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Autore: Losiliel    30/12/2022    1 recensioni
Morifinwë Carnistir Fëanárion, giovane nipote del re dei Noldor, vive in un meraviglioso palazzo nella splendente città di Tirion, in una terra benedetta da ogni ricchezza, circondato da una famiglia unita e numerosa. La sua vita sembra perfetta sotto ogni aspetto.
Peccato che lui non la pensi affatto così.
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[ Caranthir-centrico | coming of age | vita dei Noldor in Aman | Anni degli Alberi ]
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Caranthir, Fëanor, Figli di Fëanor, Nerdanel, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Los Tales'
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2

A lezione

(o quando hai la conferma che la tua dote migliore è quella di collezionare brutte figure)


 

Quando Russandol, pochi giorni più tardi, lo avvertì che il maestro aveva acconsentito alla sua richiesta, Morifinwë aveva già fatto in tempo a rimpiangere la sua decisione almeno un centinaio di volte.

Più ci pensava, più gli venivano in mente cose che potevano andare male. A cominciare dal semplice, ma del tutto comprensibile, fatto che il maestro potesse essere seccato con lui perché erano stati stravolti i suoi piani, fino alla terribile visione di un gruppo di contadini sghignazzanti che lo prendevano in giro perché non conosceva le loro usanze.

E così si trovò, il pomeriggio della sua prima lezione, mentre cercava di imbrigliare i suoi capelli troppo corti e troppo crespi dentro qualcosa che potesse vagamente assomigliare a una coda, a chiedersi perché mai la sua fantasia fosse in grado di elaborare mille possibilità di umiliazione, ma non una singola scappatoia che gli permettesse di tornare sui suoi passi senza fare la figura del bambino capriccioso con Russandol e, di conseguenza, con suo padre.

A peggiorare il suo umore c’era il fatto che sarebbe arrivato in ritardo all’appuntamento, perché aveva impiegato troppo tempo a decidere quali fossero gli abiti più adatti alla Piana.

Morifinwë non voleva sembrare fuori posto vestendo troppo elegante, ma non voleva nemmeno passare inosservato o, peggio, essere preso per uno qualsiasi. Era uno dei figli del principe Fëanáro, dopotutto, un nipote del re, e il fatto che la gente lo riconoscesse lo faceva sentire importante, e quindi speciale.

Cosa fondamentale quando facevi di tutto per dimenticare che in realtà, speciale, non lo eri affatto.

Alla fine aveva optato per una camicia marrone scuro, un paio di pantaloni di una tonalità ancora più scura e una delle sue giacche più belle, con ricami bronzei su un tessuto rosso-bruno. Ai piedi, stivali di pelle nera che gli fasciavano il polpaccio.

Aveva appena finito di legarsi i capelli quando qualcuno bussò alla porta di camera sua. Morifinwë riconobbe i colpi discreti e sospirò: – Entra, mamma.

Sapeva perché sua madre era lì. E ne ebbe conferma quando la vide entrare con ancora addosso il lungo abito verde scuro che aveva indossato a pranzo, e con i capelli sciolti che le ricadevano sulla schiena in onde ramate. Era chiaro che Nerdanel non aveva previsto di tornare a lavorare la pietra quel pomeriggio.

La madre richiuse la porta dietro di sé, inarcò un sopracciglio davanti al disordine che regnava in camera sua, dove ogni superficie libera era ricoperta dai vestiti provati e scartati, ma non fece commenti in proposito e andò subito al punto.

– Sei sicuro che non vuoi che ti accompagni? – gli chiese, come aveva già fatto il giorno prima e quello prima ancora.

Morifinwë scosse la testa. Nonostante il pensiero di andare da solo gli facesse venir voglia di chiudersi in camera e restarci finché non avesse raggiunto la maggiore età, farsi accompagnare dalla mamma come fosse un moccioso sarebbe stato il modo perfetto per rovinare fin da subito la sua immagine.

– Solo per oggi – insistette Nerdanel, cominciando a sistemare i vestiti sparsi in giro.

– Non c’è bisogno – ribadì lui, – Russandol mi ha spiegato la strada.

La madre depose sul letto una camicia piegata e si fermò a guardarlo con più attenzione.

– Perché non li lasci sciolti? – disse, riferendosi chiaramente al pasticcio che aveva combinato con i capelli.

Morifinwë si sentì arrossire: – Perché sembro trasandato – borbottò.

Nerdanel sorrise con dolcezza. – Non sembri affatto trasandato – disse, – solo un pochino meno austero, che non guasta! E poi stai andando in una fattoria, non occorre essere così formale.

Ma gli si avvicinò comunque e con dita esperte riuscì a inserire nella sua coda spessa e corta anche le ciocche che lui aveva lasciato fuori.

Morifinwë la allontanò con un gesto della mano che non riuscì a far sembrare stizzito quanto avrebbe voluto.

– Fa molto più caldo nella Piana – disse ancora la madre, – non ti servirà una giacca.

Lui alzò gli occhi al cielo. – Mamma, così non mi aiuti, lo sai vero?

Nerdanel gli diede un bacio sulla fronte. Era all’altezza giusta per farlo senza doversi chinare né alzarsi sulle punte dei piedi. – Non hai bisogno di aiuto. Andrà tutto bene, Carnistir.

Morifinwë cercò di convincersi che fosse vero, si mise la borsa coi libri a tracolla e scappò dalla stanza prima di fare qualcosa di stupido, come accettare che la madre lo accompagnasse. Attraversò il giardino sul retro quasi di corsa, e rallentò soltanto quando giunse in vista delle scuderie.

Velmo lo aspettava accanto a un cavallo bruno, con la coda e la criniera nere come l’onice. Si chiamava Morvail, e apparteneva a Morifinwë da quando gli era stato dato il permesso di lasciare il cavallino piccolo e docile su cui aveva imparato a cavalcare.

– Buongiorno Morifinwë – lo salutò lo stalliere, alzando una mano infilata in un logoro guanto di pelle.

Alto e asciutto, Velmo aveva capelli lunghi ma rasati su un lato, un taglio che sembrava fatto apposta per mettere in evidenza un curioso gioiello che gli contornava l’orecchio sinistro dalla punta al lobo. L’uomo si chinò, offrendo a Morifinwë le mani intrecciate come supporto per aiutarlo a salire in groppa all’animale.

Nonostante fosse ancora lontano dal raggiungere la statura dei fratelli maggiori, Morifinwë non aveva problemi a salire a cavallo da solo, ma avere qualcuno che lo aiutava era un’altra di quelle cose che lo facevano sentire importante.

Lo stalliere aprì il cancello, ma prima che Morifinwë potesse lasciare la tenuta gli porse un pacchetto chiuso da un filo di corda.

– L’ha preparato Calwen per il maestro Arsanarwë – spiegò Velmo. Poi aggiunse: – Ti prego, digli che ci manca molto.

Morifinwë accettò il pacchetto con un cenno del capo e per la prima volta gli venne in mente che, per gli altri servitori di suo padre, il trasferimento del maestro aveva significato la perdita di un amico.

Poi oltrepassò il cancello e il pensiero fu subito scacciato dalla fastidiosa sensazione che lo prendeva sempre quando era costretto a lasciare casa sua. Come se lì fuori l’aria fosse più rarefatta e respirare diventasse difficile.

Non si trattava di vera e propria paura, era più la vaga consapevolezza di dover stare all’erta.

Eppure non c’era nulla che potesse essere una minaccia, né in città, né in tutta Valinor, né tanto meno nella piazzetta ombreggiata su cui dava l’entrata posteriore del palazzo di Fëanáro, a lui talmente famigliare che ne conosceva ogni albero, ogni aiuola, ogni vialetto di pietra levigata.

Morifinwë si fece forza e voltò a sinistra per imboccare la strada principale che dalla sommità di Túna scendeva verso ovest. La chiamavano Via delle Stelle, perché la pavimentazione di lastroni bianchi era decorata con polvere di pietre preziose, ma lui aveva visto le stelle solo una volta nella sua vita, e non se le ricordava abbastanza per dire se il nome fosse veritiero.

A quell’ora del pomeriggio era percorsa da più gente di quanta Morifinwë avesse previsto, e lui fu costretto a procedere piano, facendosi largo tra la folla. Ci mise un tempo che gli parve infinito per raggiungere l’arco che delimitava il confine di Tirion.

Qui esitò un istante, prima di affrontare la discesa. Da quell’altezza riusciva a scorgere tutta la Piana Dorata, coi suoi campi coltivati, i frutteti, le vigne e gli ampi pascoli verdi. Non gli fu difficile individuare la strada che avrebbe dovuto prendere: la grande Via Ezellohar, che tagliava a metà la pianura e che, se percorsa per intero, portava fino a Valmar.

Respirò a fondo, raddrizzò le spalle e con un leggero colpo di talloni incitò Morvail a proseguire. Non appena il terreno si fece pianeggiante, si lanciò al galoppo per recuperare il tempo perso in città.

Il fulgore di Laurelin si fece più intenso con l’avanzare nell’entroterra e Morifinwë presto si accorse che la brezza che tirava sempre in cima alla collina, lì, nella pianura, era completamente assente. Cominciò a sentire caldo e a rimpiangere di non aver dato retta a sua madre riguardo a rinunciare alla giacca.

Seguendo le indicazioni di Russandol, ignorò le molte strade che si dipartivano dalla principale finché non giunse a un grande incrocio agli angoli del quale si ergevano quattro statue.

Accaldato e col sudore che gli appiccicava addosso i vestiti, consapevole di aver accumulato un ritardo imperdonabile, non poté comunque fare a meno di fermarsi ad ammirarle. Avrebbe riconosciuto lo stile di sua madre tra tutti gli scultori di Aman: solo lei era capace di inserire quelli che all’apparenza potevano sembrare piccoli difetti, che invece di rovinare l’opera la rendevano più reale. Una sgualcitura sull’orlo della veste, una ciocca di capelli in disordine, ed ecco che la pietra si animava.

C’era aria di casa, tra quelle statue, e per un attimo Morifinwë si sentì meglio. Poi si trovò a rimpiangere di non aver voluto la madre con sé, e fu come ammettere una sconfitta.

– Mai che ne faccia una giusta – borbottò, tra i denti. Si asciugò la fronte con la manica, si tolse la giacca, se la legò in vita e prese la via di destra.

La strada superò un canale su un ponte di assi e imboccò un viale alberato, in fondo al quale Morifinwë vide finalmente la sua meta: una grande casa di legno a due piani, bassa e larga, col basamento di pietra grigia. Un ballatoio la percorreva per tutta la sua lunghezza, riparato da una tettoia coperta da gelsomino. Alla sinistra della casa un prato si estendeva a perdita d’occhio, mentre a destra la vista era chiusa da un frutteto.

Nel cortile antistante c’era un caotico andirivieni. Un uomo dalla carnagione scura conduceva due stalloni irrequieti in direzione del prato, una bambina con folti ricci castani inseguiva un cagnolino dalle zampe così corte che le orecchie toccavano terra, un gruppo di ragazzini giocava a rincorrersi mentre una donna con una cesta sulle spalle li chiamava, invano, e infine si rassegnava a prendere da sola la via del frutteto.

Morifinwë si fermò davanti ai tre scalini che portavano al ballatoio, di fronte a quella che sembrava essere l’entrata principale. Nessuno venne ad accoglierlo, nonostante fossero in molti ad averlo visto arrivare, e lui fu tentato ancora una volta di tornarsene a casa. Alla fine si decise a scendere da cavallo, ma nel farlo cercando di non rovinare il pacchetto datogli da Velmo, fece scivolare la giacca a terra. Imprecò sottovoce, la raccolse e quasi inciampò nei gradini mentre tentava di scuoterla dalla polvere.

Giunto di fronte alla porta, cercò invano di sistemarsi i capelli con una mano sola e bussò con più energia di quanto fosse necessario, irrimediabilmente irritato.

Dopo qualche istante venne ad aprirgli una donna. Aveva un viso severo, dai lineamenti decisi, e capelli scuri raccolti in trecce che le avvolgevano la testa come un copricapo. Vestiva un abito azzurro, disadorno e senza maniche, che le arrivava a metà polpaccio, e portava sandali di cuoio. Morifinwë aveva chiaramente sopravvalutato lo stile della Piana, se la moglie del maestro vestiva in modo così modesto.

Non che lui fosse messo meglio, ormai, con la camicia che gli si attaccava alla pelle per il sudore e la giacca impolverata ripiegata malamente su un braccio.

Infuriato col mondo e con sé stesso, desideroso di farla finita al più presto con tutta quella faccenda, disse brusco: – Sono Morifinwë, figlio del principe Fëanáro, e sono atteso da suo marito per la lezione di matematica.

Per un attimo la donna sembrò presa alla sprovvista, poi disse: – Il maestro pensava che non arrivassi più e ha raggiunto la moglie al maneggio, lo mando subito a chiamare.

Guardò in basso alla sua sinistra, e Morifinwë notò solo in quel momento che la bambina che aveva visto giocare col cane era in piedi accanto a lui e lo osservava da sotto in sù con due grandi occhi marroni. Sentì lo stupidissimo bisogno di sistemarsi i capelli.

– Lissi – disse la donna, distogliendo la piccola dalla sua contemplazione, – corri a chiamare Arsanarwë; digli che è arrivato il ragazzo che aspettava.

Morifinwë, che ormai aveva capito di aver fatto un errore grossolano ed era arrossito fino alla radice dei capelli, si offese nel sentirsi chiamare semplicemente “ragazzo”.

Così, quando la donna disse una parola incomprensibile, lunga e cantilenante, e gli porse una mano, lui pensò che volesse farsi consegnare il pacchetto di Velmo, e le rispose sgarbatamente: – Non è roba per te.

Per un istante si sentì in un territorio più familiare, dove i ruoli erano chiari, ma davanti allo sguardo impassibile della donna si rese conto di aver frainteso un’altra volta. Quel garbuglio di sillabe doveva essere stato il suo nome e quella mano tesa era stata offerta per essere stretta.

Troppo tardi. La donna riportò la mano lungo il fianco e disse: – Entra, ragazzino – con un tono non molto diverso da quello con cui si era rivolta alla bambina, e lo precedette in una stanza che si apriva proprio di fronte alla porta di ingresso.

Morifinwë si trovò in una cucina luminosa, arredata con mobili di legno chiaro dalle forme essenziali. Appoggiò la giacca allo schienale di una sedia e tenne stretto il pacchetto, non tanto perché non volesse abbandonarlo, ma perché così aveva un posto dove riporre le mani.

La donna andò presso il lavello di pietra, prese un bicchiere da una mensola e azionò la pompa dell’acqua. Nel farlo, gli voltò le spalle, e Morifinwë ebbe modo di osservarla più liberamente.

Spalle ampie, braccia asciutte su cui risaltavano muscoli ben definiti, pelle così chiara che sembrava rilucere. Non portava alcun ornamento, né una collana, né un anello, soltanto uno spesso bracciale di cuoio sul polso sinistro, il cui scopo non era di certo quello estetico. Aveva i movimenti precisi e sicuri di una persona matura, eppure, in qualche modo, i suoi gesti sembravano essere artificiosamente calibrati, come se la donna dovesse impegnarsi per tenere sotto controllo la propria forza.

Quando si girò, il movimento fu così rapido che lui fece appena in tempo a distogliere lo sguardo. Lei gli offrì il bicchiere d’acqua e lui lo bevve tutto d’un fiato, per placare l’arsura lasciatagli dal viaggio. Si sentì talmente bene che l’avrebbe persino ringraziata se proprio in quel momento non fosse tornata la bambina ad annunciare che il maestro lo attendeva nello studio.

– Vieni con me – disse la piccola, e si precipitò in corridoio senza controllare che lui la seguisse. Morifinwë non poté far altro che correrle dietro, con in mano ancora il suo pacchetto, la giacca dimenticata sulla sedia.

La stanza in cui lo attendeva Arsanarwë era ben diversa dallo studio del palazzo di Fëanáro in cui lui si era incontrato col maestro per tutto l’anno precedente; non sembrava nemmeno uno studio, a dirla tutta, ma una camera adattata allo scopo all’ultimo momento. Le librerie alle pareti, dello stesso legno chiaro dei mobili della cucina, non avevano nulla a che vedere col grande tavolo di mogano che dominava il centro della stanza. Un divano e un tavolino davano l’idea di essere stati spinti in un angolo per liberare spazio per l’improvvisata scrivania.

– Morifinwë! – esclamò Arsanarwë, sbucando da dietro quello che poteva essere un originale attaccapanni a forma di cavallo, o una statua equestre usata impropriamente per appenderci le giacche, – sono felice che tu ce l’abbia fatta.

Non molto più alto di Morifinwë e dal fisico appesantito, il maestro aveva una corporatura insolita per un Noldo, ma ciò che lo rendeva ancora più strano era il sorriso distratto che aveva sempre stampato in faccia e che gli conferiva un’aria piuttosto svampita. Chi lo incontrava per la prima volta stentava a credere che dietro quella apparente superficialità si celasse una delle menti teoriche più acute di tutto il loro popolo.

Nel ritrovare un volto conosciuto, Morifinwë si sentì subito meglio. Si scusò col maestro per il ritardo e gli consegnò il dono dei suoi vecchi colleghi.

– E questo cos’è? – chiese Arsanarwë, neanche a dirlo, sorridendo, e aprì il pacchetto di Velmo. Un dolce profumo si sprigionò nella stanza quando ne estrasse i panini con le scaglie di cioccolato che vi erano contenuti.

– Calwen, benedetta donna, quanto mi mancano i suoi dolci! – esclamò il maestro, – ha sempre avuto la fissazione che alle donne in attesa non dovesse mancare il cioccolato.

Si chinò su Morifinwë con aria da cospiratore e abbassò la voce: – Ti svelo un segreto: a mia moglie il cioccolato non piace.

Senza smettere di parlare andò a prendere un grosso libro da uno scaffale e lo appoggiò sul tavolo. – Poco male, è pieno di ragazzini qui. La famiglia di mia moglie è molto numerosa. Inoltre, se non ricordo male, sono i dolci preferiti di Elle.

Morifinwë si era perso al punto in cui la moglie non apprezzava il cioccolato. – Elle? – ripeté, confuso.

– Non vi siete presentati? – si stupì il maestro, – è lei che ti ha accolto in casa.

– La serva?

Il sempre gioviale Arsanarwë fece una cosa che Morifinwë non gli aveva mai visto fare: si accigliò.

– Elle lavora in questa casa da molto tempo – disse, – fa parte della famiglia.

Morifinwë non ebbe il tempo di ragionare su cosa avesse detto di sbagliato, perché il maestro, riacquistata la sua consueta leggerezza, disse: – Forza, cominciamo! Il tempo stringe e noi dobbiamo concentrare tutto quello che facevamo durante la settimana in un pomeriggio soltanto. Ti senti in grado di farcela?

Morifinwë non aveva problemi a dedicarsi allo studio, né ad apprendere nuovi concetti. Forse non era veloce come Russandol, né come prometteva di diventare il nuovo fratello copia-del-padre, ma superava di gran lunga il fratello selvaggio e se la cavava molto meglio del compositore. Si sedette di fronte al maestro e, grato di essere finalmente su un terreno a lui congeniale, ascoltò la lezione del giorno prendendo appunti e facendo le domande che ci si aspettava che facesse.

Verso metà pomeriggio, annunciata da un leggero bussare, entrò la piccola dai ricci castani a portare del tè. Quando vide i dolci sulla scrivania, chiese se ne poteva avere uno e il maestro gli disse che poteva prenderli anche tutti, se Morifinwë lo permetteva. Lui diede distrattamente il suo consenso, ma prima che la bimba scivolasse fuori dalla stanza col vassoio in mano, Morifinwë si sentì dire: – Se te ne avanza uno, potresti darlo alla… a Elle.

Sentì lo sguardo di apprezzamento del maestro su di lui e arrossì un poco. Ma Arsanarwë tornò al lavoro senza commentare e lo studio riprese senza altre interruzioni.

Nel cielo si mescolavano le luci quando il maestro finalmente annunciò che la lezione era terminata.

– Vedo con piacere che non hai lacune – commentò. – Hai fatto un buon lavoro, Morifinwë, in questi giorni in cui hai studiato da solo.

Morifinwë, come faceva tutte le volte che un maestro lo elogiava, si chiese se Arsanarwë avesse rivolto le stesse parole a tutti i suoi fratelli, o se fossero riservate a lui soltanto. Non riusciva a esserne orgoglioso, con questo dubbio.

Si alzò e ripose i suoi libri nella borsa.

– Vado da solo – disse, dopo qualche istante, vedendo che Arsanarwë, impegnato a scrivere il resoconto della lezione, non accennava a muoversi.

Il maestro lo salutò con un gesto della mano.

Morifinwë andò in cucina a recuperare la giacca. La trovò dove l’aveva lasciata, ma priva di pieghe e ripulita dalla polvere, sembrava appena tirata fuori dall’armadio. La stanza, ora immersa nella penombra, era deserta. Sul tavolo non c’era più il suo bicchiere, ma uno dei panini di Calwen, appoggiato su un piattino; evidentemente la piccola aveva ascoltato il suo consiglio. Morifinwë valutò che con Laurelin in procinto di sfiorire del tutto non avrebbe più sofferto il caldo, si infilò la giacca e si voltò per uscire.

Per poco non andò a sbattere contro la donna – Elle, si ricordò – che stava entrando.

Con lo sguardo fisso a terra, Morifinwë bofonchiò: – Grazie per la giacca.

Lei accennò al tavolo e a ciò che c’era sopra: – Grazie a te per il dolce, ragazzino.

Poi lo accompagnò in ingresso, gli tenne aperta la porta e attese che recuperasse il suo cavallo.

Lui balzò su Morvail, ringraziando tutti i Valar di esserci riuscito al primo colpo e di aver evitato l’ennesima figuraccia. Poi fuggì da quel luogo il più velocemente possibile.

Sulla strada di casa ebbe tutto il tempo per fare un bilancio della giornata.

In breve: aveva sbagliato vestiti, era arrivato in ritardo, si era presentato in una condizione pietosa, aveva scambiato una serva per la moglie del maestro, aveva fatto la figura del villano con la stessa serva, ed era riuscito nell’impossibile impresa di far accigliare Arsanarwë.

Ed era solo il primo giorno.

Morifinwë non osava pensare cosa sarebbe potuto accedere nelle settimane successive.

 

 

 


NOTE

Grazie a chi ha letto! ❤︎

Ho deciso di utilizzare i termini “uomo” e “donna” al posto di “elfo” e “elfa” perché mi piaceva di più come suonavano nel testo (dato che la storia è ambientata in un periodo in cui gli Uomini non esistevano ancora, ho pensato che non potesse creare fraintendimenti).

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë, Carnistir = Caranthir
Russandol = Maedhros
Makalaurë = Maglor
Fëanáro = Fëanor

Personaggi di mia invenzione
Velmo, il responsabile delle scuderie al palazzo di Fëanáro (già citato, insieme a Calwen, in Un’ultima cosa)
Calwen, la responsabile delle cucine al palazzo di Fëanáro
Morvail, il cavallo di Morifinwë, nome composto da morna (dark, black) e vailë (wind)
Arsanarwë, il maestro di matematica di Morifinwë

Nomi di mia invenzione
Piana Dorata, l’ampia pianura tra Tirion e Valmar
 

  
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