Anime & Manga > Owari no Seraph
Ricorda la storia  |       
Autore: A_Typing_Heart    03/11/2022    0 recensioni
Due morti accidentali identiche. Dubbi, sospetti e insabbiamenti. Una chiesa che cela gelosamente i suoi segreti e i suoi tesori. E una richiesta silenziosa che Mikaela, sopravvissuto a una pericolosa setta, non può lasciare inascoltata.
* segue Il Vampiro di West End *
Genere: Mistero, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Crowley Eusford, Ferid Bathory, Krul Tepes, Mikaela Hyakuya, Yūichirō Hyakuya
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate
Capitoli:
   >>
- Questa storia fa parte della serie 'La spada di Dio'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Persino nel pallore della morte quel viso restava il più bello che ricordasse di aver mai visto. I suoi fini capelli biondi fluttuavano nell’acqua verde mentre lo trascinavano più vicino all’infida, scivolosa riva del bacino idrico.

«Non c’è nulla da fare… è freddo come il ghiaccio» commentò il vecchio che lo trascinava, altrettanto gelido.

«È lui?»

L’uomo sulla riva fece un profondo sospiro, ma non riuscì a staccare gli occhi da quel viso smagrito e privo di colore per fare alla donna la cortesia di guardarla.

«Sì. È Noah.»

Seguì un momento di denso silenzio e il vecchio factotum tolse il cappello prima di segnarsi. In cerca di una forza e di una temperanza che non sentiva di avere l’uomo serrò le dita attorno al crocefisso.

«Lasciatelo sulla riva… torniamo alla chiesa» ordinò poi con voce ferma. «Chiamate Manuel… chiamerà lui la polizia. Aspetteremo che arrivino da noi.»

«E cosa dovremo dire?»

Esitò ancora e sospirò per calmarsi. Finalmente riuscì a chiudere gli occhi, ma il viso di Noah galleggiava dietro le sue palpebre come le macchie colorate della luce diretta del sole. Di un sole ormai spento.

«Dite loro semplicemente la verità. Dite loro che Noah era turbato e infelice e che non sapete la causa… e, naturalmente, nessuno di noi è stato qui.»

Le sue istruzioni seminarono turbamento nei suoi tre compagni ma, paradossalmente, questo risaldò il suo spirito.

«Non possiamo più aiutare Noah. Lui è con il Signore. Ma dobbiamo proteggere i nostri confratelli di Saint Barthelemy.»

«Sì, Padre.»

Il factotum, l’uomo dall’abito azzurro bagnato e la donna guardarono il corpo senza vita di Noah, si segnarono e si allontanarono verso la macchina. Il Padre si accovacciò accanto al giovane e passò le nocche sulla sua guancia in una goffa carezza, lo spettro di quelle che gli aveva dato quando la sua pelle era ancora rosea e calda. Si rialzò in piedi sistemandosi la veste blu, la mano destra serrata intorno al crocifisso che teneva al polso.

«Mi dispiace, Madison» soffiò nell’aria, con un filo di voce. «Io…»

Serrò la mascella. Incapace di aggiungere altro, voltò le spalle al corpo e andò all’auto, con la sensazione che ogni passo di distanza aumentasse il peso del senso di colpa.

 

*

 

Con il fiato ancora corto e la sgradevole sensazione di avere i capelli appiccicati alla faccia Ferid allungò la mano sul comodino, a caccia dell’orologio d’oro di Claude. Non riuscì a trovarlo, ma sollevando lo sguardo vide il cielo rischiararsi fuori dalla finestra.

«È già mattina…»

«Mh, che peccato…»

Con il bollore che aveva in corpo trovò sgradevole sentirsi abbracciare e sfuggì all’uomo e al groviglio di lenzuola troppo calde, alla ricerca del suo orologio. Forse lo aveva lasciato in bagno.

«Pensi che ora tu possa finalmente spiegarmi che cosa fai a casa mia?»

«Non dimentichi mai niente, eh?»

Basito, lo fissò dalla soglia del bagno padronale.

«Come faccio a dimenticarmelo? Sei riuscito a seguirmi persino in Inghilterra, nella casa dei miei genitori… per non parlare dello scompiglio che hai creato quando Bertrand ti ha scoperto a mescolarti con la mia servitù, stava per chiamare Scotland Yard!»

Ma le sue osservazioni condite di tono accusatorio scivolarono su Connor Maguire come le lenzuola di seta del letto e ne rise compiaciuto mentre si stiracchiava come un gattone pigro.

«Ti sono parecchio fedeli per non averti mai visto prima, devo dire» osservò lui, mentre si alzava senza accennare a coprirsi il corpo nudo. «Quella cameriera nera, come si chiama? Beh, lei sembrava prontissima a piantarmi nel collo quel coltello da burro.»

«A riprova che Mel è molto più saggia di me» commentò Ferid, con un senso di sconfitta dilagante. «Dunque? Sei venuto fin qui soltanto per spuntare il mio nome sulla tua lista di anime perdute?»

«Vuoi parlare di affari prima di colazione? Credevo fossi un uomo civile!»

«Connor.»

L’uomo non replicò, ma prese qualcosa dalla borsa per laptop che aveva portato con sé e lo lanciò sul letto. Quando capì che si trattava di un libro la sua curiosità s’impennò e tornò indietro per prenderlo. La copertina mostrava cerchi su una superficie d’acqua blu e il titolo in inglese diceva Dio come acqua, con un illuminante sottotitolo quale “La forma liquida di Gesù attraverso una nuova visione della Bibbia”.

«Tu non sei cristiano, no?» fece Ferid, accigliandosi mentre iniziava a sfogliarlo. «Non sarai mica venuto qui dall’America per fare proselitismo?»

«Sai di che cosa si tratta?»

«Vagamente» replicò mentre già scorreva l’introduzione. «Questo libro è uscito nel catalogo del Magick quando ero sotto protezione. Non ho avuto modo di aggiornarmi sulle uscite di quel periodo, ma so che è nel reparto di saggistica dei nuovi culti. Una derivazione cattolica… mistica, a giudicare da qualcosa che ho visto nell’indice.»

Sentire lo scatto del portasigarette di Connor lo strappò dalla lettura. Schioccando le dita attirò la sua attenzione.

«Uhm?»

Sorpreso Connor gli si avvicinò per offrirgli una sigaretta e poi l’accendino, ma Ferid li lanciò entrambi fuori dalla portafinestra strappandogli una protesta incredula.

«Non si fuma in casa mia, caro. Grazie.»

«Ma che– non potevi solo dirlo?! È uno zippo da collezione!»

Detto ciò attraversò la stanza per andare a recuperarlo e quando udì lo scatto proveniva dal balcone. Dandogli una fugace occhiata si accorse che non si era ancora rivestito e ridacchiò.

«Santo cielo, che esibizionista sei.»

«Con i tuoi metodi non mi è più così difficile capire perché Ginger si sia convertito al salutarianesimo

«Convertito a che?» fece distratto mentre leggeva.

«Sì, adesso beve strani intrugli con l’etichetta bio sulla scatola, dando come motivazioni sciocchezze come l’indice glicemico, grassi idrogenati, calorie, e straparla di predisposizione genetica alle malattie e rischio cardiovascolare. Blatera come un vecchio nella sala d’attesa di un dottore» snocciolò con irritazione crescente. «Per non parlare dell’alcol! In pratica non c’è verso di fargliene bere, sono stato con lui per quattro mesi e sono riuscito a fargli bere due birre medie… divise in tre sere. È scandaloso

Mentre girava pagina Ferid sorrise.

«Ne sono lieto.»

«Lieto, hai detto?» ripeté Connor allibito. «Mi stai ascoltando o no? Biologico! Dieta! Astenia!»

«Certo che ti ho ascoltato… e sono felice. Crowley sta mantenendo la promessa che mi ha fatto.»

«Quale promessa, di morire di una vita triste?»

«Di fare tutto quello che può per starmi vicino il più a lungo possibile e nel miglior modo possibile.»

Connor sbuffò il fumo dalle narici e le sue sopracciglia si rasserenarono appena. Non parlò per tutto il tempo della sua sigaretta, rientrò in camera mentre albeggiava e ancora tacque.

Ferid era immerso nella lettura – come al solito estremamente rapida – dello strano saggio. Era una visione piuttosto particolare del cristianesimo, qualcosa di mai visto e con una particolare enfasi esoterica sul simbolismo ricorrente dell’acqua. Il testo conteneva alcuni diagrammi e foto, quindi le circa centocinquanta pagine in caratteri grandi scorsero molto rapide fino alla fine.

«Già finito?»

«Sì… ma perché mi hai portato questo libro?»

«Se vuoi una risposta sincera a questa domanda ho bisogno che tu abbia un po’ di fiducia in me.»

L’inaspettata premessa lo stuzzicò. Appoggiò le mani sul libro e lo guardò, trovandolo insolitamente austero.

«Un po’ ne ho. Dunque?»

«Come hai letto, la Chiesa di Nostro Signore delle Acque è una ramificazione del cristianesimo. Non è molto diffusa, nonostante l’uscita di quel libro, ma la popolarità di un paio delle loro parrocchie maggiori sta allargando la cerchia.»

«E come mai una piccola chiesa interessa te o me?»

«Qualcosa non va in quella chiesa… e non sto parlando di assurde regole di vita soppressive della libertà dell’individuo e monitoraggio sistematico della sessualità.»

Se Connor si aspettava che intuisse qualcosa aveva sopravvalutato le sue capacità, perché non capiva dove volesse arrivare.

«E quindi…?»

«Ho trovato quella copia a casa di un mio amico, Horatio Lanius. È stato uno dei loro adepti nella parrocchia di Bay Plaza a San Francisco, poi è stato nel gruppo mandato nella sede di Nashville.»

«Non vedo la stranezza, Connor.»

«È morto, Pepper. È annegato in uno stagno a pochi chilometri dalla chiesa.»

Ferid attese una continuazione, ma non arrivò. Sfogliando le pagine colse qualche stralcio del testo e tentò di arrivare da solo al suo collegamento.

«Pensi che… la Chiesa dell’Acqua sia responsabile dell’incidente?»

«Non è stato un incidente» replicò lui acido. «Conoscevo Lanny. Era un agente operativo, come me, ed eravamo amici. Era devastato dalla perdita di una persona cara e ha cercato conforto nella vita religiosa, ma ti posso garantire che non era un ubriacone né un drogato.»

«È questo che hanno detto? Che era drogato?»

«Le analisi dicono che aveva livelli di alcol e oppiacei nel sangue da ammazzare un rinoceronte, ma io so che non è vero. E se è vero qualcun altro glieli ha fatti assumere… e lui viveva da mesi dentro quella comunità. Se ha messo le mani sulle droghe, se è diventato un alcolista o se qualcuno l’ha ammazzato è lì dentro che è successo.»

Ferid chiuse il libro, chiedendosi da dove iniziare. Era evidente che la questione era molto cara a Connor, e questo rendeva difficile la sua risposta.

«Che cosa ti aspetti che faccia io, Connor?»

Contro ogni previsione si sedette sul bordo del letto e gli strinse la mano.

«So che Ginger ha un buon amico nella narcotici che ha un grado elevato… ti prego, convincilo a parlargliene. Qualsiasi appiglio ci sia, devono riaprire il caso di Lanny e scoprire cos’è successo.»

«Ma… ma perché non glielo chiedi tu? Crowley farebbe praticamente qualsiasi cosa per te…»

«Per la miseria, Pepper» sbottò lui infastidito. «Se andassi da lui a dirgli queste cose dovrei spiegargli come ho avuto il referto dell’autopsia e come conosco un uomo che lavorava per l’intelligence! Lui crede che io sia un navy seal, e loro non possono parlare di niente e vengono informati solo dello stretto indispensabile per agire. Se fossi un vero seal non saprei un bel niente di un caso come questo.»

Sapeva che forse – anzi, certamente – era una domanda stupida, ma Ferid la fece comunque.

«Perché non gli dici la verità? Se scopre da solo, in qualsiasi altro modo, che cosa sei veramente si sentirà tradito. Non gli piacciono le bugie e i segreti… lo vuoi perdere in questo modo?»

«Dopo così tanti anni lo perderei anche se gli dicessi la verità. La sola cosa che posso fare per non farlo sparire dalla mia vita è continuare come ho fatto fino ad ora, quindi mi devi aiutare tu.»

Ferid sospirò e strinse di rimando la mano di Connor.

«Connor, vivere dietro le maschere non è–»

«Pepper, quando fai il mio lavoro le maschere sono la sola cosa tra te e una morte sicura.»

«Crowley non è un agente bulgaro o un qualche genere di terrorista. È un uomo normale, e sincero… che può capire le tue ragioni, ma non la mancanza di fiducia. Una maschera, o due, o tre non salveranno il tuo rapporto con lui quando cadranno… e cadranno. Cadono sempre.»

«Vuoi aiutarmi o no?»

Gli era chiaro che Connor era al limite. La questione di Lanius doveva essere molto importante per lui e si chiese se l’ignoto agente fosse quello che George era stato per Crowley. In quel caso poteva immaginare con buona approssimazione quanto ci tenesse a far luce sulla sua scomparsa. Annuì deciso.

«Andrò da Crowley e gli dirò di questo caso… ma non posso prometterti che ne verrà fuori davvero qualcosa. Però ti prometto che mi servirò di qualsiasi appiglio per convincerlo a parlarne a De Stasio.»

«Se davvero ci riuscirai sarò io in debito con te.»

«Suona piuttosto bene come ricompensa.»

Connor tornò a sorridere, anche se in modo molto più puro del solito. Senza i tratti incisi di sarcasmo era molto più bello, ma a Ferid stava frullando tutt’altro pensiero, instillato dal titoletto di uno dei capitoli del libro.

«Ma Connor è il tuo vero nome?»

«No» rispose lui senza esitazione mentre spariva nella stanza da bagno, lasciando la porta aperta.

«E come ti chiami davvero?»

La sola risposta fu il gorgogliare dell’acqua dai rubinetti e gli spruzzi sulle mani. Sfidando le gambe indolenzite si rialzò dal letto e si affacciò sul bagno padronale con una posa molto teatrale.

«Il tuo nome, il mio regno per il tuo nome!»

Colse nello specchio un accenno di sorriso.

«Una notte sola non basta per sbloccare il contenuto.»

Ferid tese un angolo della bocca appoggiandosi allo stipite.

«Mi hai detto cosa sei… e anche che cosa è importante per te. Che male può farti dirmi il tuo nome, a questo punto?»

L’uomo si asciugò il viso affondandolo nella salvietta.

«Potrei dirti un nome qualsiasi. Come sai che non mentirò?»

«Ho un po’ di fede in te.»

I suoi occhi verdi lo fissarono dal riflesso dello specchio. Ebbe un altro barlume di un sorriso privo di malizia.

«Ismael… mi chiamo Ismael.»

 

*

 

Crowley entrò nell’open space della divisione investigativa di Satbury lottando contro una cravatta che non ne voleva sapere di lasciarlo libero. L’ultima volta che ricordava di essere stato così accaldato, sudato e a disagio aveva undici anni, era infiocchettato nel vestito buono e suor Adele lo sgridava nel suo assolato ufficio in un afoso pomeriggio di settembre.

Fu difficile dominare l’impulso di strapparsi di dosso la giacca che gli stringeva sulle spalle e la camicia che sentiva appiccicata come una muta da sub e quasi altrettanto bagnata, ma una sorridente distrazione giunse ad alleviare il suo disagio e lo fece bussandogli sul braccio con tocco delicato.

Posò lo sguardo su un visetto grazioso con vivaci occhi verdi, capelli corti di un biondo dorato, un fisico esile che si avviava alle trasformazioni della pubertà e abiti larghi con accenti color arancione fluorescente. Il sorriso uscì spontaneo a Crowley.

«Ciao, Samara… che cosa fai di nuovo qui?»

La ragazza saltellò e gli porse un cartoncino con entrambe le mani. Quando lo avvicinò agli occhi vi lesse la data, l’orario e il luogo di un’esibizione di danza moderna, seguiti da un breve sunto del programma della serata.

«Oh, il tuo prossimo saggio? Questa volta ce l’hai un pezzo da sola?»

Lei scosse la testa con l’aria di scusarsi e sollevò tre dita, poi con l’indice tracciò un triangolo in aria. Usando le mani mimò rapidamente le lettere dell’alfabeto.

«Ah, fate un pezzo in tre tu, Lindsey e Cara… come? Aspetta, troppo veloce.»

Samara aveva fatto un gesto del linguaggio dei segni che non riusciva ad afferrare. Lei lo fece di nuovo, più lentamente, e indicò il cartoncino. L’indizio aiutò molto un povero poliziotto alle prime armi con quella lingua senza suono.

«Oh, sì. Certo che ci vengo. Mi libero, non ti preoccupare.»

Samara gli lanciò le braccia intorno al torace e lo strinse con insospettabile forza; ciò mise Crowley un po’ a disagio.

«Perdonami, Sam, sono inzuppato. Ero a colloquio con i pezzi grossi e mi sono dovuto vestire da poliziotto serio.»

Samara emise una risata quasi del tutto silenziosa, arricciando il naso come un topolino, e lo strinse più forte strofinando la faccia sulla camicia. Ne era divertita da matti.

«Ah, benedetta gioventù, non vi fa paura proprio niente! Su, se non c’è altro ora vai, lascia questo vecchio a vergognarsi da solo.»

Samara gli disse a gesti che era vecchio ma ancora bello e questo le valse un pizzicotto sulla guancia che era più un buffetto che una punizione, poi con un sorriso ancora più ampio di quand’era comparsa se ne andò sventolando freneticamente la mano.

Con la giacca buttata sul braccio e la cravatta in mano imboccò il corridoio – particolarmente fresco grazie all’aria che soffiava dalla finestrella aperta in fondo – e senza troppa fretta raggiunse il suo ufficio.

Purtroppo non posso spogliarmi e restare qui a rinfrescarmi all’aria…

Con una certa riluttanza aprì la porta a vetri con le veneziane semichiuse, lanciò la giacca sull’appendiabiti e si fermò dopo aver sfilato un altro bottone dall’asola. Il suo ufficio non era vuoto come l’aveva lasciato.

Sulla sedia girevole era seduto un uomo con lunghe e belle gambe accavallate, una camicia bianca appena trasparente sulla pelle chiara delle braccia e le mani su un libro di psicologia criminale che prendeva polvere sui suoi scaffali da qualche settimana.

Non riuscì a respirare per quello che gli parve un lungo intervallo di tempo, poi, di colpo, il suo battito divenne più intenso. Ebbe la sensazione che il cuore gli battesse davvero per la prima volta da due anni.

«Ferid…»

Gli occhi celesti smisero di scorrere le righe e si posarono su di lui. Provò un immenso desiderio quando vide le sue labbra aprirsi nello stupore; lo stesso desiderio che sentiva quando lo vedeva nei suoi sogni. Vedendolo sorridere pregò con tutto se stesso che non fosse un altro sogno.

«Buongiorno, detective… oh, no, perdonami» si corresse lui con un cenno alla targhetta. «Tenente Eusford… ti trovo bene.»

Crowley attese, ma Ferid non aggiunse altro e dondolò appena sulla sedia. Deglutì con fatica.

«Tutto qui?»

«Tutto cosa?»

«Ti trovo bene? È tutto quello che hai da dire dopo due anni?»

«Ci sei rimasto male? Mi sembrava untuoso dirti che sei più bello di quanto ti ricordassi.»

Con un sospiro appese la cravatta e distolse lo sguardo. Fiotti di emozioni confuse e contrastanti gli guizzavano dentro come fuochi d’artificio dalle code colorate: allegria giallo intenso, irritazione di un freddo argento, girandole rosa e rosse di sentimenti molto più dolci e persino scintille verdi e caotiche di rabbia.

«Due anni, Ferid. Quasi due anni che non so nulla di te, che non ti fai vedere, che non telefoni. Non hai mandato neanche un misero messaggio.»

«Lo so, ma nemmeno tu, giusto?»

Queste parole dette con un tono totalmente privo di accusa lo fecero sentire in colpa e spensero le braci che si stavano accendendo nelle sue viscere. Non trovando in Ferid alcuna traccia di rabbia la sua tornò a dormire sotto la cenere come un vulcano troppo pigro per scoppiare.

La delusione, però – quelle scintille violacee che non aveva notato in quello scoppio di colori sgargianti – c’era ancora.

«E pensi che sia il modo di fare? Che ti basti apparire nel mio ufficio a sorpresa perché tutto torni come prima?»

«Come prima? Santo cielo, Crowley, non sono stato via due anni per tornare esattamente com’ero prima

Crowley non incrociò il suo sguardo e colse il momento per cambiarsi la camicia con qualcosa di più comodo e presentabile. Voleva ritardare il confronto, darsi tempo per elaborare quell’esplosione di emozioni. Quando sbottonò tutta la camicia non arrivò la battuta maliziosa che si era aspettato.

«Ti sono mancato così tanto, Crowley?»

Fissò la polo blu che stava per infilarsi. Aveva sognato e immaginato da sveglio il loro incontro tante volte, si era convinto di volergli dire una cosa o un’altra, a volte voleva persino fargli pesare quel lunghissimo periodo di solitudine… ma ora che c’erano dentro voleva solo liberarsi di quel peso.

«Tu non puoi neanche immaginare quanto.»

«Forse sì, sai? Forse posso.»

L’ombra del dubbio non aveva fatto che divorarlo in quei mesi. L’idea che Ferid avesse trovato qualcun altro, che potesse non fare mai più ritorno come non era mai tornato in Inghilterra dalla sua famiglia lo aveva lambiccato, come un uccello che becchetta un caco maturo fino a farne cadere i miseri resti. Non era riuscito neanche a rifugiarsi in una nuova relazione, era rimasto bloccato… e aveva paura di scoprire che lui era andato avanti, invece.

«Puoi?» fu il modo in cui tentò di concentrare il suo malessere in voce.

«Oh, mio caro, non credere che non sappia» replicò Ferid, abbandonando la poltrona per avvicinarsi. «Non credere che sia passato un solo giorno in cui io abbia aperto gli occhi senza sentire il vuoto nel non trovarti lì.»

Crowley rifletté sulla frase e si calmò un poco. La ripeté mentalmente qualche volta e si acquietò di più. Le sue spalle si rilassarono e Ferid ci passò lentamente la mano sopra. Quando si guardarono Crowley fu sorpreso e felice che non ci fosse l’imbarazzo che aveva temuto.

«Quindi… non hai nessun altro ora?»

«Come te, non sono riuscito a concludere niente… ci ho provato, senza successo. Avevo sempre in mente il mio detective e mi chiedevo chi ci fosse accanto a lui dall’altra parte dell’oceano.»

Gli passò per la mente di accarezzarlo, ma poi registrò il senso di un paio di parole in particolare.

«Aspetta, come fai a saperlo?»

«A sapere cosa?»

«Che anche io non sono riuscito a uscire con altri. Chi te lo ha detto? Non certo io.»

«Oh, beh… ho le mie fonti.»

Ferid esibì un sorrisetto e lanciò un’occhiata al di là del vetro che dava sulle scrivanie dei detective. A Crowley bastò un passo avanti per vedere Yuu che si sbracciava in un saluto entusiastico, mentre Mikaela si defilò nella stanza delle fotocopie a passo fin troppo rapido.

«Mikaela» si rispose da solo, irritato e divertito insieme.

«Bingo, detective… ah, tenente. Non mi ci abituerò mai!»

«Chiamami Crowley, allora. O mio caro, fa lo stesso per me.»

Ferid ridacchiò senza replicare e Crowley si prese qualche attimo per guardarlo bene. Non era fisicamente molto diverso dall’uomo che era uscito dal suo appartamento in un triste giorno di novembre, ma qualcosa – la sua aura, per metterla in termini esoterici – era profondamente cambiata. Ovunque fosse stato, qualsiasi cosa avesse fatto in quel periodo, gli aveva lavato via quell’espressione che aveva prima in fondo agli occhi, quella perenne supplica di non essere lasciato solo.

È più vicino all’uomo che voleva diventare… ma… abbastanza vicino da smettere di cercare? Per questo è tornato?

Crowley allungò la mano passando le dita sul viso e sfiorando il suo orecchino; non portava più orecchini pendenti ma piccoli rombi d’argento al lobo.

«Senti, Ferid…» esordì titubante, passando le mani fra i suoi capelli. «Mi chiedevo… sei… Ferid, che è successo ai tuoi capelli?»

Infatti alla sua coda di capelli d’argento mancava un bel po’ della lunghezza che ricordava. Ferid ridacchiò e passò la coda sulla spalla: aveva perduto metà del suo rifulgente crine di unicorno, chissà dove, quando e perché.

«Li ho accorciati, sai… praticità» spiegò lui, e ributtò i capelli sulla schiena. «Ora sei tu quello con i capelli più lunghi tra noi due… ma non credo che quell’aria così seria fosse per questi, anche se so quanto li adoravi~»

«Sì, no… uhm» fece Crowley, e si schiarì la gola. «Mi chiedevo se…»

«Bacialo!»

Entrambi sussultarono a quell’esortazione proveniente da Yuu, al centro di un trio di agenti freschi di accademia, affacciati al vetro come un gruppetto di bambini allo zoo. Crowley tirò giù la veneziana in faccia ai tre impiccioni con un gesto brusco e fissò Ferid con più risolutezza.

«Ferid, sei tornato per restare?»

Lui sorrise raggiante, portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

«Vuoi che resti, mio caro?»

«Dipende. Hai trovato quello che stavi cercando quando te ne sei andato?»

Ferid soppesò la domanda per alcuni secondi che parvero mostruosamente lunghi. Alla fine gli prese le mani con delicatezza.

«Credo di averlo trovato, sì.»

«Sì, lo credo anch’io» commentò Crowley, rapito da quanto Ferid sembrasse maturato. «Allora puoi restare… anzi, devi restare.»

Non rispose a parole, ma la sua espressione felice parlava di un’allegria quasi infantile. Era evidente a Crowley che entrambi fossero sollevati di trovarsi alla ricerca l’uno dell’altro. Nonostante le curiose circostanze in cui si erano conosciuti e avvicinati, si erano scelti di nuovo anche senza forzature: questa consapevolezza bastava a spazzare via due anni di dolorosi dubbi.

«Ora è meglio che vada. Ti lascio tornare al lavoro.»

«Te ne vai già? Ma sei–»

Venne tacitato da un bacio inatteso quanto desiderato. Strinse d’istinto Ferid a sé, si lasciò sommergere dalle emozioni del momento e dimenticò del tutto dove si trovavano. Tentò di trattenere Ferid quando lo sentì scostarsi per interrompere il bacio, ma quando gli premette le mani sul petto lasciò che quella parentesi felice finisse.

«Possiamo vederci a cena, tenente?»

«Certo che possiamo. Ti vengo a prendere, stai a casa nel West End?»

«Prenoto da KP, che ne dici? Alle sette ce la fai?»

Crowley annuì. Non riusciva a non sorridere accorgendosi di come le loro dita si stringessero e intrecciassero come se volessero impedire ai loro proprietari di separarsi.

«Alle sette passo da te.»

Ferid gli diede un bacio sul viso, tenero come non ricordava di averne mai ricevuto uno da un uomo.

«A più tardi, mio splendido tenente. Non arrabbiarti con Mikaela, mh?»

Crowley strinse le sue dita prima che scivolassero dalla sua mano.

«Oggi non so neanche cosa sia la rabbia.»

Un sorriso pieno di dolcezza e occhi brillanti furono il suo congedo mentre la mano scivolava via e l’uomo che aveva lasciato vuoto il suo letto per quasi due anni abbandonò il suo ufficio. Si sentiva vagamente stordito ora che non lo vedeva più davanti agli occhi, come se si fosse svegliato da uno dei molti sogni in cui l’aveva incontrato.

Andò alla scrivania anche se non ricordava più che cosa dovesse fare. Aprì i cassetti in cerca di qualcosa che gli rinfrescasse la memoria e rifocalizzasse i pensieri, e trovò l’appunto sull’interrogatorio Carson. Uscendo per spedire uno dei suoi a controllare certe informazioni il suo sguardo si posò su un angolo dell’open space e sorrise.

Un giovane, biondissimo agente di pattuglia con la faccia d’angelo e una scia di cuori infranti lasciati in accademia stava parlando con Ferid, con una complicità e intimità rara a vedersi. Era sinceramente contento di vedere che il loro legame fosse rimasto saldo anche con quella lontananza, perché se Ferid era maturato e forse si era costruito una nuova rete Mikaela aveva ancora bisogno di ponti verso il mondo esterno.

In quel momento non aveva nessun motivo di pensare che il loro rapporto così stretto si sarebbe trasformato in un’arma a doppio taglio.

 

*

 

Alle sette e mezzo, seduto a un tavolo nel patio da KP con un gran ben di Dio di fronte, Crowley avrebbe voluto concentrarsi sulla carne grigliata e le alette di pollo, ma il divertimento e la gioia di vedere Ferid mangiare come un morto di fame e leccarsi le dita gli impediva di masticare appropriatamente.

«Sai, quando mi hai detto che prenotavi tu pensavo mi portassi in un posto raffinato, di quelli con otto posate e tre bicchieri…»

Ferid deglutì scartando le ossa di un’aletta e si pulì la faccia dagli sbafi di salsa piccante.

«Se ci tieni te li faccio portare, ma mi sono ricordato di quanto ti piaceva vedermi mangiare. Ho digiunato tutto il giorno.»

Ricordi dei burritos di Albador gli passarono in mente, ma preferì smettere di fissarlo quando si accorse delle occhiate stranite degli avventori del tavolo accanto e decise di muovere l’assalto alla gran porzione di spiedini di salsiccia e pollo.

«Se hai un momento tra un boccone e l’altro mi potresti dire dove sei stato in questo periodo» buttò lì Crowley mentre lo guardava scegliersi un’aletta tra le più grandi.

«Sono stato in Inghilterra» fece lui, quando trovò un boccone all’altezza delle sue aspettative. «Sono andato a vedere la mia casa e a conoscere la servitù… sai, avevo disposto che parte dell’eredità servisse a pagare chi avesse voluto rimanere a servizio, per mantenere in buone condizioni la tenuta.»

«Molto generoso da parte tua» commentò Crowley, masticando.

«In verità non è una cosa molto cortese obbligare la servitù a servire in una casa sempre vuota, per questo ho disposto che venisse controllata e ripulita periodicamente senza obbligarli a risiedere alla tenuta.»

«Oh» fece lui, vagamente sorpreso. «Beh, mi sa che non sono molto informato su come vada trattata la servitù di casa…»

Ferid non replicò e fece un accenno di sorriso, lasciando qualche istante a Crowley per rimuginare sulla questione e rendersi conto che doveva essere noioso pulire stanze che non venivano mai usate e cucinare unicamente per i camerieri.

«Sai, la casa… era diversa da come la ricordavo nella mia mente… lì era molto più triste, brutta, e cupa.»

Ferid si ripulì le dita con la salvietta, con uno sguardo assorto in essa. Inesplicabilmente sorrise.

«Quando sono entrato… camminavo cercando di non fare rumore, parlavo a bassa voce, accostavo le porte per non sentire il rumore dello scatto… esattamente come si faceva in casa quando mia madre era viva.»

Crowley perse il sorriso e mangiò quasi senza badare a cosa, concentrato sul suo racconto. Come aveva già avuto modo di sapere la sua infanzia era stata dura, ma quei dettagli aggiungevano tinte più fosche al tutto.

«Poi quando ho visto le camere vuote di mia madre… a quel punto ho davvero realizzato che lei non c’era più. Che non mi avrebbe tirato dietro qualcosa come quando mi azzardavo ad andare da lei. Ah, quanto è stato liberatorio strappare le tende da quelle finestre e lanciarle di sotto!»

La risata di Crowley fece ribollire la gassosa che stava bevendo e ne fece schizzare dappertutto; si ripulì la faccia e la mano con il tovagliolo, incapace di trattenere l’ilarità.

«Hai lanciato fuori le tende?»

«Ho lanciato tutto quanto dalla finestra. Tutte le sue cose, i suoi vestiti, i suoi profumi, tutto quello che aveva» raccontò con fierezza Ferid. «E poi ho urlato nei corridoi radunando tutto il personale e gli ho chiesto di strappare le tende. Ho detto loro che volevo il sole in ogni angolo della villa!»

La sua espressione diceva tutto di quanto fosse felice di com’era andata quella visita e Crowley sorrise di rimando; lo lasciò parlare per minuti di fila di come si fossero sparpagliati per la casa a strappare via i tendaggi e di quanto allegramente le cameriere si fossero messe a lustrare i vetri per un’impeccabile trasparenza. Riuscì a immaginarselo quel nuovo Ferid a camminare per ampi corridoi e su per larghe scalinate di marmo, con dietro uno stuolo di cameriere come anatroccoli dietro la madre, a guidare una spedizione punitiva contro il suo passato.

Crowley aveva riempito il piatto di ossa ripulite e consumato un paio di salviette quando l’ultimo discendente della casata Cosworth ritenne di aver raccontato tutte le scene più interessanti della pulizia massiva e in tutta quella cronaca il nome di una delle cameriere gli affiorava alla bocca con una frequenza sospetta, secondo il tenente.

«Certo è stata una visita costruttiva, Ferid… e cosa mi dici d’altro di questa cameriera che chiami Mel?»

«Che cosa vuoi sapere?»

«Mi sembra che tu abbia parlato quasi solo di lei in tutti questi aneddoti…»

«Oh, non sei geloso, vero, Crowley?»

«Certamente lo sono» fece lui col tono più seccato possibile. «Mi parli di una sola ragazza mentre mi racconti i tuoi due anni di vuoto, è normale che mi faccia delle domande, no?»

Non aveva diritto di essere geloso visto come si erano lasciati e lui stesso non si era certo chiuso in un chiostro con addosso un saio, ma il pizzicorino che sentiva intorno al ventre gli diceva che il sospetto pungeva, e che quindi non amava Ferid meno di allora. Era sgradevole e piacevole al tempo stesso.

«Si chiama Melody, Melody Wiley. Non so il suo secondo nome, se ne ha uno.»

«Hai fatto un altro tentativo con una donna meno pazza di Krul Tepes?»

Ferid alzò le mani in segno di resa.

«Krul ha dimostrato che vado a segno con una probabilità del 100%, non ci proverò un’altra volta.»

Il boccone di controfiletto andò giù lento e pesante come una palla da bowling.

«Ferid… che cosa significa questo?»

Il suo sguardo si fece sfuggente, come cercasse il percorso antincendio per scappare da qualcosa che gli era uscito di bocca senza volere. Quel disagio peggiorò le sue sensazioni all’istante e nulla fu più divertente.

«Ferid. Che cosa significa quello che hai appena detto?»

«Io… non ti arrabbiare, Crowley. Posso spiegare.»

«Allora fallo. Subito

Non fu del tutto indolore scoprire che alla loro relazione di una notte sola era seguita una gravidanza prematuramente interrotta a causa della costituzione debole di Krul e per un attimo pensò di andarsene, smaltire quel colpo in solitudine. Ferid si giustificò rapidamente spiegandogli che non era mai stato certo di avere visto giusto fino a quando non ne parlarono in quel fatidico novembre, e questo almeno cancellò il risentimento di bugie taciute e lo persuase a rimanere.

Si scoprì comunque a invidiare Yuu e Mika, che si conoscevano da sempre: cercare di comporre l’immagine di Ferid avendo un pezzetto per volta si rivelava spiazzante e frustrante, alle volte.

«Sei arrabbiato, Crowley?»

«No… no, non sono arrabbiato. Scusami se sono stato brusco, ma…»

«So perché sei suscettibile ai figli non menzionati» concluse lui, accomodante.

Non era riuscito a passare sopra alle omissioni colpevoli di Horn altrettanto facilmente, quindi affondò la mano nel cestino delle patatine fritte e decise di non entrare in quel terreno paludoso.

«Ehi, Ferid.»

«Sì, caro?»

«Che cosa avresti fatto se non ci fosse stato l’aborto spontaneo?»

«Beh, sarebbe dipeso tutto da che cosa Krul avrebbe scelto di fare» rispose lui senza esitare, come se ci avesse già pensato su a lungo. «Ti ho già detto che io sarei stato contento di poter avere dei figli ed essere un genitore migliore di quelli che ho avuto. Se fosse successo, se Krul me lo avesse detto, avrei fatto il padre.»

Crowley annuì. Sapeva che Ferid trovava la compagnia dei bambini molto più confortante di quella di molti adulti e che avrebbe voluto una famiglia anche al prezzo di sottostare a un matrimonio combinato nella prassi delle famiglie nobili; ricordava di averne discusso con lui durante la nottata di Halloween.

«E tu, Crowley?»

«Mh? Io che cosa?»

«Tu che cosa avresti fatto se io avessi avuto un figlio da quella relazione?» fece, servendosi uno spiedino molto abbrustolito. «Mi avresti voluto comunque?»

«Credo di sì. Io sono innamorato di te, non del fatto che sei solo al mondo.»

«Oh, sì, ha un senso» commentò pensieroso. «E invece, che cosa faresti se capitasse a te? Tipo, l’ultima ragazza con cui sei stato ti viene a dire che è incinta e che il padre sei tu. Che cosa faresti?»

Crowley sospirò inclinando la testa mentre si massaggiava il collo. Quella domanda gli metteva le spine ai piedi, per dirla come nonno Gideon.

«Dobbiamo proprio parlarne?»

«Su, su, è solo ipotetico… è un argomento come un altro. Non ti vergogni mica con me, no?»

Crowley sospirò e sperò che Ferid si scoraggiasse, ma mentre scomponeva lo spiedino per iniziare a mangiare dai pezzi di pollo non smise di guardarlo, in attesa.

«Mh… sarò onesto, Ferid. Non so che cosa farei. Io non sono come te, non mi sono mai fermato a pensare a me in veste di padre e non penso neanche di esserci tagliato. Decidere quando dire di sì e quando di no, quando premiare e quando punire, e spiegare le cose difficili… dare un esempio… non credo di essere capace di fare qualcosa di così importante e delicato. Probabilmente sarei uno di quei padri che lasciano fare tutto alla mamma e si limitano a insegnargli lo sport, fare la ramanzina quando la mamma lo dice e a rispondere alle domande sul sesso quando arriva l’adolescenza.»

Ferid rise, ma non chiarì mai se a divertirlo furono le ultime domande menzionate o l’insieme della prospettiva.

«Però stai parlando di figli maschi… che cosa faresti con una figlia femmina?»

Quella domanda accese quella parte di fantasie genitoriali di Crowley che erano rimaste a impolverarsi dopo la sua partenza improvvisa due anni prima. Sapeva benissimo che l’idea di una figlia femmina metteva in moto molto di più la sua immaginazione e riusciva a vedersi molto più partecipe nella vita di una bambina, ma trovava imbarazzante – anche se non seppe spiegarsi come mai – rivelarlo a Ferid.

Non ce ne fu bisogno.

«Oh, Crowley, ti stanno brillando gli occhi!»

«Cosa… no, non è vero.»

«Ma si vede benissimo, ti sei acceso!»

«Smettila, non è vero» borbottò, versandosi da bere.

«Non c’è mica niente di male… oh, non sarai della risma che pensa che tutti i padri dovrebbero desiderare figli maschi per farne degli ometti e lasciare le femmine alle loro madri, vero? Ne sarei tremendamente deluso.»

«No, io… tutto il contrario, piuttosto…»

Sospirò e scolò la gassosa rimasta in un sorso solo. Cercò con gli occhi il cameriere per ordinarne altra e darsi un momento di respiro, ma non era in vista.

«Penso solo che… non ho avuto molto da mio padre e da mio nonno, a parte l’esempio. Nella mia vita sono state le figure femminili a pensare a me. A nutrirmi, accudirmi, educarmi… c’era mia madre, e nonna Susan, e zia Beatrice… e poi, Bernadette. È come se… mi avessero lasciato intendere che un uomo non ha ruolo nel crescere un figlio maschio se non fargli da esempio, mentre si dedicano a proteggere le figlie dai guai e dai bellimbusti, quindi… mi è più facile pensare a…»

«A ricambiare l’amore che hai ricevuto dalle donne della tua famiglia tramite le tue figlie» concluse per lui Ferid. «Certo è una reazione comprensibile data la situazione… hai percepito come una questione priva di affetto crescere un figlio maschio da parte degli uomini di famiglia, e pensi inconsciamente che succederebbe lo stesso se tu avessi dei figli maschi.»

«Beh, non so se è proprio così che–»

«Lo so io» fece lui con un largo sorriso. «Ti conosco, Crowley, e tu sei un uomo pieno di amore e di affetto che vuoi dare~»

«Ehmm…»

Tentò di attirare l’attenzione del cameriere, ma quello non lo vide e rientrò nel ristorante.

«Ah, non serve imbarazzarsi. Sai che è così, e non c’è assolutamente nulla di sbagliato in questo. Non ha nulla a che vedere con le tue preferenze sessuali, non c’entra Dio né il peccato, né chiunque altro della famiglia Eusford o degli O’Brian. Tu, Crowley, sei questo tipo di persona, ed è un meraviglioso tipo di persona.»

Crowley ripensò a tutte le occasioni in cui era stato ripreso per la sua espansività o aveva messo in imbarazzo qualcuno con una confidenza eccessiva nelle conversazioni; per non parlare di come aveva salutato Connor dopo la loro permanenza in West Virginia. Decise con risolutezza di non farlo sapere a Ferid.

«Sei diventato bravo a parlare, Ferid. Sei diventato psicologo?»

«No, ma ho fatto esperienza durante la terapia. Si sente proprio di tutto…»

«Terapia? Sei stato in terapia?»

«Sì, certo… sai, terapie di gruppo per vittime di abusi infantili. Dove tanti altri come me avevano difficoltà a capire e a dare l’amore per via di come erano stati trattati. È stato determinante per rimettere le cose nella giusta… ottica. Ora sto molto meglio, sono in pace con quello che è stato. Non credevo che sarebbe mai accaduto… ed è merito tuo.»

Crowley lo guardò accigliato.

«Che c’entro io? Sei stato tu, Ferid, tu soltanto.»

«Se tu non avessi cercato così disperatamente di salvarmi, non avrei mai visto in me qualcuno che valesse la pena difendere. Non ci avrei mai nemmeno provato.»

Di certo il suo sguardo diceva che era sincero: Crowley aveva adempiuto al suo ruolo mostrandogli quanta meraviglia vedeva in quell’uomo che si considerava senza speranza, e che ora era sbocciato splendidamente. Solo ora che lo vedeva rifinito si rese conto di quanto fosse sbozzato e fragile il Ferid che aveva lasciato andare a malincuore quel giorno di novembre.

Lo guardò attirare finalmente il loro cameriere, ordinare altre bibite e un dolce della casa. Aprì bocca per dire qualcosa, ma il brillio dell’anello della ragazza al tavolo accanto gli riportò alla mente un’altra donna che credeva di aver dimenticato: una giovane infermiera che gli chiedeva se avessero fissato una data, che diceva che lei e la sua fidanzata erano ancora indecise tra maggio e settembre.

Alzò lo sguardo sugli occhi celesti di Ferid, che lo guardava senza parlare e gli sorrideva con l’aria incuriosita. Crowley allungò la mano sul tavolo per prendere la sua e questo accentuò la sua divertita perplessità, e in quel momento ci pensò su seriamente. Dopo l’emozione di rivedersi, dopo quella riunione così tenera e sentita, con la sua mano stretta nella sua, pensò che si sentiva pronto. Decise che avrebbe aspettato il suo prossimo compleanno per chiedergli se preferisse maggio o settembre.

   
 
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Owari no Seraph / Vai alla pagina dell'autore: A_Typing_Heart