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Autore: Sinnheim    22/11/2022    0 recensioni
Fanfiction scritta a quattro mani con SibillaCubana.
Questa è la loro storia.
Prima di ciò che si conosce, quando Spira non era altro che una terra fatta di morte e distruzione, i tre eroi della leggenda hanno avuto modo di perseguire il loro destino.
L'invocatore Braska, il monaco Auron e il naufrago Jecht partiranno per completare il loro Pelligrinaggio, viaggio volto a raccogliere le forze necessarie per sconfiggere Sin, il distruttore.
Tuttavia, questo lungo e pericoloso viaggio verso la città di Zanarkand non sarà solo ricco di insidie terrene: ancor di più, i tre eroi dovranno affrontare loro stessi e le loro peggiori paure.
Genere: Dark, Drammatico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Auron, Braska, Jecht
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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CAPITOLO 30: UN DESIDERIO INGENUO COME IL VOLER PROTEGGERE QUALCUNO (PARTE1)

 

 

 

Amore.

Il motivo per cui si muoveva l’animo degli uomini e la parola tatuata sulla tempia rasata di Cid. Era percorsa da una vena che si gonfiava allo stringersi dei suoi denti sullo stecchino che aveva in bocca. Guidava in piedi, di fronte a una grande vetrata che gli lasciava una vista aperta sul cielo.

Amore.

«Te lo chiedo un’altra volta: che cosa stai facendo?» domandò Braska, senza distogliere l’attenzione da quel termine, mentre si massaggiava i polsi liberi dalle corde. «Perché sei volato qui?»

Le narici di Cid si dilatarono. Braska, che fissava il suo grande profilo stagliarsi contro le nubi, lo vide strizzare gli occhi verdi.

«Per fare quello che non fanno sulla terra,» rispose l’Al Bhed. La sua voce era roca, come se non parlasse la lingua comune da molto tempo. Vibrava come il pavimento della nave e aveva il suono ruvido della sabbia che fischia tra le rovine nel deserto. «Fermare questa cosa dell'Invocatore. Ma non per te. Per impedirti di lasciare un’orfana».

Quella era la prima frase che Cid gli rivolgeva da quando Emma era stata uccisa. Era una sentenza ruvida e decisa, come lui.

Più volte in quegli anni Braska aveva sentito la presenza silenziosa dello spirito di sua moglie quando doveva prendere una decisione importante, quando abbracciava sua figlia oppure quando comprava il pane. Aveva parlato con la sua foto incorniciata, ma mai fino a quel momento l’aveva sentita così forte, trasparente, all’interno di una stanza.

«Io…» si ritrovò a mormorare, sapendo di non dovergli spiegazioni. Per qualche motivo, sapeva che era da un po’ che il cognato lo stava sorvegliando. «Io voglio solo… un mondo in cui Yuna non soffrirà».

In quell’istante, una nuvola passò davanti al sole, adombrando la schiena di Cid che si curvava, la sua testa che ciondolava a destra e a sinistra in un gesto sconsolato.

«Proprio non capisci…» replicò lui a denti stretti, senza voltare lo sguardo verso Braska. Lo stecchino di legno si ruppe con uno schiocco secco. «Uny du vylleu lybena. Faccio capire».

Con un cenno, ordinò a una ragazza dai capelli tinti d’arancio, che osservava la mappa di volo nella postazione accanto, di prendere il timone. Quando lei obbedì, Cid si allontanò verso il ponte, per poi tornare con un ragazzino a fianco e una bambina aggrappata al braccio. Erano entrambi vestiti con casacca e pantaloni di pelle, della stessa foggia di quelli degli adulti sulla nave. Erano biondissimi, tratto di certo ereditato dalla madre dato che i peli ispidi della barba di Cid erano scuri.

«Guarda. È mia figlia,» annunciò, posando una mano sulla testa della piccola che fissava Braska, muta, con occhi di cerbiatto. I suoi capelli erano raccolti sulla cima della testa in quello che sembrava il ciuffo di un ananas. «Rikku».

Non sapeva che Cid avesse avuto un’altra bambina, e pareva avere già quattro o cinque anni. Forse avrebbe dovuto cercarlo. Avrebbe dovuto essergli vicino, per provare a riannodare i fili di quello strappo che la morte di Emma aveva lasciato in entrambi. Si sentì come se fosse riuscito a essere compassionevole con tutti tranne che con lui, che aveva l’amore inciso sulla pelle.

«Perché hai portato anche i tuoi figli?»

«È ora che vedano con i loro occhi cosa facciamo,» rispose l'Al Bhed, accarezzando la testa di Rikku.

«Rischiare la vita con questi folli piani?» domandò Braska, alzando la voce più di quanto avrebbe voluto.

«No, lukhydu: rischiare la vita per salvarla a te e a tutti quelli come te!»

«Hai quasi ucciso mio fratello».

«Ha! Il giorno in cui qualcuno riuscirà ad ammazzarlo, lo porterò in trionfo a Bikanel!» replicò Cid, in un tono velenoso che fece stringere lo stomaco di Braska. 

Quando l’Invocatore guardò verso il basso, notò che il figlio di Cid lo stava guardando con gli occhi sgranati, e le spirali nelle sue pupille parevano quasi ruotare in modo lento e ipnotico. L’ultima volta che lo aveva visto era in fasce; ormai aveva dieci anni o poco meno.

«Weu, voi Invocatori morite sempre, ma non cambia mai niente! Sin torna sempre!» disse balbettando un poco nella lingua di Spira, ma con dura fermezza. Probabilmente stava ripetendo qualcosa che aveva sentito dal padre. Qualcosa di ateo e disperato. 

Braska sospirò, ma non poté non essere intenerito da quelle parole che sapevano, dopotutto, di innocenza. Lui aveva visto la sofferenza di Spira e il sangue che permeava la sua terra. Avrebbe volentieri dato la sua vita per un Bonacciale di qualche anno.

«Preferisco che i bambini crescano sereni piuttosto che farli vivere nella paura costante di Sin,» replicò Braska, alzando lo sguardo verso Cid. Un fuoco di determinazione gli percorreva le vene. «E credimi, mio fratello è capace di mandarvi tutti a morte. Perché non vuoi capirlo?»

La bambina sobbalzò e trattenne il respiro, allargando i lucidi occhi verdi.

«Bybà, davvero l'uomo cattivo ci ucciderà?» chiese, sull'orlo del pianto.

«Deve solo provarci!» replicò Cid, con gli occhi che saettavano verso Braska. «Non spaventare Rikku con queste cazzate!»

«Cid! Yevon non è il vostro dio, ma l’Inquisizione è potente a parole e a fatti. Non permetterò che tu metta a rischio la vita dei miei nipoti».

La voce cordiale e soave di Braska aveva lasciato il posto a una più profonda e ruvida, che sovrastava il ronzio dell’aeronave. Gli sembrava aliena. Gli sembrava che a parlare fosse Alan.

Rikku si spaventò ancora di più sentendo quel discorso, pur non potendolo comprendere fino in fondo. Scoppiò in lacrime e nascose il volto dietro la gamba del padre. Cid lanciò un verso infastidito verso Braska, poi disse al figlioletto di consolare la sorellina.

«Francamente, mio caro cognato,» commentò il capo degli Al Bhed, volgendo lo sguardo al cielo che solcavano come se fosse il mare, «mi ci pulisco il culo con l’Inquisizione». Si voltò verso Braska, e nel vedere la sua espressione trattenne malamente una risata. «Oh, chiedo scusa, principessa. Che cosa può farmi? Mandarmi nella bocca del pesce?»

«Ucciderti,» replicò Braska, lapidario.

«Siete tutti così, voi uomini di Spira. Uccidine uno e il suo impero crollerà. Ma uccidi un Al Bhed e al deserto mancherà un ingranaggio; e la natura vendica sempre ciò che ha perso. A differenza della società». 

Braska lo fissò dritto negli occhi. Pensò al giorno in cui Emma non era tornata dal mare, a come nessuno se non lui aveva pianto la sua perdita; pensò al giorno in cui Alan, invece, a casa c’era tornato. Erano ben altre dalla morte le cose di cui si vendicava la loro società. 

Ma non era troppo tardi per cambiarla. 

Quasi intimorito dall’orgoglio di Cid, spostò lo sguardo verso suo figlio, che stava tenendo un braccio attorno alle spalle della sorellina.

«Si calma se le canto una canzone» disse il fratello maggiore non molto entusiasta.

Allora, per favore, canta. Canta come faceva Emma al solstizio d’inverno, mentre io danzavo con la fiamma tremula. Canta per Bikanel e per la tua gente, che mai ha lasciato un sepolcro illacrimato.

 

 

 

La gravità della situazione non tollerava perdite di tempo né imbarazzo: aiutato da Jecht che gli allacciava l'armatura, Auron si rivestì in fretta nonostante fosse ancora fradicio, proprio come il compagno. 

L’atleta scosse la testa incredulo e corse sui marmi colorati verso l’uscita dello stadio, seguito dal monaco che era meno scattante di lui.

«Chi mai vorrebbe rapire un Invocatore?» chiese, rallentando il passo.

«Io davvero non lo so, ma la pagheranno cara,» rispose Auron a denti stretti.

Il dedalo di scale e corridoi che portavano agli spalti confuse il Guardiano più giovane: non ricordava più esattamente dove andare e, pur di fare in fretta, si lasciò afferrare il polso destro da Jecht per essere guidato verso l'uscita.

I loro occhi non avevano fatto in tempo ad abituarsi alla forte luce che la loro avanzata fu bloccata da un fiume di persone che correvano in tutte le direzioni. 

«Ehi! Ehi, fermi!» provò a gridare Jecht. La gente, terrorizzata, passava oltre senza guardarlo, quasi come se lui fosse un’illusione.

Come se fosse un sogno.

«Rapiscono Braska e scoppia un caos del genere?» continuò lui, a voce alta per farsi sentire almeno dal compagno.

Auron rimase in silenzio ad osservare, lo sguardo che non sapeva dove posarsi. Strinse gli occhi per focalizzare meglio lo sguardo: nella folla notò degli uomini in nero. Le loro tuniche erano in netto contrasto con l’azzurro sfavillante delle case, che faceva a gara con il cielo e il mare; con il bianco delle strade che aspirava a rifulgere come il sole.

«Ci sono i sottoposti di Alan in giro,» disse, indicando avanti. 

«Sempre loro a far danni,» commentò Jecht, nervoso.

Non sapendo dove andare, i Guardiani si diressero verso il centro città gremito di persone che, in un modo o nell'altro, cercavano di sfuggire alla guardia cittadina. Molte venivano solo fermate, altre perquisite o arrestate, mentre gli uomini di Alan interrogavano chiunque senza sosta in cerca di informazioni utili.

Chi aveva un negozio o un locale era in piedi davanti alla porta, come se volesse dimostrare di non nascondere dei cospiratori. Colto da un’intuizione improvvisa, il monaco riuscì a individuare il viale che conduceva al bar dove aveva bevuto il giorno prima. 

Fu lui ad afferrare per il polso Jecht, e a trascinarlo in quella direzione. 

«Vieni». 

Quella ragazza… forse lei sa… 

Due gabbiani, spaventati, presero il volo strillando. Fece loro eco il grido fiero di una donna, e una chioma di capelli scuri frustò l’aria che sapeva di cenere, strinata da un pugno potenziato con Firaga.

«Cécile!»

Auron, nel vederla respingere un uomo davanti al suo locale, aveva provato a chiamarla, ma il brusio era troppo forte. La donna caricò la guardia e, dopo averla atterrata, le assestò una scarica di pugni in pieno volto. Venne sollevata di peso da un secondo soldato, mentre scalpitava e cercava di liberarsi non per scappare, ma per picchiare anche il nuovo arrivato.

I suoi occhi celesti si voltarono verso Auron. Erano limpidi e fieri, come se lo spirito del mevyn che un tempo aveva comandato nelle pianure lontane si fosse reincarnato proprio in lei.

Il monaco pensò a quel giorno in cui aveva consigliato ad Hanna di andare da sola nella grotta in cui aveva perso la vita. Non avrebbe ripetuto lo stesso errore. Non ne avrebbe lasciata morire un’altra.

L'uomo cingeva l'addome di Cécile per allontanarla, ma così facendo le lasciò le braccia libere: a lei tanto bastò per ribaltare la situazione. Usò gli avambracci per premere sui gomiti dell'aggressore e fare leva verso il basso. Si liberò della presa con facilità impressionante, poi si mise in posizione di guardia. Incollerito, l'uomo tentò di afferrarle i capelli in virtù della differenza d'altezza, ma Cécile si spostò di lato e gli bloccò il polso, per tirarlo a terra con uno strattone ben piazzato e torcere il suo braccio dietro la schiena, lasciandolo del tutto inerme.

L'uomo le intimò di lasciarlo andare, lei per tutta risposta si alzò in piedi e lo calciò sul costato.

«Fermatevi! Per Yevon, fermatevi!»

Che fosse per timore o perché lo aveva riconosciuto, Cécile oppose una scarsa resistenza quando vide la veste rossa di Auron, che si era interposto tra lei e la guardia, e lasciò che un suo gesto la spostasse indietro.

«Che cazzo fai, troietta?» gridò l’uomo, alzandosi a fatica. Un suo commilitone lo richiamò, ordinandogli di proseguire con la ronda, proprio mentre Cécile sputava nella sua direzione, tenuta dal braccio di Auron.

«Ferma, ferma…» tentò di calmarla il Guardiano, posandole entrambe le mani sulle spalle e guardandola, pur con una certa soggezione, negli occhi stravolti. «È andato via».

Il petto di Cécile, che si alzava e si abbassava con una frenesia feroce, gradualmente rallentò il suo moto. Una goccia di sudore le scivolò lungo la fronte, e la sua mascella serrata si rilassò un poco.

Il monaco schiuse di nuovo le labbra per parlarle, ma lei eluse la sua presa e si mise davanti a lui, dritta come una lottatrice in un’arena. Quando un baluginio di metallo le illuminò il pugno abbassato, Auron arretrò verso Jecht con le mani alzate, per mostrarle che loro non erano un pericolo.

«Cécile. Che cosa sta succedendo qui?»

La ragazza si guardò attorno e allargò le narici, sbuffando fuori l’aria. Poi guardò dritto negli occhi ambrati di Auron, ignorando il secondo Guardiano.

«Il Maestro di Yevon che è arrivato in città. Ha cominciato a mandare in giro i suoi in modo che arrestassero tutti i sospetti di eresia».

Il monaco fu colpito al petto da una stilettata in grado di ignorare qualsiasi armatura. 

«L’Invocatore… è suo fratello,» tentò di spiegarle Auron lui, trovandosi all’improvviso a gesticolare in modo quasi ridicolo, «è stato rapito, e credo che stia–»

«Sì, bella scusa,» sibilò la giovane, avvicinandosi al suo viso con entrambe le braccia tese lungo i fianchi, i pugni serrati e lo sguardo che schizzava verso le vie di Luka. «Bella scusa per perquisirmi il locale!»

«Tu sei…» cominciò a dire Auron, ma si interruppe di colpo. Il problema non era il bar.

Aveva perso un’altra occasione per intervenire prima. Non era stato in grado, di nuovo, di salvare qualcuno.

«Ah, uomini! Avrei dovuto sposarmi, quando ero più giovane». 

Si ricordò di come Cécile rideva, i denti bianchi scoperti dalle labbra truccate. Di come i suoi occhi si dirigevano, furtivamente, verso la porta chiusa dietro il bancone.

«Ti prego,» le domandò, deglutendo delle parole di pentimento che sarebbero risultate del tutto fuori luogo. «Sai dove è andato?»

«Non mi ha fatto il piacere di presentarsi di persona,» ribatté lei, poi avanzò a passi lenti, ancheggianti, come se camminasse tra le fiamme. La sua divisa da cameriera sporca di polvere creava uno strano contrasto con il suo incedere da regina. «Adesso ti chiedo di spostarti».

Scusami, Cécile.

Qualcosa dentro di lui gli gridava che non poteva lasciarla andare. Gli yevoniti l’avrebbero catturata e condotta a un processo da cui forse non sarebbe uscita viva. Eppure, qualcos’altro fece sì che le sue gambe si muovessero per farle spazio. 

«Sei ancora in tempo per fermarti. Non so cosa ti muove, ma non ce la farai da sola».

Jecht lo fissò interdetto; la ragazza si diresse verso la folla e l’aria attorno a lei fu percorsa da rapide scintille. Poi si voltò, per rivolgere al Guardiano un’ultima occhiata.

«Quel Maestro,» gli disse, scandendo bene e con disprezzo ogni parola, «si è preso qualcuno che mi piace. Prova a pensare che cosa muoverebbe te».

Gli occhi di Jecht catturarono uno sguardo rapido di Auron mentre quelle parole morivano nell’aria limpida.

«Non possiamo fermarci, ragazzo».

  
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