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Autore: sacrogral    20/12/2022    11 recensioni
… in cui si parla molto e a vuoto, come piace a me, come fa innervosire alcuni lettori, ma così va il mondo. Non è molto natalizio, ma c’è un retrogusto romantico sul finale che potrebbe piacere a qualcuno. Qua e là la trama si scopre, e qua e là si scopre pure l’autore, col suo cuore di tenebra ma anche buono. Ho detto l’autore, vi par poco?
I miei reiterati auguri di festività serene e anche scoppiettanti, e ci vediamo fra un anno, con questi personaggi sulla griglia.
Genere: Commedia, Dark, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Latour, il mattino successivo, era filato dritto alla Disperazione senza toccare letto, e nell’aria stropicciata del gentiluomo la differenza era poca, rispetto al giorno precedente.

Sogghignando di compassione aveva ignorato il cartello “Chiuso”, sorprendendosi che qualcuno di quei bifolchi sapesse scrivere e poi ricordando che uno veniva definito “poeta” perché e percome non si era ancora capito, ma forse solo per saper maneggiare un po’ d’alfabeto.

Le farneticazioni che gli aveva sentito pronunciare, su cervi e erbe, lui, non le aveva mai sentite. E se quella era poesia, c’era da capire perché i poeti son considerati un peso per la società, e alla stregua di cicisbei per damine incipriate.

Lì, in rue Saint Lazare, nell’osteria fetida e sorvegliata dalla Morte che attira a sé poveri e ricchi, giusti e peccatori, giovani e vecchi, dove si aveva l’idea che fosse sempre notte, anche in pieno giorno, Martin Latour riusciva appena a respirare, e fu accolto senza segno di sorpresa da Joss e guarda caso proprio dal poeta cialtrone – ma quello che lui, il valletto dell’uomo più crudele che Natura avesse mai storpiato, come il divin marchese era stato definito da un nobiluomo di rango indiscutibile, non poteva sapere, era che, prima di congedarsi, i disperati avevano deciso che nessuno di loro sarebbe rimasto solo, mai, se non per assoluta necessità.

Quindi adesso, che fra Etienne e Foret erano in missione con scopi lassativi, copertura questua, e il dottor Lassone era a fare le sue cose da medico, come il boia era a fare le sue cose da boia, Gobemouche, che da fare non aveva mai un beato accidenti, stazionava al fianco di Joss perché non si sa mai.

E infatti non si sapeva mai, visto che Latour era piombato volutamente inatteso e in tempi brevi, per spaventare i due che non fecero una piega.
“Questi ve li manda de Sade” pronunciò, fiero, l’uomo tutto nero, ma a volto scoperto e senza cappello; c’era sempre in lui la sensazione di qualcosa di deforme, di ripugnante, pur senza fosse evidente alcuna deformità; il poeta pensava che fosse l’odore, ma non puzzava, il galantuomo, sembrava non avere nemmeno effluvio né olezzo, come sembrava mancare di molto altro.

Questi erano una borsa piena di denari, tanti quanti forse nessuno di loro ne aveva visti tutti insieme, ma il marchese era sicuro che non sarebbero scappati in qualche stato straniero con monete sonanti a rifarsi una vita, e Latour obbediva anche quando non comprendeva, era nella sua natura.
Li gettò tuttavia col disprezzo di chi sa benissimo quanto facciano gola, i soldi, a chi vive di stenti.

Joss disse: “Grunf” e Gobemouche disse: “Bene”.

Nessuno dei due pensò né ad aprire la borsa né a contare il denaro.

“Gentile ospite, e inatteso” iniziò il poeta “Noi abbiam già cominciato, per voi, a lavorare. Il nostro piano ci lasci spiegare. E poi, fra Etienne sta per tornare” terminò con un inchino.

Latour si convinse una volta di più che monsieur le marquis dovesse avere una qualche idea nascosta, qualcosa che gli occultava, per affidare a tali sfacciati e inetti lestofanti una faccenda che, a dire di Lui, avrebbe cambiato il mondo.

Ma chi era, Latour, per discutere? Si apprestò ad ascoltare.

E, una volta ascoltato, pensò che quella gabbia di matti fosse anche ingenua e semplice, visto che lui una roba così raffazzonata e pure al tempo stesso complicata non l’avrebbe mai pensata, abituato a ragionare per schemi e a fior di armi e coltello. Avrebbe giurato che quei mezzi tagliagole si sarebbero introdotti alla Reggia tagliando appunto un po’ di gole, come gente che non ha nulla da perdere e per i quali la vita non conta poi granché, vistone lo stato miserando, e di conseguenza sarebbero stati in tempi brevi fermati, uccisi, dilaniati, con sommo suo piacere, peraltro.

E allora il marchese si sarebbe deciso a dare a lui l’incarico di ordire e non ardire (1), quindi brigare, corrompere, lavorare nell’ombra.

Pazienza, i tempi sarebbero giunti.

“Quindi” sibilò Latour “Adesso dobbiam limitarci ad attendere quella specie di frate e il ragazzino scemo, per capire se hanno fatto sì che il dottor Lassone possa essere convocato là, dove non sappiamo ove quello che cerchiamo sia nascosto, ho ben riassunto?” terminò, mal imitando il fare del suo signore.

“Chiamate un’altra volta scemo Foret e ve ne pentirete a vita” sibilò Gobemouche, serissimo, facendo il verso alla pronuncia bassa e strascicata di quell’uomo, insensibile al dolore.

Latour fece finta di rabbrividire, suscitando un certo ribrezzo persino in Joss che, manco a dirlo, non aveva pronunciato parola.

“Vi chiamano poeta” disse poi, in maniera incongruente “Vi chiamano poeta e io non so perché. Poeta degli stracci e dei cenci, m’è sembrato d’udire”.
Gobemouche si irrigidì, ancora di più.

“Immeritatamente. Non sono poeta, non sono niente. Sono uno che campa ripetendo versi altrui, come uno di quegli animali esotici che van tanto di moda fra i nobili. Sono un pappagallo, nulla di più” rispose, pensando che, se avesse detto “pittore” anziché “poeta”, avrebbe verificato con mano se davvero quel tipo fosse insensibile al dolore, gonfiandogli la faccia, com’era gonfio il bel viso di Marcel l’ultima volta che l’aveva visto.

“Ma via, che la modestia non vi si addice” ironizzò Latour “ fatemi piuttosto sentire qualcosa di vostro – improvvisate. Abbiamo del tempo da ammazzare, prima che io possa riferire a chi di dovere dell’operato dei suoi servi” calcò la mano.

Sul servi Joss strinse più forte lo straccio che aveva in mano. Lui, che era protetto dalla Morte in persona, che lo guardava da mattina a sera dall’affresco che faceva tremare tutti eccetto lui! Quell’uomo che, pur relitto della società, credeva di discendere da gente che con la Morte aveva giocato a scacchi.

“Ai vostri ordini!” si inchinò Michel, spiazzando entrambi “Apprestatevi all’ascolto”. E iniziò.
 
Dio, come odio i poeti, quelli che nessuno li ammazza

sensibili, frementi, disagiati, tristi, deboli, amorosi;

fronti mai bagnate dal sudore, a loro do sempre la caccia:

a colpi di prosa li infilzo, inquieti, azzimati, odorosi.

Dio, come odio i poeti, quelli che stan sempre male loro

Il disagio altrui non li inquieta, permalosi, assenti, turbati

seri, affannati,  fidàti, che  nell’umorismo non c’è decoro;

i drammi li inseguon per forza, benché da loro creati,

stravaganti, agitati, balzani, lunatici, perseguitati,

le membra fremono sempre, i pensieri son sempre alati,

le luci soffuse, ardenti i baci, incantate le lune,  i colori malati;

non rinnovano mai le parole, ormai dal tempo che fu,

le immagini lor suonan uguali, di magia non ce n’è più:

si influenzano a vicenda, e si commendano, con carità

vanno a capo un sacco di volte, eccola, la verità;

e pensan così di dire,  ciò che mai non  fu detto,

Dio, come odio i poeti! Ora li butto dal tetto!

E se provi a far loro notare che si pecca di assurdità,

apriti cielo, spalancati terra, tu elogi la banalità;

“grezzo, crudo, animale, devoto alla terra, pinguino,

insensibile, bruto, cafone, non ti voglio come vicino;

tu offendi le menti più linde, brutto strisciante invidioso

vedrai che scherzetto ti gioco, prosatore mio bello angoloso”.

Dio, come odio i poeti, quelli che son sempre acclarati

“cuore” che rima con “amore”,  per questo  son così amati;

rassicuranti e sempre imbiancati, coscienze di gente perbene

quando da dire “canaglie” a me di cuore appunto mi viene;

la Poesia avete storpiato, le ali tagliate di netto,

Dio, come odio i poeti! Ora li butto da un tetto!

E se un poeta davvero alfin trovo, allor la mia rabbia si placa,

l’artista davvero nascosto, l’anima pura che vaca,

a quello io stringo la mano, coi miei omaggi devoti,

che il cielo di dèi tu riempia, elimini per sempr’ i vuoti. (2)

 
“Non ho capito” disse Latour, perplesso “Se odiate i poeti, perché siete poeta?”

“Perché contengo moltitudini” rispose Gobemouche, sibillino.

“Ovvio” ribadì Joss, ed era la prima parola che pronunciava.
 

E proprio mentre lo spiazzato Latour cercava una risposta adeguata, entrarono , in una folata di vento, fra Etienne con un sacco sulle spalle e Foret, il primo con l’espressione truce e il secondo con l’espressione affranta.
 

“Oh, bene, c’è anche il signore, qui. Di bene in meglio. Mondo boia, che mattinata!” si buttò su una botte fra Etienne, e non si interruppe “Poi, questo sconsiderato senzadio, questo ragazzino dalla maturità di un lombrico, ha rischiato di mandare tutto a monte, per non dire peggio. Mondo boia!” e si girò, cercando monsieur Sanson per scusarsi, e rassicurato dal fatto che non c’era “Mondo boia!” si lasciò andare, rassicurato “Ho fatto un gran lavoro!”

Joss, Gobemouche e pure Latour si fecero pronti all’ascolto. Fra Etienne, che manco durante le omelie otteneva quel silenzio, sembrava un po’ interdetto, ma si riprese.

“Per cominciare” cominciò, appunto “stamattina, di buon’ora, ci siam recati a piedi verso Versailles, alla volta della Reggia”.

Tutti annuirono come a cosa nota.

“Voi credete che sia una roba da poco? Ma l’avete presente, Versailles? È una città, è il Paradiso in terra e ci son guardie che hanno avuto pure l’ardire di perquisirci, un uomo di Dio e un povero ragazzo che non tengono nemmeno gli occhi per piangere. Non c’è più religione, e pure l’ateismo dà segni di rotta, ve lo dico io!” imprecò fra Etienne. “Comunque, siam giunti alle cucine, e vi farei vedere cosa intendono loro, per cucine! A sbaraccare tutto, ci rimane una cattedrale! Ci starebbero tutti i poveri di Parigi a mangiarci una zuppa, altro che ‘un bocconcino per Sua Maestà’!”

Fra Etienne prese fiato, mentre Foret gli tirava il saio.

“Mentre chiedevo per la questua, ho individuato la capo – cuoca, madame  la cousine, quella che comanda, insomma, e mi son diretto alla volta del pentolame che mi pareva quello più giusto per Sua Maestà. E quella donna terribile, che io che a queste cose non bado posso dire di non averne vista  una più brutta in tutta la mia vita, né una più bisbetica, in carità di Dio, mi s’è piantata davanti come se fossi un delinquente e mi ha intimato – intimato, ribadisco! – con la voce d’un diavolo dell’inferno, di allontanarmi e stare in un angolo e aspettare una certa signorina che fa mercimonio di candele – candele, capite? Perché nella stanza in cui si trova la Regina, se si accendono le candele e poi lei se ne va, vanno sostituite per quando rientra, e se son consumate poco c’è chi se le rivende!  (3) – e questa persona, se avessi avuto pazienza, mi avrebbe dato delle candele per la chiesa, ha detto quella strega, che fan sempre comodo; però, se mi avesse pizzicato ancora a disturbare ciò che bolliva nei tegami, mi avrebbe tirato un manrovescio da farmi volar fuori dalla porta, e quella donna c’ha dei bracci che fanno a gara con quelli di Joss le petit, qui. Mai vista una roba del genere, corpo di mille diavoli e mondo boia!” e poi, ancora più spazientito “Che c’è, Foret?”

“Credo che tu debba raccontare come io ho fatto qualcosa di stupido” disse Foret, tutto mogio.

“Con calma, eh, ragazzo, che fretta c’è!” gridò il prete, sempre più rosso in viso.

“In realtà, buon uomo” si inserì Latour “Non sarebbe male abbreviare l’affascinante racconto: alla fine, il dottore sarà chiamato o no alla Reggia in tempi brevi?”

Fra Etienne si sedette su una botte e chiese con gli occhi qualcosa a Joss; l’oste alzò le sopracciglia, controllò l’ora e gli sembrò senza dubbio troppo presto, ma pazienza, si disse, col fatalismo di chi ha visto troppo mondo pur stando fermo, e gli versò una grappa.

Il frate ne buttò giù mezzo bicchiere con un sorso, poi riprese: “A quel punto, tutti si sono distratti perché Foret, che comunque si era messo da parte, ecco che allunga la mano per – per cosa, bimbo?”

“Ho visto una farfalla!” gridò il ragazzino, felicissimo “C’era una farfalla piena di colori e volevo toccarla!” e allungò la mano, quasi la farfalla fosse ancora lì.

“Appunto, questa farfalla!” urlò più forte fra Etienne “Ed ecco che, per prenderla, toccarla, Dio sa cosa, Foret allunga il braccio e imbranato com’è va a urtare una tazza con dentro una tisana per non so chi, ma la tazza cade, si scheggia, il contenuto è rovesciato e – apriti cielo, spalancati terra! – tutti sono attorno alla tazza, che fa parte di un servizio, ma ora che la tazza è scheggiata quel servizio è da buttar via! E mentre tutti e tutte rimproverano il ragazzo che si mette a piangere e parla della farfalla, io rovescio il contenuto della bottiglietta del dottore in una pentola e prego Dio che vada alle persone giuste, e la ritiro un momento prima che l’orrida cuoca – vi farei vedere la faccia, i porri che c’ha nel viso! – mi sollevi così come mi vedete e mi dica Ora che si fa? Che quel servizio di porcellana costa l’ira di Dio ed è dipinto a mano e robe così. E io allora ho un’idea”.

Il prete prese fiato e buttò giù il resto della grappa.

Joss, Gobemouche e pure Latour poterono solo dire: “Che idea?”, prendendo mentalmente nota del fatto che la pozione del dottore – “Senna, tarassaco, sambuco, frangola e qualcosina di più. Mi raccomando, quantità modiche” aveva raccomandato Lassone, consegnandola al prete – fosse stata scaraventata in un tegame a caso per l’intero e senza complimenti.

“L’idea è che mi son offerto di prendere tutto il servizio in blocco e di sostituirlo con uno nuovo e più bello!” esclamò, facendo tintinnare il sacco “E giacché ho un amico imbrattatele l’unico problema sarà trovare la porcellana bianca e finissima – o meglio, le lire per comprarla, boia d’un Giuda!” terminò.

“Quindi” riassunse Gobemouche “ tutto è bene quel che ben finisce, tranne che dovrò decorare un servizio da tè”.

“Ce lo procuriamo svelti” tagliò corto Joss “Questi sono offerti dal nostro Marchese” accennò la borsa portata da Latour  “E un servizio bianco di porcellana si trova. Foret, fila da madame Decambrais, quella che traffica col prêteur sur gage, col Monte dei Pegni, e che ha sempre tutto. L’importante è che il dottor Lassone venga convocato”.

Mentre il piccolo sgusciava via, presa qualche moneta da Joss, Gobemouche si lamentò perché lavorare toccava sempre a lui, mentre il frate, senza degnarlo di risposta, fece presente che madame la cuoca sarebbe andata di persona alla Disperazione a ritirarlo, quello stesso pomeriggio, e nel caso non fosse stato di suo gusto avrebbe fatto valere le sue ragioni.

Al momento, nessuno se la sentì di metterlo in dubbio.
 

Foret era tornato proprio con quello che serviva e Gobemuouche, in un altro mondo come sempre quando dipingeva, fossero anche decorazioni e fiori, stava lavorando di fino con tazze e zuccheriera, nel momento in cui entrò un moccioso tutto sporco e con i vestiti più grandi di lui, che recava un biglietto vergato dalla mano del dottor Lassone, e che fu mandato via in fretta, con una moneta a ricompensa; lo lesse Latour, ancora lì  in attesa, silenzioso e sibilante: “A Versailles, fra un’ora la carrozza. Preparate Michel e Foret” e scritto più in fretta, fuori tema: “Ieri notte due ragazze uccise barbaramente. Attenzione a tutto”.

Ma questo Latour non lo lesse, perché non gli interessava.
 

Quel pomeriggio, mentre Joss attendeva alle sue faccende da oste e dopo aver aiutato Gobemouche e Foret a sistemarsi per essere più simili possibile a ciò che ricordasse due aiutanti di uno stimato medico, la porta della Disperazione si spalancò di un colpo netto malgrado il cartello “Chiuso” fosse ancora affisso, ed entrò la donna più brutta che Natura abbia mai concepito – in una altezza di un metro e ottanta minimo, con un fisico a dir poco squadrato e, oltre ai porri che il frate aveva già evidenziato, sfoggiando un paio di baffi degni di uno scudiero reale, entrò madame la cuoca reale, sacramentando contro il buio pesto del luogo e sputando davanti all’affresco, giusto per scaramanzia.

“Ohé, bell’uomo” gridò, e Joss senza pensare si girò a cercare qualcuno – forse Gobemouche, magari monsieur Sanson – che rispondesse all’urlo della signora.

“Dico a voi!” continuò quella “Non siete il padrone, qui? Il frate ha detto che mi avreste dato il servizio da tè nuovo. E se non è vero lo appendo alla croce al posto del Cristo, quel fuscello d’uomo!” e poi, senza aspettare risposta “Bel posticino, questo. Si vede che voi siete uno fine. Anche se quel dipinto lì mi sembra porti sfortuna. Chi ve lo fa fare di tenerlo?”

Joss, nervosissimo, aveva già cominciato ad arrossire e balbettare: “Madame, ossequi… le tazze stanno asciugandosi, son su quella botte – io penso, voglio dire che credo, son sicuro, che l’affresco protegga questo posto – che voi avete avuto la bontà, cioè, che definite bello” e, con brusco cambio di tono: “Prendetele, quelle tazze, e abbiate una buona serata” grugnì, congedandola e scontento di sé.

“Che fretta c’è?” sorrise, la megera, mostrando i denti bianchi, ma anche che i due davanti mancavano “Certo che voi siete proprio un uomo di quelli veri, un tronco d’uomo, si vede che siete abituato a lavorare. Ma anch’io, eh? Guardate che muscoli!” e mostrò il braccio, assai peloso, gonfiando un bicipite di tutto rispetto.

Joss, rosso infino alla punta dei capelli ispidi, grugnì di approvazione, e guardò in terra.

“Io mi chiamo Julienne!” si presentò, sospirando “E ditemi, il vostro nome? Siete sposato?”

L’oste, sorpreso anche solo che una simile domanda potesse essergli posta, scosse la testa più forte del dovuto e, con fatica, disse: “Joss” a voce quasi inudibile.

“Ma bene, ma bene” squittì madame, con la voce da baritono, come aveva ben anticipato fra Etienne “Allora, ci si può bagnare la gola in questo posto?”

Joss, cercando di compensare quella che d’improvviso gli pareva una mancanza di scortesia enorme – non aver offerto lui da bere a una signora, quando di “signore” lì non ne entravano da secoli, pensava – afferrò un bicchiere, che era Honnete Bertrand, che aveva ammazzato suo cognato con un pugno diretto sulla tempia per una questione di gioco e di carte, e poi aveva pianto come un vitello e aveva tentato di ammazzarsi anche per sé, prima che lo fermassero per poi condannarlo a morte; ma in quel momento Joss non ci fece caso per niente – e versò alla donna il cognac che teneva in serbo per quelli delle tasse, quando andavano a riscuotere e lui ci teneva a trattarli bene.

“Julienne è un bel nome, sembra il nome di un piatto da mangiare” se ne uscì l’oste, non capendo più nulla e fissando il braccio scoperto, rude e peloso, della signora cuoca.

“Puoi dirlo forte, galantuomo!” esclamò Julienne, passando al “tu” e buttando giù il cognac, senza scaldarlo e senza tante manfrine, con una disinvoltura degna di fra Etienne “E se mi fai vedere dov’è che tieni la cucina, vedrai che piatto che ti preparo per cena, stasera! Tanto, la pittura di quelle tazze deve asciugarsi, dico bene?”

“Benissimo, madame” buttò fuori Joss, e uscendo da dietro il bancone e sbattendo in un angolo senza accorgersene, in tutta la sua grandezza e la sua ineffabile bruttezza, e cercando di guardare il volto di quella donna piombata d’improvviso a casa sua, con verruche e porri sulla faccia, senza gli incisivi, massiccia e sorridente, l’oste capì, col cuore che soffriva un po’ di aritmia, di essersi innamorato senza rimedio.


 
1.         Il contrario di uno dei motti di Gabriele D’Annunzio, Ardisco, non ordisco, che personalmente condivido. Non cito mai l’Immaginifico ma stavolta lo cito per Darty, che rimprovero sempre perché lo cita. Devoti omaggi, madamigella. Per Hermione, andava bene anche HARRY POTTER! Ma state facendo un ottimo lavoro.
2.         “Dio, come odio i poeti” è un’espressione di un mio amico, e nasce come poesia di un mio amico; ce l’ha letta una sera e io, che ho una memoria da elefante, non posso però tenere a mente una poesia sentita una volta – l’ho scritta sulla sua falsariga, dicendo perché io odio i poeti; l’amico mio, fra l’altro, è poeta e scrittore e pure musicista noto nel sottobosco fiorentino. Poeta per definizione, lo ringrazio per essersi sfogato contro se stesso fra i fumi dell’alcol e in mezzo a bella conversazione.A proposito, avete presente l’umorista Gino Patroni , che scrisse i versi “Ognuno pranza solo / alla mensa popolare. / Una zuppa di verdura / ed è subito pera”? A Quasimodo, permalosissimo, prese uno stranguglione!
3.        Attestato in Jacques Levron, La vita quotidiana a Versailles nei secoli XVII e XVIII, Rizzoli, BUR, 2020. Pare anche fosse un commercio proficuo. 
  
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