Storie originali > Generale
Segui la storia  |       
Autore: ChiiCat92    05/10/2022    0 recensioni
Quest'anno ho deciso di raccogliere le storie del Witober in un unico posto. Saranno per lo più storie originali, i generi saranno i più svariati, qui un piccolo elenco: fantasy, scifi, horror, slice of life, pranormale, porno, fluff, smut, yaoi, shonen-ai, yuri.
Partecipo con le liste di FanWriter.it!
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
#backrooms #backroomvibes #horror #weird #sliceoflife #paranormal 
------------------------------------------------

Non c’è nessuno. I corridoi deserti risuonano dei miei passi, del mio respiro, degli occasionali fischi del vento che trapassa infissi traballanti. 

Non c’è nessuno. Né dentro né fuori (se mai ci fosse un mondo là fuori). 

Non c’è nessuno a parte me. 

La stanza è confortevole, lo è stata fin dal primo momento quando, due, tre, quattro, mille anni fa, mi hanno ricoverato per un piccolo intervento di routine. Niente che, una roba che avrei dovuto risolvere in una giornata, un salto nell’incoscienza di un’oretta al massimo, e poi il ritorno ad una vita normale, godendomi lo strascico di morfina. 

È così che doveva andare. 

Il chirurgo mi era sembrato rassicurante e gentile, le infermiere attente, e in generale la cosa facile. Quindi, a parte il doveroso panico pre anestesia e pre oddio-mi-taglieranno-ovunque, non credevo veramente nella possibilità di morire. 

Per questo, essersi svegliata nella mia stanza ma al contempo in un’oltre-stanza, mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca, un po’ di delusione nei confronti della Giustizia.

Dopo averci pensato a lungo, sì, devo essere morta per forza, e questo deve essere il mio inferno personale. 

Questo non-luogo è regolato da meccanismi semplici: una perenne penombra, come poco prima dell’alba o del tramonto, la totale assenza di creature viventi (a parte me, semmai io possa essere definita “vivente”), porte e finestre verso l’esterno sigillate per impedirmi di lasciare l’edificio, acqua, cibo e beni di prima necessità in abbondanza (anche se mi chiedo che senso abbia se tanto sono morta) che si ripristinano ogni ventiquattro ore circa (secondo la mia percezione). 

Dove mi trovo? Quando mi trovo? Perché? 

Onestamente non lo so, quel che so è che sono ancora in ospedale, che se guardo fuori ritrovo punti di riferimento familiari (strade, cartelli, palazzi, la fermata dell’autobus), e che sono bloccata qui, senza poter scappare. 

Ci ho provato, intendiamoci, nei primi giorni pieni di terrore in cui ho dovuto scendere a patti con la realtà intorno a me. Le finestre sembrano avere vetri blindati, che non si spaccano neanche se presi a martellate e tutte le porte, tranne quelle che danno sull’esterno che non si aprono affatto, una volta attraversate mi portano da tutt’altra parte rispetto al luogo che mi aspetterei. 

Hop un attimo prima sono al primo piano hop apro la porta del reparto e mi ritrovo in accettazione. 

È come un labirinto semovente o un cubo di Rubik in continuo movimento. 

Quando penso di aver memorizzato gli spostamenti delle stanze, ecco che una porta si apre su di una rampa di scale mai vista. 

Se prima mi facevo ingannare e riempire di speranza, adesso accolgo la novità come un fastidio. Un’altra svolta a vuoto e un altro lunghissimo giro per riuscire ad andare dove voglio andare. Ci sono alcune porte che rispettano la segnaletica, come quella per la caffetteria e per il piano dove si trova la mia stanza, immagino che sia per permettermi di avere sempre cibo e riposo in abbondanza mentre impazzisco in questo posto.

Il resto si sottomette alle leggi del Caos. 

Non saprei dire con esattezza da quanto tempo sono prigioniera, né effettivamente se io possa considerarmi una prigioniera. 

Il tempo è relativo negli attimi che precedono l’alba e il crepuscolo, e lascio che siano i bisogni del mio corpo a tenerne traccia. Così, ho segnato sulla parete trenta linee, corrispondenti ad ogni volta che mi sono addormentata, immaginando che fosse per la stanchezza dovuta alla notte. 

Trenta è un numero approssimativo. Trenta giorni, trenta notti, trent’anni? 

Beh, trenta in ogni caso. 

Come al solito, anche stamattina appena sveglia ho controllato che il mio corpo funzionasse ancora. Gambe, braccia, la voce. Certe cose possono smettere di funzionare se non le si usa per troppo tempo.

Non sembra che io sia stata operata, sono in perfetta salute e non ho cicatrici o segni di alcun tipo addosso. 

Adesso, verso la caffetteria per la colazione. 

A rendere tutto più frustrante sono i rumori della cucina, lo sfrigolio delle piastre, il ribollire delle pentole. 

È come se al mio ingresso i cuochi sparissero lasciando stoviglie e suppellettili lì dove le stavano usando. 

Il cibo è sempre caldo, morbido, fresco di giornata, a prescindere dalla pietanza scelta. 

Chi lo cucina e perché? 

La scelta ricade anche stamattina su croissant e cappuccino. È divertente perché ho sempre pensato che in ospedale si mangiasse uno schifo invece ci sono le migliori brioche che abbia mai mangiato. Ce ne sono di tutti i gusti, ripiene di marmellate e creme di ogni tipo.

Prendo il vassoio, dò un’occhiata alle teglie piene di leccornie, poi metto nel piatto il solito croissant integrale ripieno di marmellata di mirtilli. 

Alla macchinetta delle bevande rivolgo le mie prime, e probabilmente ultime, parole della giornata, e con essere le mie briciole di sanità mentale. 

« Un cappuccino, per favore. » dico, prima di premere il pulsante. Così sembra che la macchina abbia risposto al mio ordine, proprio come farebbe un cameriere.

Mi siedo a fare colazione, come ogni mattina-giorno-pomeriggio-sera. 

« Buon appetito. » la mia voce risuona nel vuoto e torna indietro con una debole eco. Avevo proprio voglia di parlare oggi.  

Eccoci qui, un altro giorno nella follia. 

Che cosa potrei fare per passare il tempo? 

Potrei provare a trovare un modo per arrivare nel reparto chirurgia o terapia intensiva, quelle due porte continuano a darmi fastidio. Sono sicura che ci sia da qualche parte quella giusta per arrivarci. 

Oppure potrei inghiottire un intero flacone di pillole e mettere fino a questo strazio. 

Non è orribile il desiderio di sopravvivenza che pur tendendosi allo stremo non cede mai, costringendomi a rimanere in vita, giorno dopo giorno, ad ignorare i bisturi, le droghe e tutte le potenziali cause di morte? 

Per ogni pensiero, un contro-pensiero. 

E se sbagliassi il dosaggio e rimanessi cosciente in uno stato di pseudo morte? Escluse le pillole. 

E se tagliassi male le vene dei polsi e rimanessi ad agonizzare per delle ore? Niente bisturi. 

E se tentando di impiccarmi con le lenzuola della mia stanza il nodo si sciogliesse e cadessi al piano di sotto rimanendo parallizzata con tutte le ossa rotte? 

La verità, che mi riesce così bene di ignorare, è che non voglio morire. Spero ancora che questo lunghissimo incubo finisca così come è cominciato. 

Mangio piano, un boccone alla volta, perché non ho fretta di andare a lavoro o di prendere il treno o di mancare ad un appuntamento. 

Posso prendermela comoda, è una cosa positiva, no? 

Fuori il cielo è un po’ nuvoloso. Cosa darei per sentire il vento sulla pelle. La temperatura in ospedale è sempre piacevole, ma è artificiale, così come la luce. 

Il reparto chirurgia, comunque, sembra un’ottima idea, mi darà da fare per qualche ora, almeno finché non mi verrà di nuovo fame. 

Scandire il tempo con i bisogni dello stomaco è nuovo per me, a volte mi sento un neonato, ma credo che l’uomo lo facesse e l’abbia fatto per secoli prima di inventare l’orologio.

Butto giù l’ultimo sorso di latte e poi lo sento. 

All'inizio è talmente lontano e vago da sembrare lo sgocciolio di un rubinetto che perde, ma più si avvicina più è chiaro che si tratta di passi, scarpe sul linoleum come colpi di fucile. 

I passi, di solito, appartengono alle persone. Di solito. 

Scatto in piedi, lo stomaco pieno si rivolta, un’ondata di nausea mi riempie la gola ma la inghiotto in fretta. 

Qui c’è qualcuno, ma ho la netta, precisa, dolorosa certezza che sia venuto per uccidermi. 

Perché? Perché ho paura, perché mi tremano le gambe, perché scappo attraverso la caffetteria come un fulmine? 

Perché quei passi si fanno più frettolosi, cominciando a corrermi dietro? 

No, non deve raggiungermi, non deve trovarmi. 

Imbocco il corridoio che porta alla farmacia, giù per due rampe di scale.

Ti prego, non cambiare adesso! 

Spalanco la porta e mi trovo dove mi aspetto di essere, il sollievo sale alla testa con un piacevole formicolio. 

I passi sono sopra la mia testa, in cima alle scale. 

Mi chiudo la porta alle spalle e corro appoggiando a malapena la punta dei piedi per terra. A tradirmi potrebbe essere il cuore, con il suo palpitare convulso. 

La porta sulle scale si apre quando ho appena voltato l’angolo. 

Cerco freneticamente un posto dove nascondermi e mi infilo nella prima camera che trovo aperta, e poi nel bagno.

Non può trovarmi, non può trovarmi, non può trovarmi.

 Mi rannicchio dietro il lavandino, sul pavimento che mi sembra caldissimo, soprattutto vicino al sifone. 

Ti prego, ti prego. 

I passi si affrettano lungo il corridoio, superano la camera, si disperdono nel nulla. 

È andato, sono salva. 

Mi rimetto in piedi, piano esco dal bagno, ancora più piano mi affaccio in corridoio, pianissimo ritorno sui miei passi verso le scale per tornare in caffetteria. Più che pianissimo abbasso la maniglia e apro la porta. 

Respiro.

Sono salv…

 
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: ChiiCat92