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Autore: Orso Scrive    16/11/2022    2 recensioni
Quando due anime vibrano di un amore vero e intenso, che arde nel profondo, è destino che si ritrovino sempre, oltre la vita, oltre la morte...
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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1.

 

Maggio 1946

 

«Ahahaha!!! Ahahaha!!! Noooo!!!»

L’uomo urlava e gemeva. Gridava e piangeva. Delirava. Rideva come un ossesso, prima di essere scosso da nuovi attacchi convulsi di risa. Attacchi a cui seguivano altre crisi di pianto, subito interrotte da eccessi di folle ilarità.

I suoi occhi erano spalancati, acquosi. Brillavano di follia. Si rotolava sul pavimento, si rialzava e correva avanti e indietro come per difendersi da una persona visibile solo a lui che cercasse di afferrarlo e fargli del male. Continuava a stringere le mani, cercando di pulirsele sulla sudicia camicia a righe, che lo inquadrava come internato numero 1612.

«Il suo sangue…! Ho il suo sangue sulle dita! Ahahaha!!! Ma non è morta, non è morta, non è morta, non è morta…!»

Fece per lanciarsi a capofitto contro la parete. Non ne avrebbe ricavato alcun risultato, essendo imbottite di piume e foderate di pelle. Ma i due infermieri prontamente accorsi nella cella lo bloccarono e, tenendolo stretto, lo schiacciarono contro il pavimento, immobilizzandolo.

Il dottore entrato dalla porta di metallo rimasta spalancata lo contemplò con il volto atteggiato a una vera sconfitta. Era un medico molto giovane, con capelli nerissimi tenuti a bada con la brillantina e baffetti sottili. Eppure, nonostante l’età, si capiva quanto avesse preso a cuore la sorte del suo paziente.

«Che peccato», sussurrò, scuotendo la testa. «Sembrava che avessimo fatto dei seri progressi, dopo aver provato a cambiare il metodo di cura…» Prese una stilografica d’oro dal taschino del camice bianco, svitò il tappo e scribacchiò qualcosa sopra un taccuino dalla copertina nera. «Temo che dovremo ricominciare con l’elettroshock, per quanto poco approvi l’uso di una tale tecnica.»

«Questo qui è un caso disperato», commentò uno dei due infermieri, sempre tenendo fermo il paziente, mentre l’altro preparava un’iniezione di calmante. «Ormai sono passati più di quarant’anni da quando lo hanno acciuffato – da quando ha ammazzato la figlia e un’altra ragazza, in pratica – ma dice di continuare a vederla. Lei lo ha perseguitato per tutto il tempo che è resistito in quella casa dove l’ha fatta a pezzi, e il suo ricordo o quello che è l’ha inseguito fin qui dentro. Non si sa bene per quanto tempo sia rimasto rinchiuso in quella casa a impazzire, con le visioni della figlia a tormentarlo di continuo, giorno e notte. Mesi, probabilmente, almeno a giudicare dalle condizioni in cui furono ritrovati i due cadaveri. Io avevo diciotto anni, mi avevano assunto da poco qui al manicomio, e fui tra quelli che andarono a prelevarlo e… be’, quella villa era diventata un luogo da brividi. Mi terrorizzava stare là dentro. D’accordo che ero uno sbarbatello e dovevo ancora farmi le ossa, ma… non era solo quello. C’era davvero qualcosa di sbagliato, in quel posto, e non parlo soltanto dei due poveri corpi. Ci credo che poi questo tizio finì col vedere i fantasmi. Non c’è alcun rimedio con lui. Mi sa che smetterà di vederla quando creperà.»

«Con tutti i barbiturici che gli abbiamo propinato in questi anni, dovrebbe ormai essere già morto da un pezzo, con rispetto parlando», disse l’altro, iniettando il calmante nella coscia dell’uomo. «Mi sa che ormai non morirà nemmeno più e resterà qui in questa clinica per sempre.»

Il dottore si strinse nelle spalle. Ascoltava sempre con attenzione le chiacchiere degli infermieri, specialmente dei più anziani. Lo aiutavano a capire parecchio, riguardo i suoi pazienti.

«Il caso della figlia di quest’uomo, a dire il vero, è interessante», ammise. «Parecchio interessante. Dovrebbe entrare di diritto nel novero degli studi parapsichici. Non è il solo a dire di averla vista, dopo la sua morte. Pare che anche altri, entrando in quella casa, l’abbiano incontrata. E non è stata una bella esperienza, visto che lei li ha fatti diventare matti.»

Il medico sollevò le sopracciglia e incontrò gli occhi scettici dei due assistenti. Si sentì in dovere di giustificarsi. Parlare di fantasmi e di visioni spiritiche non era ciò che ci sarebbe aspettati da uno psichiatra come lui, laureato di fresco a Pavia e specializzatosi nella psicanalisi a Vienna.

«Mi sono un po’ interessato alla faccenda per capire meglio il quadro clinico del mio paziente, tutto qui.»

I due infermieri si scambiarono uno sguardo e un sorrisetto. Il paziente si agitò sempre più debolmente, poi sprofondò in un sonno chimico. Finalmente, poterono lasciarlo andare e rimettersi dritti.

«Dottore, lei è giovane, è fresco di laurea, dovrebbe saperlo meglio di altri che i fantasmi non esistono…» commentò l’infermiere più anziano. «…sono tutte baggianate per intortare vecchi e creduloni, fargli credere di avere appiccicato addosso il malocchio e levarglielo a suon di soldoni.»

«Robe da vecchie zitelle», gli fece eco l’altro infermiere. Colpì piano con la punta della scarpa il paziente privo di sensi. «O robe da pazzi, appunto.»

Il medico fece un sorriso tranquillo.

«Certo, certo, avete ragione», asserì. «Sapete com’è, tra nevrotici, casi patologici e malati di mente, non faccio che ascoltare storie del genere dalla mattina alla sera. Presumo di non sbagliare troppo nel dire che, alla fine, si finisce per accettare in un certo modo tutto questo per impedirsi di crollare nell’abisso di cui sa rendersi capace la psiche umana. Eppure…»

Tacque un momento, mordendosi le labbra, e il suo tono divenne quasi sognante. Fissò il suo paziente, ma senza davvero vederlo. Il suo sguardo si perse nel vuoto, focalizzandosi su qualcosa che si trovava al di là dell’uomo addormentato, dei due infermieri, della cella, del manicomio criminale e del mondo intero.

Riprese, e la sua voce divenne più profonda.

«…eppure, signori, sono certo che non tutto sia ancora stato indagato e scoperto, riguardo al mondo che ci circonda. C’è qualcosa, oltre il velo, qualcosa che abbiamo disimparato a vedere quando i nostri antenati svilupparono i cinque sensi, all’inizio della storia umana. Abbiamo perduto la facoltà di vedere più in là – intendo più in là del mondo fisico. Forse, quella che ci circonda, quella con cui abbiamo a che fare giorno per giorno, è solo pura illusione, e la realtà – la vera realtà – è altrove, oltre quel velo… il velo di Maya, per usare le parole del grande Schopenhauer. Ma il sesto senso, forse… e dico forse… forse esiste davvero, e se riusciremo ad apprendere come adoperarlo, forse un giorno potremo squarciare le tenebre che si pongono tra noi esseri umani e quel qualcosa che chiamiamo aldilà, potremo penetrare il velo che ci è calato sugli occhi e dischiudere i nostri sguardi verso la vera realtà di tutte le cose.»

Fissò un istante gli occhi annebbiati e semichiusi del paziente. Si domandò che cosa vedessero davvero. Forse quegli occhi avevano veramente oltrepassato il limite degli esseri umani.

Alzò lo sguardo e incontrò quelli imbarazzati dei due infermieri. Si rese conto di aver appena detto cose che, sulla bocca di un medico, non avrebbero mai potuto trovare posto. Era il momento di chiudere quella breve e strana parentesi. Doveva tornare a calarsi nel suo ruolo di psichiatra e dimenticarsi di tutto il resto.

«Ma ora basta con i forse», disse, riprendendo il tono pratico. «Non sarà così che spereremo di curare questo poveraccio. Tenetelo d’occhio e, se dovesse avere un’altra crisi, lo porteremo all’elettroshock. Mi dispiace dover ricorrere a questi metodi drastici e a mio avviso barbari e superati, ma se non c’è modo di calmarlo, io devo attenermi alle disposizioni della direzione.»

«Dottore, dia retta a me», disse l’infermiere più anziano, con un mezzo grugnito, «lei non può saperlo perché a quell’epoca non era nemmeno nei pensieri dei suoi genitori… ma se lei avesse visto come aveva ridotto quelle due poverine… poco più che bambine, mi creda, due fiorellini innocenti e delicati che non poterono mai sbocciare come avrebbero meritato… non solo non lo compatirebbe, ma – mi scusi il linguaggio volgare – gli applicherebbe elettrodi anche al buco del culo, a questo scarto umano.»

Il medico fece un sogghigno amaro e non commentò quelle parole. L’etica professionale glielo impediva. Girò le spalle alla cella e uscì nel lugubre corridoio del manicomio.

Era un uomo di scienza, la sua fede posava su granitiche basi materialiste. Il resto, gli avevano insegnato, erano chiacchiere e aria fritta per sciocchi superstiziosi, nulla di più. Non c’era nulla da vedere oltre il velo, perché – in poche parole – non c’era nessun velo oltre cui guardare: questo era lo scientismo, questo era l’atteggiamento che tutti si attendevano da parte sua, questo era ciò che ci si aspettava di sentire dire da un uomo laureato, da un medico e da uno psichiatra come era lui.

Eppure, mentre camminava, il dottor Joseph Bernasconi non poté fare a meno di pensare a tutte le storie che erano circolate negli anni, a tutti quei racconti a tratti orripilanti che erano seguiti alla morte di Edith Mayer.

E forse, si disse aggiungendo un altro forse alla sfilza che aveva già enumerato, forse tutte quelle storie agghiaccianti erano state create per non pensare al modo ancora più agghiacciante in cui era finita quella povera giovane, ammazzata senza pietà e senza alcuna colpa dal suo stesso padre.

 
   
 
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