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Autore: Cunegonda109    17/12/2022    7 recensioni
Anche un (grandissimo e concretissimo) pericolo scampato può scatenare reazioni viscerali nel cuore di chi ama. Soprattutto in chi è costretto a vivere sempre "sufficientemente distante per essere appropriato e sufficientemente vicino per essere efficace".
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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A trovarcisi abbastanza vicini, c’è un momento esatto in ogni esplosione in cui il ruggito del tutto che si squassa e si dilania tace.

E poi, dopo, quando davvero il silenzio riacquista signoria, il chiassoso deflagrare torna, ma sommesso. Ronzando, crepitando. Incessante mormorio, inestinguibile scricchiolio, che infesta anche sotto le palpebre chiuse.

Un’esplosione è una cosa furente, complessa, viva. Un braccio che spazza, agguanta, divelle, abbatte e insieme un pizzico che sfarina implacabile tra pollice, indice e medio e un calcio che allontana, proietta, scaraventa all’infuori. Un rosso dardeggiante vigore di luce e calore. Un vertiginoso gonfiarsi e planare di polvere.

L’hanno osservata da vicino lui e lei, tanto vicino da aver potuto udirla ammutolirsi. Gli occhi spalancati, le labbra discoste. Lei, dapprima racchiusa dall’altro come in uno scrigno, poi in ginocchio, come prostrata a un dio stupefacente, quando l’impeto assordante s’è mutato in danzare di fiamme. Lui, prima a cercare più contatto possibile per coprirla tutta, proteggerla tutta, e poi, a pericolo scongiurato, di scatto in piedi, come anche lei bruciasse alla stregua dell’esuberante incendio appena divampato sotto il loro sguardo attonito e quasi deferente.

Non hanno avuto parole da dirsi e nemmeno si sarebbero potuti udire; comunque era bello, a suo modo, quel silenzio artificiale, che era solo di loro due, visto che gli altri erano troppo lontani. E allora perché guastarlo, anche solo nelle intenzioni?

Lui le ha teso muto la mano sinistra, perché anche lei si rimettesse in piedi; gli occhi a osservare ancora le lingue di fuoco inghiottire il convento.
Lei ha raccolto la mano e s’è alzata; l’attenzione ancora catturata dall’enorme bagliore scarlatto e giallo e arancione.

Nella mente di lei rintocca velatamente una domanda: come ci è riuscito, come? E nemmeno s’accorge che la chioma corvina di lui s’è fatta bruscamente canuta anzitempo. Così non gli scosta polvere e cenere grigia dal capo, né lo esorta a farlo da sé. S’avvia repentina, piuttosto, verso gli altri suoi uomini, rimasti compostamente schierati, secondo l’ordine ricevuto. Lui, come sempre, la segue. Sufficientemente distante per essere appropriato. Sufficientemente vicino per essere efficace.

La missione è finita.

Montano tutti nuovamente a cavallo e in fila ordinata e sinuosa si muovono verso il luogo in cui lei ha deciso di porre l’accampamento. Sbrigato l’allestimento delle tende, chi non è di guardia può riposare.

Lui potrebbe, ma un sentore fuligginoso in gola e una strana rigidità delle membra sembrano chiedere altro, sembrano chiedere acqua. Che lavi, che sciolga. Bere e purificarsi. Bere e ammorbidirsi. Ma non dentro la tenda, no, ché è chiuso e angusto. Allora fuori, sotto il cielo. Non serve altro che prendere l’otre e trovarsi un posto tranquillo, per potersene stare seduto un istante dentro quel silenzio che ha già preso a rumoreggiare flebilmente e costantemente. Lo individua. S’accomoda. La schiena contro il tronco d’un albero, le gambe piegate, le braccia abbandonate in avanti, i polsi sulle ginocchia.

Sta per stappare l’otre, quando s’accorge che, nel chinare il capo, gli è caduto un mucchietto di cenere sul giustacuore e in un istante, come un lampo, lo trafigge un’immagine, una consapevolezza: un minuto. Macché un minuto, meno, molto meno! Sarebbe bastato indugiare solo qualche attimo in più e anche di lei non sarebbe rimasto altro che quello. Un poco di polvere. Nemmeno un cadavere da seppellire. Non più pelle, occhi, capelli e bocca e dita e gambe e piedi e braccia, naso, collo, mento, denti. Non più azzurro e bianco e rosa e dorato…

Le sue mani tremano così tanto da perdere la presa dell’otre. Le osserva e si sente impotente di fronte a quel fremito incoercibile. A un tratto gli pare di precipitare. Un appiglio, un appiglio, gli serve un appiglio per non continuare a cadere: ma dove? Ché lì c’è solo lui, André Grandier, e questo dolore ipotetico che lo percuote come il martello implacabile di un fabbro. Non c’è nessuno, se non se stesso e l'aria immateriale, e a se stesso, dunque, si aggrappa. Con disperazione tuffa il petto in avanti, piega le braccia e punta i gomiti sulle ginocchia, giù, giù, con tutta la forza rimasta, e poi costringe i palmi a incontrarsi, spingendosi uno contro l’altro come in un’ostinata preghiera, e le dita a schiudersi, ad intrecciarsi, così che ogni mano si avvinghi al dorso dell’altra.

E in questo sforzo furioso e cieco le mani smettono di tremare. Ma ora il sussulto ha contagiato il petto, il ventre, la schiena… è perduto...

No! No! Eccola, eccola finalmente, l’acqua che voleva! Gli arriva dagli occhi chiusi, in muti singhiozzi. Pianto che pulisce. Pianto che ammansisce.
Così lentamente s’acquieta e può sospirare, sorridere, perché lui l’ha sentita, non sa come, non sa da dove, ma sa d’averla sentita invocare il suo nome, e adesso lei è qui, non in quell’inferno laggiù, e forse già sta dormendo nel tepore della sua tenda e domani i suoi capelli garriranno nuovamente nel vento e i suoi occhi saranno ancora fieri e taglienti, perfetti e pericolosi come il becco dei rapaci.

E, col cuore finalmente sollevato, al cielo di questa notte di fuoco e frastuono lui non chiede altro che di essere per sempre l’unico degno di sentire la sua voce segreta, quella che sa oltrepassare l’incoscienza, il sogno e perfino le mura di pietra e di poterla accompagnare, sempre, ovunque vada, ché nulla possa minacciarla.

Anche se dovesse restare eternamente un passo dietro a lei. Sufficientemente distante per essere appropriato. Sufficientemente vicino per essere efficace.


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N.d.a. Al terzo tentativo ho deciso di stare fuori dalla testa di entrambi e lasciar parlare un narratore onnisciente. Il quale, a quanto pare, ha preferito concentrarsi di più su André.
Mi scuso se qualcuno troverà il particolare della cenere macabro: non intendevo urtare la sensibilità di nessuno.
Grazie infinite a chi ha commentato i primi due tentativi e a chi vorrà commentare questo.

P.S. Visto che non sono certa di essere riuscita a spiegarmi bene nel testo, lo faccio qui. Quando dico che da vicino un'esplosione "tace" è perché assorda, di conseguenza per un po' non si riesce più a sentire (del tutto o in parte). Mentre quando parlo del suo tornare a manifestarsi, ma in modo sommesso, mi riferisco al fatto che dopo un trauma acustico possono comparire fastidiosi acufeni (fischi all'orecchio).
   
 
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