Anime & Manga > Saint Seiya
Segui la storia  |       
Autore: MaikoxMilo    09/10/2022    4 recensioni
Sulla scia del racconto de "Il Piccolo Principe", la storia dell'evolversi del difficoltoso rapporto tra Camus e Hyoga, maestro e allievo, padre e figlio, tra inciampi vari, incomprensioni, modi di essere così apparentemente distanti eppure così simili. Perché proprio come l'aviatore, anche Camus impara a ritrovare sè stesso solo grazie al bimbetto dai capelli color del grano che, un giorno di febbraio lontano, in Siberia, entra nella sua vita, per lasciarci il segno.
DAL CAPITOLO SECONDO:
“Devi guardare dritto davanti a te, sempre! - rimarcai, rialzandomi in piedi, prendendolo però per mano per aiutarlo a muoversi in mezzo a tutta quella neve – Non dietro, non di fianco, dritto!”
Hyoga sembrò rimuginare su quella frase durante tutto il corso del nostro viaggio per tornare all’isba, il luogo che gli avrebbe fatto da casa da quel momento in avanti… speravo… se il suo fisico avesse retto a tali climi.
“Dritto davanti a sé, però… non si può andare poi così lontano!” mi fece notare al termine della sua riflessione, un poco meno timidamente di prima, guardandomi con quegli occhioni e stringendo la presa sulle mie dita.
Imparai a mie spese che 'dritto davanti a sé' era davvero sin troppo limitato!
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aquarius Camus, Cygnus Hyoga, Kraken Isaac, Nuovo Personaggio
Note: AU, Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Passato... Presente... Futuro!'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

9

 

 

Anadyr, con le sue case multi-colorate e quadrangolari che ricordano più o meno fedelmente dei lego, è situata nell’estremo oriente russo ed è uno dei porti più importanti della Cukotka.

Prende il nome dall’omonimo fiume che sfocia nel mare di Bering, costituendone una rotta indispensabile per i commerci del Mare del Nord, disponendo altresì di una stazione meteorologica e, non lontano, di una miniera per l’estrazione di piccole quantità di lignite utilizzate dai locali.

Proprio in virtù della sua posizione favorevole e del suo binomio di cittadina/porto, alla fine di ogni estate vi si celebrava una sorta di grande fiera, dove persone provenienti da ogni luogo, persino dall’Alaska data la vicinanza con l’altro continente, si radunavano per comprare e scambiare merci, in una settimana di feste, danze e specialità gastronomiche volte a salutare la bella, seppur breve, stagione e prepararsi così ad accogliere il sopraggiungere dell’inverno.

Recarmi lì ogni anno a settembre, era una consuetudine che avevo già con il maestro Fyodor e che avevo mantenuto, tramandandola, anche ad Isaac. Quell’anno poi, che Hyoga era arrivato a riempire e riscaldare le nostre vite, ci tenevo particolarmente a portare i due pargoli a vedere la cittadina. Per un motivo specifico.

Il viaggio in slitta da Pevek a ad Anadyr contava diversi giorni. Pur con la possibilità di fermarsi in tappe intermedie per rifocillarsi e rifocillare soprattutto i cani, si trattava di un percorso parecchio estenuante per chi non fosse avvezzato a quel clima.

Ci eravamo organizzati con due slitte, una, quella di Isaac, era capitanata da Sasha, l’altra, quella che gestivo io e che portava anche Hyoga, da Nikita. Era la prima volta che affidavo una tale responsabilità al mio soldo di cacio, reputandolo sufficientemente forte ed esperto per riuscire a controllare gli Husky malgrado la giovane età. Ancora una volta non mi deluse, dimostrandosi ben più che degno delle mie speranze nel saper tenere perfettamente la linea retta e guidare i cani nelle zone più pericolose.

Arrivammo alle idi di settembre, a metà settimana, di mercoledì, lo ricordo ancora, nel bel mezzo dell’evento. Subito ci recammo alla locanda detta del Cacciatore per lasciare riposare la muta di Husky.

Al nostro arrivo, diedi ordine ai cani di rallentare la loro corsa fino a fermarsi completamente. Calcai un poco il terreno con il piede destro prima di balzare giù dalla slitta e aiutare così a scendere il piccolo Hyoga, il quale sembrava ancora abbagliato dallo spettacolo della Polvere di Diamanti che ci era danzata intorno per tutta la durata del tragitto. Un luccichio accattivante quanto mortale.

Dovevo, prima di tutto, accordarmi con il locandiere: ci saremmo fermati per tre notti massimo, poi saremmo ripartiti all’alba del quarto giorno onde evitare le tempeste di neve improvvise che, proprio a partire dalla terza decade del mese, colpivano soventemente quei luoghi. Isaac, subito dietro di me, fermò la slitta un poco più bruscamente, balzando giù del tutto euforico per poi piombare ad abbracciare Sasha che, con la lingua a penzoloni per lo sforzo, si mise a leccargli festosa il volto.

“Sei stata bravissima… siete stati tutti, bravissimi!!!” si congratulò lui, tutto scalpitante, correndo da una parte all’altra ad abbracciare tutti i cani che lo avevano accompagnato.

Sorrisi tra me e me nel vederlo così felice, prima di andare a parlare con il locandiere. A differenza del compagno, Hyoga rimaneva vicino a me, la manina sollevata a tenere e stringere maldestramente tra le sue dita l’orlo del mantello che avevo indossato per il viaggio. Era attentissimo a seguire il dialogo tra me e il taverniere, come a volerne carpire ogni singola sfumatura, ma il suo sguardo, a metà strada tra l’ammirazione sfrenata e la gelosia accesa, era tutto per il coetaneo e amico.

Dopo aver stretto i necessari accordi, tornai a recuperare Isaac, ancora preda dell’iperattività, del tutto affaccendato a balzare da una parte all’altra della taverna come un caprioletto nell’erba.

“Vieni, Isaac, i cani hanno bisogno di riposo dopo il lungo viaggio, cammineremo con le nostre gambe fino a stasera, quindi conserva una parte delle energie, o crollerai addormentato come l’anno scorso!”

Lui ovviamente notò il mio avvicinamento e, sempre correndo, si buttò a capofitto verso di noi, non smettendo neanche per un secondo di saltellare e muovere le braccia in lungo e in largo.

“Maestro! Maestro Maestro! E’ stato un viaggio spaziale, megagalittico, sembrava a volte di volare, così avvolti dalla nebbiolina, altre di navigare, e poi e poi… il suono della slitta sul permafrost, lo zampettare dei cani, noi… c’eravamo solo noi in mezzo alla tundra, è stato bellissimo!!!”

“Certo, Isaac, ma ora...”

Non mi lasciò finire la frase, quando era così elettrizzato era impossibile fermarlo.

“E poi Sasha… Sasha è stata WOW, sa dove andare, vi guardava sempre, sapete? Siete il suo punto di riferimento!!! E poi ancora l’alba dietro alle montagne innevate, sembrava che il cielo si accendesse, i capelli di Hyoga parevano quasi assorbire tali raggi e… e...”

“Isaac… - sorrisi nel vedermelo così entusiasta di tutto, sempre e comunque – Va bene, lo so; so che ti è piaciuto e che vorresti rifarlo presto, ma ora non esaurire tutte le tue energie giornaliere con la tua parlantina. Come ti dicevo, abbiamo ancora tanto da fare!” mi raccomandai, pigiando un poco sulla sua testa per dargli una calmata.

Lui si fermò, aveva il fiato corto da quanto si muovesse, mi sorrise raggiante, prima di proseguire comunque: “Voi siete stato fenomenale, Maestro! Io so tenere i cani, ma senza la vostra presenza durante la bufera di vento, quando le dune della Polvere di Diamanti sembravano alzarsi, riducendo al minimo la visibilità, non avrei saputo dove andare. Ma c’eravate voi, avete indicato la via a me e a Sasha e… e SIAMO ARRIVATI!”

“Con il tempo e l’esperienza saprai orientarti anche tu da solo, soldo di cacio, in qualunque circostanza ti troverai, in qualunque condizione. Devi solo… pazientare!”

“Sì, Maestro!” i suoi occhi si illuminarono ulteriormente, mentre lentamente tornava alla calma.

Più o meno nello stesso momento, mi sentii tirare un poco il mantello tabarro che indossavo per proteggermi dalla pioggia e dalla neve. Era Hyoga che, guardandomi corrucciato per non dire un poco imbronciato, si era abbassato il cappuccio per riuscire a tenere meglio il suo solito zainetto giallo che si portava sempre dietro. Aveva gonfiato un poco le guance, dando così l’idea di essere un criceto con la bocca piena di semini.

“A-anche io?” mi chiese, velatamente speranzoso, indicandomi con gli occhi Isaac che stava spazzando via dal mantello dei piccoli cristallini di ghiaccio che si erano formati sul tessuto.

“Cosa, Hyoga?” chiesi, non capendo bene a cosa alludesse.

“Saprò farlo anche io? Portare gli Husky, a-avere il controllo della… slitta?”

Capii che gli doveva aver pesato vedere Isaac, un suo coetaneo persino più piccolo di lui di alcune settimane, riuscire in una impresa che prima aveva visto compiere solo a me senza avere avuto l’occasione di provarci a sua volta.

Ma Hyoga non aveva l’esperienza giusta per farlo, non in quel momento, ed era quella la ragione che mi aveva spinto a non lasciargli fare nemmeno un tentativo. Isaac invece era con me da più tempo, mi aveva visto guidare la muta più volte, aveva appreso le mie movenze, i miei riflessi, era quindi arrivato a quella data pronto, per questo mi ero arrischiato a consegnargli il comando della seconda muta. E non mi aveva deluso!

“Certo, Hyoga, con il tempo...”

“Qua-quanto tempo?” insistette lui, quasi febbricitante, torturandosi il labbro inferiore nella paura di sentire che non ci sarebbe mai riuscito. Ma sapevo bene che si sarebbe rivelato degno anche lui, solo... non in quel momento. Era ancora troppo prematuro!

“Il prossimo anno… il prossimo anno ti prometto che sarai in grado di farlo anche tu.” provai a tranquillizzarlo, sfiorandogli i ciuffi del colore del grano.

“Da-davvero?!”

“Sì, ne sono convinto, ma per questa volta eri ancora troppo inesperto, non so se mi riesci ad intendere. Isaac ha impiegato più di un anno per saperlo fare!”

Hyoga annuì, sembrava che la spiegazione lo avesse convinto, e tacque, aspettando che il compagno ultimasse i preparativi per poi dirigerci in città.

Li presi entrambi per mano, uno da una parte e l’altro dall’altra, per poi recarci in centro. La fiera era occasione propizia per fare scorte e rifornimenti in preparazione del lungo inverno che, presto, sarebbe giunto a lambire l’intero territorio, rendendolo più sterile e accidentato di quanto già non fosse. Per Isaac sarebbe stato il secondo, per Hyoga solo il primo. Era necessario quindi comprare dei vestiti più coprenti per entrambi, oltre che innumerevoli altre cose che mi ero già appuntato mentalmente, quali spezie, medicinali e stoffe che sarebbero serviti per affrontare adeguatamente i rigori climatici con due bambini ancora piccoli e inesperti.

Le strade di Anadyr in quel periodo dell’anno si affollavano delle più svariate etnie, rendendo affollate le strade. Il fiume omonimo, tra le principali reti di comunicazione con il porto, era solo parzialmente ghiacciato, e le vie, pur indurite dal gelo, ancora percorribili. Proprio per quella ragione, a settembre, il numero delle persone che alloggiava nelle varie osterie, taverne e simili, triplicava di fatto il numero dei residenti effettivi, con ovvio incremento del traffico e dei pericoli. A maggior ragione io, che dovevo badare a due bimbi, uno dei quali -Isaac!- tendenzialmente iperattivo, dovevo avere un occhio di riguardo in più. Per entrambi.

Fortunatamente l’arrivo di Hyoga, il suo temperamento schivo e riservato, aveva funzionato da calmante anche per lui, che quindi, invece di correre in lungo e in largo come l’anno prima e farmi tribolare nell’ansia di vedermelo investito da qualche camion -cosa che peraltro era quasi successa!- rimaneva docile al mio fianco, tenendomi la mano sinistra e limitandosi a guardarsi curiosamente intorno con gli occhi estremamente percettivi e atti ad assorbire il più possibile dall’ambiente circostante. Come era sua natura essere.

Anche Hyoga lo era, curioso, percettivo e osservatore, ma in maniera diversa. Rispetto al compagno, infatti, per sua natura rimaneva sempre un passo indietro, mantenendo le distanze al punto tale da rendersi invisibile ai più. Questa sua attitudine gli permetteva di studiare e calmierare ogni cosa, portandolo a mantenere una visione generale dell’insieme senza farsi coinvolgere, come invece capitava spesso ad Isaac.

Nella loro diversità, l’ho già detto, ero molto fiero di loro, ed era proprio quella ragione ad avermi spinto a farmi accompagnare da loro in un luogo così lontano da casa. I tessuti, gli alimenti, le spezie e le medicine, nei miei intenti, passavano in second’ordine.

Se ne accorse quasi subito Isaac quando, rendendosi conto di star percorrendo una stradina laterale mai fatta prima, strinse le sue dita nella mia mano, tirandola poi a sé.

“Maestro Camus, dove stiamo andando? - mi chiese, studiando capillarmente la zona in ogni singolo anfratto – Non siamo passati qui l’anno scorso.”

“Corretto, Isaac.” dissi solo, un leggero sorriso tra le labbra.

“Non è la solita via piena di negozi, è diversa!” osservò ancora, in un fremito di eccitazione, lasciandosi condurre fiduciosamente.

“Corretto anche questo, Isaac.” annuii ancora, mantenendo volutamente il mistero.

“E dove stiamo andando? - gli occhi del piccolo si illuminarono – E’ un posto nuovo? E’ una prova nuova?”

“Lo vedrai appena ci arriveremo.”

Non era da me non dare spiegazioni, ma sapevo bene dove mi stavo dirigendo, ed era necessario mantenere il riserbo fino al momento giusto.

Finalmente arrivammo nel luogo che stavo cercando, una specie di casermone con una larga porta, simile ad un garage. Vi entrai con loro, sempre più incuriositi dall’intera faccenda.

Isaac aveva sulla punta della lingua un’altra domanda, l’ennesima, ma la sua esposizione venne interrotta dal guaire stridulo e diffuso di alcune cucciolate di cani presenti dentro a dei grossi recinti ben distanziati gli uni dagli altri.

Lasciai loro le mani nello stesso momento in cui le bocche dei due piccoli si aprirono simultaneamente in una ‘o’ che, pur rimanendo muta, racchiudeva tutto lo stupore di quel momento. Sorrisi soddisfatto tra me e me, salutando al contempo il proprietario che, riconoscendomi, si era nel frattempo avvicinato a noi.

Erano quattro cucciolate di Husky in tutto, ognuna delle quali composta da 5 o 6 unità. I cagnetti erano ancora troppo piccoli per essere separati dalla madre, ma abbastanza grandi per avere già un temperamento sufficientemente delineato per stabilire il carattere che avrebbero assunto da grandi. Un po’ come i miei Hyoga e Isaac.

Ed ecco la ragione principale per essermi avventurato lontano da casa con i miei lupetti.

“Maestro, non… non capisco!” mi disse Isaac in tono di chi, pur avendo compreso tutto, per scaramanzia o paura, manteneva le riserve nel timore di rimanerne deluso.

“Io invece penso che tu abbia capito bene, soldo di cacio.” gli dissi, ammiccando appena, mentre il proprietario, dopo gli iniziali convenevoli, si girava a sua volta nella direzione dei due bambini.

“Ma… - il visetto di Isaac si spostava incredulo da noi a quel muoversi frenetico di cuccioli presente nei recinti – Da-davvero?”

“Non sei stato forse tu a chiedermi, giusto l’anno scorso, che volevi anche tu un Husky tutto tuo?” gli chiesi retoricamente, sostenendo il suo sguardo.

“S-sì ma...” Isaac era come commosso, tremava dall’emozione, stentando ancora a credere a quanto andavo dicendo. Hyoga invece era semplicemente pietrificato. Mi dava la schiena, osservando con insistenza i cani in una postura che mi faceva presagire il suo controllarsi strenuamente per sopperire alla voglia di correre verso loro e accarezzarli tutti.

“Non lo vuoi più?”

“N-no, è che… - Isaac si grattò la testa, prima di alzare il capo e sorridermi raggiante – Non pensavo che davvero l’avreste fatto!”

“Potete sceglierne uno a testa. - gli illustrai, sempre con quel lieve sorriso sulle labbra – Quando saranno svezzati li porterò all’isba, li introdurremo al branco e, cosa non meno importante, sarete voi a crescerli!”

Isaac si era fatto serio, aveva assunto un’espressione determinata, annuendo con la testa come a dire che era pronto e preparato anche a quel compito gravoso, cioè il prendersi cura di un altro essere vivente.

“M-ma… anche io ne posso scegliere uno?” chiese Hyoga, sorpreso, girandosi verso di me come per saggiare, dalla mia espressione, se le mie parole fossero vere o si trattasse di una nuova prova.

“Certo, Hyoga, perché tu non dovresti?” gli chiesi con naturalezza, prima di assistere al loro guardarsi l’un l’altro, come a sincerarsi che entrambi avessero udito bene, per poi abbracciarsi di slancio.

“Hai sentito?! Avremo un cane nostro, Isaac!”

“Due! Ci pensi???”

“Saranno fratelli anche loro!”

“O sorelle!”

“Sììììì!”

“Ma sarà il mio ad essere il maggiore, contrariamente a noi!”

“No! Io sono più grande, per cui...”

“Frena! Frena! Frena! Io sono però più esperto, per cui…”

“Sai che importa, questo! Sarà il mio a...”

“Coff, coff, c’è un tuttavia...”

Mi schiarii la voce nel placare l’abbozzo di baruffa che stava prendendo piede tra loro; subito i due bambini si raddrizzarono nel farsi attenti. Avevano percepito il mio tono e, non di meno, il mio sguardo farsi un poco più affilato. Mi inginocchiai davanti a loro, chiedendogli tacitamente di avvicinarsi a me.

“Sapete cosa significa addomesticare?”

Entrambi negarono con la testa, seri e percettivi come ogni volta che spiegavo loro qualcosa; seri e percettivi come mi dimostravano costantemente di essere.

“E’ un qualcosa di molto antico e, talvolta, ormai dimenticato. Significa creare un legame...”

“Un legame?” chiese conferma Hyoga, scrutandomi a fondo.

“Un legame, sì… tra uomo e cane, fin dalla notte dei tempi, quando il primo lupo, cercando cibo, si è avvicinato all’accampamento dei primi esseri umani e questi ultimi hanno capito che ne poteva nascere un rapporto basato sulla mutua fiducia e simbiosi.”

“Addomesticare si dice solo tra uomo e cane? Non va bene tra persone?” chiese a sua volta Isaac, cercando di capire il mio ragionamento.

“Mmm, no, tra persone non lo definirei propriamente così. La domesticazione è un concetto ampio, ma non può racchiudere i rapporti umani”

“Però… - rimuginò ancora Isaac, pensieroso, una mano sotto il mento – Non mi sembra così diverso da...”

Decisi di lasciar cadere il discorso che si stava disperdendo, tornando a forza al nocciolo della questione.

“Ciò che deve risultarvi importante e imprescindibile, è che addomesticare, per voi, deve equivalere a responsabilizzarvi… - presi una breve pausa, chiudendo appena gli occhi, prima di riaprirli – Si diventa responsabili per sempre di ciò che si ha addomesticato!”

“Si diventa responsabili per sempre… di ciò che si ha addomesticato!” ripeterono entrambi, guardandosi l’un l’altro, un poco timorosi, come a chiedersi se davvero si sarebbero dimostrati degni, perché quella, ai loro occhi ma anche ai miei, risultava come un’altra prova, forse perfino più importante delle precedenti.

“Vi sentite all’altezza?” gli domandai ancora, cercando nel loro sguardo limpido la determinazione di accettare un simile fardello.

“Sì!” mi risposero, dopo un breve, infinitesimale, attimo di esitazione.

Annuii orgoglioso, cercando di imprimere in loro la consapevolezza di quanto mi rendessero fieri giorno dopo giorno. Posai le mani sulla testa di entrambi.

“Se è così, andate a scegliere la vostra responsabilità!”

Quasi saltarono sul posto, prima di correre via per due direzioni opposte, sprizzanti di gioia. Li osservai a lungo muoversi in lungo e in largo tra i recinti, prima di spostare la mia attenzione verso il proprietario.

“Grazie per questa opportunità!” gli dissi, cordiale, pur mantenendo la solita distanza con cui ero abituato a trattare chiunque.

“Grazie a voi, Maestro dei Ghiacci. Sono più che sicuro che i cani scelti si troveranno davvero bene con voi. I vostri allievi sembrano svegli e determinati al punto giusto.”

“Lo sono. - confermai, fiero, prima di passare ad altro – Tra quanto saranno disponibili i piccoli?”

“Un mese massimo e saranno svezzati.”

“Capisco. Tra un mese li verrò a prendere io stesso.” annuii, tornando a concentrarmi sui miei ragazzi.

Hyoga, inaspettatamente, stava già tornando da me con una pallina paffuta tra le braccia. Corse frenetico fino a raggiungermi, gli occhi limpidi e liquidi, come se trattenesse una forte emozione.

“Maestro! Maestro! Questo! Questo!!! - mi mostrò brevemente il cagnolino tenuto tra le mani, prima di riportarselo al petto e cullarlo – Si è avvicinato subito a me e mi ha leccato!” mi spiegò, mentre il cucciolo, come a dimostrare la veridicità delle sue parole, gli diede una leccata sotto il mento, facendolo ridacchiare come mai lo avevo sentito fino a quel momento.

Era raro vedere un Hyoga così decisionista andare dritto per la sua strada senza la minima esitazione. Osservai attentamente l’animale che, proprio in quel momento, aveva preso a guaire per la felicità. Aveva il pelo molto chiaro, argentato quasi, con una macchia grigia che partiva dalle due orecchie ancora accartocciate su sé stesse e scendeva sul muso per fermarsi solo poco prima del tartufo. Anche gli occhi erano molto chiari, quasi trasparenti, del tutto simili a quelli di Hyoga, del colore cristallino dei laghi glaciali.

“E’ una femmina. Ha un temperamento giocoso e solidale. - ci delucidò il proprietario, guardandoci, prima di ridacchiare – Sembra essere stato amore a prima vista, tra voi!”

“E’ la tua scelta, Hyoga?” gli domandai, guardandolo con solennità.

“Sì, la vorrei… LA VORREI, per favore! So anche già il nome!”

“E come la vorresti chiamare?” chiesi ancora, genuinamente interessato.

“Zaira!” andò a botta sicura il piccolo, gli occhioni sempre luminosi.

Zaira… con il significato di ‘fiore che sboccia’ in qualche lingua che ora non ricordo. Nome inusuale per un Husky, discendente diretto del lupo, corridore instancabile della steppa, ma lo trovai comunque gradevole e, non meno, degno della sensibilità del mio allievo.

“E’ davvero un bel nome, Hyoga...” gli sorrisi, carezzandogli appena i ciuffi biondi, lui si illuminò ulteriormente a quel contatto, prima di stringere la cagnolina a sé come se fosse il regalo più prezioso che potesse ricevere.

La prima cucciola era stata scelta. Spostai quindi l’attenzione da lui ad Isaac che, inaspettatamente non meno di Hyoga, vista la sua indole, era ancora affaccendato nella ricerca del cane giusto. Entrambi avevano avuto reazioni opposte capaci di stupirmi. Sembrava proprio che, per quella particolare occasione, si fossero invertiti i soliti ruoli.

Hyoga si era dimostrato deciso.

Isaac invece esitava.

Decisi di aspettarlo per un altro paio di minuti, quando, ad un certo punto, lo vidi sbucare da dietro un recinto, facendo cenno con le braccia di raggiungerlo. Raccomandandomi quindi a Hyoga di rimanere fermo senza strozzare la cucciola, giacché con lei si dimostrava espansivo, stringendola forte a sé, al suo giovane cuore, per poi strofinarsi estasiato sul suo musino, decisi di raggiungere l’altro mio allievo inspiegabilmente tentennante. Il proprietario mi seguì a breve distanza.

“Lui chi è?” ci chiese Isaac una volta avvicinati sufficientemente, indicando una pallina di pelo color caramello raggomitolata contro il muro.

“E’ una lei, ma… non è in vendita.” spiegò il proprietario, diventano improvvisamente serio.

La osservai, capendo immediatamente la motivazione di quella scelta. Non Isaac.

“E perché?” chiese infatti, deluso, guardandolo nella speranza che potesse cambiare idea.

“Non credo la vorrebbe nessuno, bimbo, come vedi non ha più l’occhio sinistro...”

“E come mai?” mi intromisi anch’io, osservandolo con attenzione prima lui e poi la cagnolina, che dal nostro arrivo stava ancora di più rannicchiata contro il muro, la coda tra le gambe, gli occhioni spaventati.

“Una grave cataratta giovanile, non abbiamo potuto far altro che toglierle l’occhio e ne è rimasta terrorizzata.” ci venne semplicemente spiegato, quasi con noncuranza.

Isaac sembrava dispiaciuto. La fissava insistentemente porgendole la mano in attesa paziente che fosse la cucciola ad avvicinarsi a lui, con scarsi esiti, perché la piccola era veramente terrorizzata. Eppure lui attendeva. Attendeva. Trepidante. Senza farle alcuna fretta.

“Non pensi di riuscire a venderla a qualche famiglia?” mi interessai, ricercando il suo sguardo.

“Onestamente non credo. Ha una brutta cicatrice, come potete vedere, ed è rimasta traumatizzata dall’esperienza. E’ molto difficile da gestire...”

“Neanche a darla in adozione?” tentai, tornando ad osservare il mio soldo di cacio del tutto preso a instaurare un primo approccio con l’esserino terrorizzato, cosa che quasi insperatamente avvenne, perché la cucciola, pur con riluttanza, dopo aver fatto un passo traballante nella sua direzione, finalmente lo annusò per poi dargli una breve leccata e ritrarsi tutta tremante.

“Dubito che qualcuno possa volerla, non...”

“La prendo io! - stabilì Isaac, sorprendendo sia me che lui, una luce favillante negli occhi – Viene via con noi.”

“Bimbo, non penso che...”

“Viene con noi! - esclamò ancora più deciso, alzando un poco il tono nel volersi imporsi, quasi zittendo il proprietario – Se nessuno la vuole noi sì, il Maestro Camus prende tutti!” aggiunse, abbassando un poco lo sguardo. Mi accorsi che stava tremando.

“Isaac...”

“E’ così, vero Maestro?”

Mi guardò con quella luce solenne negli occhi, trepidante, implorante, perfino. Era difficile dirgli di no, non avevo neanche una valida ragione per vietarglielo, pertanto mi ritrovai ad acconsentire… ad una condizione, però!

“Te ne prenderai cura?”

“Certo!”

“E’ una bella responsabilità, Isaac, ne sei consapevole?”

“Sì!”

“Non sarà come con gli altri cuccioli, immagino tu te ne renda conto...”

“Sarà più difficile, lo so! - annuì, prima di mettersi una mano sul petto e stringere forte la presa sulla mantello che indossava – Ma è comunque la mia scelta!”

Ne era dunque perfettamente conscio. Annuii, passandogli brevemente la mano tra i ciuffi ribelli.

“Che nome le darai?” gli chiesi, sorridendo tiepidamente.

“Zana.” mi rispose lui senza la minima esitazione, mentre qualcosa gli rendeva lo sguardo più liquido del consueto.

Il suo trauma. Capii, comprendendo altresì le ragioni che lo avevano mosso e che avrei approfondito solo una volta usciti da quel luogo.

“E Zana sia, allora.” dissi, voltandomi poi verso il proprietario per prendere accordi.

“Ne siete sicuri?” ci chiese ancora lui, un poco riluttante.

“Hai udito le parole del mio allievo, no? - sottolineai senza esitazione – Zana verrà via con noi, ha bisogno di crescere in una famiglia e noi… possiamo dargliela!” stabilì senza dare possibilità al proprietario di obiettare, mentre percepivo gli occhietti luminosi di Isaac guardarmi con ammirazione.

 

Presi i necessari accordi, ero quindi uscito con i due piccoli, dedicandomi insieme a loro alle altre compere di cui abbisognavamo per superare indenni l’inverno. Le due cucciole scelte sarebbero rimaste con le rispettive madri per un altro mese circa, poi mi sarei recato io stesso a prenderle per portarle nel luogo che avrebbe fatto loro da casa da quel momento in avanti.

Ero fiducioso, ma il malessere di Isaac, il suo trauma, e le ragioni che lo avevano portato a scegliere proprio Zana non le avevo dimenticate, no, le avevo semplicemente accantonate, finché, quello stesso pomeriggio, sedendomi momentaneamente su una panchina con tutta la roba comprata, non avevo autorizzato i miei allievi a girare liberamente per le vetrine della piazza principale.

Era partito -insolitamente, ancora una volta!- solo Hyoga, curioso e discreto come era nella sua natuta, mentre Isaac distratto, o meglio, assorbito dai traumi della sua mente che conoscevo bene, era rimasto nei dintorni. Fu in quel momento che decisi di intervenire apertamente con lui. Lo chiamai, dicendogli di venirmi vicino, cosa che lui fece subito, sebbene non con la consueta allegria che lo distingueva.

Come dicevo, ero perfettamente consapevole dell’esperienza terribile che aveva vissuto prima che Pavel lo affidasse a me, ma non ne parlavamo mai apertamente, se non in particolari circostanze.

Non serviva, ad Isaac, rivivere quei momenti.

Non serviva, per Isaac, parlarne, se non a farlo stare più male, quando invece devolveva risoluto tutte le sue forze verso il futuro, come era giusto che fosse.

Non serviva. Punto.

E tuttavia il vedere la cucciolotta in quelle condizioni terribili, terrorizzata da tutto, aveva riportato alla sua giovane mente l’immagine di un sé stesso che lui tentava disperatamente di eliminare e che io cercavo in ogni modo di estrarre dalla sua psiche.

Lo guardai dritto negli occhi, mentre, addolcendo il tono, ponevo a lui la fatidica domanda diretta: “Cosa ti ha spinto a scegliere proprio Zana, tra tutti i cani che c’erano?”

Lui tergiversò colto in fallo, visibilmente a disagio, prima di guardare da tutt’altra parte. Non amava mostrarsi vulnerabile, così come era in quel momento, men che meno a me. Ma io sapevo quanto fosse forte, il mio piccolo lupetto, indipendentemente da quello.

“Lo sapete, Maestro Camus...”

“Lo suppongo. - lo corressi, prima di indicargli di sedersi vicino a me, comodo -Ma supporre è diverso da conoscere, Isaac...”

“Io… - ancora esitò, prima che i suoi occhi baluginassero ardentemente. Prese posto al mio fianco – Ho pensato che Zana potesse essere felice con noi, per davvero, e… rinascere. Come… come...”

Non ultimò la frase, ma ciò che voleva esprimere era fin troppo chiaro ai miei occhi.

“...Come te?” finii io per lui, dando nel frattempo un’occhiata di attenzione in più a Hyoga che girava educatamente tra le vetrine senza appoggiarsi o dare fastidio agli altri, sebbene i colori e le forme all’interno di esse lo incuriosissero.

“Come me, sì… - ammise il piccolo, corrugando le sopracciglia nel farsi corrucciato – Vi ho deluso?”

A quel punto mi accigliai, sia per la domanda che per il tono in cui l’aveva espressa.

“No, perché avresti dovuto, Isaac? Anzi, è stato molto coraggioso da parte tua scegliere un cane non facile da gestire, tuttavia, ancora una volta, ti chiedo: ne sei sicuro?”

“Sì, la voglio aiutare! - si raddrizzò lui, tornando determinato – Come voi avete fatto con me!” aggiunse, un poco imbarazzato.

“Non sarà facile, Isaac, tu meglio di chiunque altro sai bene quanto ti… segni… il vivere un’esperienza traumatica. Quanto… ti corroda dentro!”

“Lo so… - annuì lui, portandosi una mano al petto per posarsela lì – Sentivo tanto male qua dentro, quando… quando è successa quella cosa ai miei. Non sanguinavo, ma… era insopportabile!” mi spiegò, un poco impacciato, massaggiandosi il petto.

Io lo guardai con attenzione nel cercare di carpire ogni più piccolo segno di cedimento o di crollo nel suo dialogo, prima che potesse manifestarsi pienamente.

Perché Isaac era un bimbo davvero coraggioso e tenace, ma quello che aveva vissuto nel vedere trucidati i suoi genitori sarebbe stato ingestibile perfino per un adulto, figurarsi per un soldo di cacio di appena 6 anni, l’età che aveva quando successero i fatti.

E invece Isaac parlava, con voce tremante, ma solida; gli occhi ombrati ma allo stesso tempo brillanti di consapevolezza, di chi è stato invischiato dall’abisso ma ne è poi uscito, rimanendo poi sul burrone a scrutare consapevolmente le tenebre. Il mio ometto...

“Anche io, se non mi avesse raccolto nessuno sarei stato come lei, no? - tremò nell’esprimerlo, rifiutandosi di cedere – Però voi mi avete raccolto e curato, a-anche dentro, soprattutto.. qui dentro!”

Mi emozionai al sentirlo pronunciare quella frase, penso che la mia emozione lui la percepì attraverso gli occhi, perché nel guardarmi mi sorrise, arrossendo.

“Tu sei molto forte e coraggioso, Isaac, anche senza di me, in qualche modo, avresti trovato la strada.” gli dissi, increspando appena le labbra in un sorriso.

“I-io non credo, Maestro, voi mi avete dato un rifugio e una famiglia, una… - si guardò un poco intorno imbarazzato, prima di tornare su di me – Una ragione per vivere!”

“Isaac...”

“E, allo stesso modo, anche io vorrei dare questa possibilità a Zana!” ultimò il suo discorso, nuovamente risoluto.

Trascorsero attimi di silenzio. Il piccolo aveva finito di esporsi, il mio cuore batteva più forte, anche se, memore dei miei stessi insegnamenti, non potevo svelarmi a lui. Ad un certo punto presi un profondo respiro, lui si girò verso di me per incontrare il mio dito che picchiettò sulla sua fronte. Gli tracciai un motivetto a onde prima di inframezzarlo con un’unica linea retta. Feci la stessa cosa sul suo petto.

“Ebbene, lo sei anche per me, Isaac...” gli dissi solo, rimanendo a guardarlo.

“COSA? E’ ancora quel simbolo, Maestro, quello dell’altra volta!” lo riconobbe lui, meravigliato, massaggiandosi la fronte con entrambi i palmi delle mani.

“Sì.”

“E cosa… cosa significa?” insistette lui, gli occhi ancor più luminosi.

“Davvero non l’hai ancora capito?”

“No!”

“Lo capirai con la crescita, allora.”

“Sono già cresciuto!”

“Forse non ancora abbastanza...”

Lui gonfiò le gote, arrabbiato e deluso dalla mia affermazione. Voleva di certo altre spiegazioni ma io non gliele potevo dare a parole, non il me di allora, perlomeno. Forse quello di adesso…

“Ma… ce la farò? Lo… capirò prima o poi?”

“Non ho alcun dubbio!” gli sorrisi, dandomi la spinta per rimettermi in piedi.

“Maestro, adesso dove andiamo?” mi chiese lui, vivace, mettendosi davanti a me nel vedere che mi alzavo e mi apprestavo a prendere le varie borse.

“Al momento a recuperare Hyoga che si sta aggirando per le vetrine dei negozi, poi proseguiremo per le vie della città a comprare altre riserve di cibo per questo inverno.”

“Yuppieeee!!! Mi piace girare così!”

Aveva recuperato il solito buonumore, l’ombra se ne era nuovamente andata ed io mi potevo ritenere più che soddisfatto dei suoi continui e costanti passi avanti. Sorrisi, mentre, lasciando che il piccolo mi affiancasse, mi dirigevo verso Hyoga.

Il bambino era fermo a guardare una vetrina, del tutto assorbito da quello che vi era all’interno. Lo chiamai a gran voce ma non ottenni risposta.. Non era da lui. Corrugai un poco la fronte nel cercare di capire cosa avesse. Di nuovo lo chiamai per nome. Niente. Anche Isaac prese a farlo, con lo stesso identico risultato. Il mio allievo sembrava rimasto imbambolato davanti alle vetrine della bigiotteria, ed era strano questo, perché aveva 8 anni come Isaac e mi sarei aspettato una tale fissazione per un negozio di giocattoli, o animali, o qualcosa di simile.

E invece…

Finalmente lo raggiungemmo. Guardai diffidente la vetrina nel tentare di capire cosa lo assorbisse così reconditamente, ma per il mio modo di vedere le cose non c’era niente di interessante, men che meno per un bambino. Solo orpelli, bracciali, collane e anelli fatti dei più svariati materiali preziosi.

“HYOGA!”

Il piccolo finalmente mi udì, prendendosi anche un risalto nel non aspettarmi di averci dietro. Si sfregò velocemente le palpebre prima di girarsi verso di noi.

“Sì, Maestro?”

Mi infastidii un poco nel constatare che, per l’ennesima volta, stava piangendo per un qualche tipo di motivo. Era stato bravo ad asciugarsi e a nascondersi, ma gli occhi azzurri erano ancora profondamente arrossati.

“Che stavi facendo? Ti stiamo chiamando da diverso tempo!” gli feci presente, soprassedendo sulle sue lacrime.

“Io...” esitò, tornando a guardare la vetrina, il nasino quasi appiccicato al vetro.

“Ma che roba è? - chiese ingenuamente Isaac, cercando qualcosa che lo potesse attirare senza trovarlo – Le persone pagano per queste cose?”

“Sì e anche molto. Sono oggetti preziosi.”

“Bah! - commentò lui, incrociando le braccia al petto – Non ha senso.”

Poi si rese conto che, dato l’interesse del compagno di addestramento, qualcosa di interessante doveva pur esserci, per cui, scrollando la testa, si sentì di aggiungere ancora qualcosa.

“Scusami, Hyoga, a te, di questo, piace invece qualcosa?”

Non ottenne nuovamente risposta, gli occhi del piccolo erano concentrati sull’ala laterale della vetrina dove spiccava un ciondolo dorato a forma di croce ortodossa con una pietra preziosa nel mezzo. Ragionai che doveva essere quello ad averlo rapito a tal punto per qualche ragione inspiegabile

“Hyoga...” lo chiamai di nuovo, in tono però più dolce, facendolo sussultare ancora una volta.

“N-no, non c’è nulla che… che mi piaccia.” tornò alla domanda del compagno, sospirando lungamente.

Non seppi bene perché ma quel tono e quel respiro lungo, quasi di apnea e mancanza, non mi piacque per niente. Guardai nuovamente la vetrina, ragionai che dovevo allontanarlo in fretta da lì, perché quel singolo oggetto, fragile come era il mio allievo, me lo avrebbe potuto far perdere per sempre come il relitto in cui riposava sua madre. Poggiai la mano dietro la sua nuca, tra i ciuffi biondi, lui mi guardò con attenzione, accorgendosi della mia tensione. Il mio sguardo tagliente non era rivolto a lui ma per quella croce ortodossa che sembrava volerlo assimilare con quel suo insano luccichio accattivante e superfluo al tempo stesso.

“Vieni, Hyoga, abbiamo ancora molte cose da comprare...”

 

 

* * *

 

 

Quella stessa notte mi svegliai un poco di soprassalto nell’accorgermi che qualcuno si era intrufolato nel mio letto, rumoreggiando nel sonno. Ero sdraiato su un fianco, lentamente mi appoggiai con il gomito sul materasso, discostando poi le coperte e trovandovi Isaac, addormentato vicino a me. Allungai un poco la mano nell’accedere la lampada, stando attento a non disturbarlo. Il piccolo sembrava profondamente addormentato, ma la piega delle sue sopracciglia e la postura nascondeva un malessere estremamente concreto. Si era rannicchiato al mio fianco, prendendomi il lembo della maglietta del pigiama per portarselo al visetto e nascondersi lì, trattenendo il tessuto tra le mani.

Tuttavia, ciò che mi sorprese di più, era che il mio soldo di cacio, sempre forte e combattivo, che cercava di dimostrarsi degno dei miei insegnamenti sempre e comunque, stava invece piangendo, lamentandosi debolmente nel sonno. Le lacrime gli incollavano le ciglia sulle guance mentre, a fatica, chiamava ininterrottamente qualcuno supplicandogli di non andare via.

Il rivedersi in Zana doveva avergli fatto rivivere la morte traumatica dei suoi genitori, e nonostante ai miei occhi volesse comunque dimostrarsi forte e combattivo, non c’era alcuna difesa dagli incubi nel momento in cui la coscienza lasciava posto alle ombre che si allungavano nella sua mente per ghermirlo.

Gli carezzai un poco i capelli irsuti, lui parve acquietarsi, sebbene continuasse a stringere il tessuto della mia maglia tra le sue dita, gli asciugai un poco le lacrime con il pollice, modulando la mia voce per tentare di tranquillizzarlo.

“Ciò che stai vedendo ora dentro di te… è passato! Non può nuocerti più, mio ometto!” gli dissi, rimanendo diverso tempo a vezzeggiargli il viso, cosa che mi riusciva più facile perché stava dormendo.

Strinse ancora una volta le palpebre, si chiuse ancora di più, il respiro ancora un poco frenetico.

“Imparerai a farlo, Isaac, imparerai a controllarlo perché io sarò con te, non permetterò più… che ti succeda qualcosa di così terribile!”

“Mmm… mmmmm!”

“Sì, non ti succederà più niente, te lo prometto, soldo di cacio!” gli dissi ancora, in un moto di tenerezza.

Le promesse in quei momenti… non andrebbero mai fatte! Eppure io continuo a farvele...

Finalmente il malessere scivolò via, sostituto da un sonno ancora più profondo. Sempre con estrema delicatezza, gli presi le manine, sistemandolo meglio sul cuscino, perché per attaccarsi così a me aveva preso sonno tutto storto e rannicchiato. Sorrisi, apprestandomi a chiudere la luce e tornare al dormire, ma uno scricchiolare del pavimento nell’altra stanza, come di passi che zampettavano, mi mise in allerta. Se Isaac stava dormendo al mio fianco, il responsabile di quei suoni doveva essere certamente Hyoga, insonne a sua volta.

Ricordai che si era comportato in maniera strana per tutto il giorno dopo la nostra visita al negozio di bigiotteria, e che non c’era stato verso di farlo parlare. Sospirai, capendo che quella notte probabilmente, tra Isaac che si intrufolava nel mio letto e Hyoga che si faceva le passeggiate per la camera, probabilmente non avrei dormito. Mi alzai quindi in piedi stando attento a non fare troppo rumore, coprii il piccolo ormai placidamente addormentato con la coperta, per poi chiudere definitivamente la luce e recarmi così nell’altra stanza.

Come avevo sospettato, vi trovai Hyoga, seduto per terra e intento a guardare fuori dalla finestra. Non si accorse subito della mia presenza, sembrava perso nei suoi pensieri e nuovamente pregno di quella malinconia che, per tutta l’estate appena trascorsa, sembrava quasi aver sconfitto. Quasi… perché quell’unico giorno, per una ragione che non conoscevo ancora, pareva aver nullificato tutti i passi avanti di quei mesi.

“Hyoga...” lo chiamai, a bassa voce per non disturbare Isaac o gli altri inquilini della taverna.

Lui sembrò riscuotersi, si voltò un poco verso di me, gli occhi lucidi e un poco arrossati.

“Maestro Camus...” mi rispose, prima di tornare a concentrarsi fuori, sulle luci della strada che lo attiravano.

Mi avvicinai lentamente, prendendo posto a gambe incrociate vicino a lui. Con quell’esserino bisognava andarci con i piedi di piombo, non forzandolo a fare le cose bensì accompagnandolo piano piano. Ormai lo avevo capito.

“Non hai sonno? - gli chiesi, modulando la voce anche con lui – E’ da oggi pomeriggio, quando ti sei fermato su quella vetrina, che sei strano...”

“Io...” Hyoga esitò, si strinse ancora di più la solita sacca gialla che si portava sempre dietro, come se fosse indeciso sul da farsi.

“Che cosa ti ha reso così?” continuai, sporgendomi un poco verso di lui.

“Stavo pensando, Maestro...”

“A cosa? - domandai ancora, vedendolo che scacciava qualcosa dagli occhietti. Pensai che avesse ceduto nuovamente alle lacrime e, quella volta, non potevo più chiudere un occhio – Oh, Hyoga, sai bene che...”

Si scrollò con forza, aprendo poi lo zainetto, che fino ad allora aveva tenuto segreto sia a me che ad Isaac, per poi rovistarci dentro.

Non seppi bene se fissare il suo operato o guardare altrove, per rispetto ai segreti che si portava dietro. Alla fine decisi di osservare a mia volta le luci di fuori, che abbagliavano, nell’attesa che il bambino si decidesse.

Finalmente un tintinnio seguito da un breve scintillio nella penombra della stanza mi fece comprendere che Hyoga aveva estratto ciò che cercava e, con mano tremante e visetto vergognoso, me lo porgeva.

“Ne sei sicuro? Vuoi che veda cosa tieni nel tuo zainetto con tanta cura?” gli domandai, capendo che per lui fosse un grande passo.

“S-sì, guardate...” mi posò il gingillo sul palmo, prima di ritrarsi e tornare a fissare il paesaggio fuori.

Me lo girai un poco tra le mani, capendo di cosa si trattasse.

“Una croce ortodossa?” osservai, catturato dai bagliori misto dorato/cremisi che emanava. Il pendaglio infatti rappresentava proprio una croce russa fatta d’oro e cosparsa di piccole pietruzze rosse che creavano un miscuglio di luci affascinanti.

“S-sì...”

“Come quella che fissavi insistentemente nella vetrina della bigiotteria?”

“S-sì...” confermò lui, incassando ancora di più la testa nelle spalle, quasi accartocciandosi su sé stesso, come pressato dagli eventi.

Non capivo pienamente… o forse sì, avevo una pista, ma preferii aspettare che continuasse lui invece di tirare a indovinare.

“E’ un regalo… è un regalo di mia madre!”

Avevo supposto centrasse lei, e, in quel momento, compresi anche cosa stesse vorticando nella sua testolina. Non gli avevo, no, vietato espressamente di nominare sua madre, ma tra di noi c’era un tacito accordo di non tirare fuori quell’argomento. Tuttavia io avevo posto la domanda, lui mi aveva risposto, sebbene con enorme difficoltà.

“Tua madre era cristiana?” chiesi, un poco meravigliato, sforzandomi di mantenere un tono confidente e non accusatorio.

In verità ero teso, ma non lo dimostravo, perché tirare fuori lei, sua madre, che era morta per salvarlo, lo allontanava da me e Isaac; dalla vita… aspirandolo in un gorgo di morte e disperazione, ma non potevo altresì continuare a fare come se il problema non esistesse. Esisteva eccome!

“S-sì… me lo ha regalato, dicendomi che mi avrebbe protetto!”

Come se un gingillo di quel calibro avesse potuto proteggere un bimbo così fragile! Non riuscii a trattenere uno sbuffo, lui di certo percepì il mio stato, chiudendosi ancora di più a riccio.

“E come può, questo, che è un ricordo di tua madre, farti tristezza?” gli chiesi, riponendoglielo tra le manine, che subito si chiusero e corsero a nasconderlo, come se l’avermelo mostrato lo avesse fatto sentire fragile ed esposto. E anche Hyoga, come me, odiava farsi vedere così.

“L-lei mi aveva detto che era… e-era unico!” si lasciò sfuggire lui, chiaramente dispiaciuto, trattenendosi la borsa contro il petto.

“Unico?”

“Che era una benedizione, per me, che era… era speciale!”

“...”

E capii, in quell’esatto momento, cosa lo facesse sentire così male.

“Ma oggi ho visto quella vetrina e c’era una croce praticamente identica, ce ne saranno di certo altre nel mondo, tutte uguali… cosa ha quindi di diverso la mia, cosa ha di di speciale? La mia croce è uguale ad altre cento, se non mille, croci!” si interrogò, ma la domanda non era rivolta a me, bensì a sé stesso.

“Hyoga...”

“Mi credevo ricco di una collana unica al mondo, e non ne possiedo che una qualsiasi! - tirò su con il naso, ma ottusamente non pianse – Ciò non fa di questo regalo, un qualcosa di così importante come pensavo...” arrivò alla triste conclusione, rannicchiandosi su sé stesso.

Una persona più espansiva di me lo avrebbe forse abbracciato per confortarlo, perché Hyoga aveva bisogno di un sostegno…

Una persona più abile nel linguaggio gli avrebbe detto qualcosa, perché Hyoga necessitava di qualcuno che gli dicesse che così non era, che la sua collana era speciale e unica.

Perché era il fatto che sua madre avesse pensato di donare a lui quanto di probabilmente avesse di più caro a rendere unico quel pendaglio, a costituire una benedizione, non l’oggetto in sé che, per chiunque, eccetto Hyoga, sarebbe risultato banale. Ed era in fondo proprio quello il punto nevralgico, ciò che distingueva quella croce da qualsiasi altra.

Ma io ero incapace di destreggiarmi in situazioni simili, sia verbalmente che fisicamente, pertanto rimasi in silenzio, non sapendo come esprimere quel concetto, almeno finché il piccolo, facendosi coraggio, non si alzò in piedi e, dopo aver lasciato la borsa per terra e aver dato un’ultima occhiata alla finestra, non mi diede le spalle per allontanarsi.

“Ora torno a dormire… buonanotte, Maestro Camus!” mi disse, sempre più abbattuto, lasciandomi lì.

“Ah, Hyoga!” mi alzai quasi di scatto per fermarlo, tuttavia rimasi fermo in piedi, una mano protratta verso di lui, le parole ancora una volta incastrate nella laringe.

Il piccolo si voltò verso di me nel fissarmi. Sembrava molto triste e si sentiva solo, aveva freddo, probabilmente; un freddo ben più pungente della Siberia medesima.

“I-io… uff! - sospirai, guardando poi altrove, la parete rischiarata dalla luce di fuori – Isaac è venuto a dormire con me, di là, v-uoi, v-vorresti..?”

Non ebbi il tempo di finire la frase che lui si fiondò subito nel mio grembo, abbracciandomi di slancio e rischiando di farmi sbilanciare da quanta forza ci avesse messo.

“Hyo...”

Lo vidi, il visetto parzialmente nascosto dalle sue braccia che erano corse a stringermi il pigiama. Non ne vedevo che una parte, ma riuscivo a percepire le sue labbra dischiuse, il pianto che tuttavia non lasciava trapelare, costringendosi a mostrarsi forte, il respiro un poco accelerato.

Senza dire una parola, lo presi da sotto le ascelle e lo tenni in braccio. Lui continuava a voler celare il suo viso ai miei occhi, nascondendosi appena sopra il mio sterno, le manine che arpionavano il leggero tessuto del pigiama. Ancora non dissi niente, mi limitai a tenerlo lì, tornando dalla finestra per prendere anche la sua sacca.

Il suo volto venne brevemente rischiarato dalla luce esterna, mi ci soffermai. Aveva gli occhietti chiusi e la boccuccia semi-aperta, le palpebre fremevano appena nel tentare di combattere contro il pianto. La sua pelle così rischiarata sembrava il medesimo riflesso della luna in un laghetto nascosto tra due fenditure.

“La forma dell’oggetto, così simile a cento, forse mille altre, non è altro che la scorza, Hyoga… - gli sussurrai, cullandolo brevemente tra le mie braccia – Vi è altro… di ben più importante!”

“Mmh...” bofonchiò un poco lui, forse udendomi appena.

Gli accarezzai dolcemente la schiena finché non parve tranquillizzarsi e sprofondare in un sonno di piombo, come Isaac prima di lui. Sorrisi. E allora, solo allora, una volta che ero certo di non poter essere percepito, gli baciai la nuca, provando un intenso desiderio di protezione verso quel giovane cigno che sembrava caduto da chissà dove.

“Lo capirai con la crescita… piccolo! - gli dissi ancora, socchiudendo appena gli occhi nel sentirlo respirare così vicino a me – Ed io sarò con te, al tuo fianco!”

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

Buona domenica a tutti! Lo so, latito da mesi, la mia ultima pubblicazione deve risalire a giugno o luglio, ma purtroppo, come già anticipato, mi è davvero difficile trovare il tempo per scrivere e, a maggior ragione, correggere prima della pubblicazione. Il prossimo aggiornamento dovrebbe comunque essere sui “5 Pilastri di Marduk” (spero!)

Come per il caso precedente, questo capitolo era già abbozzato da diversi mesi, ma sono riuscita a revisionarlo e correggere solo recentemente. Ed eccolo qui!

Capitolo che si ispira chiaramente al Piccolo Principe che, una volta arrivato sulla Terra, vede un giardino di rose e si rende conto che quindi, la sua, considerata da sempre speciale, non lo sia più di tanto -ovviamente sbagliando, ma nella mente di un bimbo ci sta!-

Ci avviciniamo alla parte centrale della storia, nonché al concetto profondo di “addomesticare”, uno dei significati centrali dell’opera e che, pertanto, meriterà più capitoli in proposito. :)

Camus affida la cura e la tutela degli Husky Zaira e Zana (quest’ultima non a caso non ha un occhio!) ai suoi amati allievi, cercando di insegnargli il concetto di responsabilità… saranno poi ovviamente gli allievi, nel prossimo capitolo, a insegnargli, a loro volta, qualcosa di estremamente importante.

Mi è molto piaciuto farli relazionare in un luogo lontano da casa, anche se per la brevità di questi capitoli non è stato possibile approfondire ulteriormente. Non escludo lo farò in altre mie storie ;)

 

Anche per questa volta dovrei averi finito con le spiegazioni. Grazie a tutti per seguire questa storia, sono molto contenta che piaccia così tanto ^_^

Al prossimo capitolo allora!

  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Saint Seiya / Vai alla pagina dell'autore: MaikoxMilo