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Autore: Agente P    08/01/2023    0 recensioni
[Nier Reincarnation]
«Io devo stare al tuo fianco.»
Devo, non voglio. Rion sentì una fitta allo stomaco.
[...]
Non riusciva più a immaginare il suo viaggio senza Dimos, ma non voleva essere l’ennesima persona che gli imponeva la sua volontà.
Genere: Angst, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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«Le… le andrebbe di ballare?»
Rion si riscosse, ma si rese conto che la domanda non era stata posta a lui, bensì al suo compagno di viaggio.
Dimos alzò un sopracciglio «Temo di non essere stato programmato per eseguire queste attività.»
Il suo tono era cortese, ma la voce aveva sempre quel riverbero metallico a cui Rion si era abituato col tempo. Gli abitanti del villaggio all’inizio sobbalzavano quando lo sentivano parlare, mentre ora non ci facevano più caso.
«Non potete saperlo finché non provate» incalzò la ragazza, tendendogli la mano.
Dimos lanciò un’occhiata verso Rion, che allora sorrise.
«Vai starò bene. Ha ragione, dovresti provare a divertirti ogni tanto.»
L’automa annuì – anche se aveva l’espressione di quando trovava un’azione illogica e la faceva solo perché era Rion a chiederlo - e si alzò per seguire la giovane.
La pista da ballo era gremita di gente, così come la taverna, animata da musica, canti e soprattutto danze.
Il principe batteva le mani seguendo il ritmo; ogni tanto qualcuno di avvicinava al suo tavolo, gli portava da bere o gli dava una pacca sulla spalla. Nessuno però lo invitava a ballare e dal canto suo Rion preferiva così, muoversi tanto in uno spazio così affollato non era saggio vista la sua malattia.
Si rigirò il bicchiere vuoto tra le mani. Per la prima volta da quando aveva lasciato il palazzo si sentiva… solo.
Cercò Dimos con lo sguardo, individuandolo subito anche in mezzo alla folla. L’avevano coinvolto in un ballo popolare che Rion si ricordava di aver visto anche nella capitale, in cui le coppie cambiavano partner diverse volte ballando in cerchio, e in effetti Dimos non stava più accompagnando la ragazza che lo aveva invitato.
La musica cambiò e la gente sulla pista cominciò a prendere posizione per la danza successiva. Con sua sorpresa l’automa rimase lì, l’espressione concentrata mentre gli venivano spiegati i passi da fare, che eseguì alla perfezione.
E così fu per il ballo dopo e quello dopo ancora.
Rion si morse l’interno della guancia vedendo Dimos ballare con tante persone diverse, senza accennare a volersene andare.
Avrebbe dovuto sentirsi felice nel vedere il suo compagno fare qualcosa perché lo desiderava – nel vederlo così umano – perché invece si sentiva così?
Alcuni giovani decisero di fare una pausa per bere qualcosa e Dimos li seguì al bancone. Rion non poteva sentirli, ma gli sembrava che l’automa stesse conversando, o almeno rispondendo alle loro domande.
Il ragazzo stava per alzarsi e unirsi a loro, quando si piegò in due e cominciò a tossire. L’attaccò finì, veloce come era arrivato, ma tanto era bastato per far ripartire le danze.
Il principe preferì tornare verso la sua stanza, rendendosi conto che questa volta Dimos non l’avrebbe seguito.

 
Erano in quel villaggio da diverse settimane. All’inizio doveva essere una tappa come un’altra del loro viaggio, ma vi erano arrivati stremati. La malattia di Rion gli aveva causato un crollo fisico peggiore dei precedenti, proprio mentre un distaccamento dell’esercito di suo padre li aveva raggiunti. Dimos era riuscito a respingere ogni singolo automa, ma i danni alla cittadina erano stati ingenti.
Erano pronti a venire cacciati, o peggio ritrovarsi a combattere anche con gli abitanti del luogo. Questi invece li avevano sopresi: si erano affrettati a soccorrere Rion ma soprattutto avevano riservato lo stesso trattamento anche a Dimos.
Ogni dove andavano, anche nei posti in cui la gente era disposta ad ascoltare le parole del principe, l’automa veniva guardato con sospetto e disgusto. Altrove si erano rifiutati di aprir loro le porte, o li avevano attaccati.
Lui era un soldato meccanico d’altronde, un’arma di quel regno che metteva a ferro e fuoco tutto il continente da anni. Chi poteva provare ad accettare un umano non riusciva a fare lo stesso con un ammasso di ingranaggi e circuiti.
In quel villaggio invece Dimos era stato accolto dalla gente, per la prima volta l’aveva visto trattato come una persona e non una semplice macchina.
«Dovremmo riposare qui finché non ti sentirai meglio» gli aveva detto con quel suo tono così logico quando Rion aveva proposto di ripartire un paio di giorni dopo il loro arrivo «Nessun posto ci ha mai trattato così bene»
Nessun posto ha mai tollerato un soldato meccanico così a lungo, era il sottointeso.
«Hai ragione. Allora dovrò fare del mio meglio per riprendermi in fretta» aveva risposto il giovane, facendo un occhiolino.
Dimos gli aveva passato una mela che aveva appena finito di sbucciare per lui. Non si ricordava da quanto non mangiasse un frutto così buono.

 
Rion si era davvero ripreso in fretta, ma quando era riuscito ad alzarsi dal letto aveva scoperto che Dimos si era impegnato ad aiutare gli abitanti del villaggio a ricostruire gli edifici danneggiati, oltre ad essersi unito ad alcuni turni di ronda.
«Dobbiamo pur ripagare la loro ospitalità.»
Il principe aveva sorriso sentendoglielo dire. Altri avrebbero imputato la scelta dell’automa a un suo programma, ricevo qualcosa quindi offro in cambio qualcos’altro. Ma Rion sapeva che non era così.
Che quella decisione era dettata da qualcosa di più.
I soldati meccanici non possiedono algoritmi attivati da gratitudine o empatia, quelle azioni erano di Dimos e Dimos soltanto.

 
Rion si nascose sotto le coperte quando sentì il cigolio della porta, fingendo di dormire. Lo scanner del suo compagno avrebbe rivelato in fretta la bugia, ma poteva sempre tentare.
«Mio principe.»
La voce di Dimos era un sussurro, quel tono morbido che usava con lui quando stava male o di prima mattina.
Rion fece un mugolio, come se si stesse svegliando «Oh, sei già qui?»
«Sono tornato al tavolo e non c’eri.»
Il ragazzo si mise a sedere «Potevi… potevi rimanere ancora se volevi.»
«Non volevo. Ti sei sentito male?»
Il suo sguardo era preoccupato, forse si stava già recriminando di non essere stato al suo fianco come sempre. Vedendolo Rion si sentiva così… infantile per la sua fuga.
«Ero solo stanco, non preoccuparti. Una dormita e sarò come nuovo.»
L’altro annuì. Aspettò che si coricasse e lo coprì con delicatezza, un movimento che aveva affinato sera dopo sera.
«Buonanotte, mio principe.»
Rion si ritrovò a sorridere senza volerlo.

 
«Le riparazioni sono pressoché terminate, potremo ripartire a breve» spiegò Dimos il giorno dopo, mentre camminavano per la via principale.
Rion annuì. Era per quello che la gente aveva festeggiato così tanto la sera prima. Vide persone smontare impalcature mentre altre davano le ultime mani di vernice, molte che li salutavano al loro passaggio e ringraziavano di cuore l’automa. Il principe sorrise nel vedere il suo accompagnatore confuso da quella cordialità.
«Dimos!»
Rion si irrigidì, mentre uno dei giovani della sera prima si dirigeva verso di loro a passo svelto.
«Vado… vado a vedere quella vetrina» riuscì a dire, andando via prima che l’altro potesse fermarlo.
Cercò di concentrarsi sugli oggetti esposti, ma l’unica cosa che riusciva a vedere era il suo stesso riflesso, la sua espressione sconvolta.
Nessuno a parte lui chiamava Dimos per nome. Nessuno.
Sbirciò con la coda dell’occhio nella loro direzione. Quel ragazzo era muscoloso, di bell’aspetto. Alto quando Dimos. Era una sua impressione o c’era del rossore sulle sue guance mentre gli parlava?
La conversazione finì e Rion si affrettò a fingersi interessato all’assortimento del negozio.
«Ti senti bene, mio principe?» chiese Dimos, fermandosi accanto a lui «Sei pallido.»
«Ti preoccupi troppo» rise lui.
L’automa aveva capito che gli stava nascondendo qualcosa, era chiaro, ma Rion era sicuro che stesse pensando alla sua malattia.
Dopotutto cosa sei se non un debole ragazzino malato?
«Hai fatto amicizia vedo» disse per sviare il discorso.
«Se così si può dire.»
Ti chiamava per nome, pensò Rion.
Sapeva che quello era il nome del suo modello – il primo mai prodotto dal regno – ma aveva sempre considerato importante che avesse scelto di dirgli quello invece della sua designazione numerica. E con il tempo era come se fosse diventato qualcosa di solo loro.
«Vogliono fare un giro di ricognizione, sembra che ci sia stato del movimento fuori città» continuò Dimos «Mi ha chiesto di partecipare, ma ho rifiutato.»
«Come mai?»
«Io devo stare al tuo fianco.»
Devo, non voglio. Rion sentì una fitta allo stomaco. Attorno a lui c’erano i segni concreti di quello che Dimos poteva fare per gli altri. Costruire case, proteggere villaggi, avere degli amici e dei momenti di svago. Quello che potrebbe fare se non lo dovesse proteggere, se non avesse questo peso, questo intralcio.
«Dovresti andare» sussurrò «È più importante accertarsi che siano tutti al sicuro piuttosto che farmi da balia.»
«Non ho rilevato segnali di soldati in questi giorni, la mia presenza non è fondamentale.»
«Ti sbagli» ribattè Rion. Con una mano cominciò a indicare gli edifici intorno a sé «Non avrebbero potuto fare tutto questo senza di te. Non preferiresti…»
Si interruppe. Non era la prima volta che pensava che Dimos sarebbe stato meglio senza di lui, che avrebbe potuto trovare uno scopo altrove. Lo pensava ogni volta che lo vedeva ferito a causa sua, ogni volta che posponeva la sua stessa manutenzione e rischiava di rompersi per dare la priorità alla sua salute.
Allora perché non riusciva a dirlo?
«Mio principe?»
Perché Dimos lo guardava così preoccupato? Perché la sua voce era così… spaventata?
Ah, sto piangendo.
 

Rion non riusciva a dormire.
Quella mattina mentre parlava il suo respiro a un tratto si era fatto sempre più affaticato e la testa aveva cominciato a girargli.
Si ricordava vagamente di Dimos che lo prendeva tra le braccia come se non pesasse nulla e lo riportava in camera. Dopo la sua mente era stata sospesa, annebbiata. Forse gli era salita la febbre.
Le imposte erano serrate e non riusciva a dire che ora fosse, ma ad essere sincero non voleva scoprirlo.
Si alzò per sciacquarsi la faccia, rendendosi conto di essere solo.
Quando guardò il suo riflesso nello specchio sobbalzò. Non era solo, alle sue spalle c’era lei.
«È da tanto che non ci si vede» sorrise malevola la Principessa.
 

Se lei è qui so che è sogno, pensò Rion.
Perché quella ragazza con quell’elegante abito bianco era morta anni prima. Morta grazie a lui.
Ricordava il suo vestito macchiato di rosso, l’odore di polvere da sparo, i soldati che irrompevano nel cortile seguiti da suo padre. Entrambi non erano stati altro che pedine nel suo elaborato gioco, volto a far scoppiare un’altra guerra.
«Vedo che ti piace sempre autocommiserarti.»
«Non voglio starti a sentire» ribatté Rion, superandola per tornare verso il suo letto. Voleva solo svegliarsi prima che lei cominciasse davvero a parlargli.
«Invece sotto sotto lo vuoi, non sarei qui altrimenti»
La principessa si avvicinò lentamente, i suoi passi che riecheggiavano per la stanza, fermandosi di fronte a lui.
«Così posso farti le domande a cui non vuoi rispondere.»
«Che vuoi dire?»
«Prendi il tuo caro automa ad esempio. Continui a interrogarti se sia giusto o meno obbligarlo a stare al tuo fianco, ma la vera domanda è un’altra» rispose, facendo una piroetta «Ossia: cosa vuoi da lui davvero
«Non ti seguo.»
«Perdonami» lo canzonò lei «Mi spiego meglio, non vuoi qualcosa di più dal vostro rapporto? Un altro tipo di… devozione, da parte sua?»
Rion avvampò e abbassò lo sguardo.
Voleva che Dimos lo vedesse come più di un ragazzino da proteggere, come un suo pari, come…
La verità è che voleva essere lui a ballare con Dimos quella sera. Che lo stringesse tra le braccia, ma non come quando si sentiva male. Che lo tenesse per mano non solo mentre stavano fuggendo. Che lo chiamasse per nome.
«Eppure la soluzione è semplice» ridacchiò la principessa. Si avvicinò per sussurrargli all’orecchio «Se tu glielo ordinassi lo farebbe.»
La sua espressione era divertita mentre Rion sgranava gli occhi.
«È disgustoso.»
Sentì una stretta allo stomaco. Sapeva come alcuni capitani dell’esercito sfruttavano le “cose fatte per obbedire e basta”, anzi sembravano andarne fieri. Non voleva pensarci.
«Allora parla» continuò la principessa «Tanto non vivrai ancora a lungo, non dovrai piangerti troppo addosso per il rifiuto.»
Rion si accasciò sul letto, preferendo guardare le travi del soffitto.
«Ignorami pure Rion. Sappiamo entrambi che l’unica cosa che sei bravo a fare è fuggire.»
 

Rion si svegliò con la fronte madida di sudore. Le prime luci del giorno filtravano dalle imposte.
Adesso ricordava: il dottore aveva detto che quello che aveva avuto era stato un semplice attacco di panico, ma vista la sua condizione consigliava riposo.
Dimos era stato al suo fianco e anche adesso era lì, seduto su una sedia vicino alla parete, la testa reclinata. Un soffuso rumore meccanico proveniva dalla sua direzione, un rumore che Rion aveva imparato ad associare alla sua manutenzione.
L’automa aveva già preparato le loro borse e il fatto che avesse avviato quel processo gli confermava che fosse pronto a partire.
Rion gli si avvicinò.
I suoi occhi erano vitrei, spenti. Sul suo corpo era visibile un’enorme cicatrice e sapeva che sotto le bende che gli coprivano il volto se ne nascondevano altre.
Quanto dolore aveva dovuto provare solo perché non poteva morire, bastava venisse riparato? Quanto a lungo aveva dovuto sottostare al volere di qualcun altro?
Rion non riusciva più a immaginare il suo viaggio senza Dimos al suo fianco, ma non voleva neppure essere l’ennesima persona che gli imponeva la sua volontà.
Per questo prese le sue cose e uscì silenziosamente dalla stanza.
 

Non si era allontanato molto dalla città, quando sentì una voce dall’inconfondibile riverbero metallico.
«Mio principe.»
Rion si fermò, senza riuscire a voltarsi «Scusa se sono andato via così, ma… ma…»
Sentiva che le lacrime stavano per uscire di nuovo, ma questa volta sarebbe stato forte. Si girò verso Dimos, ma tenne lo sguardo fisso a terra.
«Dovresti restare, potresti fare così tanto per quella gente. Potresti essere felice. Non… non sei obbligato a seguirmi solo perché ti senti in dovere di farlo.»
L’automa fece alcuni passi verso di lui.
«Rion.»
Il giovane alzò la testa di scatto sentendo il suo nome. Dimos gli posò le mani sulle spalle, la sua espressione era intensa.
I soldati meccanici non possono piangere, per nessun motivo, ma Rion si ritrovò a pensare che se avesse potuto, Dimos in quel momento l’avrebbe fatto.
«Il mio posto è al tuo fianco. Se così non fosse ti avrei sparato quel giorno nella sala del trono. Ti avrei consegnato all’esercito reale alla prima occasione» disse l’automa «Io voglio essere al tuo fianco, voglio che il tuo sogno diventi realtà. E voglio essere accanto a te quando lo realizzerai.»
Fu Rion a mettersi a piangere. Anzi da ora in poi l’avrebbe fatto per entrambi.
Saltò verso Dimos, stringendolo in un abbraccio, affondando la testa nella sua spalla. L’altro aveva perso l’equilibrio, facendo finire il suo capello in terra.
«Scusami, scusami, scusami» cominciò a ripetere «Anche io voglio averti al mio fianco. Avevo solo paura che...»
L’automa ricambiò la stretta dopo un attimo di sorpresa, passando in modo impacciato le braccia attorno al ragazzo.
«Molte persone ti hanno dato motivo di dubitare di loro. Ma non dovrai mai dubitare di me» disse, asciugandogli una lacrima con un dito. Rion annuì, stringendo la mano nella sua.
Si misero in marcia, uno accanto all’altro. Com’era cominciato quel viaggio e come sarebbe finito.
Rion guardò Dimos e sorrise.
Forse un giorno sarebbe riuscito a parlargli dei suoi sentimenti, ma per adesso era felice così.

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Pubblico consapevole che non se la leggerà nessuno ma shhhh
Mi sono innamorata di questo gioco e di questi pg e molto a sopresa è uscita fuori questa storia, che da semplice che doveva essere si è evoluta sempre di più. Ma con tutti i sentimenti che mi hanno fatto provare questi due poteva essere altrimenti?

Se hai letto e vuoi parlare ancora di Rein (ma anche di altro) mi trovi

qui



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