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Autore: Luine    11/09/2009    2 recensioni
Quando mi hanno regalato questo diario per il mio dodicesimo compleanno, non credevo che mi sarebbe stato tanto utile. Credevo che sarebbe rimasto intonso come quando l'ho scartato. E, invece, eccomi qui a scrivervi sopra e a raccontare la mia (strana) vita.
Mi chiamo Ken Iccijojji, vivo a Tokyo con i miei genitori, Videl e Gohan, e con mia sorella maggiore, Pan.

Kenny ha dodici anni, una sorella maggiore alquanto turbolenta e una situazione familiare decisamente movimentata. A causa del terrore di sua madre di vederlo diventare come Pan, si ritrova iscritto in una scuola speciale per ragazzini problematici che già da subito si rivela essere una vera e propria caserma militare.
Tra paure, insegnanti molto duri, amici fidati e misteriosi, incomprensioni, equivoci e risate, si snodano le vicende di Kenny che come valvola di sfogo ha il suo diario, sul quale annota le sue più intime paure e i fatti di vita quotidiani, cercando di convincere se stesso che, forse, poteva andare peggio.
[ Dragon Ball, Digimon 02, Gundam Wing, What a mess Slump e Arale, e altri ]
Genere: Comico, Commedia, Parodia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Le lezioni al primo anno.

Una prova di resistenza



3 Settembre


Dopo una lunga e salutare dormita, tanto che mi ero ripreso da tutte le emozioni della giornata prima, quando sono sceso a colazione, tutti i miei compagni mi guardavano come se fossi stato una bestia immonda, tranne Pan e giusto perché non c'era, Alex e Frank, perché stava mangiando e Arale, perché era girata di spalle.

Bra si è chinata su Mimi Takikawa e le ha detto qualcosa, mentre entrambe mi guardavano; Mimi ha annuito, sorridendo malignamente.

L'unica cosa che sono riuscito a fare, è stato abbassare lo sguardo e sedermi accanto ad Arale.

«E' successo qualcosa?» ho chiesto, a mezza bocca, mentre incrociavo lo sguardo impietoso di Trowa Burton. «Perché tutti mi guardano male?»

Lei ha strappato con l'angolo della bocca un grosso pezzo del suo panino vuoto. «Ma niente, lascia perdere...» ha risposto, con la bocca piena. «Sai, soliti pettegolezzi del cazzo...»

Non ho capito, davvero. Ho insistito, ma ho ricevuto solo una serie di masticazioni in risposta, quindi ho desistito.

«E la porta?» ho domandato, allora.

Arale, a questo, è stata ben felice di rispondere: «Tutto bene... Heero è un genio! E' riuscito a risistemarla e Frank gli ha dato una mano... meno male che c'erano loro, altrimenti...» ha detto, muovendo qua e là il suo panino e lasciando la frase in sospeso, ma facendomi ben capire come sarebbe andata, se loro due non fossero stati capaci a mettere tutto a posto.

Ho scoccato un'altra occhiata a Bra che, adesso, ridacchiava con la sua vicina e continuava a fissarmi.

Ho annuito distrattamente, mentre Arale continuava ad abbuffarsi. Niente da fare, non riuscivo proprio a capire perché tutti ce l'avessero con me.

Ho preso un cucchiaio e l'ho infilato nella mia tazza piena di latte e corn flakes. Mentre lo portavo alle labbra, col latte che grondava nella tazza, ho sentito Bra che schiamazzava dalle risate insieme a Mimi. Ho alzato di nuovo gli occhi e, mentre una batteva forte una mano sul tavolo, l'altra mi indicava e strizzava gli occhi dal troppo ridere.

Ho guardato prima il mio cucchiaio, cercando in lui qualcosa che potesse darmi un aspetto buffo, ma era solo un normale cucchiaio con dentro dei fiocchi di cereali imbevuti di latte... non capivo. Così ho guardato Arale, sperando che, stavolta, mi rispondesse.

«Ma che gli è preso a quelle due?» ho chiesto, facendo un cenno. Arale ha scoccato loro un'occhiataccia prima di dare un altro morso al suo panino.

«Lasciale perdere.» mi ha nuovamente consigliato.

«Ma... perché mi guardano e ridono?» la cosa mi dava parecchio fastidio e, anzi, mi faceva venire voglia di sotterrarmi.

Arale ha deglutito prima di rispondere. «Come dice il vecchio proverbio, il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi!»

Alex, che stava chiacchierando con Tai Yagami, sentendo questa frase, si è girato verso di lei e ha chiesto, stupefatto: «Ah, ma non era perché gli stupidi mangiano troppo riso?»

Mi sono sporto davanti ad Arale che, allo stesso tempo, si è girata per guardare il nostro compagno di classe all'altro suo lato. «Alex, ma che stai dicendo?» ha chiesto lei, in tono sconcertato.

Lui ha fatto spallucce. «E che ne so? Pensavo che quella storia del riso riguardasse il cibo.» si è giustificato. Ho visto Frank, a pochi posti da quello di fronte a me, battersi una mano sulla fronte, sconfortato, ma non so se per le risate di Bra e Mimi che continuavano a susseguirsi senza sosta o se per la frase di Alex.

«Perché quelle due stanno ridendo come due galline?» ha chiesto mia sorella, arrivandomi alle spalle e facendomi sobbalzare di paura.

«Pan...» ho sospirato, mettendomi una mano sul cuore che batteva furioso. Lei mi ha lanciato uno sguardo ben poco lusinghiero, quasi disgustato. Pure lei, ma, almeno, questo era normale.

«Ah, sei qui, paramecio!» mi ha detto. «E bravo lui... che ha trovato l'ottimo modo per evitare di svegliarsi presto la mattina!»

Si è seduta accanto a me, mi ha preso la tazza e ha cominciato ad ingurgitare quello che c'era dentro.

«Pan, veramente... era mia!» ho protestato. Lei mi ha lanciato solo uno sguardo obliquo molto minaccioso, prima di riprendere a mangiare come se niente fosse stato. Bra e Mimi hanno ululato ancora più forte e non mi sono mai sentito tanto in imbarazzo come in quel momento.

Ma Pan non ha fatto una piega. Ha alzato gli occhi sulle due e ha continuato a masticare i miei cereali, come per cercare di capire il motivo di tanta ilarità – e se l'avesse capito, mi sarebbe tanto piaciuto saperlo – ma ha solo riabbassato lo sguardo e ripreso a mangiare come se niente fosse stato.

A quel punto non mi rimaneva che una cosa da fare: mi sono alzato e sono andato a prendermi un'altra tazza.

«Bravo, Kenny!» mi ha elogiato mia sorella, stupendomi, ma prendendomi la tazza che mi ero messo davanti. «Come sapevi che ne volevo un'altra?»

L'ha trangugiata prima che avessi il tempo di aprire la bocca per rispondere. Quando ha finito, si è pulita le labbra col dorso della mano e mi ha messo la tazza vuota davanti.

«Ma... veramente...» ho tentato di protestare.

«Già che ci sei, paramecio,» ha chiesto, ben poco gentilmente. «perché non me ne vai a prendere un'altra?»

«Ma...»

«MUOVITI!»

Non ho potuto fare a meno di girarmi verso il tavolo degli insegnanti, ma il volume delle chiacchiere era così alto che era riuscito a coprire il vocione di Pan e a non arrivare alle orecchie della Une.

Sospirando, mi sono alzato e ho deciso di eseguire l'ordine di mia sorella: con un po' di fortuna, sarei riuscito a mangiare pure io e avevo una fame!

Ho fatto come mi ha chiesto, poi, mentre le posavo davanti la tazza, mi sono preso quella che lei ha svuotato e ho fatto per andarmi a servire di nuovo di latte. Peccato che tutto fosse contro di me, questa mattina: Pan mi stava facendo segno di portargliene un'altra, così non ho potuto fare a meno di riempire nuovamente la tazza. Peccato che, subito dopo, mentre adocchiavo l'ultima rimasta sul tavolo del self-service, qualcuno se la sia portata via, lasciandomi a bocca asciutta.

«Beh?» ha chiesto Pan, guardandomi con il consueto disgusto. «Non mi hai portato un'altra tazza?»

Ho aggrottato la fronte. «E questa cos'è?» ho ribattuto, titubante.

«Io te ne ho chieste altre due!»

«Ma... non hai mangiato abbastanza?» le ho chiesto, disperato. Il mio stomaco ha cominciato a brontolare e pure questo ha suscitato molta ilarità, chissà come mai.

«HO FAME!» ha gridato Pan, distogliendo la mia attenzione da tutto questo. Stavolta siamo stati meno fortunati: la Une stava passando di tavolo in tavolo e, scoccando occhiate maligne ad ognuno, passava al successivo.

«Che succede?» ha chiesto, glaciale. Mi sono seduto al mio posto, terrorizzato.

Pan ha guardato da me e a lei. «Che succede?» ha ripetuto, tranquillamente.

La Une ha inarcato un sopracciglio. «Perché ripete a pappagallo quello che dico?»

«Perché ripeto a pappagallo tutto quello che dice?»

La Une le ha lanciato uno sguardo così terribile che, per un attimo, ho creduto che, di Pan, sarebbe rimasto un mucchietto di cenere su quella sedia. Ho deglutito e anche abbastanza rumorosamente.

«Iccijojji?» ha detto la Une, arricciando le labbra.

«Che c'è?» è stata la risposta serafica di Pan.

«Si alzi!» ha ordinato la direttrice, stringendo gli occhi in modo così minaccioso che, se non l'avesse ordinato a Pan, sarei scattato in piedi.

«Perché?»

«PERCHE' SI'! NON MI FACCIA RIPETERE L'ORDINE! SI ALZI!»

L'urlo della Une ha zittito l'intera mensa. Tutti gli occhi erano puntati sul nostro tavolo, di alunni, insegnanti e inservienti vari.

Lei si è piegata un po' su Pan. «Adesso» ha detto, in un sibilo. «lei starà in piedi fino al suono della campane...»

La campanella è suonata.

Sul volto di Pan si è delineato un sorriso furbo. «Ottimo!» ha detto, scivolando via da sotto l'ombra della Une.

«Iccijojji!» ha ringhiato la Une, rimettendosi dritta.

«Beh, l'ha detto lei: in piedi finché non suona la campanella e ora è suonata... vado in classe!» e così dicendo, saltellando, mia sorella è uscita dalla mensa. La Une era a dir poco allibita, ma non era l'unica in quella stanza.

«Muovetevi!» ha ordinato, cercando di riprendere un contegno. «Tutti in classe o vi beccherete una punizione coi fiocchi!»

Non abbiamo perso tempo: tutta la mensa si è sollevata a tempo di record e già eravamo tutti pressati sull'entrata per riuscire a guadagnare il corridoio e arrivare in classe.

Ci aspettava Bristow nell'aula 10, ma io non ricordavo dov'era. Per fortuna c'era Arale con me.

«Ho un gran senso dell'orientamento!» ha confessato, mentre mi portava su una grossa rampa di scale. «Pensa che mio fratello mi usa come navigatore!» Ha riso come una matta. «Ma ci pensi? Io sopra il cruscotto a dire: "girare a destra"!» ha imitato la voce metallica di un robottino ed ha ripreso a ridere.

Tre ore di matematica filate sfiancherebbero più di un sonnifero in quantità industriali. E' così pesante che Alex, dopo mezz'ora dall'inizio, aveva già chiesto una pausa.

«Suvvia, Ramazza.» l'ha rimproverato Bristow, con la sua voce monotona. «Abbiamo cominciato adesso. Adesso... dimostriamo questo teorema.» e così ha ripreso a scrivere sulla lavagna, cancellando tutto quello che era riuscito a scrivere prima e scrivendo complicate formule per me senza senso.

«Eh...» ha sospirato Alex, sconsolato, annuendo e aggrappandosi al suo banco, quasi avesse avuto paura di poter cadere.

Ma Bristow non l'ha più degnato di uno sguardo, molto più preso da quello che stava dicendo e scrivendo su quelle strane lambda, iota e chissà che altri lettere greche di cui dovrei memorizzare i simboli, ma, ogni volta che ci ho provato, mi parevano geroglifici incomprensibili.

Mi sono buttato sul banco al lato della sedia, esausto, benché fino a poco prima dall'inizio delle lezioni fossi stato pimpante e riposato; ho guardato con sguardo vacuo l'unica persona che non sembrava essere stata contagiata dall'aura soporifera di Bristow: Arale. Sul suo quaderno consacrato alla matematica, annotava tutte le formule e le dimostrazioni alla velocità della luce.

«Mi chiedo come fai...» ha sospirato Alex, mentre, in branco, ci spostavamo verso l'aula 12, dove ci aspettava la Une, dopo tre ore estenuanti.

Arale ha sorriso. «La matematica mi piace!»

«Non è una buona ragione per riuscire a seguire Bristow!» ha ribattuto lui. Ha scosso la testa ed ha sbadigliato sonoramente. «Non è umano quello lì!»

In quel momento, mentre svoltavamo, Bra e Mimi, di nuovo insieme, mi hanno guardato ed hanno ricominciato a ridere. Ho cominciato ad arrabbiarmi.

«Si può sapere che hanno?» ho chiesto, quando ormai non erano più a portata d'orecchio. «Perché mi guardano e ridono?»

Pan, che ci passava accanto in quel momento, mi ha lanciato un'occhiata cattiva. «SARÀ PERCHÉ HAI LA PATTA APERTA? DEFICIENTE!»

Mi sono bloccato, facendo sì che quello che avevo dietro mi finisse addosso.

«Attenzione!» ho riconosciuto la voce infastidita di Trowa il quale mi ha sorpassato scoccandomi un'altra occhiata molto simile a quella che mi aveva lanciato a colazione.

Non solo: mentre Pan urlava, in direzione opposta alla nostra stava arrivando un gruppo di ragazze che, sentendola, hanno cominciato a ridacchiare e a guardarmi, perché Pan, non contenta di urlare che avevo la cerniera dei pantaloni abbassata, mi ha anche indicato, così che potessi fare meglio la mia figuretta.

Mi sono sistemato ed ho raggiunto gli altri che si erano già riversati in classe. La Une non c'era e Trowa, Tai, Matt Ishida, Sora e altri ne hanno approfittato per lanciarmi un'altra occhiata perfida.

«Si può sapere che ho combinato?» ho chiesto, in un soffio, ad Alex e Arale, che erano seduti vicini. Mi è sovvenuto che la Une ci aveva detto di sederci come il primo giorno, ma mi è passato di mente, quando Alex ha risposto: «E' perché credono che tu abbia fatto il furbo, ieri sera!»

«Ma... Pan mi ha picchiato!» ho ribattuto, indignato: davvero credevano che ne avessi approfittato per farmi un riposino in infermeria?

Arale ha scoccato un'occhiata torva a Pan, stravaccata in ultima fila, mentre Alex continuava il suo racconto: «Abbiamo cercato di dirlo, ma tua sorella continuava a ripetere che l'avevi fatto apposta per dormire, perché sei uno smidollato e cose del genere.»

Non era molto strano che dicesse queste cose, solo che Alex non lo sapeva ed era indignato. Non ci sono rimasto male, sono rimasto male, invece, perché gli altri ci hanno creduto; ma non posso neanche biasimarli, perché non mi conoscono, ancora. È una situazione davvero strana la mia.

«Heero e Frank hanno provato a difenderti, e anche noi!» ha precisato Arale. «Ma Bra ha dato man forte a Pan, quindi... indovina a chi hanno creduto gli altri...»

La Une è entrata, nel momento esatto in cui tutti si zittivano e il mio stomaco brontolava sonoramente. Ho trattenuto il respiro, già immaginandomi di dover essere punito, ma lei non sembrava essersene accorta, perché ha esordito, a mo' di buongiorno: «Tutti ai vostri posti, mettevi composti e prendere i quaderni!» ha sbattuto sulla cattedra un grosso libro che, sulla copertina aveva scritto a grosse lettere rosse: "Storia delle Colonie Volume I". «Ieri abbiamo fatto una lezione introduttiva, oggi si comincia seriamente. Ascoltatemi fino alla fine e, forse, potrò mandarvi via prima.»

Tutti ci siamo abbassati sulle nostre borse e abbiamo tirato fuori un quaderno, Alex un foglio che Frank ha strappato dal suo e io uno dei tanti quaderni che la mamma mi aveva infilato in valigia, sotto le mutande.

«Vedete di scrivere tutto, perché non ripeterò.» ha dichiarato la Une, prima di cominciare a parlare dello sbarco sulla Luna. Parlava con gli occhi fissi sul libro e, ogni tanto, girava una pagina. Ma non ho potuto farci molto caso, perché scrivevo velocemente per riuscire a riportare tutto quello che diceva. Spesso mi bloccavo, dimenticavo le parole e, dopo le prime volte in cui mi sono perso anche pezzi di spiegazione, ho cominciato a lasciare spazi vuoti. Poi avrei ricopiato da Arale: in un momento di puro sconforto, ho smesso di fare qualsiasi cosa e ho guardato lei che scriveva pari pari quello che la Une un secondo prima aveva detto.

Alex era nelle mie stesse condizioni e, quando mi sono fermato, lui era piegato sul banco, con un braccio a sorreggergli la testa, la bocca aperta e lo sguardo vacuo puntato sulla Une.

Stranamente, Pan non ha detto niente, anzi. Ha lasciato finire la lezione in santa pace, forse perché, appunto, la direttrice ci aveva promesso di farci andare via prima.

Ma la promessa è andata a farsi friggere, perché la Une si è interrotta solo quando la campanella ha suonato la fine delle lezioni della mattina.

Ci siamo alzati, grattando le sedie sui pavimenti, attivando una sonora protesta da parte dell'insegnante.

«Per domani» ha detto, sopra il nostro vociare. «voglio che studiate tutto quello che avete appreso oggi, perché vi interrogo!»

Stavolta, la protesta è stata nostra.

«Abbiamo appena cominciato!» ha esclamato Tai Yagami. «Ci vuole interrogare il terzo giorno?»

«Non vedo perché no, soldato.» ha ribattuto la Une, arricciando le labbra. «Credo che sia mio diritto darvi da studiare, no?»

«Ma...»

«Un altro ma e si ritroverà a dover studiare il doppio rispetto ai suoi compagni!» ha detto la Une, rigida. «Potete andare! Tranne lei, Iccijojji!»

Sia io che Pan ci siamo bloccati. Lei era sulla porta e la stava aprendo, mentre io ero indietro, insieme ad Arale nella nostra fila di banchi.

«Che cos'ho fatto, stavolta?» si è lamentata mia sorella. «Sono stata buona, come voleva. Aveva detto che ci avrebbe fatto uscire prima e, invece, ci ha fregati! Adesso che cosa vuole? Non posso camminare sulle mani!»

La Une ha allargato le narici ed ero quasi sicuro che le sarebbe uscito del fumo nero, tipo drago.

«Non lei, Iccijojji!» ha ringhiato. «Suo fratello!»

A quelle parole, avrei preferito ricevere un pugno nello stomaco e finire ucciso, piuttosto che dover rimanere da solo con la Une. E perché mi voleva parlare? Di cosa? Ero già un bagno di sudore. Lo sapevo che aveva sentito il mio stomaco brontolare! Era per questo che ce l'aveva con me, accidentaccio!

«Ah, e perché non si spiega meglio, allora?»

Pan è riuscita a smorzare la tensione, ma solo per un istante: la Une ha allungato una mano e puntato un dito sulla porta su cui eravamo accalcati. «VADA FUORI!» ha gridato. Mia sorella non se l'è fatto ripetere due volte e, ancora prima che la Une avesse il tempo di terminare la parola "fuori", lei c'era già, insieme a tutti i nostri compagni nel corridoio, pronta per il pranzo che io non avrei mai fatto.

Solo Arale è rimasta indietro e solo per darmi una pacca di incoraggiamento sulla spalla. «Ti aspetto fuori.» mi ha detto. Le sono stato veramente molto grato: avrebbe potuto andare a riempirsi lo stomaco e prepararsi per le due ore di educazione fisica che ci aspettavano dopo e fregarsene di me.

Ma per il momento ero solo, insieme alla Une, nell'aula 12. Io e lei, a fronteggiarci. E solo per il brontolio di uno stomaco.

«Si avvicini.» mi ha ordinato.

Mi sono mosso in fretta e furia, talmente tanta che sono inciampato in una sedia e sono finito a terra. Fortuna che ho messo le mani avanti o sarei dovuto tornare in infermeria col naso rotto e questa volta davvero.

«Si alzi in piedi, soldato!» mi ha detto lei, rigida, portandosi le mani dietro la schiena, come se avessi fatto apposta a cadere. Con il ginocchio e il piede con cui avevo sbattuto doloranti, ho ridotto ancora le distanze tra me e la Une e, più mi avvicinavo, più la vedevo diventare grande come uno spietato drago rosso.

Però, quando le sono stato a pochi passi, è stata lei ad allontanarsi ed ha ripreso il suo posto dietro la scrivania, dove ha chiuso il libro da cui aveva preso la sua spiegazione. «Mi è arrivato un permesso da parte dell'infermeria stamattina, soldato Iccijojji, per via... di un controllo medico.» ha detto le ultime parole come se fossero state disgustose.

«Un... controllo medico?» ho ripetuto, dato che non credevo alle mie orecchie.

«Non ne sa niente?» ha ribattuto, acida, guardandomi con una certa ironia.

«No, cioè... sì, lo so, ma... non ce l'ha con me... ehm... per il mio stomaco?»

Avrei fatto meglio a tacere: la Une mi guardava come se avesse davvero potuto incenerirmi sul posto.

«Fa anche lo spiritoso...»

«No, davvero! Prima il mio stomaco ha brontolato e...»

«SILENZIO!»

Non me lo sono fatto ordinare di nuovo. Accidenti! Mi ero scavato la fossa da solo. Adesso mi avrebbe chiesto per cosa era quel controllo e io avrei dovuto mentire? Avrei dovuto dire la verità? Sentivo un caldo pazzesco, avrei voluto scappare, ma i miei piedi erano saldamente ancorati a terra.

«Ne conosco di tipi come lei, Iccijojji!» mi ha detto, in tono accusatorio. Ho ricambiato il suo sguardo per un paio di secondi, mentre cercavo nella mia testa il significato di "tipi come me": tipi succubi della propria sorella? Tipi che finiscono in infermeria un giorno sì e l'altro pure?

«In... in che senso?» ho avuto il coraggio di balbettare.

«Furbi che credono di poter saltare i propri doveri facendosi aiutare da persone come Ramazza e dall'infermiera Johnson!» la Une ha sbattuto una mano sul tavolo, facendomi sobbalzare. «Ne conosco tanti come lei, glielo assicuro, Iccijojji. E le assicuro anche che non hanno vita facile, con me!» ha stretto gli occhi in modo minaccioso e io mi sono limitato a deglutire, impaurito.

«I-io... io non... faccio il furbo.» mi sono ritrovato a balbettare.

«Ah, no? E come mai la Johnson ha sentito il bisogno di firmarle un permesso?»

Ecco. Era il momento di scegliere: monti Paoz o punizione della Une? Ripensando alla reazione di mamma, forse sarebbe stata meglio la punizione della Une. Per questo sono rimasto zitto.

Il mio sguardo si è abbassato sui miei piedi.

«Bene...» ha continuato la Une, in tono flautato. «Credo che lei abbia bisogno di una punizione, non è d'accordo?»

Non ho risposto.

«Si metta sull'attenti, Iccijojji!»

Ho ubbidito.

«Alzi meglio quella testa, non vede che ce l'ha attaccata al petto?» ha detto, esasperata.

Ho cercato di seguire le sue indicazioni. Molte delle cose che facevo non andavano bene: i piedi non uniti, le braccia troppo ciondoloni, le espressioni che avevo. Quando è stata soddisfatta del lavoro – quando cioè ero in una scomodissima posa da cui non vedevo l'ora di liberarmi – mi ha ordinato: «Rimarrà così per le prossime cinque ore.»

Al che ho perso la posizione e sgranato gli occhi. «C-come?»

«Mi ha capito benissimo.» ha risposto lei, acida. «Adesso si rimetta immediatamente in posizione. SI MUOVA!»

Non me lo sono fatto ripetere due volte. Sudavo come un maiale e, per rimettermi come prima, ho dovuto fare la stessa fatica che ho fatto la prima volta.

La Une, per tutto il tempo, mi ha addirittura impedito di sbattere le palpebre e lei è rimasta con me, seduta dietro la scrivania e io, rigido, dovevo rimanere lì, di fronte a lei. Ci siamo squadrati per non so quanto tempo, lei bella spaparanzata ed io rigido in quella scomoda posizione senza neanche potermi grattare. C'erano momenti in cui ero nel panico più totale, per esempio quando cominciava a prudermi il naso o un tallone. Avrei voluto gridare, spostarmi, ma gli occhi della Une mi perforavano e congelavano.

Il mio respiro si era fatto affannoso solo dopo mezz'ora e le lacrime lottavano per uscire dai miei occhi per il dolore ai polpacci costretti a quello sforzo inumano. Avrei voluto gridare, solo per accorgermi che gridare non sarebbe stato abbastanza. Mi formicolavano le mani e facevano male le ginocchia, oltre al fatto che il mio stomaco continuava a brontolare senza sosta. Cosa avrei dato per sedermi, con tante sedie poco dietro di me! Ma niente, la Une mi guardava, in silenzio, da dietro la sua cattedra e io speravo che si alzasse e dicesse di avere una lezione per cui la punizione era sospesa.

Ma non l'ha mai fatto. Una volta ho flesso le ginocchia, ne avevo bisogno, ma lei se n'è accorta e mi ha dato un'altra mezz'ora di punizione.

«Ad ogni infrazione, le aggiungerò una mezz'ora, che ne dice?»

Avrei voluto risponderle che era una pazza sadica, ma non ho fiatato: credevo che avrei solo risolto di farla arrabbiare ancora di più. Non ho fatto niente. Credevo che, anchilosato com'ero, probabilmente mi sarei soltanto fatto più male o spezzato qualcosa. E un buon odore di pollo aveva anche cominciato ad entrare dalla finestra, rendendo il brontolio del mio stomaco ancora più selvaggio.

Ho atteso ancora. Non sapevo che ore erano, ma ad ogni istante che passavo lì, credevo che fossero passate delle ore. Ogni tanto arrivavo a chiedermi se non fossero già passate e la Une continuasse a tenermi lì. Eppure no, perché la campanella non suonava mai e pregavo perché lo facesse, che scandisse il mio tempo.

Invece, aveva suonato quella della fine del pranzo e di ripresa delle lezioni. Solo un'ora. Era passata un'ora e io ero già stremato, oltre che quantomai affamato.

Non so come ho retto per un'altra ora. Non so perché il mio povero stomaco vuoto non sia stato un buon motivo per la Une per trattenermi ancora, ma sono stato felice che sia stato così, altrimenti, probabilmente non potrei essere qui a scriverne.

Le ho provate tutte, cercavo di distrarmi, di pensare ai miei a casa, alla mamma e ai monti Paoz per darmi maggiore forza, ai miei compagni che giocavano in palestra. Ma niente riusciva a farmi dimenticare il peso sulle ginocchia. Niente riusciva a distogliermi dai miei polpacci brucianti o dalla mia spina dorsale leggermente piegata all'indietro o, ancora, ai piedi formicolanti e decisamente troppo caldi.

Avevo i lacrimoni agli occhi, non solo perché dovevo tenersi sbarrati e non ci riuscivo. Mi pizzicavano e, non appena gli occhi della Une si spostavano di un millimetro, li sbattevo un po' e poi tornavo a fissare intensamente la lavagna sgombra.

Non sono arrivato alla fine della seconda ora. Sono crollato.

«Non ce la faccio.» ho piagnucolato, mortificato. «Mi dispiace, lady Une.»

«Si rialzi subito in piedi, Iccijojji!» ha ribattuto lei. Volevo piangere, volevo andarmene. Perché farmi fare tutto quello?

Mi sono ridotto a supplicare, mentre sentivo i miei muscoli sospirare di sollievo, se i muscoli potessero sospirare, certo. «La prego, lady Une, non ce la faccio!»

Ma lei non ha voluto sentire ragioni. Ero allo stremo, avrei voluto scappare e stavo piangendo come un bambino. Sì, stavo piangendo. E mi vergognavo di me stesso, della mia debolezza, senza che lei ci mettesse quel suo sguardo impietoso e cattivo.

«Si rialzi immediatamente!» mi ha detto. Non l'avrei mai convinta. «E la smetta di piangere. Un vero uomo non piange!»

Già, un vero uomo, forse. Ma io sono solo un ragazzino... ho dodici anni, anche se in quel momento mi sentivo piccolo, un pulcino indifeso, un essere inutile, come mi diceva spesso Pan. Mi ricordavo del nonno, quando mi chiamava "gelatina". Forse è per questo che ho trovato la forza di rialzarmi e, forse, è anche per questo che sono svenuto.


Quando mi sono risvegliato, ero ancora una volta in infermeria. Mi hanno risvegliato delle urla. Era una voce di donna, una voce alterata e irosa.

«Mi chiedo come le sia venuto in mente!» diceva. «Un ragazzo così giovane! Lei è pazza, lady Une! Pazza!»

Sentire quel nome mi ha fatto aprire gli occhi di scatto e mettere seduto. Ero sullo stesso letto dove ho passato la notte precedente e, accanto a me, c'era Arale.

«E tu che...» non mi ha fatto finire. Mi ha semplicemente premuto una mano sulla bocca e fatto cenno di stare zitto.

«Ho il diritto di insegnare ai miei studenti la disciplina, infermiera!» gridava la Une, di rimando, intanto. «Non le permetto di criticare i miei metodi!»

«Lei non può togliere la salute a questi poveri ragazzi! Ma dove ce l'ha il cuore?»

«Ho tutto il diritto di punire i miei studenti per le trasgressioni!» continuava la Une. Dovevano essere nell'ufficio della Johnson, perché l'infermeria era totalmente deserta e scura, se non fosse stato per la presenza di mia e di Arale. Devo ammetterlo: quella ragazza è davvero dolcissima. Si comporta come una vera amica anche se ci conosciamo da così poco. «E lei ha il dovere di fargliele rispettare!»

Ho sentito il rumore di una scrivania che tremava, forse perché la Johnson le aveva dato un pugno. «Io li curo i suoi studenti!» gridava, intanto. «E lei ha il dovere di non farli ammalare con i suoi metodi da caserma militare!»

«Le posso ricordare che questa è una caserma militare?»

«Sono dei ragazzini!» ribatteva con maggiore forza la Johnson. «Sono dei ragazzini, non degli adulti! Lei non può mettere in pericolo la loro salute per punirli! Lo capisce, o no?»

«Il regolamento non vieta di certo di farli rimanere in piedi fermi e zitti, no?»

«Il regolamento vieta di dar loro punizioni che possano attentare alla loro salute! E attentare alla salute, significa farli ammalare in qualunque modo, lady Une!»

«E vieta anche di coprirli e far finta che abbiano malattie inesistenti per avere dei permessi da lei!»

«MA COME SI PERMETTE DI CRITICARE LA MIA PROFESSIONALITA'?» il ruggito della Johnson ha fatto tremare sia me che Arale.

«E' uno scontro all'ultimo sangue...» ha bisbigliato, guardando con aria grave la porta chiusa dell'ufficio. Non ho risposto, mi sono limitato ad annuire e ho pensato che, se la Johnson si esponeva così tanto per un singolo studente, l'ultimo arrivato, allora aveva ragione Alex, a dire che era a posto.

«Lei l'ha sempre fatto!» ribatteva la Une.

«Ora la smetta di offendermi! Sono una persona puntigliosa e scrupolosa!» ha sbottato la Johnson. «Se sento che i miei pazienti hanno bisogno di passare una nottata in osservazione, allora gliela faccio fare e me ne infischio della sua bandiera!»

«Q-questa è...» la Une balbettava. Ebbene sì, l'ho sentita proprio balbettare. Questo credo che sia un evento da ricordare. «QUESTA E' INSUBORDINAZIONE!»

«NO!» ha gridato di rimando la Johnson. «È pararle il culo, mia cara direttrice!»

«Ma... ma che diavolo dice, Johnson?» la Une mi è parsa allibita. «Spero che lei abbia un buon motivo per queste sue parole oltremodo oltraggiose!»

«Sa quante volte ha portato qui alunni, dicendo che non sono stati in grado di reggere alle sue punizioni? Lo sa quanti alunni hanno detto che lei li fa sgobbare come muli e li ricovero per stress ed esaurimento nervoso, eh? Quante volte l'ho denunciata? Quante volte ho mandato al Generale le cartelle cliniche dei suoi studenti? MAI! E le dirò di più: se viene un'ispezione, lei è fottuta, le verrà tolto il posto! E sa che le dico? Che se lo meriterebbe!»

«Johnson, le impedisco di...»

«Le do un ultimo avvertimento, colonnello Une: continui su questa strada e la prossima persona con cui parlerò, sarà il Generale, chiaro?»

Io e Arale ci siamo scambiati un'occhiata carica di ammirazione: la Johnson era la persona più coraggiosa che avessi mai visto in vita mia.

Abbiamo aspettato una risposta che non è mai arrivata. La serratura è scattata e la porta si è aperta. Mi sono ributtato giù sul cuscino e ho serrato gli occhi, mentre Arale cominciava a strizzare un panno dentro la tinozza accanto al mio comodino.

«Per oggi finisce così, Johnson.» ha detto la Une, come se fosse stata lei ad aver avuto l'ultima parola. Un attimo dopo, il suo passo cadenzato si è allontanato da noi e, solo quando la porta dell'infermeria si è richiusa, ho osato riaprire gli occhi.

Ho sentito il pluk del panno che veniva buttato di nuovo in acqua e Arale sospirare.

«Puttana!» ho sentito sibilare alla Johnson, mentre, con passo pesante e marziale, si avvicinava a noi. Mi ha guardato. «Ah, sei sveglio...» ha detto, come se fosse stata una colpa.

Si è messa al mio fianco, dal lato opposto a quello di Arale e ha preso da dentro un armadietto un apparecchio per la pressione. «Devi aver avuto un calo di zuccheri.» mi ha detto, mettendosi lo stetoscopio nelle orecchie. «Non ti ha fatto manco mangiare quella... lady Une!» l'ha detto con un tono così inviperito che mi ha fatto capire che non erano quelle le parole che voleva usare.

«Ma sta bene?» ha voluto sapere Arale, in tono preoccupato.

La Johnson ha alzato la testa e ho visto che aveva gli occhi sgranati. «Certo che sta bene! E chi la ammazza quella?»

«Guardi, infermiera...» ha risposto Arale, titubante. «Che io parlavo di Kenny!»

«Ah.» ha risposto lei, torva, ha cominciato a strizzare quell'aggeggio dell'apparecchio che fa gonfiare la fascia. Poi ha aggiunto, in un soffio: «non ci posso credere!»

Il mio cuore è sobbalzato. «Sto... sto così male, infermiera?» ho chiesto, preoccupato. Lei mi ha guardato, come se mi avesse visto solo in quel momento.

«Ma no!» ha risposto, sgarbata. «Stai benissimo, non mi hai sentito?»

«Ma allora... a cosa non può credere?»

Lei ha smesso di strizzare e la fascia sul mio braccio ha cominciato a sgonfiarsi. Ha soltanto scosso la testa, in risposta. Dopo diversi "pi-pi" prodotti dalla macchina, la Johnson mi ha tolto la fascia.

«Tutto a posto.» ha detto. «Dovrei fare altri esami, ma non posso senza il dottore. Dovrò aspettare la visita medica degli studenti.» ha scosso le spalle e si è messa a sistemare l'apparecchio della pressione nella sua scatola, senza guardare nessuno in particolare.

Mi sono messo seduto, sistemandomi la manica della camicia. «Me ne posso andare?»

Lei, però, non mi ascoltava. Mentre si rimetteva lo stetoscopio dietro al collo, la sentivo borbottare: «Non può andare avanti così per sempre... non può!»

«Ehm... infermiera?»

Niente.

«Infermiera?» ha provato anche Arale.

Ancora Niente.

«Infermiera?» l'abbiamo chiamata insieme e lei si è girata di scatto verso di noi.

«Che c'è?» ha chiesto, come se non avessimo provato a chiamarla così tante volte.

«Posso andarmene?»

Lei ha corrugato la fronte, poi ha annuito, svogliatamente. «Sì, sì... fatti una bella mangiata e una buona dormita...» ha sbuffato. «E smettila di metterti nei guai!»

Ho annuito, chiedendomi, però, come avrei fatto a non mettermi nei guai con mia sorella che ci metteva del suo, unito alla Une che puniva in quei modi terribili.

Con Arale, ci siamo diretti verso la mensa, dalla quale arrivava un odorino niente male. Di nuovo, il mio stomaco ha brontolato.

«Sono qui da due giorni e non vedo l'ora di andarmene!» ho confessato, abbassando lo sguardo. Arale ha alzato lo sguardo su di me. «Non sono tagliato per la vita militare...»

«L'hai detto tu che sei qui da due giorni!» ha ribattuto lei. «Come fai a sapere se sei tagliato oppure no?»

«Andiamo, guarda come sono ridotto! Non riesco neppure a stare in piedi, fermo, per cinque ore!»

«Cinque ore è proibitivo, Ken!» ha sbottato lei, severamente. «Noi siamo ancora piccoli... e nemmeno tanto addestrati.»

«Lo so, ma...» come potevo spiegarle che, per me, era stato umiliante aver addirittura pianto di fronte alla Une? Ho preferito tacere la mia vergogna e tenerla tutta dentro. «Pan ce l'avrebbe fatta!» ho detto, convinto.

«Tu ne sei così sicuro?»

«Pan è fortissima!» ho esclamato, fermandomi sul pianerottolo tra il primo e il secondo piano e costringendola a fare lo stesso. «Andiamo, Arale! Non hai visto che è riuscita a fare? Ha tenuto sollevata una porta con una mano sola! Ha preso di peso un professore delle elementari mesi fa, uno grosso! E ha vinto anche un torneo... uno di lottatori professionisti!» ho specificato. Lo pensavo e lo penso tuttora: «Lei sarebbe capace.»

Arale mi ha guardato tristemente, ma capivo dal suo sguardo che non riusciva a comprendere il mio disagio. Non la biasimavo per questo: lei non aveva avuto per tutta la vita un nonno e una sorella sempre disposti a disprezzarla per la sua poca resistenza. «Mica siete uguali...» mi ha detto.

«A volte vorrei avere metà della sua forza.» ho mormorato, abbassando lo sguardo.

«Ed essere altrettanto prepotente? Scusami, Kenny, se te lo dico, ma secondo me la forza non è tutto nella vita, né la resistenza!»

«Ma non andrò mai avanti qui!»

Lei ha arricciato le labbra. «Senti,» ha detto, appoggiandomi una mano sul gomito. «io non lo so se andrai avanti, ma non puoi mollare senza provarci, no?»

Ho continuato a tenere gli occhi bassi e, per un po', l'unica cosa che riempiva il silenzio, erano i nostri respiri. «Dai, andiamo a mangiare...» ha continuato, abbozzando un sorriso allegro. «Sto morendo di fame! E smettila di tenere il muso. Vedrai che le cose andranno meglio!»

Spero tanto che abbia ragione, perché, per come si stanno mettendo le cose, credo che raccogliere pannocchie sia il minore dei mali.



*****


In mostruoso ritardo come al solito – voglia di lavorare saltami addosso – posto il sesto capitolo. Credo di aver esagerato facendo svenire Kenny, ma è un fatto molto importante per lo sviluppo della trama. Non dico altro, anche se credo di avervi confuso. ^^


Prof: quando dici che accadrà qualcosa che turberà la normale vita accademica, hai perfettamente ragione. L'idea è proprio quella, poi trattandosi di Pan, Alex e Arale puoi metterci la mano sul fuoco. I prossimi capitoli saranno un po' più di passaggio, ma faranno capire qualcosa di più sulla trama – anche se chiamarla trama non è propriamente corretto, almeno per come la sto sviluppando. Il bibliotecario e l'infermiera, sì, sono personaggi miei e sono davvero contenta di essere riuscita a caratterizzarli bene (gli originali mi spaventano sempre un po' XD). Per le tue domande non posso ancora rispondere. Vorrei solo chiederti che cosa ti ha fatto pensare che ad Alex piaccia la Noin. ^^ Aspetto con impazienza i tuoi pareri!


Inoltre, ringrazio _Pan_ che ha inserito la storia tra le sue preferite.


Al prossimo mese (o forse dopo, dipende dal livello di pigrizia XD),

Luine.

  
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