CAPITOLO 30:
UN DESIDERIO INGENUO
COME IL VOLER PROTEGGERE QUALCUNO (PARTE1)
Amore.
Il motivo
per cui si muoveva l’animo degli uomini e la parola tatuata
sulla tempia rasata
di Cid. Era percorsa da una vena che si gonfiava allo stringersi dei
suoi denti
sullo stecchino che aveva in bocca. Guidava in piedi, di fronte a una
grande
vetrata che gli lasciava una vista aperta sul cielo.
Amore.
«Te
lo
chiedo un’altra volta: che cosa stai facendo?»
domandò Braska, senza
distogliere l’attenzione da quel termine, mentre si
massaggiava i polsi liberi
dalle corde. «Perché sei volato qui?»
Le narici
di Cid si dilatarono. Braska, che fissava il suo grande profilo
stagliarsi
contro le nubi, lo vide strizzare gli occhi verdi.
«Per
fare
quello che non fanno sulla terra,» rispose l’Al
Bhed. La sua voce era roca,
come se non parlasse la lingua comune da molto tempo. Vibrava come il
pavimento
della nave e aveva il suono ruvido della sabbia che fischia tra le
rovine nel
deserto. «Fermare questa cosa dell'Invocatore. Ma non per te.
Per impedirti di
lasciare un’orfana».
Quella era
la prima frase che Cid gli rivolgeva da quando Emma era stata uccisa.
Era una
sentenza ruvida e decisa, come lui.
Più
volte
in quegli anni Braska aveva sentito la presenza silenziosa dello
spirito di sua
moglie quando doveva prendere una decisione importante, quando
abbracciava sua
figlia oppure quando comprava il pane. Aveva parlato con la sua foto
incorniciata, ma mai fino a quel momento l’aveva sentita
così forte,
trasparente, all’interno di una stanza.
«Io…»
si
ritrovò a mormorare, sapendo di non dovergli spiegazioni.
Per qualche motivo,
sapeva che era da un po’ che il cognato lo stava
sorvegliando. «Io voglio solo…
un mondo in cui Yuna non soffrirà».
In
quell’istante, una nuvola passò davanti al sole,
adombrando la schiena di Cid
che si curvava, la sua testa che ciondolava a destra e a sinistra in un
gesto
sconsolato.
«Proprio
non capisci…» replicò lui a denti
stretti, senza voltare lo sguardo verso
Braska. Lo stecchino di legno si ruppe con uno schiocco secco.
«Uny du
vylleu lybena. Faccio capire».
Con un
cenno, ordinò a una ragazza dai capelli tinti
d’arancio, che osservava la mappa
di volo nella postazione accanto, di prendere il timone. Quando lei
obbedì, Cid
si allontanò verso il ponte, per poi tornare con un
ragazzino a fianco e una
bambina aggrappata al braccio. Erano entrambi
vestiti con casacca e
pantaloni di pelle, della stessa foggia di quelli degli adulti sulla
nave.
Erano biondissimi, tratto di certo ereditato dalla madre dato che i
peli ispidi
della barba di Cid erano scuri.
«Guarda.
È
mia figlia,» annunciò, posando una mano sulla
testa della piccola che fissava
Braska, muta, con occhi di cerbiatto. I suoi capelli erano raccolti
sulla cima
della testa in quello che sembrava il ciuffo di un ananas.
«Rikku».
Non sapeva
che Cid avesse avuto un’altra bambina, e pareva avere
già quattro o cinque
anni. Forse avrebbe dovuto cercarlo. Avrebbe dovuto essergli vicino,
per
provare a riannodare i fili di quello strappo che la morte di Emma
aveva
lasciato in entrambi. Si sentì come se fosse riuscito a
essere compassionevole
con tutti tranne che con lui, che aveva l’amore inciso sulla
pelle.
«Perché
hai portato anche i tuoi figli?»
«È
ora che
vedano con i loro occhi cosa facciamo,» rispose l'Al Bhed,
accarezzando la
testa di Rikku.
«Rischiare
la vita con questi folli piani?» domandò Braska,
alzando la voce più di quanto
avrebbe voluto.
«No,
lukhydu: rischiare la vita per salvarla a te e a tutti quelli
come te!»
«Hai
quasi
ucciso mio fratello».
«Ha!
Il
giorno in cui qualcuno riuscirà ad ammazzarlo, lo
porterò in trionfo a
Bikanel!» replicò Cid, in un tono velenoso che
fece stringere lo stomaco di
Braska.
Quando
l’Invocatore guardò verso il basso,
notò che il figlio di Cid lo stava
guardando con gli occhi sgranati, e le spirali nelle sue pupille
parevano quasi
ruotare in modo lento e ipnotico. L’ultima volta che lo aveva
visto era in
fasce; ormai aveva dieci anni o poco meno.
«Weu,
voi
Invocatori morite sempre, ma non cambia mai niente! Sin torna
sempre!» disse
balbettando un poco nella lingua di Spira, ma con dura fermezza.
Probabilmente
stava ripetendo qualcosa che aveva sentito dal padre. Qualcosa di ateo
e
disperato.
Braska
sospirò, ma non poté non essere intenerito da
quelle parole che sapevano,
dopotutto, di innocenza. Lui aveva visto la sofferenza di Spira e il
sangue che
permeava la sua terra. Avrebbe volentieri dato la sua vita per un
Bonacciale di
qualche anno.
«Preferisco
che i bambini crescano sereni piuttosto che farli vivere nella paura
costante
di Sin,» replicò Braska, alzando lo sguardo verso
Cid. Un fuoco di
determinazione gli percorreva le vene. «E credimi, mio
fratello è capace di
mandarvi tutti a morte. Perché non vuoi capirlo?»
La bambina
sobbalzò e trattenne il respiro, allargando i lucidi occhi
verdi.
«Bybà,
davvero l'uomo cattivo ci ucciderà?» chiese,
sull'orlo del pianto.
«Deve
solo
provarci!» replicò Cid, con gli occhi che
saettavano verso Braska. «Non
spaventare Rikku con queste cazzate!»
«Cid!
Yevon non è il vostro dio, ma l’Inquisizione
è potente a parole e a fatti. Non
permetterò che tu metta a rischio la vita dei miei
nipoti».
La voce
cordiale e soave di Braska aveva lasciato il posto a una più
profonda e ruvida,
che sovrastava il ronzio dell’aeronave. Gli sembrava aliena.
Gli sembrava che a
parlare fosse Alan.
Rikku si
spaventò ancora di più sentendo quel discorso,
pur non potendolo comprendere
fino in fondo. Scoppiò in lacrime e nascose il volto dietro
la gamba del padre.
Cid lanciò un verso infastidito verso Braska, poi disse al
figlioletto di
consolare la sorellina.
«Francamente,
mio caro cognato,» commentò il capo degli Al Bhed,
volgendo lo sguardo al cielo
che solcavano come se fosse il mare, «mi ci pulisco il culo
con
l’Inquisizione». Si voltò verso Braska,
e nel vedere la sua espressione
trattenne malamente una risata. «Oh, chiedo scusa,
principessa. Che cosa può
farmi? Mandarmi nella bocca del pesce?»
«Ucciderti,»
replicò Braska, lapidario.
«Siete
tutti così, voi uomini di Spira. Uccidine uno e il suo
impero crollerà. Ma
uccidi un Al Bhed e al deserto mancherà un ingranaggio; e la
natura vendica
sempre ciò che ha perso. A differenza della
società».
Braska lo
fissò dritto negli occhi. Pensò al giorno in cui
Emma non era tornata dal mare,
a come nessuno se non lui aveva pianto la sua perdita; pensò
al giorno in cui
Alan, invece, a casa c’era tornato. Erano ben altre dalla
morte le cose di cui
si vendicava la loro società.
Ma non era
troppo tardi per cambiarla.
Quasi
intimorito dall’orgoglio di Cid, spostò lo sguardo
verso suo figlio, che stava
tenendo un braccio attorno alle spalle della sorellina.
«Si
calma
se le canto una canzone» disse il fratello maggiore non molto
entusiasta.
Allora,
per favore, canta. Canta come faceva Emma al solstizio
d’inverno, mentre io
danzavo con la fiamma tremula. Canta per Bikanel e per la tua gente,
che mai ha
lasciato un sepolcro illacrimato.
La
gravità
della situazione non tollerava perdite di tempo né
imbarazzo: aiutato da Jecht
che gli allacciava l'armatura, Auron si rivestì in fretta
nonostante fosse
ancora fradicio, proprio come il compagno.
L’atleta
scosse la testa incredulo e corse sui marmi colorati verso
l’uscita dello
stadio, seguito dal monaco che era meno scattante di lui.
«Chi
mai
vorrebbe rapire un Invocatore?» chiese, rallentando il passo.
«Io
davvero non lo so, ma la pagheranno cara,» rispose Auron a
denti stretti.
Il dedalo
di scale e corridoi che portavano agli spalti confuse il Guardiano
più giovane:
non ricordava più esattamente dove andare e, pur di fare in
fretta, si lasciò
afferrare il polso destro da Jecht per essere guidato verso l'uscita.
I loro
occhi non avevano fatto in tempo ad abituarsi alla forte luce che la
loro
avanzata fu bloccata da un fiume di persone che correvano in tutte le
direzioni.
«Ehi!
Ehi,
fermi!» provò a gridare Jecht. La gente,
terrorizzata, passava oltre senza
guardarlo, quasi come se lui fosse un’illusione.
Come se
fosse un sogno.
«Rapiscono
Braska e scoppia un caos del genere?» continuò
lui, a voce alta per farsi
sentire almeno dal compagno.
Auron
rimase in silenzio ad osservare, lo sguardo che non sapeva dove
posarsi.
Strinse gli occhi per focalizzare meglio lo sguardo: nella folla
notò degli
uomini in nero. Le loro tuniche erano in netto contrasto con
l’azzurro
sfavillante delle case, che faceva a gara con il cielo e il mare; con
il bianco
delle strade che aspirava a rifulgere come il sole.
«Ci
sono i
sottoposti di Alan in giro,» disse, indicando
avanti.
«Sempre
loro a far danni,» commentò Jecht, nervoso.
Non
sapendo dove andare, i Guardiani si diressero verso il centro
città gremito di
persone che, in un modo o nell'altro, cercavano di sfuggire alla
guardia
cittadina. Molte venivano solo fermate, altre perquisite o arrestate,
mentre
gli uomini di Alan interrogavano chiunque senza sosta in cerca di
informazioni
utili.
Chi aveva
un negozio o un locale era in piedi davanti alla porta, come se volesse
dimostrare di non nascondere dei cospiratori. Colto da
un’intuizione
improvvisa, il monaco riuscì a individuare il viale che
conduceva al bar dove
aveva bevuto il giorno prima.
Fu lui ad
afferrare per il polso Jecht, e a trascinarlo in quella
direzione.
«Vieni».
Quella
ragazza… forse lei sa…
Due
gabbiani, spaventati, presero il volo strillando. Fece loro eco il
grido fiero
di una donna, e una chioma di capelli scuri frustò
l’aria che sapeva di cenere,
strinata da un pugno potenziato con Firaga.
«Cécile!»
Auron, nel
vederla respingere un uomo davanti al suo locale, aveva provato a
chiamarla, ma
il brusio era troppo forte. La donna caricò la guardia e,
dopo averla
atterrata, le assestò una scarica di pugni in pieno volto.
Venne sollevata di
peso da un secondo soldato, mentre scalpitava e cercava di liberarsi
non per
scappare, ma per picchiare anche il nuovo arrivato.
I suoi
occhi celesti si voltarono verso Auron. Erano limpidi e fieri, come se
lo
spirito del mevyn che un tempo aveva comandato nelle pianure lontane si
fosse
reincarnato proprio in lei.
Il monaco
pensò a quel giorno in cui aveva consigliato ad Hanna di
andare da sola nella
grotta in cui aveva perso la vita. Non avrebbe ripetuto lo stesso
errore. Non
ne avrebbe lasciata morire un’altra.
L'uomo
cingeva l'addome di Cécile per allontanarla, ma
così facendo le lasciò le
braccia libere: a lei tanto bastò per ribaltare la
situazione. Usò gli
avambracci per premere sui gomiti dell'aggressore e fare leva verso il
basso. Si
liberò della presa con facilità impressionante,
poi si mise in posizione di
guardia. Incollerito, l'uomo tentò di afferrarle i capelli
in virtù della
differenza d'altezza, ma Cécile si spostò di lato
e gli bloccò il polso, per
tirarlo a terra con uno strattone ben piazzato e torcere il suo braccio
dietro
la schiena, lasciandolo del tutto inerme.
L'uomo le
intimò di lasciarlo andare, lei per tutta risposta si
alzò in piedi e lo calciò
sul costato.
«Fermatevi!
Per Yevon, fermatevi!»
Che fosse
per timore o perché lo aveva riconosciuto, Cécile
oppose una scarsa resistenza
quando vide la veste rossa di Auron, che si era interposto tra lei e la
guardia, e lasciò che un suo gesto la spostasse indietro.
«Che
cazzo
fai, troietta?» gridò l’uomo, alzandosi
a fatica. Un suo commilitone lo
richiamò, ordinandogli di proseguire con la ronda, proprio
mentre Cécile
sputava nella sua direzione, tenuta dal braccio di Auron.
«Ferma,
ferma…» tentò di calmarla il Guardiano,
posandole entrambe le mani sulle spalle
e guardandola, pur con una certa soggezione, negli occhi stravolti.
«È andato
via».
Il petto
di Cécile, che si alzava e si abbassava con una frenesia
feroce, gradualmente
rallentò il suo moto. Una goccia di sudore le
scivolò lungo la fronte, e la sua
mascella serrata si rilassò un poco.
Il monaco
schiuse di nuovo le labbra per parlarle, ma lei eluse la sua presa e si
mise
davanti a lui, dritta come una lottatrice in un’arena. Quando
un baluginio di
metallo le illuminò il pugno abbassato, Auron
arretrò verso Jecht con le mani
alzate, per mostrarle che loro non erano un pericolo.
«Cécile.
Che cosa sta succedendo qui?»
La ragazza
si guardò attorno e allargò le narici, sbuffando
fuori l’aria. Poi guardò
dritto negli occhi ambrati di Auron, ignorando il secondo Guardiano.
«Il
Maestro
di Yevon che è arrivato in città. Ha cominciato a
mandare in giro i suoi in
modo che arrestassero tutti i sospetti di eresia».
Il monaco
fu colpito al petto da una stilettata in grado di ignorare qualsiasi
armatura.
«L’Invocatore…
è suo fratello,» tentò di spiegarle
Auron lui, trovandosi all’improvviso a
gesticolare in modo quasi ridicolo, «è stato
rapito, e credo che stia–»
«Sì,
bella
scusa,» sibilò la giovane, avvicinandosi al suo
viso con entrambe le braccia
tese lungo i fianchi, i pugni serrati e lo sguardo che schizzava verso
le vie
di Luka. «Bella scusa per perquisirmi il locale!»
«Tu
sei…»
cominciò a dire Auron, ma si interruppe di colpo. Il
problema non era il bar.
Aveva
perso un’altra occasione per intervenire prima. Non era stato
in grado, di
nuovo, di salvare qualcuno.
«Ah,
uomini! Avrei dovuto sposarmi,
quando ero più giovane».
Si
ricordò
di come Cécile rideva, i denti bianchi scoperti dalle labbra
truccate. Di come
i suoi occhi si dirigevano, furtivamente, verso la porta chiusa dietro
il
bancone.
«Ti
prego,» le domandò, deglutendo delle parole di
pentimento che sarebbero
risultate del tutto fuori luogo. «Sai dove è
andato?»
«Non
mi ha
fatto il piacere di presentarsi di persona,»
ribatté lei, poi avanzò a passi
lenti, ancheggianti, come se camminasse tra le fiamme. La sua divisa da
cameriera sporca di polvere creava uno strano contrasto con il suo
incedere da
regina. «Adesso ti chiedo di spostarti».
Scusami,
Cécile.
Qualcosa
dentro di lui gli gridava che non poteva lasciarla andare. Gli yevoniti
l’avrebbero catturata e condotta a un processo da cui forse
non sarebbe uscita
viva. Eppure, qualcos’altro fece sì che le sue
gambe si muovessero per farle
spazio.
«Sei
ancora in tempo per fermarti. Non so cosa ti muove, ma non ce la farai
da
sola».
Jecht lo
fissò interdetto; la ragazza si diresse verso la folla e
l’aria attorno a lei
fu percorsa da rapide scintille. Poi si voltò, per rivolgere
al Guardiano
un’ultima occhiata.
«Quel
Maestro,» gli disse, scandendo bene e con disprezzo ogni
parola, «si è preso
qualcuno che mi piace. Prova a pensare che cosa muoverebbe
te».
Gli occhi
di Jecht catturarono uno sguardo rapido di Auron mentre quelle parole
morivano
nell’aria limpida.
«Non
possiamo fermarci, ragazzo».