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Autore: _Agrifoglio_    01/01/2023    14 recensioni
Una missione segreta, un’imboscata vicino al confine austriaco e il corso degli eventi cambia. Il senso di prostrazione dovuto al fallimento, il dubbio atroce di avere sbagliato tutto, un allontanamento che sembra, ormai, inesorabile, ma è proprio quando si tocca il fondo che nasce, prepotente, il desiderio di risorgere. Un incontro giusto, un’enorme forza di volontà e, quando tutto sembrava perduto, ci si rimette in gioco, con nuove prospettive.
Un’iniziativa poco ponderata della Regina sarà all’origine di sviluppi inaspettati da cui si dipanerà la trama di questa storia ricca di colpi di scena, che vi stupirà in più di un’occasione e vi parlerà di amore, di amicizia, di rapporti genitori-figli, di passaggio alla maturità, di lotta fra concretezza e velleitarismo, fra ragione e sogno e della difficoltà di demarcarne i confini, di avventura, di duelli, di guerra, di epos, di spirito di sacrificio, di fedeltà, di lealtà, di generosità e di senso dell’onore.
Sullo sfondo, una Francia ferita, fra sussulti e speranze.
Davanti a tutti, un’eroica, grande protagonista: la leonessa di Francia.
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Apertura

Il Generale Inverno
 
Europa continentale, primavera del 1812
 
Il momento dello scontro si stava avvicinando e Napoleone lo attendeva con animo altalenante, a volte esaltato, altre irritabile, ma sempre incrollabilmente fiducioso nel buon esito di qualsiasi impresa che avesse voluto affrontare.
Lo Zar Alessandro era spronato, dall’ala antinapoleonica della nobiltà russa, a gettare alle ortiche gli accordi di Tilsit e a prendere le armi contro Bonaparte e, in effetti, le clausole di quei patti e, soprattutto, il blocco continentale contro l’Inghilterra si stavano rivelando di giorno in giorno più difficili da osservare. Come se non bastasse, il cugino dello Zar, Re Federico Guglielmo di Prussia, prostrato da condizioni di pace vessatorie e umilianti, voleva la rivincita e premeva per un rovesciamento delle alleanze.
Il rifiuto dello Zar di concedere a Napoleone la mano della sorella Anna Pavlovna aveva, poi, definitivamente raffreddato i rapporti tra i due monarchi, inducendo Bonaparte a rapire Maria Luisa d’Asburgo Lorena, sottraendola a Luigi XVII di Francia e stringendo, così, un’alleanza con l’Austria.
Alcuni Marescialli e Generali bonapartisti non avevano mancato di sottolineare l’eccessiva aleatorietà di una campagna in Russia, a causa delle dimensioni sterminate dei domini dello Zar che avrebbero reso troppo pericoloso per qualunque esercito europeo, non abituato a quelle distanze e alla rigidità del clima continentale, addentrarsi nelle steppe dell’Asia. Avevano, quindi, suggerito una strategia di contenimento dell’esercito zarista, mirata a vigilare i confini onde evitare che i russi entrassero in Europa.
Napoleone, però, aveva rigettato la proposta, giudicando la strategia di contenimento dei confini poco incisiva, perché destinata a defatigare l’esercito a tempo indeterminato senza un risultato tangibile. Inoltre, se anche la Prussia si fosse sollevata e avesse dato manforte alla Russia, il centro Europa si sarebbe trasformato in una polveriera e, a quel punto, pure il suocero Imperatore d’Austria avrebbe potuto abbandonarlo, senza contare che il Visconte di Wellington, nella penisola iberica, stava mettendo a dura prova la resistenza dell’esercito napoleonico.
Soprattutto, una strategia di contenimento non avrebbe rispecchiato il carattere dell’Imperatore. Napoleone inorridiva all’idea di non poter prendere l’iniziativa, di non sferrare un attacco a sorpresa, di non studiare una nuova mossa, di non costruire ad arte la battaglia perfetta che rinverdisse il capolavoro di Austerlitz. Limitarsi a rintuzzare gli attacchi di una masnada di contadini russi, ardimentosi, ma primitivi sarebbe stato umiliante. Avrebbe, invece, marciato nelle steppe solitarie e sterminate della Russia, come aveva fatto Alessandro Magno prima di lui, alla testa della Grande Armata, l’esercito più imponente e professionale che il mondo avesse mai visto, con oltre seicentomila uomini, millecentoquarantasei cannoni e centinaia di migliaia di cavalli. Avrebbe umiliato l’orgoglio dello Zar, mettendone a ferro e fuoco il regno e, a quel punto, si sarebbero spalancate davanti a lui le porte dell’India, della Cina e del Giappone, con tutti i tesori inestimabili che quegli imperi senza tempo custodivano da millenni.
 
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Versailles, primavera del 1812
 
Dopo un travaglio durato quasi due giorni, il 21 aprile 1812, la Regina consorte aveva dato alla luce una figlia cui era stato imposto il nome di Elisabetta. La bambina era stata battezzata il giorno stesso della nascita, nella Cappella Reale di San Luigi IX, dal Grande Elemosiniere di Francia.
L’evento era stato festeggiato in tutto il Regno. Il Te Deum era stato intonato in ogni Chiesa di Francia e ai sudditi era stato offerto da mangiare e da bere. Spettacoli pirotecnici erano stati allestiti nelle principali città e i giardini di tutti i palazzi reali erano stati aperti al pubblico.
Oscar aveva comandato personalmente i cannoni che avevano sparato a salve per annunciare al popolo l’arrivo di Madame Royale.
Malgrado le manifestazioni di giubilo, non era mancato chi aveva sottolineato che la nascita di una Figlia di Francia non avrebbe risolto alcun problema dinastico e che la Regina non aveva assolto il suo dovere verso lo Stato. Vi fu chi rammentò i problemi di salute del Re, mai del tutto ripresosi dalla prigionia inflittagli da Napoleone e chi evidenziò i quasi due giorni che erano stati necessari alla Regina per partorire. In molti iniziarono a chiedersi se mai ci sarebbe stato un Delfino mentre altri colsero in quella nascita il segno della disapprovazione divina, per avere il Re preso in moglie, non una sua pari, ma una donna proveniente da un ramo secondario e impoverito di una famiglia reale.
 
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Niemen

 
Russia europea, estate del 1812
 
La Grande Armata attraversò il fiume Niemen fra il 23 e il 25 giugno del 1812.
Era un esercito portentoso, disciplinato, addestrato e veloce, il più letale e temibile che l’Europa avesse mai visto. La compresenza, all’interno dei reparti, di veterani e di reclute faceva sì che le seconde beneficiassero dell’esperienza e degli insegnamenti dei primi e proseguissero la formazione sul campo, dopo una prima infarinatura nei centri di addestramento. Le uniformi degli ufficiali erano splendide, ricche di ricami e di decorazioni, con i bicorni piumati, lunghe sciarpe di seta dorata avvolte intorno alla vita e le spalline, gli alamari, i cordoni e le medaglie che scintillavano al sole. In mezzo a tanto sfarzo, l’Imperatore si distingueva per la sua semplicità, indossando il solito bicorno di feltro nero e il suo vecchio pastrano grigio e, malgrado ciò, qualunque Generale nemico avrebbe preferito mille volte scontrarsi con uno qualsiasi di quegli splendidi pavoni piuttosto che con Napoleone, perché, quando alla testa dell’esercito c’era lui, la battaglia diventava epica e il modo di combattere assumeva una fisionomia mai vista prima.
Napoleone intendeva sfruttare la circostanza che le armate dei Generali Barclay e Bagration fossero divise. Marciando su Vilna, si sarebbe interposto tra i due eserciti, impedendo ad essi di riunirsi, così da affrontarli separatamente e sbaragliarli. Impose alle truppe delle marce forzate estenuanti che, però, non sortirono il risultato sperato, perché i due Generali russi, intimoriti dalla rapidità e dalla potenza della Grande Armata, preferivano ritirarsi ogni volta ed evitare lo scontro diretto. Lo stesso Zar, che mai interferiva sulle strategie militari, lasciava fare e, così, la prima fase della campagna si risolse in un’avanzata fatta di marce su strade parallele, piccole scaramucce e ripiegamenti.
Alain osservava tutto in silenzio e, malgrado la fierezza dei proclami e la grandiosità dei progetti dell’Imperatore, dentro di sé sentiva che delle ombre oscure incombevano sul capo di quegli oltre seicentomila uomini che avevano intrapreso un percorso ignoto.
Sin dall’inizio, le marce forzate volute da Napoleone si erano dimostrate massacranti e la situazione era aggravata dal caldo torrido dei mesi estivi. I violenti temporali che improvvisamente si abbattevano non facevano che peggiorare la situazione, perché aumentavano l’umidità dell’aria e trasformavano le strade in fango, ostacolando il procedere di uomini, animali e carri. Quando non pioveva, l’esercito procedeva fra nuvole di polvere, senza vedere all’orizzonte che distese ampie e infuocate che mai avevano termine.
Le difficoltà logistiche non tardarono a presentarsi. La vastità del territorio rendeva complicato mantenere i contatti con le linee di rifornimento e di comunicazione. Per trasmettere i messaggi, ci si avvaleva dei telegrafi ottici, delle stazioni mobili fornite di pale simili a quelle dei mulini a vento che Napoleone aveva utilizzato sin dalla sua prima Campagna d’Italia. I rifornimenti, invece, erano un capitolo a parte, perché alimentare un esercito così vasto si dimostrò, da subito, un’impresa titanica. Le truppe diedero presto fondo alle scorte, tanto che iniziarono a saccheggiare i villaggi che attraversavano. Anche questa fonte di approvvigionamento si dimostrò effimera, perché i contadini russi, impauriti dagli invasori, ma pieni di fierezza, all’avvicinarsi dell’esercito, abbandonavano le loro case che, prima di partire, davano alle fiamme, distruggendo tutto ciò che non potevano portare con sé. La Grande Armata, quindi, non faceva che trovare macerie sul suo cammino.
Alain scrutava Napoleone che spesso sembrava incerto sul da farsi. L’umore dell’Imperatore altalenava fra l’esaltazione e l’irritabilità e l’assenza di una battaglia decisiva ne accresceva a dismisura la frustrazione. Finora, le vittorie riportate dall’esercito napoleonico, come quella di Mogilev o quella di Ostrovno, erano intervenute a seguito di piccoli scontri terminati con la ritirata del nemico mentre la battaglia di Smolensk, di dimensioni più rilevanti, si era conclusa con una vittoria napoleonica non decisiva.
A poche settimane dall’inizio della campagna, gli uomini deperivano velocemente, si ammalavano e morivano e anche i cavalli esalavano l’ultimo respiro a migliaia, rallentando il ritmo dell’esercito.
L’Imperatore poteva contare sul solo aiuto del Granducato di Varsavia mentre il suocero austriaco era rimasto neutrale, evidentemente in attesa degli sviluppi che lo avrebbero spinto a schierarsi dall’una o dall’altra parte.
Nei confronti di Alain, Napoleone era mutato. Mentre, prima, lo teneva in grandissima considerazione e non perdeva occasione di lodarlo, dopo la perdita del tesoro dei Cavalieri di Malta, aveva iniziato a trattarlo con freddezza, se non, addirittura, con pubblico disprezzo. Malgrado Oscar avesse addomesticato il suo rapporto, evitando di menzionare Jeanne de Valois e il legame che l’aveva unita ad Alain, Napoleone, che non era uno sciocco, aveva compreso che quell’esito fallimentare doveva ascriversi a uno o più errori del Generale de Soisson, un uomo che aveva innalzato dall’umilissimo livello di soldato semplice alle più alte vette dell’esercito e che lo aveva ripagato con la sua più totale incompetenza. La mutata considerazione dell’Imperatore si era tradotta in una perdita di reputazione di Alain fra gli alti ufficiali che, ora, non ne ricercavano più il parere e la compagnia, ma lo emarginavano e, a volte, lo insolentivano.
Alain ripensava al suo passato, ai quasi quindici anni che aveva trascorso agli ordini di Napoleone e i dubbi lo assalivano. Come ciclicamente gli accadeva, ripensava ai massacri dell’Egitto, della Siria e di Pavia, alla mattanza del lago di Viverone, alla strage dei nemici in rotta negli stagni di Austerlitz, bombardati dalle cannonate e affogati sotto le lastre di ghiaccio e si interrogava sull’enigma Bonaparte. L’Imperatore era un genio ineguagliabile, portatore di idee nuove e di un mai visto rimescolamento sociale o era un tiranno senza scrupoli, latore di morte e interessato a null’altro che alla sua gloria personale?
Alain rifletteva, taceva e, nel mentre, guardava l’orgogliosa Grande Armata procedere penosamente nelle steppe russe.
 
telegrafo-installato-al-Louvre

Mogilev

Smolensk

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Spagna, Salamanca, 22 luglio 1812
 
Nel maggio del 1812, Lord Arthur Wellesley, già Visconte Wellington, fu elevato al rango di Conte di Wellington per i servigi resi alla Corona, in Portogallo.
Due mesi dopo, a poca distanza dalla città spagnola di Salamanca, il neoConte si trovò alle prese con il Maresciallo napoleonico Marmont che, però, non si decideva ad attaccarlo e indietreggiava. Per costringerlo alla battaglia, Lord Arthur ricorse allo stratagemma di nascondere il grosso dell’esercito dietro le colline dell’Arapil Maggiore e Minore, facendo credere che, nei pressi del villaggio di Los Arapiles, fosse rimasta soltanto la retroguardia.
Marmont abboccò al tranello e avanzò, progettando una manovra di aggiramento del nemico che, però, fallì. A quel punto, Wellington attaccò il centro dell’armata napoleonica che si trovò in seria difficoltà. Alla fine, il Generale inglese Le Marchant caricò il nemico con la cavalleria pesante, ma trovò la morte a causa di uno sparo che lo raggiunse alla colonna vertebrale.
L’esercito napoleonico tentò un’ultima, disperata resistenza, ma tutto fu inutile, così che la giornata si concluse a favore degli inglesi di Wellington.
 
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Borodino

 
Russia europea, estate del 1812
 
Dopo la battaglia di Smolensk, combattuta il 17 agosto 1812, Napoleone si trovò di fronte a un dilemma. L’estate volgeva al termine e, presto, l’inverno russo sarebbe esploso con la stessa veemenza e inflessibilità con cui il caldo torrido della bella stagione aveva flagellato la Grande Armata. Lo Stato Maggiore suggeriva di fissare il quartiere d’inverno a Smolensk e di riprendere la campagna in primavera. Questa soluzione, che era senza dubbio la più prudente, prestava il fianco a varie controindicazioni.
Prolungare di sei mesi la campagna militare avrebbe consentito alla Prussia, all’Austria e alla Francia di organizzarsi contro di lui, senza contare che un’assenza troppo lunga da Milano avrebbe indotto i nemici interni a tramare per detronizzarlo. Con la Grande Armata ferma in città a gozzovigliare, la disciplina e l’addestramento sarebbero diventati presto un lontano ricordo mentre l’esercito russo si sarebbe potenziato e ricompattato. La stasi era un lusso che non si poteva permettere. Doveva consolidare l’impero e farlo al più presto, soprattutto ora che aveva qualcuno a cui lasciarlo. Gli avevano recapitato, da poco, un ritratto del Re di Roma e, cosa che mai gli accadeva, il cuore gli si era gonfiato di orgoglio e sciolto di tenerezza. Era il più bel bambino d’Europa!
Napoleone prese al vaglio tre opzioni. La prima era di marciare verso Kiev, per impossessarsi delle risorse dell’Ucraina che costituivano la principale fonte di approvvigionamento del nemico. La seconda era di dirigersi verso San Pietroburgo, centro politico e amministrativo dell’Impero, ma lontana e difficilmente raggiungibile. La terza era di avanzare verso Mosca, capitale morale e religiosa della Russia, per giunta vicina all’esercito nemico. Espugnando Mosca, avrebbe inflitto un duro colpo al sentimento patriottico del popolo e all’autorità dello Zar e, da lì, avrebbe potuto sferrare un attacco ai nemici, accampati nelle vicinanze. La decisione fu, quindi, presa e, il 25 agosto, la Grande Armata riprese a marciare.
Lo Zar, intanto, aveva nominato comandante supremo dell’esercito il Generale Michail Kutuzov, un anziano militare prudente e sagace, ricco di esperienza e di autorevolezza. Kutuzov comprese che la tecnica della ritirata, adottata dai suoi predecessori per timore del nemico, sarebbe stata la migliore strategia nel lungo periodo. Prendendo tempo, l’esercito russo si sarebbe organizzato e rinforzato mentre i soldati napoleonici, lontani da casa e non abituati al territorio inospitale e al clima rigido della Russia, si sarebbero indeboliti. Contemporaneamente, però, sapeva di dovere dare un contentino al popolo la cui fierezza e il cui spirito religioso disdegnavano la tattica della perenne ritirata e reclamavano uno scontro. Decise, quindi, di affrontare le truppe di Bonaparte in una battaglia difensiva davanti Mosca, prima di riprendere la ritirata.
Le giornate erano ancora molto calde e la Grande Armata marciava in mezzo a soffocanti nuvole di polvere, attraverso i campi devastati e i villaggi abbandonati e dati alle fiamme. I soldati si ammalavano e spiravano a centinaia e i cavalli, stremati, morivano in massa.
Finalmente, l’esercito russo fu avvistato nei pressi del villaggio di Borodino. Era il 7 settembre e c’era da poco stato un violento temporale che aveva trasformato le strade in fango e procurato a Napoleone un violento raffreddore.
L’Imperatore si accorse immediatamente che il fianco sinistro dell’esercito nemico era più debole, non essendo state completate le opere di fortificazione e diede ordine di attaccare frontalmente da quella parte. Desideroso di combattere la battaglia decisiva e debilitato dal raffreddore che ne ottundeva l’abituale lucidità, non elaborò alcuna manovra brillante, ma si limitò a ordinare un violento attacco all’ala sinistra e al centro della formazione avversaria. La Grande Armata era più veloce e potente, ma i russi erano aggressivi, motivati, fiorenti nel corpo, saldi nello spirito e per nulla infiacchiti e resistettero con forza e determinazione.
La battaglia infuriava con una veemenza inaudita, ovunque fischiavano gli spari e sibilavano le granate mentre le lame delle baionette brillavano al sole e, poi, scomparivano nel torace o nel ventre di qualche malcapitato. I soldati cadevano a migliaia da una parte e dall’altra, tanto che lo stesso Napoleone ebbe modo, in seguito, di definire quella di Borodino la più terribile delle sue battaglie.
In quell’inferno, Alain si muoveva come un forsennato, abbattendo fendenti da un lato e dall’altro, con gli occhi da pazzo e il volto contorto in una maschera di furia. Era mosso dalla rabbia e dalla frustrazione per la sua mutata condizione nell’esercito e questo stato d’animo gli conferiva l’aspetto di un toro inferocito. Cercava l’occasione per recuperare il favore dell’Imperatore, ma, in un angolo della sua mente, si chiedeva se ne valesse la pena.
A un certo punto, vide un ufficiale russo che stava in piedi, come inebetito, davanti a una granata che girava vorticosamente mentre tutti gli altri fuggivano. Sembrava essere in contemplazione di quella trottola mortale e non accennava a volersi mettere in salvo. Riconobbe in lui il Principe Andrej Bolkonskij, l’ufficiale ferito nel corso della battaglia di Austerlitz che aveva incontrato nell’ospedale da campo e che gli aveva rammentato il suo omonimo, André. Ricordò come gli avesse parlato della fugacità della gloria, della meschinità di Napoleone davanti all’immensità del cielo, di filosofia e di religione. Di nuovo, l’immagine di Napoleone traballò nella considerazione di Alain mentre la granata continuava a girare.
– MetteteVi in salvo, Principe Bolkonskij! – gridò Alain – Fuggite! Per Dio, scappa! Mettiti in salvo, dannato pazzo!
Ma quello non si mosse di un passo e la granata esplose, ferendolo con le sue schegge.
Alain ebbe la sensazione che, questa volta, il nobiluomo russo non se la sarebbe cavata tanto a buon mercato e calde lacrime gli rigarono le gote lorde di terra e di polvere da sparo.
– Maledetto pazzo… Maledetto pazzo… – ripeteva piangendo e, di nuovo, gli tornarono in mente l’Egitto, la Siria, Pavia, le sponde del lago di Viverone, le lastre degli stagni di Austerlitz che si frantumavano sotto i colpi delle cannonate e che ricoprivano, come lapidi di ghiaccio, i nemici in rotta. Di nuovo, pensò a Napoleone, alla vanità della gloria, alla trappola dell’ambizione, all’ingiustizia della guerra, al grande inganno cui tutti si stavano piegando.
– Quando finirà tutto questo? Quando finirà?
Kutuzov, nel frattempo, aveva deciso che la battaglia poteva terminare e che era giunto il tempo di ritirarsi. L’esercito russo ripiegò verso sud est, abbandonando Mosca al proprio destino.
La battaglia di Borodino si concluse con una vittoria napoleonica non decisiva, funestata da trentacinquemila perdite. Sebbene i russi avessero perso quarantaquattromila uomini, il loro esercito rimase coeso e non diede segni di collasso mentre la Grande Armata restò sensibilmente indebolita.
Dalla Collina dei Passeri, la mattina del 14 settembre, Napoleone guardava Mosca, pieno di orgoglio e di ottimismo mentre Alain lo scrutava per, poi, serrare le labbra e i pugni e dirigere in basso lo sguardo.
 
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Versailles, Palazzo Jarjayes, settembre 1812
 
Tutto procedeva tranquillamente a Palazzo Jarjayes.
I fidanzamenti di Honoré e di Antigone andavano avanti senza intoppi e Oscar e André erano lieti e sollevati che il giovane Girodel si stesse mostrando paziente nel sopportare il carattere dominante e anticonvenzionale della figlia. Antigone era una giovane di grandissimi pregi e difetti, probabilmente troppo avanti per l’epoca in cui viveva, che avrebbe prevaricato e messo in ombra qualsiasi marito le fosse toccato in sorte. Il cuore di Grégoire Henri de Girodel, però, era grande e forte e avrebbe saputo valorizzare i pregi della sua amata senza lasciarsi scoraggiare dai difetti.
Il Tenente de Ligne, messo alle strette dalle lettere compromettenti che Jeanne de Valois e il figlio di lei avevano recapitato alla moglie, era sorvegliato a vista dalla famiglia di quest’ultima e aveva smesso definitivamente di molestare Bernadette. La ragazza beneficiava della ritrovata serenità, era rifiorita e continuava a scriversi col Marchese de Saint Quentin che era stato ospite a Palazzo Jarjayes per la Pasqua e il cui arrivo era atteso fra qualche mese, per le festività natalizie. In molti, nella servitù, avevano capito che, fra la figlia della governante e quel Marchese del nord, ricco e bello, c’era qualcosa di particolare e tanta era l’invidia. Nessun fidanzamento, tuttavia, era stato annunciato e le cose parevano non progredire.
– Speriamo che Bernadette non debba rassegnarsi a essere un’amica di penna per tutta la vita – disse, un giorno, Oscar al marito.
– Probabilmente, il Marchese de Saint Quentin vuole pensarci bene ed essere più che sicuro – rispose André – Dopo tutto, lei appartiene a un ceto diverso e ha un passato. Io stesso ho dovuto aspettare di diventare Conte per poterti sposare!
– Tu hai dovuto aspettare il mio benestare! – lo rintuzzò Oscar – Ricordati il “no” che ti dissi dopo la tua elevazione alla nobiltà!
– E chi se lo scorda! – rise André – Nel caso di Bernadette, però, l’assenza di nobiltà e la presenza di un passato giocano sicuramente un ruolo importante. E’ probabile che la sorella del Marchese e il marito di lei, il Conte di Canterbury, lo incoraggino a procedere con estrema cautela, esortandolo a evitare l’avventatezza di una stagione della vita che, oltretutto, non gli appartiene più. La distanza, poi, non ha mai giocato a favore degli amori. Malgrado tutto, mi auguro che il quadro non presenti tinte così fosche. Bernadette è una brava ragazza e ha diritto a un po’ di felicità.
– Le cose stanno in un modo parzialmente diverso – rispose Oscar – Mio cugino, il Conte di Canterbury, mi ha scritto che la moglie sarebbe ben lieta di vedere il fratello sposato con una giovane assennata, perché la svolta dissoluta che egli impresse alla sua esistenza, qualche anno fa, la preoccupava non poco. Tuttavia, il problema è sempre quello alla base della scelta di fare una vita da libertino. Il Marchese de Saint Quentin non è mai riuscito a dimenticare del tutto il suo amore doloroso e disperato per Paolina Bonaparte. Che la odi o che la ami, non riesce a togliersela dalla testa. Secondo la Contessa di Canterbury, il fratello ha smesso di condurre una vita scioperata, è tornato ai sani principi della sua gioventù e ama sinceramente Bernadette, ma, finché non si sarà sbarazzato dell’ossessione per l’altra, non sarà mai libero.
– E’ un vero peccato – sospirò André – perché la sorella di Napoleone, invece, avrà sicuramente dimenticato il Marchese che, se ciò che si dice è vero, sarà stato rimpiazzato da decine di altri amori molto meno platonici di quello che la unì a lui.
– Quella famiglia ci porta soltanto guai! – esclamò Oscar.
André annuì e scosse il capo.
Subito dopo, i due coniugi tornarono a occuparsi degli affari di Stato, perché, come la vita aveva loro insegnato, se le cose vanno a rotoli a livello politico ed economico, le pene d’amore diventano un lusso che nessuno può permettersi.
 
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Incendio-di-Mosca-2

Incendio-di-Mosca

 
Mosca, 15 settembre – 19 ottobre 1812
 
Napoleone entrò a Mosca la mattina del 15 settembre, attraverso la Porta della Trinità.
L’iniziale euforia del conquistatore fu presto soppiantata dalla sconcertante vista delle strade vuote. La città era, infatti, stata evacuata e, in giro, si vedevano soltanto criminali, sbandati, malati, feriti, detenuti liberati dal carcere, vagabondi e stranieri.
L’Imperatore si stabilì al Cremlino, dove iniziò subito a dare disposizioni, in primo luogo per mantenere l’ordine pubblico. Nonostante i divieti tassativi, infatti, la soldataglia si stava abbandonando al saccheggio mentre la feccia russa girovagava incontrollata per le strade.  
Alle quattro del mattino seguente, fu raggiunto dalla notizia che la città era in preda alle fiamme. Sia l’Imperatore sia gli alti ufficiali, fra cui Alain, si riversarono sul cammino di ronda della fortezza, sotto un cielo che era divenuto rosso come un girone dell’inferno. Null’altro poterono fare che osservare le fiamme distruttrici che zigzagavano senza controllo, divorando case e alberi, campanili e guglie, diffondendosi rapidissimamente a causa del legno di cui erano fatte le costruzioni. Da una parte, l’incendio si apprendeva violentemente e velocemente a un nuovo quartiere, prima risparmiato dalla voracità del fuoco, dall’altra, un campanile si ripiegava su se stesso per, poi, collassare e, dappertutto, la forza distruttrice delle fiamme si propagava, illuminando il cielo e rumoreggiando come in un immenso camino. Il fumo e l’odore di bruciato giungevano a ondate fino al Cremlino e alle narici degli spettatori.
Da dietro i merli del palazzo, Napoleone osservava l’evento, combattuto fra la rabbia per la devastazione della preda più ambita e l’ammirazione per la grandiosità di ciò che stava accadendo. Alain lo guardava, sorpreso dal cinismo e dalla mancanza di pietà di quell’uomo che, se avesse avuto una lira in mano, sarebbe stato simile a Nerone.
Ogni tentativo di spegnimento fu vano e l’incendio si propagò fino al 18 settembre, quando si spense naturalmente dopo avere devastato i quattro quinti della città. Napoleone tornò al Cremlino, che era stato risparmiato e, da lì, diramò ordini che prevedevano l’immediato arresto e la fucilazione degli incendiari e dei saccheggiatori.
Ciò che vide Alain, a capo di un reggimento di perlustratori, percorrendo le strade della città, lo depresse profondamente. Cumuli di macerie, travi annerite, cenere e detriti occupavano il posto che, prima, era stato degli alberi e delle case e persino il più attento abitante della città avrebbe avuto difficoltà a ricostruire la topografia delle vie. Gli animali scampati alle fiamme e gli sbandati apparivano e sparivano tra gli scheletri carbonizzati delle case e gli edifici pericolanti rovinavano in tutto o in parte, senza sosta. File di prigionieri, condotti alle carceri improvvisate o alla fucilazione, si incrociavano di continuo e, di tanto in tanto, il silenzio irreale era interrotto dal boato secco dei plotoni di esecuzione.
In una delle tante prigioni di fortuna, Alain vide alcuni soldati russi malati che erano stati abbandonati dal loro esercito e un civile, dagli abiti dimessi, ma dall’aspetto di un gentiluomo. Era stato arrestato perché trovato a contemplare uno dei molteplici focolai che erano scoppiati e, siccome non era stato colto nell’atto di appiccare il fuoco, gli era stata comminata la detenzione in luogo della pena di morte, non prima, però, di avere dovuto assistere alla barbara fucilazione di alcuni prigionieri meno fortunati. Come tutti gli aristocratici russi, l’uomo parlava il francese e, un giorno, Alain, trovandolo simpatico, iniziò a scambiarci qualche parola.
Era il Conte Pierre Bezuchov, arrestato mentre si aggirava, in condizioni di alterazione emotiva, per le vie della città in fiamme. Alain si fece l’idea di un brav’uomo un po’ confuso che, deluso dalla moglie, dalla classe sociale di appartenenza e dalla Massoneria, era alla perenne ricerca di un senso da dare alla sua vita. Ciò che il Conte Bezuchov non gli disse mai era che, nelle ultime settimane, si era autoconvinto di essere predestinato ad assassinare l’anticristo Bonaparte e, per mettere in atto il suo farneticante proposito, aveva iniziato a percorrere le vie della città, nella vana speranza di incontrarlo e di sparargli. A un certo punto, però, si era distratto nel contemplare un incendio, si era smarrito nelle sue riflessioni e, lì, era stato catturato dalle milizie occupanti.
Fra i soldati russi prigionieri, abbandonati al loro destino dall’esercito di appartenenza perché malati di febbre, l’attenzione di Alain fu attratta da un ometto di mezz’età che, malgrado la modestissima estrazione sociale, pareva godere della benevolenza di tutti. L’uomo parlava soltanto il russo delle classi umili e fu Pierre Bezuchov a riferire ad Alain che si chiamava Platon Karataev ed era un contadino russo che, molti anni prima, era stato arruolato a forza come punizione per essere andato a far legna nel bosco di un privato. Malgrado la febbre, l’ometto dimostrava una forza considerevole, una grande agilità e un’energia inesauribile che impiegava nel rendersi utile e nel dispensare consigli, frutto della saggezza contadina. Sapeva fare tutto discretamente, diffondeva serenità e, con i suoi occhi buoni e il suo sorriso tenero, quasi infantile, era diventato una sorta di beniamino. Della comitiva, faceva parte anche un cagnolino randagio, un trovatello grigio viola che scorrazzava da un prigioniero all’altro e di cui Karataev si prendeva cura.
Nel discorrere col Conte Bezuchov e nell’osservare le gentilezza di Platon Karataev e le monellerie del cagnolino grigio viola, Alain ritrovò una certa serenità, tanto che, nel mese di permanenza della Grande Armata a Mosca, quando poteva, faceva in modo di passare davanti alla baracca di legno che fungeva da prigione.
Napoleone, frattanto, malgrado la severità delle repressioni, non era riuscito ad arrestare saccheggi e devastazioni ed era alle prese con il dilemma dell’avvenire. Escludeva di poter trascorrere l’inverno a Mosca per gli stessi motivi per cui non si era trattenuto a Smolensk e passava in rassegna le varie possibilità di prosecuzione della campagna che gli si prospettavano in quella terra ostile. Intanto, però, procrastinava qualsiasi decisione anche perché sperava di ottenere un armistizio dallo Zar Alessandro. Tre volte tentò e tre volte si vide respingere sdegnosamente le proposte di trattativa da uno Zar duro e sprezzante che commentò che la guerra, per lui, era soltanto all’inizio.
Alla fine, Napoleone decise di marciare verso sud e la Grande Armata evacuò Mosca il 19 ottobre 1812.
 
Fireofmoscow

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Spagna, 3 ottobre 1812
 
Lord Arthur Wellesley, I Conte di Wellington, leggeva una lettera proveniente da casa sua, con il volto attraversato dall’insofferenza. La moglie Kitty voleva cambiare le tende del salotto e gli chiedeva consiglio su cosa scegliere e quanto spendere. Lord Arthur, in procinto di entrare trionfalmente a Madrid, non si capacitava della totale assenza di autonomia della consorte e di come questa non si facesse scrupolo di disturbarlo per ogni inezia mentre lui doveva guidare un esercito.
Quel matrimonio, celebrato per senso del dovere all’esito di un fidanzamento giovanile seguito da undici anni di lontananza, era iniziato male e stava continuando ancora peggio, a causa della diversità dei caratteri dei due coniugi e della delusione delle aspettative maturate in gioventù. Soltanto la distanza dovuta agli impegni militari di lui poneva un argine all’infelicità di entrambi.
Mentre Lord Arthur era immerso in questi pensieri, l’Aiutante di Campo, Lord Somerset, entrò nella stanza dopo avere bussato.
– Cosa c’è, Somerset?
– C’è una missiva per Voi da Londra, Signore.
Wellington ruppe il sigillo e scorse velocemente le poche righe vergate con eleganza mentre il volto gli si rischiarava. Quella lettera gli era immensamente più gradita della precedente.
– Sono stato nominato Marchese di Wellington per la vittoria riportata il 22 luglio a Salamanca!
– Complimenti, Signore! – si congratulò Lord Somerset, sinceramente contento per il successo del suo superiore.
 
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Cosacchi

Krasnoi-2

Krasnoi

 
Russia europea, autunno del 1812, ritirata della Grande Armata
 
Napoleone, inizialmente, aveva deciso di dirigersi a sud, verso Kaluga, per raggiungere l’esercito russo e appropriarsi delle risorse dell’Ucraina. Successivamente, però, le difficoltà logistiche e l’alternarsi di vittorie e sconfitte lo convinse alla ritirata verso Smolensk. L’Imperatore pensava di rientrare nel Granducato di Varsavia dove avrebbe potuto riorganizzare l’esercito e prendere una decisione, la primavera successiva.
La ritirata presentava, però, l’inconveniente di offrire alle truppe un terreno già devastato dalla guerra e privo di risorse e la dimostrazione della desolazione che attendeva i soldati si ebbe quando la Grande Armata passò davanti al macabro campo di battaglia di Borodino.
L’avanzata era molto faticosa, perché rallentata dagli oltre quaranta carri di bottino, dalla presenza di donne, bambini e prigionieri e dalla caduta dei primi fiocchi di neve.
A complicare le cose erano le bande di partigiani, contadini russi che avevano organizzato la guerriglia e che si accanivano con ferocia disumana sui soldati ritardatari, sui disertori, sugli sbandati e su chiunque si trovasse, per avventura, separato dagli altri. Le cose sarebbero potute andare diversamente se Napoleone, una volta insediatosi a Mosca, avesse proclamato la fine della servitù della gleba nelle terre da lui conquistate. L’Imperatore, però, non era più un giovane Generale ambizioso e divoratore di progetti, esaltato dal fervore delle idee rivoluzionarie, ma un uomo di mezza età, sempre più stanco e imbolsito, che non aveva osato tanto.
Oltre ai guerriglieri partigiani, c’erano i Cosacchi, temibili soldati a cavallo che facevano dei rapidi blitz sulle retrovie e sui fianchi dell’esercito, infilzando e sgozzando, con le loro lance, chiunque capitasse a tiro. Lo stesso Napoleone, un giorno che si era recato senza scorta a fare una ricognizione, aveva rischiato di essere ucciso o fatto prigioniero da un distaccamento di Cosacchi.
In tutto ciò, il Generale Kutuzov seguiva la Grande Armata da una strada parallela, limitandosi, per lo più, a una strategia di logoramento, in attesa che l’inverno e gli stenti annientassero gli invasori. Ogni tanto, per tacitare i critici, ingaggiava una battaglia contro la Grande Armata che era sempre più stremata.
Le temperature, intanto, scendevano, i soldati pativano il freddo e i cavalli morivano a migliaia, costringendo gli invasori ad abbandonare per strada il bottino e i cannoni. La mattina, nei bivacchi, molti soldati erano trovati morti per il freddo e gli stenti. L’avanzare della Grande Armata era, ormai, un penoso arrancare sulle campagne innevate, punteggiate da boschi di abeti.
Il 7 novembre, iniziarono le bufere di neve che fecero scendere ulteriormente le temperature, compromettendo seriamente la visibilità. I soldati si nutrivano delle carni dei cavalli morti e di verdure avariate e ci furono anche episodi di cannibalismo. Una mattina, Alain vide un soldato intento ad affondare i denti su un femore umano che stava ripulendo dagli ultimi brandelli di carne e, pur non essendo un’educanda, volse lo sguardo dall’altra parte, inorridito. Lo confortava ancora la vista del Conte Pierre Bezuchov e di Platon Karataev che marciavano nelle file dei prigionieri, fra le quali saltellava il cagnolino grigio viola. La salute di Karataev, tuttavia, stava rapidamente declinando e Alain era in apprensione per lui.
La temperatura, intanto, era scesa a – 26° e le poche migliaia di soldati superstiti erano ridotte allo stremo. Dell’orgogliosa e scintillante Grande Armata, era rimasta una banda di derelitti pezzenti, abbigliata di uniformi ormai ridotte in brandelli e dei capi di abbigliamento trovati a Mosca. Vestiti cinesi e tartari, pellicce da donna, sete, sciarpe e pezze per avvolgere i piedi facevano apparire i soldati un’eterogenea accolita di mendicanti.
I Cosacchi, invece, non pativano il freddo e si avventavano su tutti coloro che rimanevano indietro, sui feriti, sugli stremati e sui soldati che erano inviati nei boschi in cerca di legna e di cibo. Lo stesso facevano i partigiani che si accanivano con brutale ferocia su coloro che catturavano.
I feriti erano abbandonati al loro destino e i prigionieri non più in grado di stare in piedi e di marciare erano finiti con un colpo di moschetto. Platon Karataev, ormai, barcollava e stentava a mantenere il passo. Una mattina, Alain lo vide sedersi ai piedi di un albero, ormai privo delle forze per proseguire. In cuor suo, sperò in un miracolo, ma, qualche istante dopo, udì un colpo di moschetto lacerare l’aria. Non ebbe il coraggio di voltarsi e guardare, ma gli occhi gli si riempirono di lacrime e il cuore di rabbia.
Alcune ore dopo, l’ennesima incursione dei Cosacchi liberò alcuni prigionieri russi e, da allora, Alain non vide più il Conte Pierre Bezuchov né il cagnolino grigio viola.
A metà novembre, i primi reparti della Grande Armata giunsero a Smolensk dove diedero fondo, in soli tre giorni, a tutti i rifornimenti, senza lasciare nulla alle colonne che seguivano. La città fu, quindi, saccheggiata e devastata.
Per mantenere un residuo di disciplina e battere il nemico sul tempo, Napoleone decise di ripartire dopo meno di una settimana in direzione del fiume Beresina, ma una brutta sorpresa attendeva la Grande Armata. Il Generale Kutuzov e il Generale Miloradovic avevano radunato ottantamila uomini sulle colline intorno al villaggio di Krasnoi per ostruire il passaggio alle truppe nemiche. Altri militari russi si erano piazzati lungo la strada, col risultato di bloccarla. La battaglia di Krasnoi durò tre giorni, durante i quali le truppe napoleoniche furono falciate dall’artiglieria russa che distrusse alcuni reparti, come quello del Maresciallo Ney. Napoleone fu, quindi, costretto a mettere in campo anche la Guardia Imperiale che non utilizzava quasi mai, considerandola la sua ultima risorsa.
Superato anche l’ostacolo di Krasnoi, quel che restava della Grande Armata giunse in prossimità del fiume Beresina, ma una seconda brutta sorpresa era in agguato. I russi avevano occupato il villaggio di Borisov e avevano incendiato i ponti. La situazione si rivelò subito complicata, finché non ci si accorse che esisteva un punto di passaggio non presidiato dai russi, in prossimità del villaggio di Studienka. Napoleone occupò il villaggio e diede ordine ai genieri di costruire dei ponti mentre i soldati superstiti creavano un diversivo a Borisov, gettando molti cavalletti nel fiume e facendo, perciò, credere al nemico di voler attraversare da lì.
La mattina del 25 novembre, quattrocento genieri iniziarono a costruire due ponti – uno per gli uomini, l’altro per i carri e per l’artiglieria pesante – con il legno preso dalle case del villaggio di Studienka. La maggior parte di loro morì assiderata. Alain li guardava mentre diventavano sempre più lividi e, malgrado ciò, non demordevano ed ebbe pietà di loro.
Il giorno successivo, i lavori terminarono e l’attraversamento ebbe inizio, ma le operazioni furono ostacolate dal crollo di uno dei due ponti che costrinse i genieri a sfidare di nuovo il gelo del fiume per effettuare le riparazioni.
Il 28 novembre, i russi si accorsero dello stratagemma e iniziarono a impedire le operazioni di attraversamento su entrambe le sponde della Beresina, in prossimità del villaggio di Studienka. Mentre alcuni reparti tenevano impegnati i nemici, combattendo furiosamente con le sole baionette, il grosso dell’esercito attraversava il fiume. La battaglia della Beresina fu molto dura e combattuta ed ebbe termine la mattina del 29 novembre, quando, su ordine dell’Imperatore, i genieri incendiarono i ponti, sacrificando gli ultimissimi ritardatari, soprattutto donne e bambini, che, pur di non finire nelle mani dei russi, si gettarono nel fiume o si lanciarono di corsa sui ponti in fiamme. Molti di loro morirono assiderati o bruciati.
La parte della ritirata successiva all’attraversamento del fiume Beresina fu la peggiore, perché le temperature scesero a – 37°, le tormente infuriavano e gli uomini evitavano persino di dormire per paura di non svegliarsi.
Dell’orgogliosa e mirabile Grande Armata, partita sei mesi prima con oltre seicentomila uomini, rimanevano meno di novantamila soldati. Quattrocentomila erano dispersi o morti, in battaglia o di stenti mentre centomila erano stati fatti prigionieri. Duecentomila cavalli erano morti e ciò indebolì per sempre la cavalleria che mai tornò allo splendore delle origini. Oltre novecento cannoni erano stati abbandonati o catturati dai russi. Le truppe napoleoniche ne portarono indietro soltanto duecentocinquanta.
La Grande Armata, l’orgoglio d’Europa, era distrutta, portata alla sbaraglio dal suo Imperatore. In cima alla collina, Alain pensava a questo e serrava i denti. Pensava alle migliaia di uomini morti assiderati, dentro il fiume o nei bivacchi, a quelli finiti preda dei Cosacchi o dei partigiani, alla freddezza di Napoleone durante l’incendio e alla scortesia che questi gli aveva dimostrato negli ultimi mesi, inducendo, col suo accanimento, anche gli altri a mancargli di rispetto. Pensava al Principe Andrej Bolkonskij, squarciato da una granata e a Platon Karataev, finito da uno sparo sotto l’albero ai piedi del quale si era accasciato.
Afferrò saldamente il moschetto, prese bene la mira e attese pazientemente. Quando, nella strada sottostante, Napoleone fece la sua comparsa in groppa a Marengo, con il bicorno nero e il pastrano grigio, Alain esercitò una lieve pressione sul grilletto. Prima che lo sparo partisse, una massa di neve crollò dai rami dell’abete sovrastante e lo travolse in pieno, lasciandolo privo di sensi sul manto ghiacciato.
 
Napoleone-a-cavallo

Ritirata

Tormenta

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Smorgon, 5 dicembre 1812, ore 22,00
 
Raggiunto da preoccupanti notizie sulla situazione politica esistente a Milano, dove si preparava un colpo di Stato contro di lui, Napoleone salì su una carrozza, accompagnato da Caulaincourt. Col consenso dello Stato Maggiore, aveva deciso di lasciare quel che restava della Grande Armata nelle mani del cognato Murat e di tornare a Milano in gran segreto, per stabilizzare gli assetti di potere, tranquillizzare gli animi e organizzare un nuovo esercito.
Giunto a Kovno, proseguì per Glogow dove, sempre di notte, salì su una slitta che lo condusse a Varsavia, a Dresda e, infine, a Milano.
Al collo, aveva appesa una fiala di veleno che il medico personale gli aveva consegnato, per il caso in cui fosse stato catturato.
 
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Campagne nei pressi di Molodechno, dicembre 1812
 
Alain si svegliò legato mani e piedi, con le orecchie attraversate dai ghigni di un manipolo di uomini che si esprimevano nell’idioma russo che egli non comprendeva, ma che aveva imparato a riconoscere. Giaceva insieme ad altri soldati napoleonici, molti dei quali erano ormai morti. Le grida strazianti di un uomo lo destarono completamente, riportandolo alla tremenda realtà.
I Cosacchi lo avevano salvato dall’assideramento soltanto per farlo prigioniero e torturarlo insieme agli altri soldati della Grande Armata, caduti nelle loro mani.
Un improvviso luccichio gli fece scorgere la lama di una baionetta sfuggita ai Cosacchi e rimasta sotto il cadavere di un prigioniero. Con mosse lente e silenziose, si avvicinò alla lama, stando bene attento a non farsi scorgere e a non ferirsi. Le urla del prigioniero torturato riempivano l’aria, facendogli comprendere che sorte gli sarebbe capitata se avesse fallito.
Dopo un lasso di tempo che gli parve interminabile, le grida cessarono e un Cosacco si diresse verso il gruppo dei prigionieri mentre i compagni scherzavano e bevevano vodka. Con scatto veloce e preciso, Alain piantò fulmineamente la lama nella gola dell’uomo che lo stava afferrando e questi morì senza poter emettere un gemito. Coperto dalle tenebre di una notte senza luna e senza stelle e favorito dal fatto che i Cosacchi erano tutti alticci, sgusciò verso un pendio e scivolò giù, sulla neve ghiacciata, cercando una via di fuga, zigzagando fra un abete e l’altro.







I personaggi del Principe Andrej Bolkonskij, del Conte Pierre Bezuchov, di Platon Karataev e del cagnolino provengono dal romanzo “Guerra e Pace” di Lev Nikolaevic Tolstoj.
La battaglia del lago di Viverone è di mia invenzione. Ne parlo nel sessantaseiesimo capitolo, intitolato: “Sulle orme di Annibale”.
Vogliate perdonarmi un capitolo in cui i protagonisti appaiono di sfuggita, ma dovevo dedicare dello spazio alla Campagna di Russia, alla disfatta della Grande Armata e al personaggio di Alain i cui dubbi su Napoleone, comparsi a più riprese nel corso della storia, esplodono a fine capitolo, nel fallito tentativo di regicidio (anzi, imperatoricidio). Dovevo anche rimettere in campo Wellington e chiarire il nodo sulla nascita dell’erede al trono di Francia che tanto erede non sembra essere. Non temete, però, perché Oscar e André si riprenderanno presto la scena.
Come al solito, grazie a chi vorrà leggere e recensire. Stiamo giungendo al termine di quest’epopea che ci ha tenuti insieme per anni.
Buon Anno!
   
 
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