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Autore: Nike90Wyatt    18/11/2022    0 recensioni
Milano, 2016. Marinette Dupain-Cheng vive la nuova realtà di studentessa dell’Accademia di Moda Bellerofonte per coronare il suo sogno di diventare un giorno una stilista di livello internazionale. Quella borsa studio ottenuta grazie al suo immenso talento è stata una vera benedizione del cielo. Ma la strada verso la gloria è frastagliata e irta di imprevisti e le certezze di Marinette, lontana dal sostegno dei suoi amici, iniziano a vacillare fino a crollare del tutto quando una minaccia tanto pericolosa quanto imprevedibile inizia a incombere su Milano. I poteri di Ladybug potrebbero non essere sufficienti per affrontarla; pertanto, Marinette dovrà ricorrere a tutto il suo coraggio e fare delle scelte che cambieranno per sempre la sua vita.
[Cover Credits: https://www.instagram.com/my_bagaboo_/]
Genere: Azione, Sovrannaturale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Marinette Dupain-Cheng/Ladybug, Nonna Gina, Tikki
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Attraverso il cancello della scuola e mi incammino verso l’ingresso. Sulla facciata sono stati stesi due teli rossi dalla coda biforcuta che pubblicizzano la sfilata che avverrà sabato prossimo, quando verrà annunciato il vincitore della gara.
Per rendere la manifestazione più interessante, i giudici hanno disposto che non verrà dichiarato direttamente il vincitore; il pubblico vedrà il capo migliore sfilare indosso ad Alessio.
Svolto a destra nel corridoio, dirigendomi verso l’aula magna. Solo per la giornata di oggi, tutte le lezioni sono state sospese, ma gli studenti sono stati comunque invitati a seguire la presentazione degli abiti in gara.
Eppure, nonostante il mio interesse nei confronti di questo progetto sia cresciuto sempre di più col passare dei giorni, oggi non riesco a pensare ad altro che ai Satiri. Non riesco a togliermi dalla testa la vista di quegli ordigni che quei due stavano installando nell’ufficio del preside e il pensiero che possano riprovarci mi scombussola.
Sbircio dalla porta. Dietro alla cattedra sono già accomodati un uomo con uno sgargiante completo verde pisello e la donna che era presente il giorno delle iscrizioni, anche oggi munita di sciarpa intorno al collo.
Davanti a loro, è disposta una dozzina di manichini spogli, sui quali andranno appuntati i vari capi partecipanti. All’altezza del petto, spicca una targhetta dorata dove sono affissi i nomi corrispondenti agli studenti.
Mi strofino i palmi l’uno contro l’altro. Per fortuna, Sonia si è offerta di redigere per intero il discorso di presentazione del capo, in modo da bilanciare le ore che ho passato a cucire ogni singolo filo. E poi, oggi non ho proprio la testa per applicarmi a trovare le parole adatte: sono certa che mi incarterei con la lingua e finirei per creare un bel pasticcio.
In prima fila, al posto più esterno, è seduta una ragazza con un gilet di jeans tempestato di brillanti e una fluente chioma bionda a boccoli. Letizia. Si torce le dita e se le porta a tratti alla bocca, mangiucchiando le unghie a cui tiene tanto.
Accidenti. Non avevo la minima idea che potesse essere nervosa per la gara. Proprio lei che ostenta sempre la sicumera di primeggiare in qualsiasi attività che fa – anche se per quanto riguarda la moda, i suoi meriti tendono pressoché allo zero.
Se è così insicura del lavoro svolto dai suoi “assistenti”, poteva anche pensarci da sola a disegnare, confezionare e presentare il progetto. Non ho idea del risultato che ne sarebbe uscito, ma almeno avrebbe avuto la soddisfazione di fare qualcosa con le sue graziose manine da fata. Forse, però, è un concetto troppo al di sopra delle sue capacità.
Il professor Ursi sbuca da uno degli ingressi laterali all’aula. Veste una semplice camicia bianca e dei pantaloni in cotone scuri. Porta i capelli ben pettinati, con dei ciuffi bianchi che gli striano le tempie, e una nuova montatura d’occhiali, nera con finiture in oro.
Scambia una parola con l’uomo in verde pisello, si volta e mi rivolge un cenno con la mano.
Ricambio il saluto.
Sale le scale, saluta Letizia, e mi viene incontro. Si accosta al battente. «Buongiorno, Marinette. A differenza degli altri giorni, sei piuttosto in anticipo oggi.»
«Buongiorno a lei, professore. Ho preferito sbrigarmi prima, non avrei perso per nulla al mondo l’occasione di oggi.»
«Sai, sono rimasto piuttosto sorpreso dal fatto che tu non ti sia iscritta alla gara.»
Un brivido gelido mi serpeggia lungo la schiena. «C-Come?»
Ursi piega le labbra in un mezzo sorriso. «Tendo a non essere troppo prodigo di complimenti, ma tu, Marinette, sei una studentessa brillante. Ero certo che avresti partecipato e, con la creatività che ti ritrovi, avresti potuto conquistare la vittoria.» Alza le spalle. «Confido che la prossima volta ci farai più di un pensiero. Mi secca sprecare talenti come il tuo.»
«M-ma…» Ho la gola secca e faccio fatica a respirare. «I-io s-sono…»
Ursi mi accarezza la spalla. «Goditi la gara, Marinette.» Rientra nell’aula.
Ho il cuore che galoppa nel petto e mi rimbomba nelle orecchie. Il professore si sbaglia: io sono iscritta alla gara, partecipo insieme a Sonia, abbiamo concordato insieme quale disegno proporre tra quelli sul mio quadernetto, abbiamo scelto le stoffe che poi ho cucito…
Un atroce sospetto mi affiora nella testa.
No. Non posso… non voglio credere che—
Giro i tacchi e corro verso l’ingresso.
Sonia mi deve tante spiegazioni.
 
***
 
L’autobus accosta al cancello e apre le porte. Sonia salta giù e si incammina sul piastrellato.
Ma come si è conciata?
Porta i capelli mossi e vaporosi, un paio di occhialoni a mosca le coprono metà del volto e cammina col mento sollevato, ostentando alterigia. Indossa una camicetta rosa, sopra una maglietta bianca, con almeno tre collane dorate che le pendono sul petto, e una minigonna. Ai piedi, calza un paio di décolleté nere, con un brillante sul laccetto che le chiude.
Questa non è Sonia. Dev’essere una gemella segreta che ha preso il suo posto.
Mi asciugo il sudore freddo dalla fronte con il dorso della mano. È folle pensare che lei possa avermi preso in giro. Dopo tutto quello che abbiamo passato insieme in questo anno.
Sonia si ferma a fianco a me, ficca la mano nella sua borsa a tracolla e ne estrae un quaderno.
Mi paralizzo.
È il mio quaderno dei bozzetti.
Sonia lo agita, lo lascia cadere a terra e lo schiaccia sotto a un tacco. «Immagino che questo non mi serva più.»
«C-che…» Una colata di acido mi sale dallo stomaco, la rigetto giù. «Perché?»
Sonia solleva gli occhiali sulla fronte. «Perché io voglio vincere, Marinette. Sono stufa di arrivare sempre dopo le altre e accontentarmi delle briciole. Sono sempre stata messa in secondo piano da chiunque, sia nella scuola, sia dai miei genitori, sia dai ragazzi. Pensavo di dover combattere a vita da sola contro le persone come Letizia. Poi sei arrivata tu.»
Mi punta contro l’indice. «La ragazzina francese dall’animo puro e generoso.» Mima un conato. «Mi davi il voltastomaco. Però, sei sempre stata in gamba, specialmente nella moda. E sapevo che prima o poi il tuo talento e la tua immensa ingenuità mi sarebbero tornati utili. E ora ne raccolgo i frutti.»
Serro i pugni, le unghie si conficcano nei palmi. «Mi hai usata. Il giorno dell’iscrizione hai approfittato della mia esitazione e ti sei offerta di iscriverci entrambe ma alla fine hai consegnato solo la tua tessera studente.»
«Sei veramente una sciocca, Marinette. Confidi troppo nella buona volontà delle persone e per questo, puntualmente, rimarrai sempre nell’ombra, dove sono stata io finora.»
«Lo dirò a tutti che—»
«Che cosa? Non hai uno straccio di prova contro di me.»
Abbasso lo sguardo verso il quaderno a terra.
Sonia fa schioccare la lingua come un topo che gratta sul pavimento. «Io non ci conterei troppo su quello. Sono stata previdente e ho ricopiato il disegno dell’abito che presenterò. Ho aggiunto anche qualche lieve sbavatura in modo che sia più evidente che l’abbia disegnato io.»
«Sei veramente…» Una sfilza di insulti mi sale in bocca. Stringo i denti.
Sonia alza una mano aperta. «Perdonami, baguette. Ora ho una gara da vincere e un bel modello da vestire. Tu puoi anche tornare a casa tua, da quel bamboccio biondo che vive segregato col padre.» Si volta e scompare nel corridoio.
 
***
 
Lascio andare i piedi penzoloni oltre la ringhiera del terrazzo. Una coltre di nubi ha ricoperto il cielo, inscurendo la giornata. Un po’ come il mio umore in questo momento.
Da sotto, giungono le voci al microfono provenienti dall’aula magna. Si stanno alternando le varie presentazioni.
Per mia fortuna, è solo una specie di brusio, una sfilza di parole senza un senso. Non mi andava affatto di assistere alla discussione trionfale di Sonia, che si prende tutto il merito di un lavoro al quale ho lavorato da sola, almeno per il novanta percento.
Il disegno era mio, la stoffa l’ho scelta io, le cuciture, le correzioni, le notti insonni a tagliare e a ricucire… è tutta roba mia e quella vipera se ne prenderà il merito.
E io non posso fare nulla per impedirlo. È come dice lei, la sua parola contro la mia. Forse qualcuno mi crederebbe – il professor Ursi lo farebbe di sicuro conoscendo il mio tratto – ma chi potrebbe convincere i membri della giuria?
Lascerebbero correre, a loro interessa solo presentare un abito valido per la sfilata di sabato.
Tikki sbuca fuori dalla pochette chiusa, attraversando la stoffa con i suoi poteri. «Non avresti dovuto lasciarglielo fare, Marinette. Quell’abito è frutto del tuo duro lavoro, non è giusto che un’altra se ne appropri.»
Mi sfilo i codini e lascio che i capelli svolazzino alla leggera brezza. «In questo momento, Tikki, vorrei solo che questa giornata passasse in fretta per dimenticarmene e andare avanti.»
«Ma—»
«Niente ma. Ho subito una gravissima ingiustizia, sono stata tradita da una persona che ritenevo amica, stavo quasi per apporla al livello delle mie amiche di Parigi. Mi sono sbagliata sul suo conto. Almeno in questo, Sonia ha ragione: sono stata un’ingenua. Mi sono concentrata esclusivamente sulla prepotenza di Letizia e non mi sono accorta che stavo covando una serpe in seno.»
Butto fuori un gran respiro. «Ma ormai è andata. Non posso farci nulla, se non accettare il mio errore e farne esperienza.»
Tikki incrocia le zampette, un cipiglio aggressivo si disegna sui suoi lineamenti scarlatti. «Però non è giusto. Sonia meriterebbe una bella lezione per quello che ti ha fatto. E sappi che io sarei disposta anche a soprassedere sulla regola dell’interesse personale qualora tu lo volessi.»
Scuoto piano la testa. «Ti ringrazio per il supporto che mi dai, e non solo in questo momento. Però, abbiamo lavorato insieme perché io potessi crescere e superare determinate situazioni alle quali spesso e volentieri – troppo spesso – ho reagito sbagliando. E non voglio che si ripeta una cosa simile.»
La porta del terrazzo cigola, Tikki si fionda all’interno della pochette per nascondere la sua presenza.
Giro la testa sulla spalla.
Alessio Tancredi avanza sul terrazzo, i suoi occhiali scuri riflettono la luce bianca delle nuvole.
Si accosta a me e posa un piede sulla ringhiera. «Parli da sola, Marinette? Sai, molti studiosi hanno divergenze tra loro a riguardo: c’è chi afferma che è sinonimo di pazzia e chi dichiara con fermezza che è sintomo di una grande intelligenza.»
Ridacchio. «E tu cosa ne pensi?»
«Beh, se avessi dato il passaggio ad una pazza, me ne sarei accorto. E anche se fosse stato così, non me ne sarebbe importato nulla.»
Batto la mano sul cornicione. «Siediti, così mi fai compagnia.»
Alessio accoglie l’invito. «Come mai non sei di sotto? Ho scaglionato i posti uno ad uno per cercarti, ma non ti ho trovata.»
«E come hai saputo che ero qui? Non l’ho detto a nessuno.»
Alessio fa spallucce. «Ho tirato a indovinare. E se il bidello ti dovesse dire che ti ha vista salire le scale, sappi che mente spudoratamente.»
Di nuovo, rido. «E perché dovrebbe mentire il bidello?»
«Perché… perché sì. Mente.» Alessio si sfila gli occhiali e inchioda i suoi occhi nerissimi su di me, il sorriso lascia spazio ad un’espressione seria. «Cos’è successo, Marinette? Perché non eri vicino alla tua amica con la quale hai lavorato all’abito? C’entra qualcosa Letizia? Se fosse così, io—»
Gli tiro un buffetto sul bicipite. «Smettila di voler fare l’eroe dalla scintillante armatura. Non ne ho bisogno.»
Alessio finge di sentire chissà quale dolore e mette su il broncio. «Così mi spezzi il cuore. In Francia avete tutte gli artigli affilati?»
«Solo se necessario. E comunque, Letizia non c’entra nulla. Non stavolta.»
«E allora cos’è che ti porta a stare qui, da sola? Spero che non sia perché non gradisci il risultato dell’abito: sei andata sul sicuro, optando per un completo classico. Sono certo che otterrete un ottimo risultato, tu e la tua amica.»
«Lei non è mia amica. Non lo è mai stata… ha solo finto di esserlo.» Sospiro. «Non mi ha iscritto alla gara.»
Alessio corruga la fronte. «Non ti ha… ma io ricordo bene che tu le consegnasti la tessera affinché lei iscrivesse entrambe.»
«Da quanto mi osservavi quel giorno?»
«Da un po’… e comunque, non cambiare discorso. Questa è un’ingiustizia, Marinette! Quella tizia sta per prendersi il merito di qualcosa a cui avete lavorato insieme.»
Sollevo un indice. «Tengo a precisare che gran parte del lavoro l’ho fatto io.»
«Ancora peggio!» Alessio intreccia le dita e le fa scrocchiare. «Adesso scendo e la rivolto come un calzino, vedremo se non sputa fuori la verità.»
Mi avvinghio al suo braccio. «Tu, invece, non farai assolutamente nulla. Che Sonia si prenda pure meriti che non ha. Anzi, spero anche che vinca, così poi dovrà fare i conti con quello che verrà dopo. Quando tutti si aspetteranno altre opere di qualità, verranno fuori le sue vere capacità.»
«Marinette, io non ti capisco. Io posso testimoniare per te, posso—»
«Non occorre. Va bene così. E sabato sarò anche tra il pubblico che ti vedrà sfilare con l’abito vincitore. Non le darò la soddisfazione di vedermi sconfitta.»
Alessio socchiude gli occhi. «Tu hai qualcosa in mente.»
Prendo i suoi occhiali da sole e li inforco, i dintorni si scuriscono dietro alle lenti. «Forse…»
«Qualunque cosa sia, conta su di me. Non in qualità di cavaliere dall’armatura scintillante, ma come umile scudiero dell’eroina francese.»
«Grazie…»
Alessio pesca dalla tasca un bigliettino da visita e me lo porge. «È di mio padre. La sua agenzia ha organizzato e gestito l’evento. Se dovessi averne bisogno, ci sono il suo numero di telefono e il nostro indirizzo. Mio padre lavora nel suo studio fino a notte fonda, quindi puoi chiamare a qualsiasi ora. Basterà che tu dica il tuo nome.»
«Hai parlato di me a tuo padre?»
Alessio alza le spalle. «Mi ha chiesto un parere sugli studenti che avrebbero partecipato alla gara.»
Infilo il bigliettino nella pochette. «Vedrò di farne buon uso.»
 
***
 
Mi rigiro nel letto, attorcigliandomi le lenzuola addosso. Dopo due ore di cinguettio straziante, l’uccellino che si era appollaiato fuori alla finestra tace. Mi sembrava di averlo proprio accanto all’orecchio, come se volesse dedicare il suo canto solo per me.
Spalanco gli occhi. Sul soffitto, danza il riverbero di un lampeggiante che proviene dalla strada. In sottofondo, un cupo rumore di un motore borbotta. Devono essere quelli della nettezza urbana.
Mi volto su un lato e scocco un’occhiata verso l’orologio digitale sulla scrivania. Sono appena le 2:15.
Dalla finestra il lampeggiante si allontana tracciando oblique lame paglierine sul soffitto e sulle pareti.
Per quanto voglia dare la colpa ai rumori esterni, la verità è che non riesco a dormire per la vampata di acido che mi ristagna nello stomaco e sale e scende lungo l’esofago, bruciandomi gola e palato.
Quando ero con Alessio, mi sembrava di avere a portata di mano la soluzione per risalire il profondissimo pozzo nel quale mi ha gettata Sonia. Forse, nemmeno Lila sarebbe arrivata ad architettare un colpo basso del genere. Almeno lei si è dichiarata fin da subito per quella che è nei miei confronti: una viscida manipolatrice bugiarda.
 Invece, Sonia ha recitato per tutto il tempo la parte dell’amica con dei problemi di autostima, quella che è pronta a ricambiare il tuo supporto con del sincero affetto.
Mi stropiccio gli occhi, scosto il lenzuolo. È inutile. Ho bisogno di scrollarmi di dosso tutta questa bile che mi circola nelle vene e non lo farò certo stando rannicchiata nel letto in attesa che il sonno giunga.
Allungo la mano sul comodino, afferro lo smartphone e lo sblocco. Una carrellata di notizie sugli attentati di Milano invade la mia home.
Questi maledetti giornalisti sciacalli non hanno nemmeno il pudore di non copiarsi le informazioni l’uno con l’altro. Farebbero di tutto pur di vendere qualche news fresca al migliore offerente; intanto, i cittadini soffrono e la polizia brancola nel buio.
Mi mordicchio il polpastrello del pollice.
Già, la polizia
Da quando ne ho parlato con la nonna, non ho più raccolto notizie riguardo il questore Giovanni Portanova, assorbita dalla gara dell’Accademia.
Ma ora che non è più di mio interesse, posso impiegare il tempo per cercare di proteggere Milano dai Satiri dell’Anarchia e da quello che ritengo sia il loro burattinaio.
Chiudo l’app delle news e apro Google. Digito nella barra di ricerca il nome “GIOVANNI PORTANOVA” e avvio la ricerca. Gli unici risultati riguardano le sue dichiarazioni riguardo la misteriosa figura che ostacola le indagini e la sua nuova carica in stato d’emergenza che gli consente di gestire le sue unità come meglio crede, senza doversi appellare al Municipio.
Afferro il cuscino per l’orlo della federa e me lo sbatto sulla faccia, soffocando un gemito. Che mi aspettavo di trovare su Internet? La sua vita privata? Il suo domicilio?
Stupida! Stupida che sono!
Risistemo il cuscino al suo posto.
Tikki plana dalla sua cuccetta, la sua esile figura alata si staglia contro la flebile luce che proviene dalla strada.
«Marinette,» bisbiglia. «Che fai? Non riesci a dormire?»
«Cercavo qualche indizio che collegasse il questore ai Satiri. Ma sono risposte che non troverò certamente in un motore di ricerca online.»
«Beh, online forse no, ma…»
«Ma? Sai qualcosa che io non so?»
Accendo il lume sul comodino, la lampadina rischiara il volto esitante di Tikki.
Incrocio le gambe. «Se hai qualche indizio, ti prego di dirmelo. Almeno nel proteggere la città, vorrei avere una soddisfazione.»
«Dopo che ne hai parlato con tua nonna, ho riferito agli altri kwami i tuoi sospetti circa quell’uomo. Volevo alleggerirti il lavoro, sapendo già quali erano le tue intenzioni, ovvero parlare faccia a faccia con lui. Ho ragione?»
«Colpevole… prosegui pure.»
«Mentre tu seguivi le lezioni, gli altri kwami l’hanno seguito – con estrema attenzione ovviamente – e hanno scoperto dove abita.»
«E cosa aspettavi a dirmelo?»
«C’è stato il problema con Sonia e… scusami.»
Faccio un lungo sospiro. «Hai agito bene. Ora tocca a me.» Mi alzo. «Tikki, trasformami.»
 
***
 
L’appartamento di Giovanni Portanova occupa il piano più alto di un palazzo nel centro residenziale di Milano. È un edificio a forma di parallelepipedo di dodici piani, circondato da una striscia di verde, con tanto di parcheggio sotterraneo per i residenti.
Aggrappata allo yo-yo, disteso lungo l’intera facciata dove si affacciano solo delle finestre ad oblò, risalgo i piani dall’esterno. La scalata è agile e lineare, non sono per niente ostacolata dai tacchi.
Pensavo che questo nuovo look potesse in qualche modo crearmi delle difficoltà nei movimenti o nel combattimento, ma è evidente che la magia del Miraculous ha pensato anche a questo ed è come se stessi nella solita tutina rossa a pois.
Se questa cosa dovesse funzionare, quando tornerò a Parigi adotterò lo stesso approccio per scovare finalmente il nascondiglio di Papillon. Al minimo sospetto, indagherò a fondo e lo smaschererò. Sono indecisa se portarmi dietro Chat Noir: qualcuno che mi copra le spalle fa sempre comodo, se si risparmia il suo squallido sarcasmo e si concentra esclusivamente sul compito.
Mi riscuoto. Non è il momento di pensarci.
Passerà ancora parecchio tempo prima che torni in piena attività a Parigi. Parola mia, non me ne andrò da Milano finché non avrò conquistato almeno una fetta di quello che è il mio sogno: diventare una stilista.
Raggiungo l'ultimo piano e balzo sul balcone dell’appartamento di Portanova. Le persiane sono abbassate, dovrò cercare di entrare da una delle finestre.
Stendo di nuovo lo yo-yo, il cavo si avvolge intorno a due antenne paraboliche dislocate sul terrazzo. Salto oltre la ringhiera e oscillo con le gambe penzoloni oltre l’angolo della facciata. Pianto un tacco nel muro, per bloccare i movimenti, e allungo il collo. La finestra su questo lato ha uno spiraglio aperto.
Spero solo che il questore abbia il sonno pesante e non abbia installato un antifurto, altrimenti potrò dire addio alla mia missione.
La vista, da quassù, si estende per chilometri, abbracciando i dedali di vie della città, la sagoma scura del duomo e quella imponente del Pirellone.
Utilizzando i tacchi come rampini e il cavo come sostegno, cammino lungo la parete e raggiungo la finestra. Mi calo di qualche centimetro, avvolgo il cavo intorno alla vita. Do uno strattone per convincermi che la presa sia salda, non ci tengo a fare un volo di dodici piani. Sembra sia salda, ma per sicurezza, pianto i tacchi proprio sotto la marmetta che delimita da sotto la finestra.
Stendo le braccia, afferro l’infisso da sotto e spingo verso l’alto. Il vetro si solleva. Mi incuneo attraverso la fessura, ora grande abbastanza da farmi passare, e mi catapulto all’interno, atterrando a piedi uniti sul gabinetto. Riavvolgo a me lo yo-yo.
La finestra è aperta per consentire all’aria fresca della sera di asciugare dalle mattonelle l’umidità provocata forse da una doccia o da un bagno di poco fa. Un leggero odore di colonia permea l’aria.
Dunque, è in casa.
Appiattisco la guancia contro la porta e resto in ascolto, nella speranza di captare qualche rumore dall’altra parte del battente.
Nulla.
Abbasso piano la maniglia, apro uno spiraglio e sbircio. Il silenzio e la tranquillità dominano la casa. Sgattaiolo fuori dal bagno, i tacchi non provocano il minimo rumore a contatto con le piastrelle del pavimento. Potere del Miraculous. Attivo la funzione torcia dello yo-yo.
Mi affaccio in una delle porte spalancate del breve corridoio. Portanova dorme prono sul letto matrimoniale. È solo. Ricordo che lui aveva accennato a una riconciliazione con la moglie. Il regalo doveva servire a questo.
Sfioro un orecchino con il polpastrello. Per una volta, la coccinella mi ha portato fortuna. Basta muovermi con prudenza così eviterò di svegliarlo.
Mi aggiro per l’appartamento alla ricerca di quello che è il suo studio, o perlomeno, l’angolo in cui gestisce il suo lavoro da casa. Se trovassi il suo computer sarebbe ancora meglio, sempre se fosse sprovvisto di password.
L’ultimo locale della casa è una stanza con una scrivania addossata alla parete su cui troneggia un quadro raffigurante l’esercito italiano durante una parata. Accanto vi sono affissi i riconoscimenti che Giovanni Portanova ha riportato nel corso degli anni. È una figura esemplare per le forze dell’ordine. Questo collima con la mia teoria che possa essere lui a manipolare il gruppo di anarchici, ma potrebbe essere anche la conferma che dietro questi attacchi imprevedibili si nasconde una figura insospettabile.
Ma perché dovrebbe farlo?
Sciabolo il fascio di luce lungo gli scaffali ai lati. La libreria ospita volumi di antiche culture esoteriche, miti, rituali occulti e antiche leggende orientali. Non me ne stupisco: Portanova sembrava molto a suo agio nel negozietto dove comprai il regalo per la nonna.
In una nicchia, vi è una bacheca in vetro dietro la quale è collocato il pendente che Portanova mi ha sfilato da sotto al naso quel giorno.
Mi avvicino alla scrivania. Sopra, giacciono ritagli di giornali, articoli di blog stampati su carta, appunti scritti a mano. A quanto pare, nei mesi scorsi, il ministro e la stampa hanno criticato aspramente le tattiche di Portanova, i suoi continui dissidi con il sindaco e le enormi spese che pesano sul bilancio comunale, causate da un insensato utilizzo di nuove tecnologie per gli uomini di pattuglia.
Alla luce di questo, mi chiedo qual è il vero volto di Portanova: il brillante poliziotto medagliato o il nemico del Municipio?
A questo punto, il movente che l’ha spinto ad allearsi con i Satiri sembra chiaro: far fuori il sindaco. Questo spiegherebbe anche la sua crociata contro di me; sono un ostacolo per i loro piani. Ma ora che hanno fatto fuori il primo cittadino cos’altro vogliono?
Scosto dei fogli sulla scrivania e trovo un enorme disegno architettonico. È la planimetria di un luogo ben preciso. Sopra vi sono evidenziati con il pennarello rosso i due accessi possibili, da nord e da est, e, in blu, sono disegnate le sagome del personale di sicurezza. Al centro, si allunga un rettangolo circondato da omini neri, recintati all’interno di un cordone di sicurezza disposto dalle sagome in blu. Da un’estremità del rettangolo, si dipanano dei corridoi che conducono all’interno della struttura più grande.
È chiaro che sia il prossimo obiettivo di Portanova e dei Satiri. 
Sbatto le palpebre, il cuore mi balza in gola.
È il luogo dove si terrà la sfilata!
Ci saranno personaggi della moda provenienti da tutta Europa, forse dall’intero mondo.
Maledizione! Hanno alzato ancora di più il tiro. Ma stavolta mi troveranno pronta.
Avrò bisogno di un modo per entrare in quel posto e gestire l’attacco dall’interno. Con la funzione apposita dello yo-yo, scatto delle fotografie a qualunque documento si trovi sulla scrivania.
Ora devo andarmene da qui. Ho raccolto abbastanza informazioni da poterle studiare con calma nella mia camera.
Mi fiondo fuori alla finestra.
Lancio lo yo-yo verso l’alto, si aggrappa ad un’antenna, e oscillo lungo la facciata del palazzo.
Mi lancio verso un vicolo deserto, atterro sull’asfalto e pongo fine alla trasformazione.
Che nottataccia.
Devo cercare aiuto, da sola non riuscirò mai ad affrontare tutti i Satiri. Non posso contare sulle forze dell’ordine; chissà a quale livello si spinge la corruzione portata avanti da Portanova. Di sicuro, i vigili del fuoco che l’altro giorno sono intervenuti all’Accademia facevano parte del loro gruppo.
Ho bisogno di qualcuno che sia interessato a far proseguire per il meglio la sfilata, senza intoppi. Uno che abbia il pugno fermo di gestire il piano che Portanova ha architettato.
Una scintilla si accende nella mia testa.
Forse so a chi posso rivolgermi.
 
***
 
Svolto l’angolo e giungo nel quartiere di San Siro. Sebbene sia notte fonda, è gremita di gente; in particolar modo ragazzi che amano la movida e si divertono a vagare in giro per la città, bevendo, mangiando e scherzando tra loro.
La villa bianca immersa nel verde è il mio obiettivo. Non mi aspettavo nulla di meno dalla famiglia di Alessio: il padre è il principale organizzatore degli eventi mondani che si svolgono qui a Milano; dunque, fa parte di quel ristretto team che ha progettato la gara per l’Accademia e la sfilata in cui verrà presentato l’abito vincitore.
Non c’è persona che sia più interessata di lui al tranquillo svolgimento della serata.
Un paio di ragazze in bici mi passano accanto, lasciandosi dietro una fragranza di fragola mescolata a gelsomino; sono entrambe ben truccate e vestite in modo elegante, con gonne e giubbottini in pelle. Mi osservano per un attimo, fanno una smorfia e proseguono per la loro strada.
Sarebbero degne amiche di Letizia.
Do un’occhiata al mio abbigliamento. Ok, magari una semplice t-shirt e dei jeans a gamba larga non sono il massimo per un’uscita notturna, almeno per gli standard della città. Per non parlare dell’aspetto del mio viso, distrutto dalla mancanza di sonno.
Sbuffo. Concentrati, Marinette. Non è il momento di pensare ad apparire bella agli occhi delle persone. Devo trovare un modo per raggiungere lo studio del padre di Alessio e parlargli.
Inoltre, non posso farlo nei panni di Marinette o non mi prenderà mai sul serio e potrebbe pensare che io stia inventando una storia di sana pianta solo per rovinare la festa a Sonia. E poi non saprei nemmeno come giustificare le foto che ho scattato nell’appartamento del questore.
L’elegante dimora si sviluppa su quattro livelli ed è circondata da alte siepi, sorvegliate da sistemi di sicurezza all’avanguardia. Da una finestra all’ultimo piano giunge una luce bianca. Dev’essere lo studio del signor Tancredi.
Apro la pochette, mi acquatto accanto a un muretto buio, accertandomi di non essere vista da nessuno. «Tikki, trasformami.»
 
***
 
Penetro dalla finestra aperta sul lato ovest della casa, atterro sul pavimento. La stanza è un salone enorme, con ben tre divani dislocati intorno ad un tavolino per l’accoglienza degli ospiti. Sulla parete troneggia un televisore piatto enorme, sarà almeno una sessantina di pollici.
Procedo attraverso la casa in punta di piedi. Oltre a stare attenta a non far rumore, dovrò evitare di sfiorare la miriade di vasi di porcellana che costeggiano il corridoio e i disimpegni. Con la mia sbadataggine, potrei finire per romperne uno che vale milioni di euro.
E se fosse Alessio il patito di questi pregiati manufatti, finirà che non vorrà più vedermi, nemmeno dipinta e io…
E io sto vaneggiando come al solito.
Dev’essere la stanchezza dovuta alla mancanza di sonno. Spero di non fare gaffe quando parlerò al signor Tancredi. Una volta portato a termine questa missione, mi precipiterò dritta a casa, mi infilerò nel letto e dormirò fino a domani sera, come minimo. Perdere un giorno di lezione non è la fine del mondo.
Giungo alla fine del corridoio, ad una doppia porta chiusa. Dallo spiraglio in basso proviene una luce bianca. È l’unica fonte di luce in tutta la casa, quindi dev’essere lo studio.
Abbasso piano la maniglia, che purtroppo cigola. Apro di scatto la porta, mi infilo dentro e la richiudo subito.
Dietro al monitor di un computer, sulla scrivania, fanno capolino due occhi nerissimi. «Chi diavolo è lei? Cosa ci fa qui?»
Il signor Tancredi si alza di scatto dalla poltrona. Ha la stessa stazza fisica del figlio, un accenno di barba sul volto e dei tratti ben definiti e spigolosi. Sembra la fotocopia più matura di Alessio.
Alzo le mani. «Sono qui per parlare con lei, signor Tancredi.»
«Dottor Tancredi, prego.» Guarda l’orologio al polso, contraendo le sopracciglia. «Le rifaccio la domanda: chi è lei?»
«Il mio nome è Stiletto. Sono…» Devo trovare le parole più adatte affinché non mi prenda per una pazza maniaca. «Sono una ragazza con dei poteri magici che combatte contro i Satiri dell’Anarchia. Sono qui perché ho bisogno del suo aiuto per non mandare a monte la sfilata di sabato.»
Tancredi resta in silenzio. Si riaccomoda e si arrotola le maniche della camicia azzurra fino ai gomiti. «Ti concedo un minuto per spiegarti al meglio delle tue possibilità. Se ciò che dirai non mi convincerà chiamerò il servizio di sicurezza e te la vedrai con loro.» Fa un verso di stizza. «Poteri magici…»
Sussurro. «So per certo che—»
«La studio è insonorizzato rispetto al resto della casa. Non occorre parlare a bassa voce, mia moglie e mio figlio non ci sentiranno a meno che non lo voglia io.» Oscilla l’indice davanti al bottone dell’interfono posto accanto al lume. «Ti restano quaranta secondi scarsi.»
«Il questore Giovanni Portanova ha architettato un attacco simile a quello portato al municipio per rovinare la sfilata di sabato. È lui che guida i Satiri dell’Anarchia. Li ha condotti a far fuori il sindaco per prendere in mano i poteri speciali e ben presto potrebbe utilizzare questi poteri per—»
«Basta così, Stiletto.» Tancredi solleva una mano. «Per credere alla tua storia ho bisogno di prove.»
«Le ho, sign… dottore.» Prendo lo yo-yo, lo apro e seleziono le foto che ho scattato; ritraggono i piani che Portanova ha appuntato riguardo la sfilata. Le mostro a Tancredi.
Lui afferra lo yo-yo e prende a scorrere col dito le varie foto. «Immagino che ti sia intrufolata nell’appartamento del questore come hai fatto qui, vero?»
Annuisco in silenzio.
Tancredi mi restituisce lo yo-yo. «Perché sei venuta da me?»
«Perché da sola non ho speranze di vincere.»
«Hai dei poteri magici… parole tue.»
Scuoto la testa. «Hanno dei limiti. È il motivo per cui non sono riuscita a salvare il sindaco e ho fallito anche nel riuscire a fermare gli altri attacchi.»
Tancredi si gratta la barba e mi fissa con le palpebre socchiuse. «Porti maschera e cappuccio, ma è palese che tu sia solo una ragazzina. Una ragazzina che ha paura; non ho bisogno di guardarti negli occhi per capirlo. Il tuo atteggiamento ti tradisce.» Si massaggia il mento. «Perché proprio io? Non ti fidi, che ne so, dei carabinieri?»
«Immagino che lei conosca l’Accademia Bellerofonte, dottore.»
«Ovviamente. Il preside è un amico di vecchia data.»
«Qualche giorno fa, è stata presa di mira dai Satiri.»
Tancredi rizza la schiena. «Non ne so nulla. Mi stai forse prendendo in giro, ragazzina? Mio figlio frequenta quell’istituto molto spesso di recente, più di quanto abbia fatto in passato. Mi avrebbero avvertito subito se ci fosse stato un simile avvenimento.»
Intreccio le dita. «Il punto è che hanno insabbiato tutto. Due Satiri si sono intrufolati sfruttando un finto incendio. Li ho fermati, ma quando i vigili del fuoco hanno messo in sicurezza l’edificio, loro erano fuggiti. Probabilmente, gli stessi pompieri li hanno aiutati.» Deglutisco. «Questi tizi sono ovunque, dottore, quindi non so proprio di chi potermi fidare.» Lo indico. «Ho pensato a lei perché è sicuramente interessato affinché la sfilata abbia successo.»
Tancredi scrive un appunto su un blocchetto. Strappa il foglio e me lo consegna. «D’accordo, Stiletto. Facciamo che ti credo. Questa è la mia e-mail e il mio numero di telefono personale: mandami tutte le foto, tutti i dati, qualsiasi cosa tu abbia raccolto riguardo i Satiri dell’Anarchia, soprattutto gli appunti riguardanti la sfilata di sabato. Contatterò l’agenzia che mi mette a disposizione degli uomini per la sicurezza e studieremo delle contromosse.»
«Grazie, dottore.»
Tancredi mi punta contro l’indice. «Tu, però, dovrai darci una mano. La mattina di sabato, mi aspetto una telefonata.»
«La ringrazio di nuovo.» Mi volto e faccio per andarmene ma mi blocco. Mi giro a guardarlo di nuovo. «Posso farle una domanda?»
«Prego.»
«Non sembrava particolarmente colpito dalla mia affermazione riguardo i poteri magici. Mi aspettavo una reazione diversa da parte sua.»
Tancredi abbozza un sorriso, sulla guancia si forma la stessa fossetta che si disegna sul volto di Alessio quando sorride. «Nella mia vita ne ho viste di tutti i colori, Stiletto.»
 
 
***
 
«Cosa?» Alya agita il pugno nell’aria col rischio di colpire la webcam. «Prenoto subito un biglietto per Milano, così vengo a strangolare quella vipera.»
«Non occorre, Alya. È tutto ok.»
«Tutto ok?! Ma ti senti, Marinette? Non è da te lasciar correre simili ingiustizie. Devi dirlo a qualcuno, ai professori, agli organizzatori, al preside, alla polizia…»
Mi scappa da ridere. «Magari anche alla guardia nazionale e al presidente della Repubblica?»
Alya si imbroncia. «Non scherzare, è una cosa seria. Io sono—»
Un quadratino lampeggia di verde in basso allo schermo. L’immagine ritrae Nino e Alya abbracciati, guancia contro guancia con l’Arco di Trionfo sullo sfondo.
«È Nino.» Alya sbuffa. «Lo liquido subito, così continuiamo a parlare.»
«Mi piacerebbe salutarlo, invece.» È da un po’ che non ci parliamo; l’ultima volta che abbiamo chiacchierato in videochiamata era in occasione del suo compleanno. Lui era in estasi per il regalo che la fidanzata gli aveva fatto, un paio di cuffie della Beats, e ne ha descritto entusiasta le funzionalità per più di due ore.
Avrei tanto voluto raggiungere i miei amici in quell’occasione, ma purtroppo fui costretta a limitarmi a dei saluti e auguri virtuali.
«Ok, ok.» Alya traffica con il mouse e la tastiera, i suoi movimenti sono talmente rapidi che la webcam fatica a seguirli tutti e la sua immagine sembra sia sfocata. «Ecco qui.»
Il riquadro che racchiude il video di Alya si riduce e accanto ne compare un secondo, in cui appare il faccione ovale di Nino.
«Ciao, tesoro.» Nino manda un bacio con la mano alla fidanzata. «Yo, Marinette!»
«Ciao, Nino. È un piacere rivederti.»
«Guarda qui.» Allontana la videocamera inquadrando sotto al mento. Al collo, le sue nuove cuffie da dj bianche risaltano sulla carnagione mulatta.
«Sono veramente splendide.»
«E non è l’unica sorpresa che ho per voi.» Sposta il cellulare, la videocamera inquadra accanto a lui un ciuffo biondo che nasconde un paio di iridi smeraldine. «Prelevato direttamente da casa Agreste!»
Adrien si porta una mano dietro alla nuca e solleva l’altra con fare imbarazzato. «Ciao, Alya. Ciao, Marinette.»
Rivederlo mi riempie di gioia. Ho avuto poche occasioni per incrociarlo negli ultimi mesi. Nonostante il padre sia molto più indulgente con lui dopo l’incidente che ebbe in Tibet, la sua agenda è sempre ricca di impegni e lui tende a rispettarli tutti, sempre e comunque.
Lo ammiro molto. «Come stai, Adrien? È da un po’ che non ci si vede.»
Nel riquadro accanto, Alya spalanca gli occhi dietro agli occhiali e forma una O con la bocca. Di sicuro non si aspettava una frase di senso compiuto da parte mia in presenza di Adrien Agreste, seppur dietro alla videocamera di un cellulare.
«Leggermente frastornato.» Adrien oscilla il capo. «Nino mi ha appena fatto evadere dalla mia lezione di cinese e in questo momento siamo a casa sua, nascosti nella sua camera.»
«Ti trovo bene, comunque.»
«Anche tu sei splendida, Marinette. Sai, qui manchi molto a tutti. Non vediamo l’ora che tu possa fare un salto a Parigi per riabbracciarci e salutarci come si deve. Ho ancora dei rimorsi per non esserci stato il giorno in cui sei partita.»
«Non preoccu—»
«Sì, sì, ora concentriamoci tutti.» Alya riporta l’attenzione su di sé, sbraitando come se fosse un generale dell’esercito. «Ragazzi, per favore convincete questa sciocca a reagire all’ingiustizia che ha subito.»
Nino agita il cellulare, per un attimo l’immagine si mescola in un pasticcio di pixel. «Cos’è successo?»
«Una sottospecie di rettile si è appropriata del lavoro di Marinette, l’ha fatta sgobbare come un mulo e alla fine si è presa tutto il merito per un abito su cui lei non ha messo nemmeno un dito.»
«Cosa?» chiedono in coro Nino e Adrien.
«E Marinette non intende denunciare l’accaduto.»
Adrien strappa il cellulare dalla mano di Nino. «Marinette, devi fare qualcosa. So quanto i tuoi lavori siano importanti per te, e ho provato sulla mia pelle quanto siano magnifici. Non puoi lasciare che qualcuno si prenda il merito al posto tuo.» Due rughe gli incidono la fronte aggrottata.
Non molto tempo fa, avrei dato tutto l’oro del mondo perché Adrien Agreste si inviperisse così tanto per una causa che mi riguarda.
Alzo le mani. «Calmatevi, ragazzi. Io non ho mai detto—» Il cellulare accanto alla tastiera cinguetta. «Scusatemi un secondo.»
Lo afferro, sullo schermo campeggia un messaggio. È Alessio.
-SONO ANDATO DA URSI E GLI HO SPIEGATO LA SITUAZIONE. INUTILE DIRTI CHE È ANDATO SU TUTTE LE FURIE QUANDO HA SAPUTO QUELLO CHE HA FATTO SONIA ED È STATO ANCHE PEGGIO QUANDO GLI HO RACCONTATO LA TUA IDEA.
Digito una veloce risposta.
-QUINDI NON SE NE FA NULLA?
Il pallino accanto all’immagine del profilo di Alessio diventa verde, due spunte blu compaiono accanto al mio messaggio. È in linea e sta rispondendo.
-MIA PETITE MACARON, TU SOTTOVALUTI IL MIO POTERE DI PERSUASIONE. DOPO UN’ARRINGA DEGNA DEL MIGLIOR PERRY MASON, L’HO CONVINTO. IL PROFESSOR URSI SARÁ DEI NOSTRI.
Perfetto. Torno a guardare i miei amici di Parigi.
«Perché quel sorriso, furbona?» Alya tiene gli occhiali sollevati sulla fronte e gli occhi socchiusi. «Chi era?»
«Una persona che mi aiuterà ad ottenere giustizia, proprio come state cercando di convincermi a fare. Non ho mai detto che non risponderò alla provocazione, solo che preferisco farlo a modo mio.»
«Ora ti riconosco, amica.»
«Già.» Piego la bocca in un ghigno. «Ma se sapessi cosa ho architettato, faresti fatica a credere che sia io l’artefice.»
Anche se, a pensarci bene, dovrò lavorare di notte affinché abbia successo.
 
***
 
La tuta scura degli addetti ai lavori è almeno tre taglie più grande di me. Ho dovuto arrotolare le maniche tre volte per far uscire i polsi, i pantaloni avrei potuto indossarli due volte senza problemi.
Alessio ferma l’auto davanti a un furgone bianco degli addetti al reparto tecnico della sfilata. Con quella camicia celeste e quei pantaloni bianchi sarebbe già pronto per sfilare e guadagnare scrosci di applausi dalla platea.
Abbassa il finestrino e sbircia l’ingresso. Ci sono due uomini della sicurezza che sorvegliano chiunque entri o esca dal padiglione centrale.
Alessio mi squadra da capo a piedi e mugugna. «Nella mia testa, avevi un aspetto diverso con quella roba addosso.»
«Te l’avevo detto che sarebbe stato meglio spacciarmi per una delle stiliste della serata.»
«E se gli addetti alla sorveglianza dovessero avere una lista delle stiliste? Cosa avresti fatto in quel caso?»
«Mi sarei inventata qualcosa. Ho molta fantasia; quando te la presenterò, Alya ti racconterà tutti i miei fantasiosi piani per conqui—» Mi mordo la lingua. «…per marinare la scuola.»
Alessio inarca un sopracciglio. «Marinare la scuola? Tu?» Scoppia a ridere. «Non ci credo nemmeno se lo vedo documentato in un filmato. Miss perfettina francese non è il tipo che cerca di evitare le lezioni.»
«Però arrivo sempre tardi.»
«I geni sono tipi particolari.»
Le gote mi si scaldano. Ormai è questo l’effetto che mi fanno i complimenti di Alessio. Non è mai scontato, non si sofferma solo all’apparenza, ma riesce a scavare nel profondo.
Mi riscuoto e torno a concentrarmi sul piano. «Ormai è tardi per cambiare il piano. Atteniamoci alla tua idea iniziale e preghiamo che funzioni.»
«Alla peggio potrei stendere quei due con qualche mossa di taekwondo.»
«Pratichi il taekwondo?»
«No. Ma ho visto molti film di Bruce Lee.»
Alzo gli occhi verso l’alto e sospiro. Per fortuna che ho fatto il callo ad atteggiamenti simili, stando vicino a quello spaccone di Chat Noir.
Allungo una mano verso i sedili posteriori, afferro il berretto e lo metto sulla testa. Mi ballonzola e la visiera mi finisce sul naso.
Troppo grande anche questo. «Dì un po’, Alessio. Questa roba apparteneva al fratello di Dwayne Johnson?»
«Piantala di brontolare, ciliegina.» Mette su un broncio adorabile e incrocia le braccia al petto. Quando fa così, sembra un bambino a cui hanno vietato il cioccolato. «Io ho fatto del mio meglio.»
«Va bene, va bene.» Strappo i due lacci per stringere il cappello e li annodo. Lo infilo di nuovo, stavolta calza meglio. «Diamo il via all’operazione, prima che ci ripensi.»
Alessio si esibisce nel saluto militare. «Agli ordini, boss.»
Smonta dall’auto, lo imito e mi dirigo al portabagagli. Prendo lo zaino con il mio vestito di ricambio e scarpe e lo metto in spalla. Eseguo la stessa operazione con la sacca dell’abito da sfilata.
Mi incammino ingobbita dietro Alessio. Forse avrei dovuto ricorrere alla trasformazione in Stiletto in modo da non fare tutta questa fatica nel trasportare i vestiti, ma Tikki già non era d’accordo con il mio piano – che di legale ha poco o nulla – figuriamoci usare il potere per un interesse personale.
In realtà, nemmeno io ero molto propensa a questo piano dopo averne parlato con Alya, Adrien e Nino, ben conscia che tutto questo va ben al di là delle mie assurde strategie che inventavo a Parigi.
Alla fine, però, ha prevalso in me la voglia di sanare l’ingiustizia che ho subito e fermare per sempre il regno di terrore imposto dai Satiri. Ho dovuto lavorare tutta la notte per confezionare questo vestito, forse il primo che non ho disegnato sul quaderno dei bozzetti e quindi ignoto alla serpe che me l’ha sottratto. Certo, se dovessero eleggere un vincitore che non sia Sonia, sarebbe tutto più facile. Almeno lei non otterrebbe quello per cui mi ha ingannata, tradita ed insultata.
Uno dei due addetti alla sicurezza alza una mano e ferma Alessio. È un omone con i capelli a spazzola castani e il collo taurino. «Si identifichi, prego.»
Alessio estrae dal taschino la sua carta d’identità e la porge all’omone. «Sono Alessio Tancredi. Credo abbia sentito parlare di me.»
L’omone scambia un’occhiata con il suo compare, più tarchiato del primo, ma anche più muscoloso.
«Pensavo che i modelli entrassero dall’ingresso principale.»
Alessio fa spallucce. «Odio i flash dei fotografi e la calca prima di una sfilata. Mi deconcentra e finirà molto male: potrei inciampare e cadere, magari precipito giù dalla passerella e mi schianto contro qualche ospite d’eccezione in prima fila. Mi etichetteranno tutti come un disastro ambulante e non verrei mai più chiamato ad una sfilata, la mia stella si spegnerà per sempre e l’unico posto in cui potrei lavorare sarà in un fast food, dove qualche cliente scortese mi tirerà addosso la senape perché lui voleva il ketchup nel suo panino.»
I due tizi fissano Alessio con la bocca semiaperta e lo sguardo vacuo.
Devo ammettere che ha inventato una storia degna dei miei peggiori film mentali: e io sono una maestra dei film mentali. Se solo lo volesse, Tikki potrebbe scriverci un’antologia.
L’omone col collo taurino indica me. «E… lei? O lui?»
Chino il capo in modo che la visiera mi copra il viso.
Alessio schiocca le dita. «È la mia assistente. La perdoni, è molto timida, ma quando si tratta di sfacchinare, non si risparmia mai. Non potrei andare da nessuna parte senza di lei.»
«Senza autorizzazione, non posso farla entrare.»
«Allora io vado via. E lei, mio caro amico, dovrà giustificare la mia assenza al preside dell’Accademia Bellerofonte, agli organizzatori della serata e, soprattutto, a mio padre che è uno dei principali finanziatori.»
«I-io…»
Alessio mi cinge le spalle con un braccio e ci voltiamo. «Manderò anche un esposto, sottolineando quanto il servizio sia stato sgarbato nei miei confronti.»
«Si fermi, signor Tancredi.» È la voce dell’altro membro della sicurezza. «Se garantisce lei per la signorina, può passare.»
Alessio si dipinge in faccia un sorriso trionfante. «Con le buone maniere si ottiene tutto.»
Superiamo i due sorveglianti e ci addentriamo nel padiglione.
Un lungo corridoio si affaccia in diversi camerini per la preparazione di modelli e modelle che parteciperanno alla sfilata. In fondo, si apre il backstage.
C’è un’umidità che fa paura. Mi sento già sudata, ancor prima di iniziare. Ho anche le gambe che mi tremano.
Alessio mi sussurra nell’orecchio. «Rilassati. La parte difficile è superata.»
«Dubito fosse questa la parte difficile.»
«Fidati di me.» Mi strizza l’occhio. «In ogni caso, mi prenderò io l’intera responsabilità di quello che accadrà.»
«Sai che non te lascerò fare mai.»
«E, invece, sì, mia cara. Tu potresti rischiare l’espulsione, cosa fuori discussione. Io, invece, mi beccherò solo una lavata di capo e potrei saltare un paio di sfilate.»
«E ti sembra poco?»
«Non è la fine del mondo. Come hai potuto constatare, me la cavo abbastanza bene a discutere. E mio padre è anche più bravo di me.»
Incrocio indice e medio. «Spero che tu abbia ragione.»
Ci infiliamo nel camerino di Alessio e chiudiamo la porta.
La fase uno del piano è completata.
 
***
 
Un venticello tiepido filtra dalla finestra socchiusa del camerino. Da un po’ di tempo le giornate alternano mattinate calde ed afose a serate piuttosto fredde.
Alessio sta facendo la spola tra il backstage che precede la passerella, le grosse aree riservate alle modelle di accompagnamento e alle loro truccatrici e il camerino, per accertarsi che io mi trovi ancora qui.
Non lo vuole dare a vedere, ma è angosciato dalla possibilità che qualche ospite non desiderato entri all’improvviso qui dentro e mi scopra. Non saprei dire, però, se teme di più un eventuale scandalo nel trovare una giovane imbucata oppure che mi caccino in malo modo.
Io comunque non ho intenzione di starmene tutto il tempo qui a rigirarmi i pollici. La sfilata inizierà a breve e i Satiri potrebbero attaccare da un momento all’altro.
Tre colpi bussano alla porta. Ne seguono altri due brevi e uno lungo.
È il segnale.
Apro la porta, dinnanzi a me si palesa il professor Ursi in completo elegante. Per stasera ha deciso di rinunciare agli occhiali da intellettuale, cosa che gli dà un’aria più da uomo d’affari.
«Buonasera, professore.» Mi scosto di lato per farlo entrare.
In risposta ottengo un mugugno. È palese che abbia ancora dei dubbi riguardo il piano che, suo malgrado, lo vede coinvolto fino al collo. Uno come lui non avrebbe mai agito in questo modo, creando sotterfugi pur di imbucare una mia creazione, una mia vera creazione, alla sfilata soppiantando l’eventuale vincitore. Ma è anche vero che lui odia le ingiustizie e, alla luce della testimonianza di Alessio, non ha potuto chiudere un occhio sull’infamata orchestrata da Sonia.
Ursi comincia a camminare in tondo per il camerino, ogni volta che si ferma davanti allo specchio scuote il capo e si sistema la cravatta come se questo gesto lo aiutasse a scacciar via l’ansia.
«Tutto questo è una follia, Marinette.»
«Lo so, professore. E se lei decidesse di non aiutarmi, lo capirei e… sono disposta a rinunciare al mio piano.»
Ursi si pinza la radice del naso. «Davvero lo faresti? È da quando Alessio me l’ha proposto che mi chiedo fin dove sei disposta a spingerti.» Sospira e si siede sulla sedia di fronte allo specchio. «Non so nemmeno perché ho accettato di aiutarvi: questa… cosa va ben oltre una semplice bravata da ragazzini.»
Se solo sapesse che sono qui per tutt’altro. «Non posso darle torto, professore.»
«Oltretutto, sei il ritratto della tranquillità. Come ci riesci?»
Faccio spallucce. «Mi duole ammetterlo, ma non è la prima volta che mi imbuco ad un evento dove non dovrei essere. Quando ero a Parigi, mi travestii da ragazzo solo per poter partecipare ad un party esclusivamente per maschi organizzato nella casa del ragazzo di cui ero…» Mi schiarisco la voce. «Del ragazzo che mi piaceva, dando vita a Marinò, con tanto di baffi e occhialoni buffi. Inutile dirle che mi scoprirono quasi subito. Però, a ripensarci, fu anche divertente.»
«E io che credevo che fossi una ragazza seria e pacata.» Gli sfugge una risatina. «Ora scopro che sei abile quanto una spia.»
Faccio eco alla sua risata. «Non direi proprio. Sono un disastro ambulante. Solo di recente ho iniziato a lavorare sul mio autocontrollo. All’epoca, agii solo perché annebbiata dalla mia cotta, ora lo faccio per un senso di giustizia.»
Ursi pare convincersi alle mie parole ed annuisce in silenzio.
In fondo, il vero motivo che mi spinge ad agire stasera è quello: il senso di giustizia. Solo che il mio obiettivo non è Sonia, ma i Satiri dell’Anarchia.
Stasera colpiranno e io voglio farmi trovare pronta.
   
 
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