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Autore: MollyTheMole    27/09/2022    0 recensioni
Una serata storta, una nottata ancora più storta, una giornata che non promette per niente bene e che può soltanto finire peggio.
O forse no.
A volte, il tempo ha il potere di mettere una persona di fronte alla realtà dei fatti, quella vera, ben diversa dalla versione che ciascuno ricostruisce nella propria testa. A volte, il tempo è galantuomo.
A volte, può bastare giusto il tempo di un minuetto per rimettere a posto le cose.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jodie Starling, Shuichi Akai
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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MINUETTO

 

Poggiò la testa sullo schienale dell’auto.

Quando era stanca, Jodie diventava irritabile, quasi irascibile. Per questo motivo stava fissando lo schermo del cellulare con profondo sdegno, come se avesse commesso un pericoloso crimine contro di lei vibrando e facendo un fracasso infernale.

Riconobbe il numero sullo schermo e dovette ammettere che doveva rispondere. 

- Sì?-

Ebbe la terribile sensazione che, quel pomeriggio, non sarebbe andata dove avrebbe voluto.

- Avete preso appuntamento per fare il punto?-

Gingillò un poco con il portachiavi, mentre posava la testa sullo schienale dell’auto.

No, non l’ho chiamato perché non sono in vena.

Sbuffò, chiudendo gli occhi.

- No, non ancora. Non ho molto tempo libero, James, pensavo di sfruttare questa mezza giornata per me stessa.-

Per una volta nella mia misera vita, mi piacerebbe andare a farmi le unghie.

Aveva la sensazione che gli ingranaggi nella testa di James stessero rapidamente traendo la propria conclusione, ma Jodie non aveva la minima voglia di dargli spiegazioni.

Anche perché, benché la conclusione a cui erano arrivate le acute celluline grigie di James fosse sicuramente corretta… 

Beh, quella non era tutta la storia.

E lei non aveva voglia di raccontare il resto.

 

Per farla breve, la sera precedente era uscita a bere qualcosa con la sua amica Natsuko, cercando di recuperare un po’ di quel famoso tempo libero che il suo lavoro le sottraeva costantemente. 

Adorava essere un’agente dell’FBI. Le dava la sensazione di essere importante per qualcosa. Per il proprio paese, ad esempio. Per la giustizia e, perché no, anche per se stessa e la memoria della sua famiglia. 

Il suo lavoro, però, aveva un grandissimo problema.

Ferie e tempo libero non esistevano. O meglio, c’erano, ma solo sulla carta.

Soprattutto se sei un’infiltrata irregolare in Giappone e dai la caccia ad un’organizzazione criminale tra le più pericolose al mondo.

Quando capitava l’occasione, Jodie scappava via. A teatro, al cinema, a scarpinare in montagna o al museo, dovunque fuorché al lavoro, per mettere il cervello - e anche il cuore - a riposo.

Questo lavoro è stressante, e ciò che vediamo ci dà gli incubi tutte le notti. 

Così, quando Natsuko le aveva proposto una serata tra amiche, Jodie aveva accettato di buon grado. Non aveva detto nulla a nessuno, sparendo dai radar per evitare domande o anche solo che i colleghi pensassero

Siccome ha tempo libero, non ha nulla da fare e può lavorare.

Davanti ad un bicchiere di qualcosa di molto alcolico, aveva scoperto che Natsuko si era presa una cotta per un tipo, un avvocato di grido che lavorava per una grossa società di consulenza di Beika e che aveva sede vicino allo studio della signora Kisaki. 

Jodie aveva evitato di farle presente che il tizio in questione non la considerava nemmeno per sbaglio, ma la sua amica c’era arrivata da sola dopo un paio di bicchieri, e la serata si era conclusa con lei che reggeva il moccolo ad una Natsuko piangente che si domandava perché il mondo fosse così crudele e ce l’avesse con lei.

Il peggio, però, era venuto dopo.

 

Si passò una mano sugli occhi.

- Senti, James, sono impegnata in questo momento. Non è che puoi chiamarlo tu?-

Udì il suo capo passarsi una mano nei capelli ormai bianchi.

Ricordava distintamente quando quei capelli erano stati di un bel castano chiaro, del color del miele, e ricordava di averli visti sbiancare lentamente, fino a che l’uomo che considerava il suo secondo padre era diventato bianco quasi senza che lei se ne accorgesse.

Con i capelli bianchi, purtroppo, era venuta anche una profonda conoscenza della sua figlioccia.

- Jodie, quanti anni hai?-

- James…-

- E allora comportati da adulta. Perché non vuoi parlarci? E’ il tuo partner, un tuo collega. Si fida di te.- 

Sì, ma tu non sai che ho passato una serata a consolare un’amica con problemi di cuore rivelandole quanto, in verità, il mio cuore sia più spezzato del suo.

Ah, e ho passato la notte in preda agli incubi.

No, non ci voglio parlare. Non oggi.

 

La conversazione, infatti, aveva preso una piega estremamente scivolosa, e Jodie non era suo malgrado riuscita ad uscirne. 

Non appena Natsuko aveva superato la crisi di pianto, infatti, aveva cominciato a porle tantissime domande sulla sua vita privata.

Quella che aveva sempre cercato di tenere top secret

- Vorrei tanto essere come te. Bionda, con gli occhi azzurri, così simile a quell’attrice americana, come si chiama? Ah, sì, Jodie Foster! Sono sicura che hai uno stuolo di uomini ai tuoi piedi!-

- Dai, non ne parli mai, ma sono certa che hai un fidanzato. Dimmi qualcosa!-

- E’ bello? Che lavoro fa? Ed è ricco?-

Jodie aveva provato disperatamente a svicolare. Le aveva parlato del dottor Araide, di cui si era finta la fidanzata per qualche tempo, ma Natsuko non aveva voluto saperne di ascoltare vecchie storie d’amore. Lei voleva i dettagli, quelli attuali, e la verità era che la sua vita amorosa faceva letteralmente schifo.

Da lì a rivelarlo alla sua amica, però, ce ne correva.

Dopo la terribile serata passata con Natsuko, Jodie se ne era tornata a casa con una gran voglia di piangere.

La sua amica le aveva fatto capire quanto poco ci fosse di vero in tutte le bugie che si era raccontata fino a quel momento. 

Akemi era stata tutto ciò che Jodie non sarebbe mai potuta essere. 

Akemi era perfetta. Akemi era sensibile. Akemi era fragile, una creatura da salvare e proteggere. Akemi era tosta. Akemi era sfortunata. Akemi era protettiva. 

Akemi era un angelo.

E lei?

Jodie non era perfetta. Le piaceva la musica rock. Aveva le ciabatte di Paperino. Non aveva la pelle di porcellana. Non restava sempre composta quando lavorava. 

Jodie era sensibile, ed anche fragile, peccato che nessuno sembrasse accorgersene. Forse, lei stessa era la prima a non permettersi di esserlo. Era stata abituata fin da piccola a togliersi le castagne dal fuoco da sola.

Jodie sapeva proteggersi e teneva a che tutti sapessero che era indipendente, non una damigella in pericolo da salvare. 

Diamine, anche lei era tosta. E sfortunata. Aveva perso tutto da bambina. Ancora aveva gli incubi. 

Lei e Akemi non sarebbero potute essere più diverse l’una dall’altra, e allo stesso tempo più simili.

E, nella scelta tra le due, quella sacrificata era stata lei, sicura di sé e indipendente.

Se solo Shuichi sapesse la verità.

Se solo avesse saputo che si era messa in discussione per mesi, dandosi la colpa, domandandosi che cosa ci fosse stato di tanto sbagliato in lei per allontanarlo.

 

Sapeva di non poter rimandare oltre. 

James era stato chiaro, tanti anni prima. Quando lei e Shuichi si erano allontanati e il giovane agente era partito per il Giappone, l’uomo le era rimasto accanto per serate intere, a guardarla inzuppare fazzoletti e comportarsi esattamente come Natsuko si era comportata con lei. Le aveva proposto - con un tatto troppo immenso per poter essere ricambiato con un semplice grazie - di lasciare perdere, di assegnarla ad un’altra squadra, di cambiare partner. 

- Se non ce la fai, non è un problema. Si capisce.-

Era stata lei a dirgli di no, a chiedergli di lasciarla dov’era. Posso farcela, gli aveva detto. Si era ripetuta quella frase per anni. Poteva farcela. Il suo scopo era quello di imprigionare gli assassini di suo padre, non avrebbe permesso a nessuno - specie ad un uomo - di distoglierla dal suo obiettivo. 

Ergo, poteva sopportare di guardarlo andare e venire dal Giappone, sempre più ombroso e sempre più stanco. Poteva anche sopportare il pensiero che, per consolarsi, per togliersi di dosso quel peso che lo rendeva oscuro e stanco, non si sarebbe rifugiato tra le sue braccia - come al solito - ma tra quelle di quell’altra.

Aveva passato mesi nell’incapacità più totale di pronunciare il suo nome. Per tantissimo tempo era stata cosa, lì, la sorella della scienziata. Poi, pian piano, ci aveva fatto l’abitudine. Gli anni erano passati. Shuichi andava e veniva dal Giappone, cioè da lei, e Jodie era riuscita a farsene una ragione. 

Ne era sempre stata convinta. Lui aveva la sua vita, lei la sua. Aveva ricominciato ad uscire. Aveva frequentato altri uomini. Insomma, aveva fatto finta che tutto fosse assolutamente normale. Talmente tanto che persino lei stessa ci aveva creduto.

Ci erano cascati tutti, tranne James.

Spesso lo aveva colto a guardarla in tralice, a studiare i suoi comportamenti in presenza di Shuichi. Jodie aveva provato a fare finta di nulla. Si era comportata come sempre, come se non le importasse più nulla di lui.

Poi, Shu era morto.

Cioè, era morto, ma non era morto, però lei lo aveva creduto morto…

Insomma, ci siamo capiti. 

E Jodie era caduta nel torpore più assoluto, nell’apatia. C’erano stati momenti in cui sembrava che non le importasse più niente. In altri frangenti, invece, era stata così nervosa ed arrabbiata da perdere la pazienza coi colleghi e compiere azioni avventate senza motivo.

Anche questa è una bugia che vuoi raccontarti.

- James, non è nulla di personale, davvero. E’ soltanto una giornata storta e non ho voglia di parlare con nessuno. Onestamente, nemmeno con te, ma faccio sempre un’eccezione per il mio vecchio.- 

Lo sentì borbottare qualcosa sul fatto che no, non era poi così vecchio, ed abbozzò un sorriso.

Per fortuna certe cose non cambiano mai.

- Allora fai un altro favore a questo povero vecchio?-

- Tutto quello che vuoi.-

- Chiama Shuichi.-

E chiuse la telefonata.

 

Jodie aprì gli occhi, fissando il parabrezza della macchina su cui il cielo di Beika stava riversando litri e litri di pioggia.

Che barba.

Decise che non poteva opporsi alla volontà di James e compose il numero sulla tastiera del telefono.

Rimase a fissare i numeri sullo schermo.

Li cancellò.

Scorse la rubrica, alla ricerca del numero giusto. Shuichi le aveva dato entrambi i numeri di telefono, sia quello di lavoro - che avevano anche James e Camel - sia il suo, quello personale.

La scelta di tenere un telefono personale l’aveva stupita. Beninteso, la decisione di per sé era abbastanza normale. C’erano milioni di persone nel mondo che facevano la stessa identica scelta. Eppure, le sembrava strano, proprio perché a farlo era lui, che viveva per il lavoro, che non aveva nessuno. Almeno non a quanto ne sapeva lei.

Chi accidenti chiama con questo numero?

Kir, forse. 

Ma anche quello, tutto sommato, era lavoro.

E poi?

Ticchettò sulla tastiera.

 

Ciao. Caffè?

 

Il telefono vibrò mentre Jodie inoltrava il messaggio.

Quando era morto - beh, più o meno - si era sentita un vero e proprio schifo. Oltre a stare male - perché no, non lo ho dimenticato e via di questo passo - il senso di colpa l’aveva perseguitata per mesi.

Avrebbe dovuto capire che qualcosa stava andando storto.

Avrebbe dovuto proteggerlo.

Diamine, si era lamentata per mesi del fatto che andava a farsi proteggere da un’altra!

Forse, se lo aveva fatto c’era stato un motivo.

Avrebbe potuto fare qualcosa, qualsiasi cosa per salvargli la vita, e invece era rimasta con le mani in mano, inconsapevole, ingenua.

Stupida.

Non gli aveva detto che lo amava ancora. Era morto da solo, senza sapere che c’era qualcuno che gli voleva bene. 

E Natsuko - che, in quel momento, avrebbe insultato volentieri - ci aveva tenuto a farle ricordare tutto ciò. 

La conclusione ovvia della serata era stata che aveva passato le prime ore della nottata a fissare il soffitto. 

Poi, si era fatta una camomilla, aveva letto qualche pagina di un libro ed era riuscita a dormire un paio di ore. 

Si era svegliata di nuovo, fermamente convinta di dover rispondere al telefono perché Shuichi la stava chiamando.

Ovviamente, non era vero.

Ci aveva messo un po’ ad addormentarsi, e quando ci era riuscita si era rotolata nelle coperte per quanto era rimasto della notte, fino all’alba, immersa in un terribile sogno in cui si trovava in piedi, di fronte ad una bara coperta con la bandiera a stelle e strisce, ad ascoltare i commenti maligni di un collega. 

E’ la seconda volta che lo lascia scoperto. La prima volta, è andata bene, la seconda… 

Non avrebbe mai dovuto mescolare la vita privata con il lavoro.

Fidarsi di lei è stato il suo unico errore. Lui, che non sbagliava mai. 

Si era svegliata madida di sudore in un bozzolo di coperte, alle prime luci dell’alba.

Il rumore della pioggia echeggiava nell’abitacolo della macchina, mentre Jodie si passava le dita sugli occhi stanchi, massaggiando le palpebre e pregando dentro di sé che Shuichi non le rispondesse.

Ed invece il cellulare squillò.

Jodie armeggiò con il codice pin.

 

Tra mezz’ora da me?

 

Cavolo.

Inserì le chiavi nel quadro e mise in moto.

 

Quando bussò alla sua porta, era zuppa fin nel midollo.

Nell’aria c’era un buon profumo di caffè caldo, l’inconfondibile odore della miscela arabica dei Kudo che era in breve diventata la varietà di caffè preferita di Shuichi.

Il suono del campanello della porta echeggiò tra le pareti di casa, mentre Jodie finiva di inzupparsi del tutto.

Poi, udì distintamente la voce di Subaru Okiya dall’altra parte della soglia.

- Chi è?-

- Sono Jodie. Apri, mi sto inzuppando!-

- Mi dispiace, io non la conosco.-

- Ti prego, sono fradicia. Hai ancora le mie ciabatte di Paperino?-

Non potè fare a meno di pensare che Shu era sempre un passo avanti agli altri. 

Quello era uno stratagemma banale, che avevano inventato tanti anni prima, quando ancora erano una coppia. Per evitare di incappare in errori madornali e far entrare Vermouth invece di Jodie, Shuichi si era inventato qualche piccola parola chiave da utilizzare nelle loro conversazioni sulla soglia.

In quell’occasione, era stato molto chiaro.

- E’ solo un eccesso di zelo. Ti riconoscerei lontano un miglio.-

Quando udì la serratura scattare, una parte di lei gioì all’idea che si ricordasse ancora delle sue terribili ciabatte di Paperino, defunte da diverso tempo e rinchiuse nella scarpiera del suo appartamento a New York.

Finse di non capire le implicazioni di ciò.

Scorse il flash bianco della sua camicia da dietro la porta e scivolò dentro Villa Kudo con piacere, gocciolando acqua da tutte le parti.

- Non avevi un ombrello con te?- 

- Se lo avessi avuto, secondo te mi sarei inzuppata così?-

Si strizzò i capelli ed incrociò i suoi occhi verdi straniti, perplessi per la sua risposta piccata ad una banalissima domanda. Jodie si sentì in colpa, ma era stanca e non aveva la minima voglia di vederlo.

Per favore, chiudiamo presto questa faccenda. Anche se non andrò a farmi le unghie.

- Accomodati.-

Jodie si tolse le scarpe e anche i calzini inzuppati d’acqua. Attraversò il disbrigo di Villa Kudo camminando sulle punte, mentre Shuichi l’accompagnava in salotto e la invitava a sistemarsi da qualche parte.

- Aspetta qui, torno tra un attimo.-

Mentre l’uomo spariva in corridoio, Jodie rimase a fissare, come ipnotizzata, la pioggia scrosciante che cadeva fuori dalla finestra. Le grosse gocce si infrangevano impietose sulle foglie e sui fiori di un vaso di gerani giapponesi rossi. 

Era una bella casa, Villa Kudo. In molti avrebbero voluto vivere in un posto come quello. Era chiaro che il signor Yusaku aveva fatto un sacco di soldi che amava spendere in cose belle. 

Forse, la signora Yukiko, oltre al trucco e al parrucco, aveva anche la passione per il giardinaggio.

Inspirò il buon profumo di arabica ed individuò una leggera melodia che proveniva da qualche parte in un angolo della sala. 

Musica classica.

Sicuramente è un’idea di Shu.

Era cambiato molto da quando lo aveva incontrato la prima volta. Era sempre stato introverso, uno che parlava poco e agiva molto. All’epoca, però, riusciva a comunicare meglio. Faceva una risata e una battuta di spirito ogni tanto. Aveva sempre dispensato con il contagocce i gesti d’affetto nei suoi confronti, ma non aveva mai mancato di farle sapere che le voleva bene, che l’avrebbe protetta, messa sopra ogni cosa, anche se stesso.  

Poi, era partito per il Giappone, e le cose erano cambiate. 

Aveva cominciato a dormire male la notte, a presentarsi al lavoro stanco ed irritabile. Si era chiuso sempre più in se stesso. Comunicava molto meno, anche coi colleghi. Anche con lei. 

Poi era morta Akemi, e Shuichi aveva smesso di parlare. Di ridere. Di fare qualsiasi cosa che non fosse restare seduto in silenzio a pensare. Gli abiti scuri che lo avevano sempre contraddistinto erano diventati onnipresenti, come se portasse un lutto perpetuo. 

In un certo senso, fingersi Subaru Okiya gli aveva fatto bene. Era stato costretto a vestirsi con abiti diversi e colori stravaganti. Immaginò che, in questo, avesse avuto parte anche la signora Kudo. Le era sembrata una donna sorridente e stravagante, una che non sarebbe mai stata d’accordo a farlo andare in giro vestito come un becchino.

Sua la maschera, sue le regole.

Il fatto che l’avesse accolta senza maschera e con indosso una camicia bianca forse era un piccolo progresso. La presenza di Yukiko e Yusaku - sempre forse - l’avevano convinto ad aprirsi un po’ di più.

Persa nei suoi pensieri, non si accorse che Shuichi era tornato in salotto. 

- Questi sono per te.- le disse, facendola sobbalzare. - Ti accompagno in bagno. Puoi asciugarti i capelli e cambiarti.-

 

Rimase ad osservarlo mentre armeggiava con le tazze. 

Si era accovacciata sul divano, le gambe strette al petto per scaldarsi i piedi avvolti in un paio di calzini puliti, ma troppo grandi per lei. Indossava una delle sue tute da ginnastica, ma aveva dovuto fare i risvolti ai pantaloni e rimboccare le maniche della felpa per evitare di sembrare uno spaventapasseri.

A vederlo, Shuichi non sembrava poi così grosso. Era alto, sì, ma ciò che tradiva l’osservatore era la massa corporea, il quantitativo di muscoli sottili, ma abbondanti, nascosto sotto il suo solito strato di vestiti da becchino. 

Jodie pensò che con la camicia bianca si vedessero di più.

Preferì concentrarsi sulla tazza di caffè che le stava porgendo.

- Grazie.-

Sorseggiò la bevanda calda.

Latte, caffè, un cucchiaino di miele e una spolverata di cacao sulla schiuma. 

Insomma, proprio come piaceva a lei.

Desiderò di andarsene via, il prima possibile.

- Quindi, per quale motivo James ha insistito così tanto? Che cosa dovevi dirmi?-

Shuichi posò la tazza di caffè sul tavolino da salotto ed estrasse il cellulare.

Quello del lavoro.

- Mi ha scritto Kir.-

Jodie appuntò mentalmente che, quindi, Kir scriveva sul telefono ufficiale.

Forse, Shu tiene il telefono personale per qualcun altro. Magari una donna.

Sentì una fitta di rabbia salirle dentro. 

Diede la colpa alla stanchezza e passò oltre.

- Pare che Rum si stia muovendo. Non sa ancora esattamente per quale motivo e che cosa abbia in mente, però lo ha visto salire su una grossa auto chiara, diretto verso il centro di Beika.-

Jodie deglutì con attenzione il caffè per evitare di strozzarsi.

- Queste sì che sono notizie.-

- Ha confermato uno dei suoi tanti alias: uomo, piuttosto in avanti con l’età, abbastanza robusto.-

La musica in sottofondo cambiò, ma il genere rimase lo stesso.

Una parte del cervello di Jodie si chiese che cosa fosse.

- Insomma, non siamo andati molto lontano. Aver confermato un alias non significa che corrisponda alla sua vera identità.-

- No. Ed è qui che ho fatto il colpo gobbo.-

E ti pareva.

Alzò un sopracciglio e si accomodò meglio sul divano, accavallando le gambe in una chiara aria di scherno, mentre l’uomo sfoderava un furbo sorriso sbilenco, con una fossetta all’angolo della bocca.

Se non te la tiri almeno una volta al giorno, non sei contento.

Shuichi non raccolse la provocazione.

- Ho sguinzagliato Camel per il centro di Beika, circoscrivendo l’area alla zona attorno all’agenzia investigativa di Kogoro Mouri.-

- E perché mai?-

L’uomo alzò un sopracciglio, imitandola.

Jodie rimase ad osservare l’angolo dei suoi occhi a mandorla salire lentamente verso l’alto assieme al sopracciglio e al mezzo sorriso furbetto.

- Istinto.-

Oh, come ti prenderei a schiaffi quando fai così, tronfio e arrogante. 

- In ogni caso, l’abbiamo beccato. Se quella è davvero la sua auto, presto o tardi lo rintracceremo e sapremo dove ha il suo quartier generale. Sospetto che non sia molto lontano da lì, purtroppo. Se ho ragione, questo significa che Rum ha capito qualcosa e lo sta tenendo d’occhio.-

Jodie sospirò, affondando di nuovo il naso nella tazza.

- Cool kid ha il grande dono di attirare disgrazie su di sé.-

- A chi non fa niente, non succede mai niente. Purtroppo il piccoletto è fin troppo intraprendente per la sua età.-

La musica cambiò di nuovo, lasciando spazio ad un delicato ed allegro suono di archi. 

In un altro momento, avrebbe anche apprezzato, ma quel giorno Jodie aveva proprio la luna storta.

Poggiò la tazza mezza vuota sul tavolo.

- C’è altro?-

C’è che sei bravo, maledettamente bravo.

E mi mandi in bestia. 

Shuichi rimase a guardarla, evidentemente senza avere idea di che pesci prendere.

Fece lentamente spallucce, perplesso.

Jodie si alzò.

- Allora, se non ti dispiace, io andrei. Ho delle commissioni da fare.-

Lo osservò mentre restava seduto, a scrutarla dal basso verso l’alto come se non stesse capendo nulla.

- Non preoccuparti per la tuta. Te la restituirò lavata il prima possibile.-

- Jodie…-

- Grazie per le informazioni. Stasera faccio due chiacchiere anche con James e gli riferisco tutto.-

- Jodie…-

- E il caffè era buonissimo! Fai i complimenti ai Kudo per la miscela da parte mia!-

Questa volta Shuichi l’afferrò per il polso.

Jodie respirò ed inspirò nel tentativo di calmarsi. 

- Sì?-

- Non hai finito il caffè.-

Una parte del suo cervello assonnato, confuso ed irritato registrò che quello, forse, era un invito a restare.

Un invito che lei aveva tutta l’intenzione di declinare.

Il suo corpo, però, decise di fare di testa propria e si rimise a sedere sul divano. 

Rimasero per qualche secondo entrambi immersi in un imbarazzante silenzio, mentre sorseggiavano ciascuno la propria bevanda ancora calda.

Il ritornello di archi continuava, con la sua fastidiosa aria allegra. 

- Allora, che mi racconti?-

- Io?-

- Sì. Hai qualcosa da raccontarmi?-

Jodie si guardò le scarpe.

- No.-

- Niente di niente?-

Una parte del suo cervello, quella meno assonnata, confusa e irritabile, registrò che Shuichi stava disperatamente tentando di fare conversazione.

Shuichi e conversazione di solito sono due parole che non vanno nella stessa frase.

Sempre la solita parte del suo cervello, quella funzionante, cominciò a pensare che ci fosse qualcosa di sbagliato, che se proprio lui voleva chiacchierare era perché, forse, ne aveva bisogno, e se lui aveva bisogno di parlare…

Beh, erano guai seri.

Jodie sentì il consueto istinto di salvarlo da qualunque cosa lo stesse tormentando.

Lo sentì, e lo ignorò.

- No. Non sono il genio dell’FBI, io. Non faccio appostamenti azzeccati sulla base del mero istinto. Quindi no, la mia vita non è così interessante.-

Sentì i suoi occhi verdi percorrerla dalla testa ai piedi e nascose il naso nella tazza per non incrociare il suo sguardo.

- Jodie?-

- Mh?-

- Sputa il rospo.-

Va bene, sputo il rospo.

Non ti sopporto.

Non ti sopporto perché mi fai fare sempre quello che vuoi tu. 

Vuoi che venga da te? Arrivo. Vuoi che beva il tuo cappuccino? Lo bevo. Vuoi che resti a fare conversazione? Lo faccio.

Mi hai lasciata, no? Ed io sono sempre qui, cagnolino fedele, a fare quello che vuoi.

E tu lo sai.

Mi cerchi quando vuoi, fai quel che ti pare, cosa pensi non si sa, sono sempre fatti tuoi.

Con me non parli, e io mi sento sola.

E mi odio da morire perché dovrei odiarti e non mi riesce.

- Tu non c’entri. Il problema sono io.-

Questa volta incrociò deliberatamente i suoi occhi verdi e fu costretta a rendersi conto che no, lei le bugie non sapeva dirle.

Almeno, non a lui.

- Non è una balla.- aggiunse, come se dirlo non volesse invece sottolineare il contrario. - Ci sono cose che dovrei lasciarmi alle spalle, ed invece non ci riesco. Mi fa arrabbiare. Tutto qui.-

- E non c’entro io.-

- No.-

Rimase a fissarla, lo sguardo cerchiato dalle occhiaie.

Poi, vuotò la sua tazza di caffè e la posò sul tavolo.

- Non dirlo a me.- fece, addirizzandosi sulla poltrona. - Sono il campione delle questioni in sospeso.-

E la fissò di nuovo.

Se c’era una cosa che Jodie aveva capito in tanti anni di frequentazione, era che Shuichi non faceva mai nulla per nulla, che parlare gli riusciva male, ma che sapeva far capire con tutto il resto del suo essere quello che sentiva. 

Ed ebbe la netta sensazione che stesse cercando di farle capire qualcosa.

Era certa che Shu avesse capito. Certissima, anzi, che avesse intuito che si tormentava ancora per cose accadute ormai molti anni prima. 

Questo che cosa voleva dire, dunque? Che capiva? 

E lei? Aveva capito che lui aveva capito?

E lui che cosa aveva capito?

Hai sonno. Si vede da come ragioni.

- Ti senti in colpa?-

La domanda a bruciapelo la colse con la guardia un po’ troppo bassa.

- Sì. Cioè, no. Anche. Più che altro, sono confusa.-

Shuichi sorrise e guardò il soffitto.

- Sono un campione anche in questo. Il genio dei sensi di colpa.- 

- E come lo gestisci?-

- Se mi riesce, risolvo la situazione. Mi faccio perdonare, quando non è troppo tardi.- 

Un flash di tristezza attraversò le sue iridi verdi.

- Quando le persone che ho ferito non mi odiano troppo. In tal caso, devo prendere atto che me lo merito, e provare ad andare avanti con il senso di colpa di avere fatto la scelta sbagliata.-

E con poche, semplici parole, la colpì e la affondò.

Si rese conto, per la seconda volta in meno di ventiquattro ore, che si era raccontata una lunga sequela di bugie.

Il suo scopo era stato per tanti anni quello di vendicare la sua famiglia, mettere in carcere gli assassini di suo padre. Da tempo, però, non era più il suo unico scopo. 

Il suo lavoro l’aveva messa fin troppe volte di fronte alla morte e alla perdita.

Jodie, invece, amava la vita, e voleva averne una. La desiderava tanto quanto la giustizia per sé e per suo padre. 

E la voleva condividere con Shuichi.

Non era vero, dunque, che se ne era fatta una ragione, di essere l’eterna seconda, dietro Akemi, dietro alla vendetta per quel padre che anche lui aveva perso.

Poteva accettare che Shuichi avesse delle priorità, ma non che lei non fosse nessuna di esse. 

Le sue storie con altri uomini erano tutte andate a rotoli non perché quelli fossero trogloditi retrogradi. 

Semplicemente, gli altri non erano lui.

Non era vero che aveva accettato l’idea che Shuichi si consolasse con un’altra donna. Aveva segretamente voluto essere al suo posto ogni singola volta in cui aveva intuito la sua silenziosa presenza nel cuore del giovane agente e no, non aveva mai pronunciato il suo nome non perché non lo ricordasse, ma perché lo aveva detestato profondamente, nonostante Jodie avesse la consapevolezza che Akemi non aveva nessuna colpa.

E non era vero che, dopo la finta dipartita di Shuichi, era stata avventata senza volerlo. C’erano stati momenti in cui aveva desiderato talmente tanto essere accanto a lui da accettare qualsiasi rischio.

Anche la morte.

E no, non le stava per niente bene guardarlo tormentarsi, sapere che non dormiva la notte, e lei non c’era.

E no, non le stava bene nemmeno che fosse proprio lei a non dormire la notte e a dover fare i conti con il tormento da sola.

- E che cosa hai intenzione di fare, dunque?-

- In che senso?-

- Come lo affronti?-

Lo guardò sospirare, le spalle che scendevano impercettibilmente verso il basso sotto il peso dei ricordi.

- Questa è una bella domanda.-

Jodie, ormai, era ben sveglia e lucida, e decise di dargli l’imbeccata.

- Sai, a volte la soluzione è più semplice di quanto pensi. Basterebbe parlare. Il linguaggio è una grandissima invenzione dell’evoluzione umana.-

- Un qualcosa in cui io, purtroppo, faccio discretamente schifo. Hai ragione, però. Sono sicuro che, se raccontassi davvero tutto, molte persone cambierebbero idea su di me. Sulla mia storia. Sulle scelte che ho fatto.-

- E allora perché non lo fai?-

Shuichi giocò un poco con i bottoni della camicia.

E’ a disagio.

- Perché ho paura.-

Quindi non solo lei e Shuichi stavano parlando, ma stavano discutendo dei sentimenti

Wow. Da qualche parte qualcuno deve aver separato le acque del Mar Rosso, o moltiplicato i pani e i pesci.

- Di che cosa?-

- Che non basti a cambiare le cose.-

- A chi non fa niente, non succede mai niente, disse il saggio. Fossi in te, io ci proverei.-

E decise di imbeccarlo di nuovo.

- Potresti scoprire che le cose non sono così drammatiche come sembrano.-

Ecco, brava. Complimenti. Ti sei appena condannata a morte da sola.

Shuichi, però, si mise a ridere.

- Non so nemmeno da dove cominciare.-

- Comincia con un bel mi dispiace. Vedrai che il resto verrà da sé.-

Il ritornello musicale in sottofondo cambiò. Gli archi continuavano a suonare, ma una melodia diversa.

- Che cos’è?-

- Un minuetto. Luigi Boccherini.-

Jodie rimase ad ascoltare gli archi che ripetevano il ritornello.

Con la differenza che, adesso, l’allegria dei motivi musicali non la infastidiva più.

- Non ne so molto.-

- Era un compositore italiano, tra i più prolifici esistiti. Per lo più componeva musica da camera. Questo è un genere che ha origine nella Francia di Luigi XIV. Il minuetto era la danza di corte.-

Rimasero ancora una volta in silenzio, Jodie che rigirava la tazza vuota tra le mani e Shuichi e giocava ancora con i bottoni della camicia bianca.

Tutt’un tratto, l’uomo si alzò in piedi.

Jodie lo guardò avvicinarsi a lei e tenderle la mano.

- Che cosa…-

- Vuoi ballare?-

Aprì la bocca e la richiuse, come un pesce fuor d’acqua.

Io?

Io che ascolto l’heavy metal?

- Posso dire di no?-

Shu le sorrise.

- Volendo, puoi dirlo.-

Compreso che non aveva nessun diritto di replica, Jodie afferrò la sua mano e si alzò in piedi.

- Ti avviso, sono una gru nel canneto.-

- Nel minuetto non devi fare nulla di speciale. Un passo a destra, così. Poi a sinistra, brava. Uno avanti, ed uno indietro. Un quarto di giro. No, nell’altro senso. Brava. Visto?-

Ripeterono la sequenza, questa volta senza intoppi.

Grazie, Natsuko. Se non avessi bevuto troppo insieme a te e se i tuoi discorsi non mi avessero fatto chiudere occhio, non avrei mai fatto una stupidaggine simile.

- Dove accidenti hai imparato a ballare il minuetto?- gli chiese, mentre dondolavano a destra, poi a sinistra, avanti e indietro, e un quarto di giro, tenendosi sempre strette le mani.

E questa volta vide sul volto di Shu il suo sorriso, quello che aveva perso tanto tempo prima, bianco e luminoso, ed ebbe la sensazione che, per la prima volta dopo tanti brutti eventi, stesse provando un barlume di speranza.

La stessa speranza che, immaginò, fosse evidente anche sul suo viso.

- Chissà, magari un giorno sarà una storia che racconterò. Una delle tante, per farmi perdonare.-

 

NOTE DELL’AUTORE: Molly is back in questo fandom dopo la bellezza di… Quanti mesi?

Mi dispiace per l’assenza, ma senza ispirazione non vado fiera dei miei lavori, e dunque non li pubblico.

Non sono stata certa di questa storia fino all’ultimo. Un po’ troppo intimista, forse. Poi, alla fine, ho preso coraggio.

Sperando che vi sia piaciuta, aspetto un vostro riscontro.

 

Vostra,

 

Molly. 

 

 

 

 

 

  
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