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Autore: WinterMoon_JJ    20/12/2022    1 recensioni
Non sembra avere più paura. Da quella posizione potrebbe ucciderlo in quattro mosse - valuta.
Invece lo lascia fare quando quello allunga le mani e stringe le sue, le prende piano, come se lui fosse un tesoro delicato che non gli sembra vero di poter toccare.
[Stucky]
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: James ’Bucky’ Barnes, Steve Rogers
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Il tempo del riposo
 
 
 
 
Quando entra in casa lui è in piedi davanti all’ingresso, una finestra del corridoio sfondata. Si irrigidisce solo un’istante, poi fa un passo nella sua direzione.
Sono quattro mesi che lo cerca.
Bucky lo guarda di riflesso e nei suoi occhi non c’è niente, ma la postura del suo corpo indica tensione.
“Va tutto bene” si sforza di dire Steve, fa un’altro passo in avanti, cercando di capire se il soldato è lì per ucciderlo.
Se anche fosse non gli importa, almeno è lì.
“Ti conosco” dice Bucky.
Dentro il petto di Steve va in scena un’alba. “Sì,” dice “mi conosci da quando sei nato.”
Suona un citofono, in una casa vicina, lo sentono entrambi.
Bucky spalanca gli occhi e Steve si gira involontariamente nella direzione del rumore, non deve neanche rigirarsi verso di lui per capire che Bucky è sparito. 
 
 
 
 
 
 
È così stanco, e non sa dove andare. Ha molti malfunzionamenti e sa che deve essere sistemato.
C’è una vita che non conosce che lampeggia nella sua mente, ricordi che non sa da dove vengono.
Ha bisogno di essere ricalibrato.
Forse se completa la sua ultima missione poi lo sistemeranno. Forse nessuno è venuto a prenderlo perché Captain America è ancora vivo.
 
È seduto al tavolo della sua cucina e la missione sta parlando.
Mentre guarda il suo viso decide che per ora non lo ucciderà.
Si chiama Steve e una volta potevo chiudere il suo polso nella mia mano - pensa.
“Lascia che ti aiuti, Bucky” gli sta dicendo.
I suoi polmoni grondavano catarro e si contraevano talmente forte che lui cercava di contenerlo con il suo corpo, nelle notti d’inverno.
Due obbiettivi, livello 6, voglio morti confermate entro dodici ore. 
Si vergognava quando gli altri ragazzi ridevano e lo chiamavano femminuccia, era lui che poi toglieva quei sorrisi dalle loro facce a suon di cazzotti.
Adesso è l’Asset che si vergogna.
Puzza così tanto sta appestando l’ambiente. Prima non se ne rendeva conto, ma adesso non riesce a smettere di pensarci.
È nella casa della missione - Steve - lui è così pulito, la casa è così pulita, e lui puzza tanto da fare vomitare.
Il capitano si è avvicinato e l’asset non sa cosa farsene di questo sentimento che non conosce ma che adesso lo sta consumando.
Abbassa lo sguardo “никто не пришел меня чистить” borbotta.
Nessuno è venuto a lavarmi.
La missione adesso è vicinissima e gli si accuccia davanti, attraverso la propria puzza il soldato può sentire il suo odore. Sa di dopobarba e di grafite, quando è entrato stava disegnando.
Non sembra avere più paura. Da quella posizione potrebbe ucciderlo in quattro mosse - valuta.
Invece lo lascia fare quando quello allunga le mani e stringe le sue, le prende piano, come se lui fosse un tesoro delicato che non gli sembra vero di poter toccare.
“Ti prego resta con me” dice di nuovo.
“Manutenzione” risponde il soldato.
La missione sembra confusa.
L’Asset si alza e lo guida in bagno, senza lasciargli la mano “è necessaria” spiega, indicando la doccia.
 
 
 
 
 
 
Bucky rimane in piedi mentre lui lo spoglia, muove solo gli arti per facilitargli il compito.
Steve lo libera di tutte le sue armi, gli fa scivolare l’imbracatura giù dalle spalle, e rimane sorpreso da come non faccia una piega quando le getta da parte, lasciandolo indifeso - non che il Soldato lo sia mai.
Gli sfila la cintura, gli slaccia le cinghie dell’uniforme una per una, sono lacere, alcune si spezzano appena le prende in mano. Quando riesce a liberarlo della parte superiore della divisa si rende conto che sotto non indossa nulla.
Si piega sulle gambe per togliergli le ginocchiere, per slacciargli gli stivali e poi sfilarglieli piano.
Alza lo sguardo per controllare il suo viso ma Bucky non lo sta guardando, fissa davanti a se atono, con gli occhi vuoti, come abituato alla procedura.
Non si sfila neanche i calzini da solo, non che a Steve interessi.
Hanno condiviso la stessa tenda in guerra, quando l’acqua era rara e il sapone semplicemente introvabile.
Il suo corpo è incrostato dello sporco di mesi, sotto tutto sente ancora l’odore limaccioso del fiume da cui l’ha tirato fuori, è sicuro che non si sia mai lavato da allora.
Deglutisce piano mentre gli abbassa la cerniera dei pantaloni e poi glieli tira giù, cerca di non guardargli tra le cosce, ma dalla sua posizione è impossibile.
Nonostante tutto il desiderio gli toglie l’aria dai polmoni così violentemente che gli fa male, che è doloroso, ma si impone di sembrare indifferente e glieli sfila dalle gambe, dai piedi che Bucky alza, come un bambino fa davanti a sua madre, per aiutarlo a toglierli.
Apre l’acqua nella doccia e il soldato fa per entraci immediatamente, ma Steve lo ferma e regola la temperatura, aspetta che diventi calda. L’altro lo guarda confuso e lui sente una stretta alla gola.
“Aspettiamo che si scaldi” spiega, Bucky sembra ancora più confuso. “Sarà più piacevole, Buck” 
Gli posa una mano sulla spalla di carne, sa che non dovrebbe farlo, non in quel momento, non con Bucky in quelle condizioni, ma non riesce a impedirsi di toccarlo.
Il soldato non da cenni di averlo sentito, aspetta che lui gli dica di entrare in doccia e poi ci entra.
La meraviglia dell’acqua calda che gli scorre sul corpo però non riesce a trattenerla. Chiude gli occhi e vibra di piacere sotto il getto che gli scorre sulle testa, le spalle, il petto, le gambe.
Steve lo lava con una spugna e il sapone quando capisce che non lo farà lui, l’acqua sul fondo della doccia diventa scura.
Bucky chiude gli occhi e sembra godere di ogni suo tocco, quando gli insapona i capelli lo sente tremare.
“Ti piace?” non può fare a meno di chiedergli.
Bucky si gira a guardarlo, lo fissa a lungo negli occhi e pensa non gli risponderà, invece piano annuisce.
Quando lo porta a letto indossa un suo pigiama e non si oppone quando Steve si stende dietro di lui e lo abbraccia.
Domani forse si sveglierà con le sue mani intorno al collo, ma va bene così.
 
 
 
 
 
La risorsa non sapeva che si potesse essere toccati anche così. Con gentilezza.
Piangerebbe, se si ricordasse come si fa.
 
 
 
 
 
 
“Fallo, fallo e sarà l’ultima volta.” La voce dell’uomo è carezzevole, i suoi occhi guardano il Soldato con qualcosa di simile alla devozione. Gli appoggia una mano alla spalla. “Finisci questa missione e poi potrai riposare, niente più guerra, niente più uccisioni, l’Hydra sarà riuscita a portare la pace, e grazie a te”
L’Asset deglutisce piano, “lo prometti?”
“Certo che te lo prometto, hai fiducia in me, vero?”
A dire il vero non lo sa, non se lo ricorda, ma c’è qualcosa nel suo viso, come un riflesso sbiadito di qualcun altro, qualcuno di più giovane forse, qualcuno a cui sa che potrebbe affidare tutto, che non gli mentirebbe mai.
Annuisce a Pierce.
 
Le sue mani sono macchiate di altro sangue, i suoi occhi sono pieni di altre cose indicibili quando torna alla base, ma c’è anche una sensazione di sollievo così forte dentro di lui, che non riesce neanche a capire. È il momento del riposo. Si sente felice ed è anni che non si sente così, e quella sensazione è così estranea che gli da quasi la sensazione di essere drogato. Vorrebbe solo stendersi qualche minuto, assaporare la gioia, ma non gli danno tempo di riposare, gli ordinano di sedersi sulla sedia, quella del ripristino, e lui non capisce; “basta dolore” dice, confuso “ho finito”.
Lo spintonano avanti e lui si siede, perché agli ordini non si può disubbidire.
È lì che vede Pierce, non gli sta prestando molta attenzione, ma prova lo stesso a chiamarlo.
“Era l’ultima missione” dice, e sente la sua voce molle, debole, disperata.
Pierce non gli risponde nemmeno “ripulitelo” ordina ai medici intorno a lui “riportatelo indietro, e poi congelatelo.”
Il Soldato prova a scalciare, ma i rinforzi della sedia sono già chiusi e lo bloccano.
“No, hai promesso.” 
Qualcuno gli spinge un pezzo di plastica dura in bocca, e automaticamente lui li lascia fare.
La sedia inizia a ronzare, a muoversi sotto e intorno a lui, e ancora non capisce “c’è la pace adesso” vorrebbe dire.
Poi le scintille scoppiano e il suo mondo diventa bianco come l’inverno.
 
Guarda nel vuoto davanti a lui, il sapore del dolore che gli sale nella gola. Ha un sapore chiaro, di sangue, delle sue vene che scoppiavano, di vomito, il suo stomaco che si rovesciava… 
“Buck?” la missione non sta più guardando la tv, sta guardando lui.
È seduto su una poltrona, l’Asset invece, ha tutto il divano.
Non ha mostrato emozioni perché ancora non è abituato a farlo, ma Steve sembra capire lo stesso che qualcosa non va.
Lo capisce sempre, e ancora non ha capito come fa, è sicuro di non lasciar trapelare niente.
 
[Quante volte ci ha creduto? Quante volte ha eseguito gli ordini, credendo di essere a un passo dalla fine, e poi gliel’hanno fatto dimenticare? 
Quante volte l’hanno preso in giro in quel modo?]
 
Bucky alza lo sguardo. La missione gli sorride, incoraggiante.
L’asset non sorride, nessuno gli dato il permesso di farlo, e forse non ne sarebbe capace ugualmente.
Con uno scatto rilascia la mano metallica con cui stava stringendo la sua uniforme, sulla coscia. Non si era accorto di stare stringendo.
Non l’ha rovinata comunque, nota con sollievo.
La missione gli ha dato una nuova uniforme, è morbida e grigia. Insiste che la cambi spesso, a volte con altre uniformi simili di altri colori.
“Stai bene, Bucky?”
Rapporto sulle sue condizioni.
È una domanda diretta, ma lui non risponde. 
La missione non sembra arrabbiarsi.
Anomalia.
Il soldato solleva una mano, gira il palmo verso l’alto e arriccia piano le dita, due volte. Lo chiama vicino.
La missione sembra sorpresa ma sorride di più, sembra intenerita e compiaciuta.
L’asset è soddisfatto di vederlo così. Non lo ucciderà neanche oggi, capisce. 
Disobbedienza.
Il capitano gli si siede accanto, gli accarezza i capelli. È una cosa che fa spesso ed è piacevole.
“Sapevamo che ci sarebbero stati momenti più difficili, ma ci sono io con te, lo sai”
Il Soldato si sporge verso di lui e gli si lascia andare addosso, gli nasconde la faccia sulla guancia “riposo?” chiede.
Le braccia della missione - Steve - gli si stringono intorno, calde.
Gli bacia la testa “sì, Bucky, puoi riposarti”
 
 
 
 
 
 
Quando apre la porta di casa è stanco e dolorante dopo una missione particolarmente violenta, non ha ferite gravi ma è tutto un livido, e sa benissimo di apparire uno schifo tanto quanto si sente, che Clint ha fatto fuori un paio di nemici troppo vicini con delle frecce esplosive e gli schizzi di sangue sono arrivati fino a lui.
Fa appena in tempo a registrare Bucky, in piedi in mezzo al corridoio ad aspettarlo, come sempre, prima che con un ringhio quello gli si slanci addosso.
Per un istante la sua reazione è talmente violenta che Steve pensa che lo aggredirà, che lo stia aggredendo, e istintivamente il suo corpo scatta in posizione di difesa, ma poi si rende contro che il Soldato l’ha solo spinto contro la parete, che l’ha strappato dalla porta e ci si è piantato davanti, che ora la fronteggia con la stessa ferocia che ha visto nei cani da guardia.
“Sono solo, Buck, non ci sono minacce”
Lo sguardo di Bucky scivola su di lui rapidamente, controllando il suo stato, prima di girarsi di nuovo verso l’ingresso, sporgendosi nel corridoio con la stessa attenzione di un cecchino che si sporge da una finestra nel mezzo di una guerra.
Solo quando è soddisfatto si riavvicina a lui.
“Dimmi un nome” ordina.
“No, non devi uccidere nessuno” Bucky dilata le narici, come un animale a caccia. È combattuto tra il desiderio di uscire, controllare le scale, il portone, difendere e il bisogno di ascoltare Steve e ubbidire al suo comando implicito. Respira forte, frustrato, lo sguardo ancora sulla porta d’ingresso.
Il capitano tende una mano per afferrare la sua, per calmarlo “sto bene, la maggior parte del sangue non è mia.”
Finalmente Bucky rilassa le spalle, la maggior parte della tensione abbandona il suo corpo.
Il capitano gli accarezza la mano con le dita, e non vuole pensare che lo sta accarezzando come farebbe per calmare un cane.
“Scusami” dice “sarei dovuto passare prima in infermeria. Non volevo turbarti.”
“No, qui.”
Bucky stringe la presa, rafforzando le sue parole. Quando lo lascia è solo per sganciargli la divisa, per aprirgliela sul petto e aiutarlo a sfilarla dalle braccia.
Steve trattiene il fiato quando sente le sue dita scorrergli sul corpo, delicate, sulle spalle, sulle braccia, sul petto e gli addominali, controllando ogni graffio, ogni taglio, ogni livido. 
Sa che non ci sono secondi fini nel suo tocco, ma non può impedirsi di assaporare quel momento, di lasciare che i muscoli si sciolgano, che la pelle d’oca ricopra le sue braccia e il retro del suo collo, mentre sente un brivido che non sentiva da troppi anni.
Quando Bucky si ferma riapre occhi che non ricordava di aver chiuso, e per un istante, dentro quelli dell’altro, gli sembra di vedere qualcosa.
Poi il soldato si lecca l’indice e il medio e glieli porta sulla guancia, strofinando per pulirlo dal sangue secco con un’espressione che si fa corrucciata e quasi infantile.
“Okey…” sospira Steve, perché l’ha fatto già durare anche troppo, “basta così, cose ne dici? Vado a farmi una doccia”
Ma sente gli occhi di Bucky sulla schiena per tutto il tempo, mentre si allontana.
 
 
 
 
 
 
“Eri piccolo.”
Dice l’Asset al capitano quando realizza che i vestiti che indossa solo i suoi e gli fanno bene. Una volta non sarebbe stato così.
“Tanto più piccolo di me”
La missione sorride. “Ora non esagerare, non ero così piccolo”.
Ricordi errati. Pensa. 
“Malfunzionamento” dice, i suoi occhi si fanno tristi “necessaria ricalibrazione?” 
 “No!” Esclama la missione, sembra triste anche lui.
L’Asset è confuso, non vuole che la missione sia triste.
“Stavo scherzando… ho- ho detto una cosa non vera. Ero molto piccolo, ti ricordi bene.”
L’Asset è ancora più confuso.
“Ti ricordi? Ho preso il siero del super soldato poi, il siero Erskine, e sono diventato così, grande. Ero già grande quando eravamo in guerra”
Azzano. Un lettino, delle cinghie. Il viso di Steve che galleggiava sopra di lui, ha dovuto ripetere il suo nome due volte per rendersi conto non fosse un sogno.
“32557, Sergente, James Buchanan Barnes?” Prova.
“Sì, esatto, bravo Buck.”
A lui però piaceva quando era piccolo. Gli piaceva toccarlo e sentire che si adattava perfettamente alle sue mani. Gli piaceva come i suoi occhi sembrassero troppo grandi sul suo viso, come aveva l’illusione di poterlo stringere tra le braccia, se avesse voluto, e fare in modo che nessuno a parte lui lo guardasse.
Stava sempre male però. 
Si rannuvola a pensarci.
Quando era piccolo stava sempre male ed era sempre malato, dopo, quando era diventato grande, stava meglio. 
Bucky avrebbe fatto a pezzi il mondo per proteggere Steve, ma poi Steve era stato in grado di proteggersi da solo.
I suoi polmoni funzionavano, i suoi muscoli riuscivano a sorreggerlo meglio e non si affaticava più dopo pochi passi.
La missione aveva un corpo che non lo faceva più soffrire.
In qualche modo è un pensiero che gli piace.
Non vuole che la missione - Steve, Stevie - soffra.
 
 
 
 
Dormono insieme da qualche settimana quando succede, o forse era successo altre volte, ma lui non se n’era mai accorto.
Sta per addormentarsi quando qualcosa attira la sua attenzione, non saprebbe dire che cosa esattamente, è più un cambiamento d’atmosfera. Una tensione nel corpo di Bucky al suo fianco, un brivido dietro la nuca, come quando senti di essere guardato e non capisci da chi.
Gli da le spalle, posizionato su un fianco, ma con una torsione si gira verso di lui.
Bucky è disteso a pancia in sù, ma il volto è appena piegato nella sua direzione e lo sta fissando, Steve ci mette un momento a notare la sua mano, quella di carne, che è infilata nei pantaloni del pigiama e si muove piano.
Prima ancora che possa capire cosa sta succedendo Bucky spalanca gli occhi e ritira il braccio, si copre l’inguine con entrambe le mani, nascondendo quella che è un’inequivocabile erezione, e gira di scatto la testa, guardando il soffitto.
Rimane immobile, rigido, e trattiene in fiato.
Lo stomaco di Steve fa una specie di capriola.
Non sa bene cosa dire però, Bucky sta trattenendo il fiato, sembra imbarazzato, ma, allo stesso tempo, terrorizzato.
Steve apre la bocca per parlare, ma poi la richiude, non riuscendo ancora a trovare qualcosa di sensato da dire. 
“Non stavo -“ balbetta il soldato “non s-stavo -” boccheggia “volevo solo farlo smettere”.
“N-non hai fatto nulla di male, stai tranquillo. E comunque non devi darmi spiegazioni.”
L’altro non risponde, ha ancora le mani che nascondono l’inguine, e si morde un labbro. 
Tutto il corpo di Steve si tende verso quel movimento, verso la punta della sua lingua, che piano si inumidisce le labbra, lì dove pochi attimi prima stava mordendo.
Lo stava guardando, mentre si toccava. Può significare qualcosa? Forse ricorda, e se ricorda, è pronto a parlarne, e lui cosa dovrebbe fare?
Non vuole farlo scappare, questo è dolorosamente chiaro.
Si strapperebbe via ogni desiderio piuttosto che fare qualcosa che possa allontanarlo.
Magari lo guardava solo per controllare che non si girasse, che non lo vedesse.
Si sforza di alzare lo sguardo al soffitto, di rilassare il corpo. Assume la stessa posizione dell’altro e ora sono stesi entrambi sulla schiena, a venti centimetri di distanza che però sembrano abbastanza ampi da farlo sentire come se in mezzo a loro ci fossero tutti i settant’anni che sono passati, tutti racchiusi lì, in quel piccolo pezzo di materasso.
“Ascoltami” dice, mantenendo un tono distaccato “quello che stavi facendo è normale. A volte il corpo ha degli impulsi, ed è normale sfogarli. Puoi toccarti, quando ne hai bisogno, non è una cosa di cui vergognarsi o di cui essere spaventati” 
Bucky ci mette tanto a rispondere che quando lo fa, lui quasi sta scivolando nel sonno.
“Non mi succedeva più” mormora, “in questi anni, con l’Hydra. Non succedeva mai. Ci ho provato all’inizio, ma sembrava così sbagliato, che potessi provare piacere nonostante quello che mi facevano fare, che dopo stavo ancora più male. Così ho smesso, e… anche il mio corpo ha smesso di - pausa - di chiedermelo”
Steve si sente come se avesse inghiottito veleno, gli fa male lo stomaco, si gira appena verso Bucky, e persino al buio non può non notare quanto siano lucidi i suoi occhi.
“Credevo di non potere più”
“Dio, Buck…”
“Non dire che ti dispiace”
Steve serra le labbra, anche se non era quello che stava dicendo.
Poi sente la mano di Bucky che cerca la sua, che la prende e piano la porta su di sé, tra le sue gambe. Che preme appena. Non ha più un’erezione, è solo un po’ duro.
“Fallo, Steve” mormora, “voglio risentirlo. Voglio che me lo fai provare.”
Il capitano si porta su un fianco, non dice niente, non si avvicina, non lo tocca in modo diverso da quello che ha chiesto.
Gli fa solo scivolare la mano dentro le mutande e la muove, il più dolcemente possibile, all’inizio, e poi più veloce.
Il primo orgasmo dopo più di mezzo secolo Bucky lo ha nel suo letto, con la sua mano tra le gambe, mentre sta singhiozzando.
 
 
 
 
 
Steve, la missione - Steve - è fuori casa quando qualcuno citofona. L’asset esita, si muove piano, controlla le finestre; chiuse. Tutti gli antoni: sprangati. La luce: accesa.
La missione - Steve - dice che non c’è bisogno di sbarrare le finestre, che non verranno a cercarlo.
Imprudente. Il Soldato lo sa, che verranno, se tagli una testa ne nascono altre due. Lo riporteranno alla base, lo puniranno e poi lo resetteranno. È la procedura corretta. L’Asset lo sa, ma Bucky ha paura.
Scivola in cucina, afferra un coltello, un’altro lo infila nell’elastico dei pantaloni. Poi va in ingresso, cauto.
Il citofono ha un piccolo schermo illuminato. il Soldato vede un uomo.
Piano preme il pulsante per attivare l’audio.
“Chi è?” chiede.
“Abito al sesto, ho scordato le chiavi, mi può aprire gentilmente il portone?”
“No”
L’uomo impreca, alza la mano come per premere qualcosa fuori dall’inquadratura, l’immagine sparisce.
 
Quando Steve rientra nell’appartamento, ore più tardi, Bucky non si è ancora mosso dal suo posto dietro alla porta d’ingresso, l’arma salda nella sua mano.
La missione si gela sull’uscio e si porta in posizione di difesa, studiandolo.
Il Soldato abbassa subito il coltello.
Lo lascia cadere per terra insieme all’altro.
Steve si rilassa impercettibilmente “cosa stavi facendo?”
Bucky alza il mento, non risponde.
“Perché avevi un maledetto colt -”
“Verranno, Steve”.
La missione non gli chiede chi.
“Bucky, è finita, non ci devi più pensare”
Non è finita, vorrebbe dirgli, non finirà mai per me.
“Sei al sicuro qui” insiste Steve.
“Non sono al sicuro da nessuna parte”
 
 
 
 
 
 
 
Si sveglia dall’ennesimo incubo, gridando in un modo che a Steve sta diventando quasi familiare.
Sussulta stringendosi il corpo tra le braccia, quella di metallo che preme forte per controllare i tremiti, respiri spezzati che gli escono dalla bocca; Steve vede lo sforzo che sta facendo per cercare di regolarizzarli.
Ha imparato come toccarlo in quei momenti, con gesti lenti, mostrandogli sempre i palmi delle mani prima, per dimostrargli che sono vuote, aspettando un segno. Bucky fa appena un cenno e lui sospirando gli posa le mani sulle braccia, lasciandole scorrere avanti e indietro dal gomito alle spalle, per poi arrivare al suo collo, massaggiargli piano la schiena, cercando di disperdere la tensione. 
Dopo un po’ lui si calma e Steve si alza per prendergli un bicchiere d’acqua, quando torna Bucky è seduto sul bordo del letto, con i piedi sul pavimento.
Gli si inginocchia davanti mentre beve, gli posa le mani sulle ginocchia
“Cosa posso fare per farti stare meglio?” Chiede.
“Un proiettile”
Steve non capisce “cosa?”
“Non sentirò dolore.” Anzi. “Smetterò di sentire dolore”
Quando Steve realizza si irrigidisce e toglie le mani dalle sue cosce.
Bucky sostiene il suo sguardo, in silenzio.
“Posso farlo io stesso. Devi solo… resettare l’ordine”
“Ordine?”
“Dopo la prima volta che ci ho provato… mi hanno ordinato di non uccidermi.”
E non capisce perché è l’unico ordine a cui non riesce a disobbedire, o forse dentro di lui lo sa.
Steve ringrazia il Signore.
“Se non avessi fallito, la prima volta - ”
“Non posso farlo, Buck.” Lo interrompe subito “Chiedimi qualunque altra cosa”
“Non c’è niente altro”
Niente che lui possa fare.
Vedremo.Fosse anche tutta la vita da dedicarci.
Io ho tutto il tempo, pensa.
 
 
 
 
 
 
Si sta lavando - da solo, ha imparato di nuovo a farlo - quando all’improvviso va via la luce.
L’ondata di panico è così improvvisa che si aggrappa al muro, le dita che affondano nelle piastrelle come se fossero fatte di pasta di zucchero.
Scattano allarmi dagli appartamenti vicini, lui si copre le orecchie con le mani “no, no, no, no…”
Non si accorge di Steve finché tutto il suo corpo viene stretto in un abbraccio. Sente il suo odore anche se non può vedere il suo viso e gli affonda il naso nel collo, respirando forte per calmarsi.
“E’ solo un black out” sta dicendo Steve, “è un black out, Buck, stai tranquillo. Ci sono io. Ci sono io”
Si costringe a respirare più forte.
Quando torna la luce nella stanza la tenda della doccia pende da un lato, pezzi di piastrelle gli feriscono i piedi e Steve è premuto contro di lui sotto il getto, coi vestiti zuppi d’acqua e i capelli che gocciolano.
 
 
 
 
 
 
 
Ha cominciato a seguirlo in missione, a combattere al suo fianco. Non può dire che tutti l’abbiano accettato senza remore, ma rispettano la decisione del capitano, e nessuno può mettere in dubbio quanto faccia comodo avere un alleato del genere in battaglia.
Una pioggia di proiettili cade su di loro dall’alto, il cielo sembra scuro da quanti elicotteri ci sono ed è Steve, ovviamente, a correre i rischi maggiori, a prenderseli, senza chiedere il permesso e senza preoccuparsi delle conseguenze.
Protegge i civili, correndo da un lato all’altro della strada, lanciando lo scudo e abbattendo nemici e facendo scudo con il suo corpo quando serve.
Ma è qualcun altro a fare da scudo a lui quando un lanciarazzi spara nella sua direzione.
Non vede niente solo fumo, polvere, ma capisce subito che il colpo che doveva arrivare è stato qualcun altro a riceverlo.
Quando torna a vedere qualcosa Bucky è piantato davanti a lui come se fosse spuntato dalla terra, le ginocchia piegate per fare resistenza al colpo, le braccia incrociate davanti al viso, quella di metallo che ripara entrambi.
Gira appena il volto verso di lui, i suoi occhi che controllano che stia bene, prima di lanciarsi di nuovo nella battaglia, con tutta la ferocia del Soldato d’Inverno e tutta la grazia del Sergente Barnes a gareggiare su di lui. 
                                            
Più tardi Steve sta disinfettando i tagli sul suo viso con del cotone, un vezzo più che una necessità perché sa che guarirebbero comunque da soli da lì a poche ore.
“Forse se tu rimani vivo devo restarlo anche io” gli dice Bucky.
“Per difendermi?”
“È sempre stato così, me lo ricordo”.
Steve si chiede quanto dovrebbe sentirsi offeso. Sa perfettamente quanto si sarebbe offeso il piccoletto degli anni ’40, a sentire quelle parole: moltissimo. A lui invece, fanno spuntare un sorriso.
“È proprio così” concorda, “sei sempre stato lì per me, ogni volta che ne ho avuto bisogno, tu c’eri”
“Proteggo ciò che mi appartiene”
Steve solleva le sopracciglia, stupito dalla sua dichiarazione.
“Tu appartieni a me” ripete Bucky “e io appartengo a te”.
Lo guarda, come in attesa di una sua reazione. Nel petto di Steve ci sono i fuochi d’artificio, ma cerca di mostrarsi calmo, sorride di nuovo “è sempre stato così” 
Bucky risponde al suo sorriso, ed è la prima volta che lo vede sorridere senza che gliel’abbia chiesto.
Il suo sorriso si apre piano, un angolo si arriccia verso l’alto, i suoi occhi si affinano, come quelli di un gatto.
A Steve manca il fiato perché è un sorriso che conosce bene, che sa di Brooklyn, che sa di casa. È il sorriso che l’aspettava all’angolo della strada che li portava a scuola, che faceva palpitare le ragazze in sala da ballo e che lo scaldavo d’inverno. Il sorriso che l’ha messo in ginocchio.
Cade in ginocchio anche adesso “è sempre stato così” ripete “ti ricordi anche questo?”
Bucky annuisce, sempre con quel sorriso da mascalzone.
E Steve vorrebbe piangere, vorrebbe chiedere perdono, vorrebbe dirgli che lui l’ha sempre difeso e invece quando è toccato a Steve farlo lui non c’era, non c’è stato per così tanto che chiedere ammenda, adesso, risulta così schifosamente poco.
Ma non lo fa perché Bucky sorride e lui non vuole intristirlo.
Che forse non c’è stato in passato ma c’è adesso e lo giura sulla sua vita, lo proteggerà da qualsiasi cosa.
“Me lo ricordo” dice Bucky un istante prima di baciarlo.
 
 
 
 
 
 
 

 

 

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Niente, sono in un loop Stucky in ritardo di anni su chiunque altro, ho almeno cinque storie iniziate e questa che si è scritta da sola, quindi eccomi qui a pubblicarla.

La fic è ispirata a questa totale meraviglia https://archiveofourown.org/works/2677592 di BewareTheIdes15 su AO3, se sapete l’inglese vi consiglio di leggerla, per me merita anche una lettura con qualche errore su Google Traslate.
Nonostante la mia non sia paragonabile spero vi piaccia <3

 
   
 
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