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Autore: ChiiCat92    31/10/2022    0 recensioni
Quest'anno ho deciso di raccogliere le storie del Witober in un unico posto. Saranno per lo più storie originali, i generi saranno i più svariati, qui un piccolo elenco: fantasy, scifi, horror, slice of life, pranormale, porno, fluff, smut, yaoi, shonen-ai, yuri.
Partecipo con le liste di FanWriter.it!
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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#fantasy #sangue #original #amunait #lore #headcanon #edhelast 

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All’alba il capo camerata viene a svegliarci. Alcuni hanno passato la notte insonni per cui non è difficile saltare fuori dal letto e indossare l’armatura. Anch’io sono tra quelli che non hanno dormito. Il capo camerata strilla tanto che non riesco a capire i suoi ordini, mi muovo per abitudine, a scatti, allanciandomi gli stivali. Indossa la pettorina ma non riesco a voltarmi per raggiungere le cinghie. Uno strattone all’indietro e le cinghie mi stringono, fino a farmi perdere il respiro, fino a farmi avvertire il battito del cuore contro il cuoio. Iririel è pallida, le mani gelide, ma gli occhi… gli occhi sono lame affilate sulla mia pelle. Ricambio il favore e la aiuto con l’armatura. Tutto il nostro equipaggiamento è stato di qualcun’altro prima di noi, veste largo o stretto, lascia segni sulla carne. Quello di Iririel è macchiato di sudore e sangue sul petto, lei riempie gli spazi vuoti con il suo spirito. Alla cintura allaccio la fondina con la spada e il pugnale, prendo lo scudo con la sinistra, respiro a singhiozzi ma non esito a mettermi in fila, sull’attenti, davanti alla mia branda. Il capo camerata tiene la mano sul pomolo della sua spada, continua a stringerlo e lasciarlo, stringerlo e lasciarlo; mi cammina davanti a passi lunghi e mi rivolge un cenno del capo. “Bravo”, vuol dire, perché io e Iririel siamo tra i primi a essere pronti.

« Bene. Andiamo. » il capo camerata è l’aprifila, dietro tutti gli altri. Mi sembra di avere le gambe di legno, troppo rigide per camminare. L’aria ha ancora sapore di notte anche se il cielo comincia a schiarirsi a est, tutte le stelle brillano ancora, uno spicchio di Luna ci sorride. È il sorriso di Ahtaldin, che ci guarda dall’alto. Il capo camerata ci porta all’Arena. È il momento che aspettavo da quando sono entrato all’Accademia. Quando il giorno sarà sorto non sarò più un ragazzo, nessuno di noi lo sarà più. Ad accoglierci c’è silenzio. Le torce che illuminano l’Arena gettano ombre sugli spalti, così le figure che mi osservano nella penombra hanno l’aspetto di fantasmi. I loro occhi mi valuteranno, valuteranno ognuno di noi. Il capo camerata ci fa cenno di metterci in fila, cerco di tenere la schiena più dritta possibile, il mento alto. Sono senza paura. Sono senza paura. Ci voltiamo tutti quando sentiamo l’incedere del Generale. Per l’occasione ha indossato la sua armatura più pregiata, con il mantello su cui è impresso il sigillo reale che struscia dietro di lei; ha al fianco la spada leggendaria che l’ha accompagnata in tutte le sue battaglie contro gli elfi; i capelli rasati lasciano scoperto il suo trofeo più glorioso: la cicatrice che le ha portato via un orecchio, che scende in diagonale sul viso e il mento per fermarsi appena sotto. Ha rischiato la morte nello scontro in cui se l’è procurata, e il modo in cui è sopravvissuta è diventato il più bel racconto di guerra. Il fatto che lei sia qui adesso vuol dire che siamo importanti, vuol dire che non siamo solo lame e armature e carne per l’esercito. Vuol dire che possiamo fare la differenza.

« Oggi è l’alba di un giorno importante. » la battaglia ha portato via anche la sua voce, così cupa da essere alla pari di uno scudo pieno di graffi. « Sguainate le spade, combattete per le vostre vite. Voglio vedere quanto desiderate sconfiggere gli elfi. » la sua, di spada, rimane nel fodero, ma la mano stringe l’elsa e so che può estrarla in un attimo, giusto il tempo di accorgersi di non avere più la testa attaccata al busto. È pericolosa quanto magnifica, il generale migliore che l’esercito drow abbia mai avuto. Il capo camerata, quindi, comincia a dividerci a coppie.

« Buona fortuna. » Iririel mi porge la mano destra. « Mi dispiacerebbe se dovessi morire, Amunait. »

« Dispiacerebbe anche a me. » stringo il suo braccio quando lei stringe il mio. La guardo negli occhi. La bestia selvaggia del nostro plotone, la guerriera più promettente. Lei sopravvivrà alla prova. Non c’è nessun altro da cui voglio congedarmi, così quando il capo camerata mi assegna un avversario volto le spalle ad Iririel ed è come se fosse già morta. Vreara assisterà ai nostri scontri rimanendo nell’Arena, di fianco a lei si sistema il capo camerata. All’ultimo sangue. Conosco tutti i ragazzi del mio plotone, ho respirato con loro, mangiato con loro, sono esistito con loro. Non ci sarebbe disonore nel cadere per mano di uno di loro. Ma nel momento in cui mi trovo davanti al mio avversario, dimentico il suo nome, il suo volto, e tutto quello che abbiamo vissuto insieme. Sfodero la spada, lui fa lo stesso. Siamo sul campo di battaglia, la sua vita per la mia. Vreara, il mio generale, dà inizio allo scontro con un urlo e io mi lancio in avanti, corpo e lama come un’unica entità. Solo i migliori del plotone possono entrare a far parte dell’esercito, solo i migliori meritano di combattere contro gli elfi. Se dovessi morire il mio spirito verrà accolto da Ahtaldin, perché sarei morto dimostrando il mio onore. Ma non è così che voglio morire. Voglio combattere come Vreara, voglio sul mio corpo i trofei delle vittorie, voglio bagnare la mia terra con il sangue degli elfi. Il mio avversario si lancia in avanti in un fendente debole, testa la mia velocità di reazione, cerca di capire se scarterò a destra o a sinistra. Lo accontento saltando a destra. Al secondo fendente è più sicuro, e io salto ancora a destra. Così, al terzo, quando lui è certo che scarterò sulla destra, salto a sinistra e carico il mio scudo contro il suo. L’impatto risuona nelle ossa del braccio, la spalla trema, ma è lui che arretra, preso alla sprovvista. È il momento di affondare. Nello spazio dove termina la pettorina, scoperto, sul fianco. È il primo nemico che uccido. Un urlo di gioia mi esplode in gola quando estraggo la spada e il sangue mi inonda a fiotti. Ancora. Ancora. Ancora. È il mio momento, gli astri mi stanno guardando, Vreara mi sta guardando. Lui cade a terra, sulla schiena, lo scudo sfugge di mano. Nel panico, non riesce a difendersi. Con un calcio colpisco la mano che regge la spada, la molla subito e quella vola via sulla sabbia rossa dell’Arena. Gli sono sopra, impugno la spada con entrambe le mani. Morto. Sei morto.

« Ti prego. » bisbiglia. Si chiama Brethar. Ha tredici anni, io ne ho già compiuti quattordici. Per poco non siamo finiti in due plotoni diversi, ma dato che lui era più alto degli altri bambini l’hanno inserito nel plotone di quelli un anno più grandi. Così ci siamo ritrovati insieme. Brethar parla poco, perché ha un difetto di pronuncia, anche se dopo che ha spaccato il naso ad un compagno che lo prendeva in giro nessuno l’ha più infastidito per questo. La sua specialità sono le armi da tiro, con l’arco non lo batte nessuno. Ma all’esercito non interessano gli specialisti, soprattutto quelli che non riescono a stare nelle prime file. Ho diviso il rancio con lui una volta che il capo camerata l’ha punito per non aver pulito bene la sua attrezzatura, e lui ha fatto lo stesso con me quando ho perso il coltello da lancio durante un’esercitazione. Quando sorride sulla guancia gli viene una fossetta. È bravo a raccontare storie una volta spente le luci. Adesso è sotto di me, sanguina. Il fendente che gli ha trapassato il fianco basta già per ucciderlo. Ha gli occhi che sembrano vetro, fragili mentre guardano le mie mani sull’elsa della spada. Cosa stai facendo Amunait, perché esiti. Perché non lo uccidi? È il suo sangue che farà di te un uomo. Uccidilo. Lui farebbe lo stesso. Lo vedo mentre cerca la spada con la mano, finita troppo lontano perché possa prenderla. Lui farebbe lo stesso. Urlo, e l’urla usa me per portare tutto lontano. Il suo nome, il suo passato, il mio futuro. Affondo la spada nella sua gola, l’unico punto scoperto dall’armatura. Lui gorgoglia, si dimena come un insetto. Muore. Rimango immobile, ho gli arti bloccati. Intorno a me il suono di mille spade e di mille morti. Brethar non è più. Non è più niente. Io, invece, ora sono un assassino uomo. Vreara chiama a sé i sopravvissuti, rivolge a tutti complimenti e pacche sulla spalla. È un grande onore essere toccati da lei. Iririel è ancora viva. I suoi occhi, però, sono diversi. Hanno perso l’affilatura, cadono verso il basso, sul sangue sulle mani, sull’armatura, sulla spada, sull’anima. Chissà se sono così anche i miei. 

 

   
 
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