto il suo diritto di non ubbidire a Bossi.

“Che succede?” chiese la milanese, incrociando le braccia sul petto e fissando ora il figlio, ora il religioso: “Che confusione state facendo voi due? Vi sembra il caso?”

“L'ho pescato poco fa appena qui fuori...” spiegò il frate, trovando fosse saggio essere il primo a dare la propria versione dei fatti: “Stava cercando di lasciare la villa per andare in città. L'ho fermato, perché non può farlo... E poi si sarebbe messo in pericolo! Non conosce nemmeno la strada, e andare a piedi fino a Firenze...”

“Che hai da dire tu?” chiese allora Caterina, dopo aver frenato Bossi, che, a suo avviso, aveva già detto tutto quel che c'era da dire.

“Io non posso stare chiuso qui in eterno...” rispose Bernardino, rosso in viso, gli occhi bassi.

Il suo viso, in quel momento, richiamava alla memoria della Tigre quello di Giacomo. Era come ritrovarsi davanti il suo secondo marito in una delle tante occasioni in cui aveva cercato di discolparsi per qualcosa di cui, invece, era del tutto colpevole. Solo che Bernardino aveva un'irrequietezza di fondo che al padre era mancata quasi del tutto, e di cui, quindi, la Leonessa si sentiva l'unica responsabile.

“Perché vuoi andare a Firenze?” chiese, facendo cenno a Bossi di mollare la presa su di lui e di lasciarli soli.

Mentre frate Lauro si dileguava, il dodicenne si morse il labbro e, vergognandosi troppo per dire il vero motivo che lo portava a desiderare la fuga in città – andare nei bassifondi, bere di straforo vino o birra o qualsiasi cosa gli avessero offerto, mescolarsi alle risse e poi sgattaiolare nei bordelli come aveva fatto la volta prima, andando a placare almeno in parte il fuoco ingestibile che sentiva nel petto – rispose solo: “Qui mi annoio.”

La Sforza lo guardò a lungo, chiedendosi perché sia lui sia Giovannino, i due figli nati dall'amore, gli unici due che avesse desiderato fin dal primo istante, dovessero dimostrarsi così incontenibili. Si lasciò andare a un sospiro, ripetendosi che, forse, era così perché avevano assorbito da lei l'inquietudine con cui conviveva da una vita, ereditando il mostro oscuro che rimordeva anche la sua anima, impedendole quasi sempre di essere in pace con se stessa, ancor prima che con il resto del mondo.

Così, con un'indulgenza che sorprese lei per prima, propose: “Scipione mi ha detto che, se ne hai voglia, puoi stare da lui qualche giorno a Firenze.”

Il ragazzino, che pure non aveva alcun legame di sangue con quel Riario, nel vedersi offrire quell'opportunità, esclamò subito: “Ci andrei molto volentieri!”

“Devi promettermi una cosa, però, ma promettermela solennemente...” ci tenne a precisare la madre, chinandosi un po' verso di lui.

Il Feo annuì ancor prima di sapere cosa dovesse promettere.

“Devi promettermi che non darai problemi a Scipione.” disse la donna: “Non dico che dovrai restare relegato in casa sua... Ma evita di metterlo nei guai.”

“Va bene, starò attento.” fece il ragazzino, usando una formula che, a suo modo di vedere, lo affrancava da promesse che non avrebbe mantenuto.

“Vado a scrivere a Scipione, allora, in modo da organizzare il tutto...” concluse la Leonessa, dedicando infine un buffetto al figlio.

Lasciatasi alle spalle un Bernardino decisamente più di buon umore di quanto non fosse stato fino a poco prima, la donna passò un attimo da Sforzino, per fargli sapere che era tutto a posto. Gli chiese, pur immaginando già il rifiuto, se volesse passare qualche giorno a Firenze anche lui e, accettato l'atteso no, veleggiò verso le sue stanze. Nel farlo, passò vicino a Galeazzo, che stava alla finestra, guardando verso il cortiletto interno.

Incuriosita, senza farsi notare troppo, Caterina occhieggiò dalla finestra appena prima e capì all'istante cosa tenesse così incollato. Proprio là sotto, infatti, una delle serve della villa – l'unica giovane e veramente attraente che ci fosse – stava aiutando una di quelle più anziane a ripiegare le lenzuola della Tigre. Come a Ravaldino, la Sforza imponeva il ricambio della biancheria a ritmi abbastanza serrati e così, anche in quel novembre uggioso, il servidorame non aveva mai tempo per starsene con le mani in mano.

Distogliendo lo sguardo dalla servetta, la Leonessa tornò a guardare il figlio e riconobbe senza fatica il tipo di sguardo che stava lanciando alla giovane. Galeazzo avrebbe compiuto diciassette anni a dicembre, era normale che avesse certe attenzioni.

“Tuo fratello Bernardino passerà qualche giorno in città con Scipione – disse all'improvviso la Tigre, facendo sussultare il figlio, così distratto da non averla sentita arrivare – mi chiedevo se volessi andarci anche tu...”

Il Riario deglutì un paio di volte, riportando alla memoria i racconti che il Feo gli aveva riportato, riguardo la notte che aveva trascorso fuori a Firenze. Anche se una parte di lui era tentata di accettare e di approfittare della guida del fratello minore per fare nuove esperienze, una parte più ponderata e preponderante di lui lo portò a rifiutare.

“No, non voglio essere di troppo... Bernardino ha bisogno dei suoi spazi, ed è giusto che vada in città da Scipione senza un fratello maggiore a fargli da balia...” rispose, corrucciandosi appena.

Caterina sporse un po' le labbra in fuori e commentò, sfiorandogli la guancia un po' ruvida di barba biondiccia: “Pensaci... In città potresti farti radere da un vero barbiere...”

“Chiederò a Bianca di radermi.” ribatté prontamente il ragazzo: “Lei è molto più brava sia di me sia di qualsiasi barbiere...”

La Sforza non restò molto stupita nel sentir tessere le lodi della Riario in qualità di barbiere, ma trovò comunque che fosse una scusa un po' debole.

“E poi – riprese Galeazzo, forse avvertendo l'esitazione della madre e volendole impedire di insistere – io preferisco restare qui alla villa, a tirare di scherma e studiare... Non mi interessano gli svaghi della città.”

Decisa ad arrivare al dunque, la Leonessa sospirò: “In città, però, potresti... Insomma... Per un giovane uomo della tua età la città offre certi svaghi che non si possono trovare facilmente in una villa isolata...”

“No, grazie. No, davvero.” si affrettò a dire il Riario.

“Sei sicuro?” indagò la Tigre, capendo benissimo che il figlio aveva colto la reale sfumatura della sua proposta: “Non ci sarebbe nulla di male... Hai quasi diciassette anni, lo capirei se volessi... Ti darei io i soldi, non sarebbe un problema. Te ne darei abbastanza per scegliere un postribolo come si deve, non uno di quelli che...”

“Ho detto no.” la frenò di colpo Galeazzo, color fuoco: “Non... Non me la sento.”

“Va bene.” questa volta la milanese fu certa che insistere non sarebbe stato giusto: “Non sarò certo io a forzarti. Volevo solo essere sicura che rifiutassi a ragion veduta e non per altri motivi.”

Il ragazzo annuì e poi riuscì a snocciolare un piccolo: “Grazie.”

Sicura di aver fatto quello che era meglio fare, e desiderosa di rispettare la volontà del figlio, Caterina ricominciò a camminare, diretta ai suoi alloggi per scrivere a Scipione. Gli annunciò l'intenzione di Bernardino di raggiungerlo per qualche giorno e non perse tempo a citare il rifiuto di Galeazzo, convinta che avrebbe solo sollevato domande scomode.

Ripiegò il messaggio e si lasciò un momento andare contro lo schienale della sedia. Il suo quintogenito a volte la lasciava stranita, per la fermezza con cui pareva deciso a controllarsi. Era un ragazzo molto giovane, ma anche molto disciplinato. Benché avesse un'età in cui la maggior parte dei giovani della sua estrazione non disdegnasse la compagnia femminile – anche a costo di pagare per averla – la Sforza si riteneva discretamente tranquilla: non aveva in vista nozze, e nemmeno pretendenti, quindi non c'era fretta di forzarlo in quel senso, se non se la sentiva.

Così come Bianca era stata lasciata libera di scegliere cosa fare e aveva voluto fare ciò che aveva fatto, così Galeazzo doveva avere la libertà di prendersi il tempo che riteneva necessario. In fondo, si disse la Tigre, con un lieve sorriso, era il suo miglior traguardo, come madre, quello di dare ai propri figli un tipo di libertà che lei non aveva potuto conoscere...

 

Giovanni Maria da Varano guardava in silenzio il corpo di Premuccio che, ormai per metà decomposto e mangiato dagli uccelli, ondeggiava al vento freddo di quel novembre davanti ai suoi occhi.

Quando, con l'aiuto di Oliverotto, il ventunenne figlio di Giulio Cesare da Varano era riuscito a riprendersi Camerino, aveva voluto per prima cosa dare una punizione esemplare a chi si era macchiato più degli altri del tradimento nei confronti della sua famiglia.

E così, da quasi un mese, il cadavere di Premuccio, colui che aveva osato umiliare il suo vecchio signore costringendolo a baciare le porte della città in segno di sottomissione e di addio, era stato esposto al pubblico ludibrio, nonché era stato indicato come monito per chiunque avesse in mente di rimettersi al servizio del Borja.

Stringendosi un po' nelle spalle, Giovanni Maria distolse infine lo sguardo e fece un cenno alla sua scorta personale di seguirlo. Stava attraversando Camerino senza una vera destinazione. Voleva solo liberare la mente e, nel frattempo, controllare che tutto fosse sotto controllo. In più voleva anche pensare a come muoversi in quel momento concitato. Aveva creduto che i condottieri ribelli avrebbero retto, creando una rete mortale attorno al Valentino e, invece, si trovava di nuovo da solo, circondato da signorotti ostili... Perfino Guidobaldo da Montefeltro, che pur gli restava amico grazie al legame – che mai era stato così esile come in quelle settimane – che i Varano mantenevano coi fratelli Della Rovere, essendo Maria Giovanna moglie di Venanzio, in quel momento aveva bisogno di pensare per sé prima che per chiunque altro, diventando un alleato meno utile di quanto non fosse stato fino a quel momento.

Mentre aggirava un blocco di sterco di cavallo piazzato in mezzo alla via, Giovanni Maria pensò con una strana rabbia a sua madre, che era ancora a Venezia assieme a sua cognata, la Della Rovere, e ai loro beni mobili più preziosi, perlopiù gioielli. Non era adirato con lei, ma con sé stesso. Con che faccia, pensava, si sarebbe ripresentato a lei, se non fosse riuscito non solo a tenere Camerino, ma anche a salvare suo fratello Venanzio, e perfino i suoi fratellastri Pirro e Annibale, ancora prigionieri dei Borja e in costante pericolo di vita?

A volte avrebbe voluto essere più simile a sua sorellastra Camilla Battista, la suora in aria di santità che, malgrado tutte le belle parole che sapeva inanellare, quando le aveva fatto comodo aveva lasciato indietro tutti loro per mettersi in salvo. Ogni sua scelta e ogni suo comportamento venivano sempre schermati e scusati con la sua aura di superiorità, come se tutte le sue decisioni fossero dettate direttamente da Dio e mai e poi mai dal suo umano egoismo.

“Mio signore – gli disse uno degli uomini della scorta, strappandolo ai suoi pensieri – forse dovremmo rientrare a palazzo...”

Giovanni Maria aggrottò la fronte e poi, guardandosi attorno, si rese conto che iniziava già a far buio. Non si era accorto di aver camminato tanto a lungo. Tutt'attorno le vie cominciavano a punteggiarsi di luci alle finestre e la fauna notturna, simile a quella di qualunque altra città, riemergeva dai fumi del giorno per appropriarsi delle ore che li dividevano da una nuova alba.

“Rientriamo.” accettò il Varano, che, tutto sommato, era il primo a non sentirsi a sicuro per le strade di Camerino in piena notte.

Tornato al palazzo in cui si era stanziato, trovò ad attenderlo ben due missive. Mentre si toglieva la cotta di maglia che portava sempre sotto agli abiti per sicurezza, lesse la prima. Si trattava di un messaggio molto breve di un suo luogotenente che lo informava della situazione grossomodo tranquilla delle campagne circostanti.

La seconda, invece, era una lettera cifrata di Guidobaldo da Montefeltro. Per concentrarsi meglio, il Varano prima si spogliò del tutto, indossando gli abiti da camera e poi, ben posizionato sotto a un paio di candele, si adoperò a decifrarne il contenuto.

In realtà non c'era molto che gli interessasse, in quelle poche righe, salvo un avvertimento riguardante la posizione ambigua di Vitellozzo Vitelli che, a detta del Montefeltro, stava abbandonando molto in fretta le sue convinzioni rivoltose. Anche se tutti erano convinti che avesse accettato il patto col Valentino di malavoglia, de facto stava riducendo il sostegno a Guidobaldo e, si diceva, stava radunando soldati per marciare proprio sulle città delle Marche, Camerino compresa.

Il Montefeltro chiudeva augurandosi che il suo figlioccio, Francesco Maria Della Rovere – fratello di Maria Giovanna Della Rovere, cognata di Giovanni Maria da Varano – riuscisse a convincere lo zio Giuliano Della Rovere, presso cui era rifugiato in Asti, a investire nelle loro causa e marciare al loro fianco contro i Borja.

Spoetizzato, il Varano lanciò di lato la missiva e borbottò tra sé, con uno sbuffo: “Aspetta e spera, povero illuso... Il tuo Francesco Maria ha dodici anni appena, e quel dannato Cardinale ha dodici stomaci da sfamare, altroché fare una guerra per noi... Aspetterà di vederci a pezzi e poi...” l'uomo afferrò una delle mele che teneva sullo scrittoio e l'addentò, continuando a parlare mentre masticava: “Uno a uno ci sbranerà tutti... E gli sembreremo anche buoni... Cibi condimentum esse famen!” concluse, ricordandosi quel vecchio adagio di Cicerone, studiato da ragazzino, che ricordava a tutti come la fame fosse il miglior condimento del cibo.

   
 
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