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Autore: Orso Scrive    20/01/2023    1 recensioni
Quando due anime vibrano di un amore vero e intenso, che arde nel profondo, è destino che si ritrovino sempre, oltre la vita, oltre la morte...
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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30.

 

 

Orso mandò giù una generosa dose di whiskey aromatizzato al miele. L’alcol gli scese lungo la gola, senza quasi sortire nessun effetto apprezzabile – se non si teneva conto del suo fegato che, lentamente, bevuta dopo bevuta, dava il proprio addio al mondo. La prima volta che lo aveva assaggiato, tanti anni prima, si era sentito bruciare e ritorcere le budella, e aveva provato la sensazione di un fuoco acceso sulle guance e sulla fronte. Per finire un bicchierino scarso, quella volta, gli ci era voluta quasi una mezz’ora intera. Ora gli sembrava di aver ingollato qualcosa di poco più forte dell’acqua.

«Vecchio Jack, di questo passo mi toccherà sostituirti con qualcosa che faccia maggiore effetto», borbottò, guardando la bottiglia. Poi fece un sorriso rassicurante. «Figurati, non lo farò mai, non preoccuparti.»

Era seduto nel suo salotto, sul divano. Si era tolto di dosso gli abiti pieni di polvere e ne aveva indossati di puliti, sostanzialmente identici a quelli di prima: jeans, camicia e felpa. Aveva anche cercato di riordinare barba e capelli, dopo esserseli lavati alla meglio. Con risultati poco meno che scarsi.

Il gatto faceva le fusa, acciambellato sulla sua poltrona. Nel camino scoppiettava ancora qualche ciocco di legno. Sul display dello stereo lampeggiava il segnale della pausa, quasi che John Carpenter non vedesse l’ora di ricominciare a pestare sulla tastiera per riempire l’ambiente con la musica delle sue colonne sonore.

Orso puntò lo sguardo contro la finestra. Per una volta, non c’era più nebbia a premerci contro. Cosa rara, da quelle parti.

Più unica, che rara.

«Forse la nebbia faceva parte della maledizione di Villa Mayer, o quel cavolo che era davvero», borbottò. «Magari ora è andata via…»

Il gatto sollevò una mezza palpebra, non troppo interessato. Ripiombò subito nel sonno, all’inseguimento di topolini e uccellini onirici.

Orso si domandò se la nebbia sarebbe tornata ancora a fargli compagnia, o se fosse svanita per sempre. Sperò che non fosse così. Avrebbe sentito la sua mancanza. Ma magari era un segno: era venuto il momento di cambiare davvero vita. Doveva lasciarsi alle spalle tutto quello che gli era stato familiare fino a quel giorno, e gettarsi in nuovi tipi di avventure e di scoperte.

«Forse, appena i miei attuali clienti saranno partiti, farò meglio a chiudere l’affittacamere per un tempo indeterminato», si disse. «Mi sa che questo posto, di storie da raccontare, non ne ha più. Non sarebbe credibile, se ne avesse ancora. Dovrò andarmene a cercare altre da altre parti.»

Sorrise.

La cosa, in fin dei conti, non gli dispiaceva affatto. Avrebbe trovato altrove il materiale necessario per arricchire i suoi racconti, per farne nascere di nuovi, per dare vita a storie fantastiche in cui non si sarebbe più capito dove avesse termine il reale e inizio la fantasia. Sempre che sia davvero possibile discernere appieno tra l’una e l’altra cosa. Dopotutto, il mondo è un libro aperto: basta saperlo leggere, cogliendone le frasi migliori per poterle adoperare. Rubare un po’ qua e un po’ là per scrivere qualcosa di inedito, per imprimere sulla carta parole e frasi sempre nuove, sempre uguali e sempre diverse.

In fondo, scrivere non è altro che rubare pezzettini di un po’ di tutto, un po’ a tutti. A qualcuno di meno, a qualcun altro molto, molto di più. E, per quello che lo riguardava, non intendeva smettere: avrebbe continuato a osservare, rubare, raccontare.

Avrebbe continuato a scrivere.

Bevve un altro sorso di vecchio Jack addolcito dal sapore del miele. Il suo pensiero corse a Sophia.

Non riusciva ancora a capire se fosse stato lui, a salvare la vita di quella donna, portandola via da Villa Mayer, o se fosse stata lei a salvarlo, buttandolo fuori dalla finestra. Magari entrambe le cose si potevano considerare vere.

«Di sicuro, di voli dalla finestra ne ho avuti abbastanza», borbottò, rivolto al volto di Jasper Newton Daniel (per gli amici, Jack) impresso sul lato della bottiglia squadrata.

Ciò di cui Orso poteva dirsi certo, era che quella donna lo intrigava. Anche se l’aveva definita una vecchia cariatide, quella strana tizia gli piaceva. Gli piaceva tanto. Gli piaceva il mistero che le aleggiava attorno, gli piacevano gli arcani segreti che custodiva dentro di sé… e, lato non certo da scartare o da tenere in bassa considerazione, gli piaceva il suo corpo. Quando se l’era caricata in spalla e l’aveva sentita scalciare a quel modo, agitandoglisi addosso, non gli era affatto dispiaciuto.

«Magari potrebbe essere mia nonna», bofonchiò. «Ma è tanto di guadagnato, chissà. Non sono certo uno di quelli che si fanno fermare dalla differenza di età, basta che non ci siano minorenni di mezzo… e, in questo caso, mi pare proprio di no.»

Si domandò dove fosse in quel momento. Si erano separati all’ingresso del piccolo borgo. Lui e gli altri quattro avevano proseguito verso l’affittacamere, mentre Sophia era tornata a casa, dal dottor Bernasconi. Prima, però, lei gli aveva preso la mano nella sua e aveva sussurrato un: «Grazie.»

Lui non aveva potuto fare a meno di trattenersi.

«Ci vediamo», aveva risposto. Poi, quasi a cercare conferma: «Va bene?» aveva aggiunto.

«Va benissimo», aveva risposto Sophia, prima di lasciarlo andare.

Dentro di sé, provò un’involontaria punta di gelosia. Non poté farne a meno, sapendola insieme a quel vecchio rognoso. Avrebbe tanto desiderato averla lì con sé.

Sì, Orso lo avrebbe desiderato davvero tanto.

Un altro sorriso gli illuminò lo sguardo.

 

* * *

 

Sophia trovò il dottore ancora nel salotto. Era sprofondato in una logora poltrona di pelle, tutta macchiata e lacerata dal troppo uso, e sembrava più vecchio e fragile che mai. La stanza era fredda, perché il vecchio psichiatra aveva lasciato spegnere il camino, e il calore si era dissipato alla svelta.

«Joseph», lo chiamò, con un tono di voce non troppo alto ma nemmeno basso. Il tono che si utilizza quando non si è davvero sicuri che la persona invocata possa sentire.

Lui si riscosse. Non stava dormendo. Era soltanto stato catturato e avvolto da chissà quali pensieri. Da sotto le folte sopracciglia la guardò con aria interrogativa e curiosa, studiando il suo aspetto trasandato e la polvere di cui era ricoperta da capo a piedi.

«Joseph, è fatta», disse la donna.

Gli si avvicinò e si inginocchiò di fronte a lui. Gli posò la mano sinistra sul ginocchio, e con l’altra gli accarezzò il vecchio viso rugoso.

«Ho guardato oltre… mi sono addentrata nell’ipervelo…» sussurrò. «Ho parlato con Edith Mayer e con Marta, e le ho aiutate ad accettare la loro condizione. E ho visto anche tante altre cose… cose che riguardano il passato, il futuro e il presente. Il mio, il tuo… quello di tutte le anime. Ed è vero, Joseph, è tutto vero…»

Il vecchio chiuse per un istante gli occhi, beandosi del tocco delicato della donna con cui aveva condiviso per intero quell’esistenza terrena. Una delle tante. Lo aveva sempre sospettato, ma ora ne aveva la sicurezza.

Li riaprì.

«Troppo tardi per farne una pubblicazione scientifica seria, immagino», borbottò, ritrovando per un momento i suoi modi da uomo dedito allo studio e alla ricerca.

Sophia sorrise con dolcezza. Non smise di accarezzarlo.

«E a che servirebbe?» disse. «Come ti dissi già una volta, alla scienza compete questo mondo. Non può spingersi oltre, in ciò che non sa e non saprà mai spiegare.» La sua mano scese a cercare quella del vecchio e la strinse. «L’importante, ciò che davvero conta, Joseph, è che queste cose le sappiamo io, te e coloro a cui importano davvero. Per gli altri, sarà una scoperta incredibile e stupefacente, che avverrà coi tempi di ciascuno: qualcuno la accetterà, altri vi si opporranno… come è sempre stato, da quando le anime si sono incarnate per la prima volta nelle forme degli esseri umani.»

Bernasconi aggrottò le sopracciglia cespugliose.

«Chissà poi perché proprio negli esseri umani», si domandò, pensieroso e perplesso. «Chissà perché non in altri animali. Perché non in un topo, per esempio.»

«Chi può dirlo?» fece Sophia. «Forse, qui sulla Terra, era la forma più adattabile, quella migliore. In altre parti dell’Universo… chi può dirlo.»

«Già, chi può dirlo…» ripeté il dottore, con voce flebile.

Prese un lungo e faticoso respiro. La voce gli uscì quasi deformata dalla stanchezza che, sempre di più, si faceva largo dentro il suo corpo.

«E, comunque, sono incorreggibile», disse. «Ancora adesso, a questo punto, continuo a pormi interrogativi. Non posso farne a meno…»

Sophia gli si fece più vicina.

«Questo perché le anime non invecchiano mai», lo rassicurò, con un dolce sussurro. «Si arricchiscono, crescono, diventano consapevoli… ma restano sempre le stesse. Le anime sono antiche, non vecchie. Ricordi che io sono antica?»

Lo psichiatra annuì con debolezza.

«Anche tu lo sei», andò avanti lei. «Ora lo so. Forse l’ho sempre saputo, ma non te l’ho mai detto. E, questa notte, ho incontrato altre anime antiche e consapevoli della propria antichità…»

«Il tizio di quella specie di alberghetto? I due sbirri?» domandò Bernasconi, curioso.

Sophia assunse un’aria pensosa.

«Forse…» sussurrò. «Di due di loro sono abbastanza certa, di uno forse un po’ meno, non so, ma lasciamogli il tempo di accettare… forse una di quelle anime ha ancora diversa strada da compiere, prima di potersi davvero dire antica e consapevole: ogni anima ha bisogno di percorrere la propria strada, con i propri tempi. Ma non sono loro che avevo in mente, adesso.»

Il dottore emise un flebile singulto, quasi una specie di assenso. La sua testa parve annuire.

«Sophia…» soffiò, con la voce che moriva a poco a poco, «…Sophia… tu allora puoi promettermi che… che ci ritroveremo ancora? Perché, anche se non ho… se non ho mai avuto il coraggio di dirtelo… io ti ho sempre amata… e adesso…»

La delicata promessa che il dottor Joseph Bernasconi lesse negli occhi meravigliosi, neri, profondi e antichi di quella donna enigmatica, fu una risposta che valse più di mille parole. Perché quando due anime vibrano di un amore vero e intenso, che arde nel profondo, è destino che si ritrovino sempre, oltre la vita, oltre la morte.

Il vecchio non lasciò più andare quegli occhi. Fissò dentro gli occhi di Sophia, vi si immerse, mentre il loro nero senza eguali – quel nero così bello e confortante – si spandeva tutto attorno a lui, avvolgendolo come un caldo abbraccio.

Un nero profondo, remoto, oltre il quale anche lui, alla fine – o magari all’inizio, nel mezzo del cammino, chissà – poté vedere.

 

* * *

 

La cicca consumata della sigaretta non aveva ancora quasi toccato il terreno del cortile che Aurora già se ne stava accendendo un’altra. Una fiammata, uno sbuffo di fumo e l’odore di carta e di tabacco raggiunse ancora una volta le narici del tenente.

Alberto spostò il peso da un piede all’altro. La ghiaia scricchiolò sotto le sue suole. Cric-cric. Aveva cercato di tenere il conto delle sigarette che Aurora si era accesa da quando erano tornati e aveva recuperato un accendino nuovo dalla sua Punto, ma aveva rinunciato.

Impresa impossibile.

La notte era fredda. La nebbia, diradandosi, aveva lasciato il posto a un cielo sereno, di una bellezza incomparabile. Ma la bellezza ha i suoi lati negativi, a partire dalla temperatura, che in sua presenza tende ad abbassarsi oltremisura, quasi desiderasse preservarla il più a lungo possibile. Tutti e due continuavano a sbattere le ginocchia ed erano scossi da tremiti violenti. Però non avevano nessuna intenzione di rientrare nella loro stanza.

«Direi che, come primo giorno di vacanze, si è rivelato più interessante del previsto», commentò la giovane donna, tra un tiro e l’altro. «Come preludio, è stato divertente. Vedremo il resto…»

Manfredi, che si era appoggiato al cofano della macchina parcheggiata, la fissò con tanto d’occhi.

«Devo commentare per davvero?» sbottò. «No, perché, insomma…»

«Sto scherzando, Manfredino!» rise lei, interrompendolo. «Ti giuro che, per almeno dieci giorni, con le emozioni forti sono a posto! Voglio passare il resto di questa bella vacanzina distesa a letto, a farmi coccolare da te. È ancora valida la tua proposta di farmi un massaggio, sì?»

Alberto non aveva in mente il massaggio da farle, in quel momento. Era rimasto fermo alla prima parte della sua frase.

Per almeno dieci giorni…

Preferì sorvolare. Non aveva ancora imparato a riconoscere quando lei facesse sul serio o meno, e non gli parve il momento di indagare troppo a fondo, adesso. Sapeva più che bene che avrebbe potuto pentirsene.

Pentirsene amaramente.

Inoltre, aveva domande ben più pressanti, a gironzolargli nella mente.

«Ma secondo te è stato tutto vero?» domandò. C’era un vago tono di scetticismo, nella sua voce. «Intendo, è accaduto realmente, o ce lo siamo soltanto immaginato?»

Aurora fece un sorrisetto.

«Sei forse convinto che Orso ci abbia rifilato qualche droga allucinogena, con la cena? Magari nel ripieno di quelle sue fantastiche polpette?»

Manfredi ripensò al tipo.

«A vederlo, ne sarebbe senza dubbio capace…» commentò.

Aurora gli si avvicinò e gli passò il braccio attorno alle spalle. Si tolse di bocca la sigaretta, sorreggendola tra le dita della mano sinistra.

«Manfredino, posso capire il tuo punto di vista, anche se non lo condivido», disse. «Comprendo che, per te, è difficile accettare certe verità. E presumo che provare ad aggrapparti in ogni modo alla realtà che ti è familiare sia una sorta di autodifesa. Ma sento che, prima o dopo, anche tu finirai col renderti conto che il mondo non si limita a ciò che puoi vedere e toccare giorno per giorno con i tuoi occhi e con le tue mani.»

Aurora gli spazzolò la polvere che gli copriva gli indumenti.

«Però, ora come ora, devi almeno riconoscere che questo pulviscolo non è il frutto di una droga. E non lo sono nemmeno quei due ragazzi che Orso è stato così gentile da ospitare nel suo B&B senza chiedere nulla in cambio.»

Alberto mugugnò qualcosa di incomprensibile. Gli sarebbe piaciuto dire che non era affatto così, che lui non aveva una mente chiusa e tutto il resto. Ma si rese conto che sarebbe suonato fasullo.

Perché lui, nonostante tutto, continuava a mantenersi scettico. Per quello che lo riguardava, non era successo nulla di più che il crollo di un vecchio edificio e pochi altri fenomeni. Fenomeni che adesso faceva fatica a spiegarsi, ma che di certo una spiegazione logica e razionale dovevano pur averla, da qualche parte.

Sarebbe bastato cercarla.

Tanto per cambiare, fu come se Aurora gli avesse letto nel pensiero.

«Un giorno, io lo so, anche tu finirai coll’accogliere in te certe verità. È solo questione di tempo. E io sarò sempre con te per darti una manina, Manfredino. Non so se lo sai, ma stiamo entrando nell’Era dell’Aquario: l’era della consapevolezza nuova. Sono certa che tutto questo, in un modo o nell’altro, influirà anche su di te.»

Prima che lui avesse avuto il tempo anche soltanto per riflettere su quelle parole, Aurora lo aggirò e lo avvolse in un caldo e stretto abbraccio. Gli si premette addosso. Una delle più belle sensazioni possibili.

«Grazie, Manfredino», sussurrò. «Grazie per esserti preoccupato per me. Stavi rischiando tutto per correre ad aiutarmi…»

«E lo rifarei per sempre», disse lui, parlando contro la sua spalla.

Avrebbe desiderato chiederle spiegazioni. Su come avessero fatto lei, Daniele e Valeria a cavarsela senza un graffio, per esempio. O su che cosa avessero davvero visto, in quella strana notte. O che cosa significasse, quell’allusione alla nuova era che si stava preparando nel mondo. Queste e altre mille domande che gli affollavano la mente.

Ma non era il momento.

Restarono abbracciati, in silenzio, mentre all’orizzonte i primi raggi dell’aurora tingevano di viola il cielo.

 

* * *

 

Il getto dell’acqua bollente scrosciava dal rubinetto. Il vapore creava una nube che avvinghiava i due corpi, scaldandoli a poco a poco. La pelle, dopo il freddo intenso e pungente della notte, si arrossava velocemente e diventava pruriginosa, e le vene delle braccia e delle gambe pulsavano gonfie, in risalto sui muscoli stanchi.

Valeria e Daniele non si erano domandati nulla. Non si erano scambiati cenni d’intesa o mezze illusioni. Non avevano provato nemmeno una minima traccia di imbarazzo. Appena erano entrati nella camera dell’affittacamere che Orso aveva messo a loro disposizione, si erano tolti tutti i vestiti, erano entrati nel piccolo bagno e, non appena l’acqua aveva raggiunto la temperatura ideale, si erano lasciati scivolare insieme nella doccia.

Per qualche interminabile minuto non parlarono. Restarono muti, con gli occhi socchiusi, godendo del tepore che li avvolgeva, rinfrancandoli. Si sentirono distendere i muscoli e gli animi, mentre il grande spavento di quella notte defluiva via, nello scarico dove finiva l’acqua sporca e consumata.

Infine, cominciarono a rendersi davvero conto di dove si trovavano. Insieme, nudi, in una stretta cabina che stava diventando bollente.

Le gambe si sfiorarono. Il seno di Valeria, a un movimento, scivolò contro il petto di Daniele e poi restò a premervi contro. Le loro mani si toccarono. I loro inguini uno di fronte all’altro, quasi si cercarono. E i loro occhi si incontrarono, mentre le labbra si distendevano in un sorriso delicato.

Sarebbe potuta essere una stranissima situazione, se soltanto ci avessero pensato. Ma non ci pensarono. Continuarono a non provare nessun tipo di imbarazzo. Non ce ne sarebbero mai stati, tra loro due.

L’istinto prevalse. Si strinsero ancora di più uno contro l’altra. Si abbracciarono stretti e forte, godendo di quella sensazione di pelle su pelle, carne contro carne. I loro cuori poterono battere insieme, mentre l’acqua ribollente continuava a confortarli, ad aggiungere calore esterno a quello che sentivano esplodere dentro di sé.

Ci sarebbe stato il tempo, per fare l’amore. O forse non lo avrebbero fatto mai. Non lo sapevano e non era importante saperlo. Quello che contava, da quel momento e per sempre, era essere insieme. Il fatto di essere completamente nudi serviva soltanto ad accentuare quella sensazione di reciproco e profondo benessere che provavano nell’essere vicini.

Daniele spostò le labbra quel tanto che bastò per trovare la guancia di Valeria e lasciarvi un bacio. Lei lo imitò. Lui gliene diede un altro e lei fece lo stesso. Si guardarono e risero.

«Non credi che sia il caso di smettere di mettere in crisi le riserve idriche mondiali?» sussurrò Daniele, con una nuova risatina.

Anche Valeria ridacchiò di nuovo.

«Forse hai ragione», rispose.

Chiusero insieme il rubinetto, mettendoci sopra la mano nello stesso momento. Anche questo li fece ridere ancora una volta. Per un po’ non si mossero, restando abbracciati a godersi il caldo vaporoso rimasto intrappolato nella cabina della doccia.

Gli occhi di Valeria erano arrossati di stanchezza. Quelli di Daniele erano il loro specchio.

Lui le accarezzò i capelli grondanti, che l’acqua aveva appiattito e incollato alla testa.

«Non hai voglia di fare un po’ di nanna?» domandò.

Lei annuì adagio.

«Forse questa sarà la prima volta da tanti anni che potrò dormire serena», mormorò. C’era un che di incredulità e di paura, nella sua voce. Forse non riusciva ancora a capacitarsi che quella maledizione fosse stata spezzata. «Non riesco a crederci…» soggiunse infatti, a mezza voce.

Lui le avvicinò le labbra alla fronte per darle un altro bacio leggero e gentile.

«Sarà così, vedrai», promise.

La mano di Valeria scivolò lungo la schiena di Daniele e salì a stringergli il muscolo del braccio destro.

«Mi terrai abbracciata, per questa volta?» domandò, con tono quasi supplichevole.

«Questa e tutte le volte che vorrai», la rassicurò il ragazzo. Si morse il labbro, prima di dire ancora: «E tu terrai abbracciato me? Io…» deglutì, cercando le parole adatte per esprimere quello che aveva in mente. Vinse l’imbarazzo. «…io mi sento al sicuro, vicino a te. Prima avevo dentro un senso di vuoto che non mi lasciava mai e che in certi momenti era davvero opprimente, ma ora non c’è più.»

Valeria annuì, senza altre parole. Nel suo sguardo, però, sembrava aleggiare una domanda. Una domanda che non aveva davvero il coraggio di porre.

Uscirono dalla doccia tenendosi per mano, attenti a non scivolare sulle piastrelle gelide e inumidite dalla condensa. Furono percorsi da un brivido di freddo, quando si immersero in quell’ambiente più freddo. Daniele prese un asciugamano e, con estrema cura e delicatezza, tamponò il corpo di Valeria, asciugandolo con attenzione da ogni singola goccia d’acqua. Lei fece lo stesso con lui, attenta a non tralasciare un solo centimetro del suo corpo.

Poi, tenendosi stretti per la vita, si rimirarono nello specchio mezzo appannato. Erano stanchi e sfiniti, arrossati come se l’acqua bollente li avesse cotti. I loro capelli erano arricciati e spettinati, come ogni altro pelo che cresceva sui loro corpi. Sorrisero di rimando alle loro immagini riflesse.

«Siamo noi», disse Valeria. «Quei due lì siamo noi e siamo insieme.»

«Sì, siamo insieme», le fece eco Daniele.

Valeria sorrise.

«E siamo anche belli», constatò.

«Certo», confermò lui, annuendo. Poi ammiccò. «Tu, però, molto più di me.»

«Magari è questione di punti di vista», argomentò la ragazza.

Senza smettere di rimanere allacciati in quel modo, passarono nella camera. Disfarono in fretta il letto e, senza prendersi la briga nemmeno di indossare le mutande, si infilarono così com’erano sotto le coperte. Lenzuola e materasso erano gelidi, ma cominciarono subito a scaldarsi con i loro calori corporei. Si incontrarono proprio nel centro del letto e si avvinghiarono ancora, rannicchiandosi uno contro l’altra, vicinissimi. Le punte dei loro nasi si sfiorarono, i loro corpi si legarono, le gambe si intrecciarono. Le dita si strinsero.

Non dissero nulla. Chiusero gli occhi e cominciarono a respirare in modo sempre più profondo, disteso e regolare. Il sonno cominciò a distendere le sue dolci dita verso di loro.

Era bello stare insieme. Si sentivano al sicuro. Lui era lì per lei e lei per lui. La solitudine che avevano patito per tanti anni si era finalmente dissipata, dissolta chissà dove. Non sarebbero più stati soli.

Si erano cercati senza nemmeno saperlo.

Ora si erano ritrovati.

Prima che il sonno la sprofondasse nei sogni, Valeria trovò il coraggio di esprimere la domanda che l’aveva colta fin dal momento in cui, a rotta di collo, facendosi largo tra le macerie come una specie di Terminator implacabile, quella donna dai capelli rossi li aveva trascinati fuori da Villa Mayer.

«Se io ero Marta», sussurrò, «tu allora…» Non seppe nemmeno se Daniele l’avesse sentita. Forse dormiva già.

Invece era sveglio.

«Non me l’ero mai chiesto», mormorò lui. «Però so che con te sto bene. Mi piaci, Vale… ma c’è anche qualcosa di diverso. Qualcosa di più antico. È come se avessi sempre cercato di raggiungerti. Ora sono felice.»

Fece una breve pausa. Ascoltarono il silenzio, interrotto dai loro respiri.

«Ma per il resto, non so darti una risposta», disse poi. «Io so solo di essere Daniele. E che tu sei Valeria. Adesso conta questo.»

Lei annuì contro il cuscino. Non era troppo morbido – Orso doveva aver tenuto a mano sugli arredi delle stanze – ma era comunque comodo.

«Sì», disse. «Adesso conta questo.»

Si tennero ancora più stretti, avvinghiati in una dolcissima presa, e il sonno scivolò sui loro corpi e sulle loro anime.

Un sonno finalmente libero da angosce e da paure.

Ed entrambi si trovarono a vagare nei contorni irreali e fantastici dello stesso sogno.

Un sogno dove trionfò l’amore e soltanto quello.

 
   
 
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