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Autore: J85    20/01/2023    0 recensioni
Quinto ed ultimo capitolo del pentagono di racconti con protagonista Sara Silvestri.
Nello specifico, si tratta di una mia personale rivisitazione del manga "Cyborg 009", in cui la storia è stata decisamente modificata.
Inoltre, questa storia a capitoli servirà ad esplorare il mio personale universo narrativo, sviluppato durante tutti questi anni di passione per tutti questi anni di scrittura e immaginazione.
Per uno strano scherzo del destino, nove persone, di varie nazionalità e professione, si ritrovano con la propria vita totalmente stravolta dall'essere stati trasformati in mutanti, ognuno con un suo potere specifico.
Ad aiutarli, arriverà proprio la nostra Sara che li addestrerà per affrontare al meglio l'organizzazione criminale nota come Spettro Bianco, in tutta una serie di avventure, compresi what if e crossover.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Cross-over, Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 14

Teschi di cristallo, maschere e dinosauri”




“… Ancora non si hanno indizi sul motivo per cui, tutta l’intera popolazione di questa città, sia letteralmente scomparsa nel nulla, lasciando la città totalmente deserta…”.

La televisione presente nel salotto della villa degli Humana era ormai da qualche ora accesa, fissa sul canale dei notiziari. In quell’istante, la giornalista continuava a parlare dell’argomento che, da almeno tre giorni, aveva sconvolto buona parte del mondo.

Seduta sul comodo divano davanti allo schermo luminoso vi era Sara. Nella stanza insieme a lei erano presenti però solo quattro membri del suo gruppo.

“Che storia assurda!” commentò la bionda, mantenendo lo sguardo fisso verso la tv.

“Come lo è anche la nostra” osservò Chang.

“Sarà, ma ancora non comprendo perché non hai voluto mandare tutta la squadra…” controbatté polemico Jack.

L’italiana, senza scomporsi, gli rispose “Perché questa volta non me la sento di rischiare tutti voi, per lo meno finché non abbiamo informazioni più precise”.

“Comunque ne rimango basito” fu l’ultima parola dell’inglese.

Gli unici mutanti che rimasero in silenzio furono Igor, che si era messo a disegnare con svariati pennarelli, grazie alla sua telecinesi, e Juna, che fissava fuori dalla finestra e, con la testa, sembrava essere lontano miglia e miglia dall’abitazione.


Ad essere realmente distanti dal quartier generale erano gli Humana non presenti. Infatti, aveva da poco raggiunto il paese teatro di quello strano fenomeno. I cinque si trovavano vicini al cartello dove era scritto lo strambo nome della città: Akolaizow.

“Ma davvero volete accamparvi qui? Sono l’unico che ha udito l’assurda vicenda che è capitata ai cittadini di qui? E poi, possibile che quella stupida di Sara, appena sente che accade qualcosa di assurdo nel mondo, deve mandare noi ad investigare?”.

Dunque le polemiche imperversavano anche lì, questa volta ad opera di Bernardo.

“Oddio, Berny!” sbuffò Frédérique “Sei peggio di una prima ballerina!”.

Mentre il messicano riprendeva la sua filippica, Andrea osservava la città poco distante da loro.

“Lo strano è che nessuno ha sentito nulla. Oltre ai giornalisti ora sta arrivando anche l’esercito”.

“A me basta che ci lascino in piace per dormire” esclamò Johnny, mentre assicurava al terreno l’ultimo gancio per tenere tesa la loro tenda.

“Ma allora sto parlando al vento?!” riprese il baffone.

La francese, per evitare di innervosirsi ancora di più, si avvicinò all’americano.

“Merda! Non riesco proprio a sopportarlo quando si mette a fare così!”.

“Non ci pensare. Deve essere tutta questa assurda vicenda che lo manda nel panico”.

I due si misero insieme a fissare le case in lontananza.

“Questa storia mi fa venire in mente un fatto, accaduto dalle mie parti, dove tutti gli abitanti di un villaggio, appena giunti nel nuovo mondo, dopo qualche giorno scomparvero, lasciando solo un messaggio con su scritto CROATOAN”.

Nonostante l’oscura preoccupazione che aleggiava sui pochi presenti, la notte passò tranquilla e in quiete dentro la tenda da campeggio.

La mattina successiva, gli uomini in rosso e giallo avevano già deciso di partire in esplorazione del centro non più abitato e, sebbene Borghi era sempre più contrario, era stata presa la decisione di dividersi, per meglio perlustrare la zona, e rimanere costantemente tutti all’erta.

Ancora di più dopo che notarono che, sia i giornalisti che i militari, erano anch’essi volatilizzati da quel posto.

Fu dopo questa nuova sconvolgente scoperta che il Soggetto N. 3 fu lasciata nel loro accampamento, pronta almeno lei ad una ritirata strategica e nel contempo, poteva risultare utile agli altri con la sua vista telescopica.

Il Soggetto N. 5 era impassibile, come suo solito, mentre il Soggetto N. 7, tremante di paura, cercò di tenersi su il morale canticchiando un’antica filastrocca messicana.


Il Soggetto N. 4, memore del suo addestramento nelle forze armate, procedeva in solitario a brevi passi, tenendo gli occhi vigili in qualsiasi angolo del quartiere che stava attraversando. Intento ad attraversare un parco cittadino, di colpo, sentì un suono e, mentre la sua mano destra stava cambiando forma, notò una persona al suolo.


Il Soggetto N. 9, al contrario di com’era ormai abituato, procedeva con andatura lenta, lasciando la sua supervelocità totalmente inutilizzata.

Fatto qualche passo, vide qualcosa scintillare al centro di una strada. Si avvicinò con cautela e, con sua somma sorpresa, identificò un teschio di cristallo.


Nel quartier generale, dove tutti erano collegati fra loro tramite la telepatia del Soggetto N. 1, il Soggetto N. 2 sussultò.

È identico a quelli che ho a Londra!”.


Akolaizow.

Nel giro di pochi minuti, tutti gli altri, ad eccezione del velocista, accorsero dal mutaforma. La supervista fu d’aiuto ad Arone per raggiunge subito i suoi compagni dentro la città.

L’essere umano sdraiato a terra, forse per tutto quel trambusto improvviso, parve ridestarsi. Spaventando i presenti, pronunciò delle enigmatiche parole “Qui non vi è salvezza”.

Seppur ancora shockata, la francese notò l’assenza di uno di loro “Dov’è Johnny?”.

“Non lo so” rispose secco l’italiano “Qui tutte le cose non stanno andando”.

“Ma questo è loco!” urlò quasi impazzito Bernardo.


Nel frattempo, Wayne riuscì a trovare il coraggio di afferrare e sollevare quel cimelio. Come un novello Amleto, lo osservava attentamente.

“Considerate seriamente ciò un problema?”.

“Cos’hai detto, Igor?” chiese mentalmente lo statunitense.

“Non sono stato io…” confessò il russo.

“Cosa?” spalancò gli occhi il biondo.

“Non pretendere di capire, mutante” riprese la voce “gli umani che siete venuti a salvare stanno bene”.


“Qui non vi è salvezza”.

Da quando si era ridestato, nonostante i ripetuti stimoli degli Humana presenti, erano soltanto queste le parole che uscivano dalla bocca dello sconosciuto.

“Andrea, non puoi creare, per caso, un traduttore a corto raggio?” domandò il messicano.

“Certo che no, Soggetto N. 7!” rispose l’italiano “E poi, se non ricordo male, sei un mutaforma anche tu, o sbaglio? Allora, datti da fare!”.

“Sapete che vi dico…” intervenne la francese “Sarò io da darmi da fare! Ora vado a cercare Johnny, visto che a voi pesa il culo!”.

“Calmati, Frédérique. Sono qui” fece la sua comparsa proprio il Soggetto N. 9.

Tutti i presenti si voltarono verso il nuovo arrivato che, con movimenti lenti, poggiava su una panchina vicino a loro il teschio.

Appena vide quel particolare oggetto, l’uomo in stato confusionale si mise a sbraitare e rantolare ancora di più.

Per evitare che si facesse male o, peggio, facesse del male ai suoi compagni, il Soggetto N. 5 lo bloccò con la sua enorme forza, abbracciandolo con le sue braccia robuste.

“Stai calmo” tentò inutilmente di sussurrargli.

“E quello che diavolo è, Johnny?” riprese con le domande il Soggetto N. 7 “Dove l’hai trovato?”.

“Era su una strada qui vicino… e sta parlando!”.

“Parlando? Ma che stai dicendo, Jo…” ma la frase del Soggetto N 3 fu interrotta da un’enorme figura luminosa.

Essa comparve dal nulla, sovrastando tutte le persone nel parco.

I mutanti in rosso e giallo rimasero tutti ammutoliti nel fissare quell’essere così luminoso. Nonostante non possedessero tutti la visione sovrumana di Arone, nessuno ne rimase abbagliato. Invece, l’unico umano normale, si agitò sempre di più, come in preda ad una crisi epilettica. Si dissolse nel nulla.

Inaspettatamente, nessuno degli eroi mosse un solo muscolo, ipnotizzati da tale luce ultraterrena.

Come un magnete, Wayne si sentiva sempre più attratto verso quella fonte luminosa.

“Johnny ascoltami!”.

La voce di Sara Silvestri parve risuonare lontana nella sua mente.

“Johnny, ascoltami! Non so bene come spiegartelo ma, seguendo ciò che mi dice il nostro capo, non dovete più intervenire in alcun modo per salvare quella persona e, soprattutto, lascia stare la luce e rimani con la tua squadra!”.

Gli occhi di Johnny, dopo esser rimasti aperti e fissi per un tempo che andrebbe contro natura, sbatterono. D’istinto, il pilota si voltò verso i suoi amici.

Come se ritenesse di non essere più utile, il gigante di luce si spense, senza lasciar traccia.

Di conseguenza, anche gli altri Humana ripresero conoscenza, seppur ancora increduli a quanto avevano appena assistito.

“S-State tutti bene?” tentò di sincerarsi Frédérique.

“Come possiamo dirlo” sentenziò un Bernardo più ombroso che mai.


Quartier generale.

Sara era madida di sudore in tutto il corpo e con un fiatone che non le stava dando pace. Sembrava aver corso per chilometri e chilometri senza un attimo di tregua.

Igor era collassato dalla stanchezza.

Jack, Juna e Chang in piedi e immobili come tre statue.

“Sai che, prima o poi, dovrai rivelarci chi è questo nostro capo…” esclamò il ragazzo di colore, guardando con fare truce l’italiana.

“Io ne rimango!” commentò il britannico.

“Io… vado a preparare da mangiare” concluse l’asiatico.




Stazione ferroviaria di Trento

In una delle principali fermate della linea del Brennero, da un classico modello di Freccia Rossa, scese un-ex pilota di formula uno americano. Ad attenderlo, su una delle banchine presenti, vi era un ex-soldato italiano.

I due, senza proferir parola, si strinsero calorosamente la mano, nel più classico dei gesti di saluto.

Ad osservarli, a loro apparente insaputa, un viso baffuto e ligneo, tipico dei Matoci, maschere caratteristiche di un comune di tale provincia, Valfloriana.


Ad attendere la coppia, all’esterno della struttura, la candida neve che scendeva lentamente sul suolo totalmente bianco. Su di esso, si trovava un piccolo cestino con l’interno in fiamme. Vicino a quella particolare fonte di calore, nell’intento di riscaldarsi, vi era un uomo travestito da Peppe Nappa del carnevale di Sciacca.

“Cazzo, che freddo!” furono le prime parole pronunciate in Trentino da Johnny Wayne.

“Dove ti credevi di essere?” replicò Andrea Alberti “ai Caraibi?”.


Il giorno successivo, un grande sportivo come il biondo non poteva certo rinunciare a provarne uno per lui totalmente nuovo: lo sci.

“Tieni i piedi più stretti!” gli urlò inutilmente l’indigeno.

“Ma porc!” fu l’ennesima imprecazione, da parte dello statunitense, all’ennesima sua caduta.


A fare da spettatori a quel simpatico teatrino, vi era un trio decisamente insolito.

Un corpulento contadino, una robusta donna coi capelli scompigliati e un segaligno dai capelli e i baffoni arancioni.

“Bertoldo, ma sei sicuro che siano loro?” domandò la donna.

“Assolutamente certo, Marcolfa! Non mi credi?” rispose l’omone.

“C-Certo che… s-sono proprio scemi! N-Non come me, Bertoldino” esclamò, con fare altrettanto stupido, il secco.


Nel frattempo, il tempo atmosferico era peggiorato piuttosto rapidamente.

“Eh no! Ora ci manca pure la tormenta!” si lamentò di nuovo il velocista.

Tra l’altro, con gli sci ai piedi, il suo potere risultava decisamente inutile.

“Faremo meglio a rientrare” consigliò il mutaforma, rimirando in cielo nubi minacciose “Non so quanto ancora abbiamo a disposizione”.


Nella medesima situazione, ma ben imbacuccato in una pesante pelliccia di montone li osservava silenzioso il Rollate di Sappada.


Mentre il vento soffiava sempre più forte, tagliando il viso dei due mutanti, improvvisamente, comparso come un antico fantasma, si trovarono di fronte un oscuro chalet.

“Entriamo lì dentro!” urlava, per farsi capire, il Soggetto N. 4 “piuttosto che morire di freddo qui fuori!”.

L’altro lo seguì senza fiatare.


Vicino a loro, ma ben nascosto dalla bufera, si trovava un triste Pierrot, con una lacrima vera che si sovrapponeva a quella finta del suo trucco facciale.


Appena ebbero messo piede nella veranda in legno dell’abitazione, furono accolto dall’abbaiare, non certo dei più amichevoli, di un alano.


Per tutta risposta, dall’esterno, si udì il muggito di una mucca. Solo che questa, a differenza delle più tradizionali, aveva decisamente una forma più umana.


“Cazzo!” imprecò il Soggetto N. 9, mentre il suo compagno stava già mutando la forma della sua mano destra.

“Buona, Cassiopea!” fu l’ordine perentorio dato da una donna “Voi chi siete?”.

“Ci scusi” esordì Andrea, mentre la mano era tornata normale “ma siamo rimasti fregati dalla bufera”.

Fu quello il momento di ammirare il sorriso piacione di Johnny “Ci chiedevamo se poteva gentilmente ospitarci qui da lei. Per lo meno finché la pioggia non cessa un po’…”.

La signora continua a fissarli poco convinta, mentre il cane proseguiva nel ringhiare minaccioso.

“Devo prima sentire mio padre”.

Detto ciò, fece comunque accomodare i due viandanti nell’ingresso della baita.

Alle loro spalle, con uno scatto felino, un uomo con, sul volto, passamontagna totale riuscì a non far richiudere perfettamente la porta senza, al contempo, farsi notare dai presenti. Degno dello Squacqualacchiun di Teora.


Il vero padrone di casa fece la sua comparsa: un uomo non più giovanissimo, ma dalle spalle larghe e la folta barba bianca.

“Penso io ai signori, Jolanda” sentenziò il vecchio “Mi dispiace, signori, ma non potete stare qui”.

“C-Cosa? E perché?” si allarmò il suo presunto connazionale.


Fuori dallo chalet, suona di campanacci da pecora, la porta si spalanca e compare la maschera simbolo della Sardegna: il Mamuthones.


L’americano, anche grazie al suo superpotere, si voltò da una parte all’altra con rapidità sovrumana. Dietro ai due inquilini, un enorme spiedo di legno con della carne a rosolare per bene sopra al fuoco nel camino. Nel ripiano sopra di esso, un’altra tradizionale figura del carnevale sardo: lu Traicogghju. Solo la maschera in legno, però.

Il suo cervello si autocensurava i suoi stessi pensieri. Vicino al braciere, altre due maschere comparvero nella stanza.

“Purtroppo è proprio come stai pensando…” gli anticipò Pin Girometta di Varese.

“Il mammifero nello spiedo… è umano!” concluse Capo Valàr di Lazise.

La coppia in rosso e giallo rimase basita.

“M-Ma… c-che cazzo state dicendo?” balbettò Johnny.

Altri due tizi mascherati si unirono ai due precedenti.

“Sappiamo che voi siete dei mutanti che si fanno chiamare Humana” intervenne la classica figura del marinaio genovese e del tifo doriano, il Baciccia della Radiccia “e pensiamo che voi già sappiate chi siamo…”.

“Immagino voi siate le Maschere, Elefante dell’Animorph Squad ci ha parlato di voi” gli rispose Andrea.

“Benissimo!” proseguì la Réula, maschera che rappresenta un anima penitente “Dunque sappiate che questo gruppo di persone, conosciute come Famiglia Fantelli, sono in realtà dei luridi dediti al cannibalismo. Ora dovranno estirpare la colpa di aver ucciso un mio collega della Mascara Gadduresa”.


All’esterno della magione, mentre varie altre maschere facevano il loro ingresso, le folate di vento si facevano sempre più forti e spettrali. Sembrava il perfetto sottofondo musicale ad accompagnare il dramma che si stava svolgendo al suo interno.


“Come potete venire qui, in casa nostra, e criticare il nostro operato?” sbottò la più giovane della cosiddetta Famiglia Fantelli.

“Hai anche il coraggio di chiederlo?!” gli urlò contro una delle maschere femminili più facilmente riconoscibili nel panorama italiano: Colombina.

“Credi che, perché sono una donna, non abbia il coraggio di prendermi la responsabilità per le mie azioni?”.

La donna mascherata scosse il capo “Povera sciocca. È proprio per difendere la libertà delle donne che ho deciso di indossare questa maschera”.

Quasi con le lacrime agli occhi, la padrona di casa si voltò verso l’americano.

“Anche voi, che subite il nostro stesso supplizio, davvero pensate di agire nel giusto?”.

L’interpellato parve shockato “Che vuoi dire?”.

“Non darle retta a quella troia!” sbraitò Nasotorto, la cui caratteristica facciale veniva evidenziata pure dal nome da battaglia.

D’improvviso, una porta sbattuta con grande violenza.

“C’è un’altra troia!”indicò al gruppo, sempre più numeroso, Nasoacciacato, per cui vale lo stesso discorso di Nasotorto.

“Asia! Che ci fai qui?” le urlò contro Jolanda Fantelli.

“Quella deve essere la sorella minore…” ipotizzò ad alta voce Cassandro, una maschera proveniente da Siena, città ben più famosa per i suoi Cavalieri delle Contrade e le loro armature leggendarie.

“Jolanda!” parlò la nuova arrivata “Come osi parlare delle faccende private della tua famiglia ad un perfetto sconosciuto? Per di più americano!”.

“Beh…” intervenne lo sconosciuto “se tu sai pure la mia nazionalità, vuol dire che tanto sconosciuto non sono…”.

“O magari anche i cannibali guardano la Formula Uno, yankee…” sottolineò U Sceriff, maschera della provincia di Bari vestito in perfetto stile cowboy.

“Solo perché hai incontrato il classico biondino con la faccia a culo che incontri in vita tua!” proseguì l’aggressione verbale della sorella.

Un colpo di pistola andò a conficcarsi nella pietra del soffitto. A sparare non fu però l’arma da fuoco del finto sceriffo western ma la mano destra mutata del Soggetto N. 4.

“Sarà il caso di darci tutti una calmata!”.

“E c’è bisogno di tirar giù tutta questa baracca?” lo ammonì il parmense Al Dsèvod.

“Vuoi spararmi, bastardo?” Asia Fantelli si aprì violentemente la camicia che aveva indosso, mostrando il suo seno nudo “Spara qui, se hai le palle!”.

“Però! Che tette!” esclamò, con un finto accento francese, Vulon di Fano.

Il trentino ghignò “Non penserai di impressionarmi con un paio di bocce?”.


Fuori, la situazione peggiorava a vista d’occhio.

“Il vento sta aumentando!” gridò Re Biscottino verso un suo collega.

“Lo vedo! Così come vedo che sarà fatta vendetta per tutta la Sardegna!” replicò Sa Filonzana.


Un’altra porta che, sicuramente a causa del grande riscontro ventoso, sbatte. La tensione del momento fa partire un altro colpo al cecchino.

“No!” urlò con la mano in avanti Doroteo, mentre teneva ben saldo il suo fedele scettro fatto con canna da zucchero.

Nemmeno la supervelocità del Soggetto N. 9 servì ad evitare che il proiettile colpisse Jolanda alla spalla sinistra.

Lu Casaranazzu, ovviamente della città di Casarano, imprecò in dialetto pugliese.

I due membri della Famiglia Fantelli rimasti in piedi non si scomposero minimamente. Quella a terra, invece, dopo qualche attimo di immobilità, iniziò a strisciare verso il camino. Finché non strappò con la mano della spalla non offesa un pezzo della carne.

“Oddio! Non ditemi che lo fa davvero…” parlò schifato Su Maimulu.

La donna a terra staccò, con un morso deciso, parte della pelle ancora attaccata all’osso. Mentre deglutiva, la ferita alla spalla iniziò miracolosamente a richiudersi.

“C-Cosa?” Wayne rimase esterrefatto da quanto stava osservando.

Il capofamiglia, fino a quel momento rimasto del tutto impassibile, si prodigò in un incredibile scatto. Sbattendo contro il muro, premette un mattone che si abbassò. Con un forte clangore metallico, la parete di una gabbia scese dall’alto a dividere i cannibali dagli onnivori.

“No!” sbraitò un Toro umanoide che, dopo una potente rincorsa, tirò una testata contro le sbarre, incurvandole leggermente.


Dall’altra parte, il trio si diede alla fuga.

“Scappiamo! Svelti!” ordinò Asia.


“Dobbiamo inseguirli! Per la Sardegna!” incoraggiò Issohadores, con il suo classico vestito da antico turco.

“Lasciate fare a me!” sentenziò il velocista, subito partito a razzo e, grazie alla sua velocità in grado di scomporre le sue stesse molecole, attraversò le sbarre, rendendosi momentaneamente intangibile.


Nel frattempo, i tre della Famiglia Fantelli si erano chiusi alle spalle una porta ben più spessa, di puro acciaio rinforzato. Poi, per aggiungere ancora più sicurezza, avevano sceso a grandi falcate una ripida scala in pietra. Fino a giungere in un’ampia sala sotterranea.

Mentre riprendevano fiato da quella ritirata rocambolesca, la sorella maggiore Jolanda, la bionda dai vaporosi capelli oltre le spalle, si avvicinò al seno nudo ma semicoperto dalla camicia della sorella minore Asia, la mora dai capelli fino alle spalle.

Aprendo la bocca e scostando leggermente la camicia, si mise a leccarle il capezzolo destro con sensualità, mentre l’altra non poté che emettere gemiti di piacere.


“Tu non hai qualcosa che ci può essere utile?” domandò l’inquietante maschera del Maschkar al tizio in rosso e giallo.

“Posso provare con un nucleodistruttore” ipotizzò Alberti.

“Fai un po’ come cazzo ti pare, basta che fai qualcosa” lo spronò in malo modo Bicciolano, mentre sgranocchiava l’omonimo biscotto vercellese.

Appena la sua mano destra ebbe ultimata la trasformazione, il Soggetto N. 4 sparò verso la gabbia.

i tubi in ferro colpiti dal raggio colorato si smaterializzarono all’istante, come se non fossero mai esistiti.

“Andiamo, mia regina” invitò il Conte Tizzoni.

“Dopo di lei, mio conte” accettò la Regina Papetta.


“Ora smettetela con questo spettacolo disgustoso!” il padre richiamò infuriato le sue due figlie.

Le lesbiche si staccarono all’istante.

“Piuttosto, preparatevi al rituale!”.

“C-Cosa?” Jolanda aveva il terrore negli occhi.

“Ma proprio adesso, papà?!” Asia protestò vivacemente.

“Zitte e ubbiditemi!”.

Le due giovani donne, rassegnate e con lo sguardo basso, si avviarono verso due lettighe lì vicino, in puro stile Frankenstein. Nel più completo mutismo, si spogliarono di tutto quando avevano indosso, come dei semplici automi. Fatto ciò, si sdraiarono sui ripiani orizzontali.

Voilà! Alla vista un umile veterano del vaudeville, chiamato a fare le veci sia della vittima che… Vabbe’, il resto non me lo ricordo”.

Il capofamiglia si voltò di scatto verso la direzione da cui proveniva quella strana litania.

Davanti ai suoi occhi vide una vera e propria marionetta prendere vita. La sua immagine richiama immediatamente alla mente la pizza e il mandolino. Oltre alla splendida e contraddittoria città di Napoli.

“Cos’è? Uno scherzo?” ridacchiò il barbuto.

“Gli scherzi belli durano poco. Non te l’hanno mai detto i tuoi colleghi?” osservò Pulcinella.

“Fermo!” il Soggetto N. 9 era finalmente arrivato a destinazione “Voi siete più pazzi della famiglia Manson!”.

Precedentemente, aveva perso tempo a trovare il giusto mattone da premere, così da togliere la sicura alla porta blindata e, di conseguenza, far entrare tutte le altre maschere.

Il cannibale, vistosi perso, tentò una nuova fuga da un’apertura alle sue spalle. Le sue due figlie, o presunte tali, rimasero sdraiate, nude e con gli occhi chiusi.

“Voi Humana pensate al vecchio, noi Maschere ci occupiamo delle due donne!” comandò la Cagnèra di Pesaro, dal volto totalmente coperto.


Altre scale in pietra da percorrere alla disperata.

La mano destra dell’italiano aveva preso la forma di un cannone.

“Fermo, Andrea. Non fare fuoco qui dentro” lo avvertì l’americano.

“Niente fuoco. Questo è un cannone ad acqua!”.

Il potente spruzzo che ne derivò colpì al centro della schiena il suo obiettivo, che caracollò in avanti.

Come se niente fosse, l’uomo si rialzò, appoggiandosi al muro, da cui afferrò un bastone.

Il bastone si rivelò subito un fucile a doppia canna. Come notò ad alta voce anche Coviello, un’altra maschera napoletana.

Purtroppo l’uomo con il fucile si dimenticò della velocità sovrumana di Johnny. Quest’ultimo, di fatti, riuscì in un batter d’occhio a disarmarlo e immobilizzarlo.

“Sei… troppo… lento” gli sussurrò all’orecchio.


Al piano di sopra, Asia era riuscita incredibilmente a fuggire.

“Ahò! Richiappate quella scostumata!” fu il colorito rimproverò, con tipico accento romano, di un uomo vestito con: panciotto allacciato nella parte laterale, sciarpa usata come cintura, fazzoletto al collo, pantaloni stretti al ginocchio e berretto in testa. Meo Patacca.


La donna riuscì ad arrivare fino ai due mutanti. Finché Alberti non riuscì a bloccarla con il suo corpo.

“Giovane! Non ne approfittare però…” lo richiamò il Dr. Balanzone, con cadenza emiliana “Mica gli devi fare un’autopsia”.

La più giovane delle Fantelli, nonostante le sue nudità esposte, continuò a dimenarsi per liberarsi dalla stretta del connazionale. Vedendo che tutto ciò risultava inutile, si decise a mordere il suo avversario sulla spalla destra.

“Ahi! Fermati, puttana!” si alterò il mutaforma.

“Lasciami, brutto figlio di puttana! Ma non capite? La nostra è una malattia! Non possiamo agire altrimenti! È nel nostro DNA!” strillò lei, disperata.

“Ma di che sta parlando?” domandò preoccupato Narcisino, facendo oscillare i suoi lunghi boccoli biondi.

“Davvero non vi è chiaro?” esclamò sbigottita la donna, con le lacrime agli occhi “A farci diventare così sono stati gli stessi che hanno rovinato gli Humana!”.

“Di nuovo lo Spettro Bianco?” sussurrò spiazzato il Soggetto N 4.

Sempre Asia indicò l’uomo dalla la barba canuta “E anche se lui può non essere il nostro vero padre, è però l’unico che comprende la nostra maledizione. A differenza di voi Maschere”.

Il capofamiglia si avvicinò ad un’altra parete per premere un nuovo mattone.

“Che ha fatto?” chiese preoccupato il perugino Bartoccio.

Il vecchio, rimanendo voltato verso il muro in pietra, rispose “Ho attivato un ordigno esplosivo situato nei dello chalet”.

“C-Cosa?” scattò sbigottito Tarlisu, che dall’aspetto pareva quasi un giocattolo a molla.

Proseguì lui “Avete appena un minuto per fuggire di qua”.

Nessuno disse più nulla. Prese forma uno scalmanato corteo variopinto dalle maschere italiane più assurde. La Famiglia Fantelli, invece, scelse di riunirsi insieme tutti e tre. Per l’ultima volta.


Lo chalet esplose in un’enorme vampata, illuminando l’oscurità tipica di quella notte alpina.

Incredibilmente, tutte le persone non cannibali presenti erano sane e salve all’esterno, con la neve che aveva ripreso a scendere lenta e pigra dal cielo.

Lo stesso Soggetto N. 9, abituato a corse ben più impegnative, era comunque con il fiato corto, che gli usciva dalla bocca creando una simpatica nuvoletta.

“Sapete già che vi incontrerete ancora con noi Maschere” disse una persona, arrivatogli a fianco.

Il mutante alzò lo sguardo per fissare la maschera più colorata di tutte: Arlecchino.




Strani cancelli si sono aperti in alcune parti del mondo. Cancelli che non portano da nessuna parte ma, al contrario, sono un varco per visitatori provenienti da altri tempi.


La persona che i tre mutanti avevano davanti sembrava uscita da qualche carnevale dei più assurdi. Ma di maschere, in quel periodo, ne avevano avute decisamente abbastanza.

L’uomo indossava un’uniforme da simil supereroe quasi totalmente di colore verde scuro. Il tessuto era poi caratterizzato da un disegno che, a colpo d’occhio, doveva ricordare le scaglie di rettili. Sul suo petto allenato campeggiava la scritta nera “T-REX”, il suo nome da battaglia. Infine, il suo volto era parzialmente coperto dal cappuccio del lungo mantello, anch’esso verde ma più chiaro, che aveva legato al collo. Oltre a due particolari braccialetti, come piccolo vezzo di stile tale cappuccio aveva le sembianze della bocca spalancata, o per lo meno della parte superiore di essa, di un dinosauro, nello specifico un Tirannosaurus Rex.

“… Riguardo i dilofosauri poi, a seguito delle recenti scoperte del dottor Grant, siamo venuti a conoscenza di peculiarità di cui eravamo totalmente all’oscuro. Ad esempio, un collare di pelle retrattile e, ben più pericolosa, la capacità di sputare un letale veleno” concluse il dottor Robert Carter.

“Veleno?” esclamò sorpreso il Soggetto N. 2.

“Questa cosa del collare mi sembra ce l’abbiano anche qualche lucertola…” aggiunse il Soggetto N. 9.

“Esatto” annuì il tizio in costume “per esattezza il clamidosauro”.

I quattro ripresero la passeggiata nel paesaggio selvaggio in cui si trovavano.

“Come vi dicevo prima, questo incredibile esemplare vivente per la scienza sarebbe decisamente utile per puri scopi di ricerca. Perciò, vi chiedo ancora una volta di fare tutto il possibile per catturarlo vivo”.

“Non si preoccupi” lo rassicurò il Soggetto N. 5 “Non faremo alcun male a qualsiasi forma di vita animale”.

“Vi ringrazio”.

Il quartetto si fermò a qualche metro da un laghetto.

“Di solito, l’ho visto abbeverarsi spesso lì” indicò la mano guantata di verde.

“Perfetto. Lascia fare a noi, T-Rex, ormai siamo esperti del mestiere” accompagnò il tutto con il pollice in su Johnny.

L’autoproclamatosi guardiano di quella che, da qualche tempo, era stata ribattezzata “l’Isola dei Dinosauri”, parve soddisfatto e si allontanò dal trio.

Questi, una volta da soli, si misero a fissare quella riserva idrica naturale.

“Non so voi, ma questa faccenda del veleno non è di mio particolare godimento” la buttò lì Jack, sempre più preoccupato.

“Ormai siamo qui e non possiamo di certo tirarci indietro!” sentenziò stizzito l’americano.

“Come sta andando, ragazzi?” la voce del Soggetto N. 1 riecheggiò nelle menti dei tre mutanti.

“Tutto normale, per ora” rispose Wayne “Abbiamo avuto modo anche di conoscere Robert Carter”.

Intervenne Sara, sempre telepaticamente “Fidatevi, è un contatto affidabile. Anche lui è da anni che collabora con noi per contrastare lo Spettro Bianco. Da poco tempo si è trasferito su quell’isola per studiare più approfonditamente gli strani fenomeni che vi stanno avvenendo”.

“Strani è dir poco…” commentò il velocista.

“Infatti” riprese la bionda “pare ancora incredibile, ma gli avvistamenti, su quel territorio, di esemplari di dinosauri viventi sono sempre più numerose e documentate. Purtroppo, il solo T-Rex non può affrontare tutta questa situazione da solo. Per questo, ha deciso di contattare noi Humana per dargli un aiuto”.

“Ed è per questo che ho convocato qui con me tutti i membri reperibili del nostro gruppo!” esclamò fiero Johnny.

“Perfetto. Fatemi sapere se ci sono novità” terminò la comunicazione Silvestri.

O meglio, la comunicazione telepatica terminò per dare nuovamente spazio a quella vocale, più canonica.

“Dovevo rendermi irreperibile anch’io, come hanno fatto quegli altri” riprese il britannico.

“Gli altri non sono irreperibili, Jack, è solo che sono impegnati con faccende meno complicate della nostra: Andrea dà una mano con la fabbrica di famiglia, Bernardo si è associato con una piccola federazione di lucha libre, Juna ha ripreso la sua battaglia contro i bracconieri in Africa, Chang porta avanti il suo ristorante a Pechino e Frédérique ha le prove per un nuovo balletto che debutterà a breve”.

“E io potevo darmi malato” sbadigliò il dandy.

“Eccolo!” avvertì gli altri l’indiano d’America.


L’esemplare, che in quel momento stava con la parte terminale del muso sommersa nell’acqua, aveva un’altezza di circa un metro e mezzo. Una volta ripresa la posizione eretta, il sole illuminò le sue caratteristiche doppie creste craniche. I suoi occhi tagliati da rettile notarono gli umani in rosso e giallo. All’istante, i muscoli delle sue zampe inferiori scattarono.


“Sta scappando!” urlò Geran.

“Sei pronto alla gara, Jack?” il velocista non attese nemmeno la risposta che già era sparito.

“Ma piantala! Tu e le tue gare!” lo canzonò l’altro, mentre si librava in volo.


Come da previsione, la via terrestre era decisamente più rapida se praticata da Johnny Wayne. In aria, invece, il Soggetto N. 2 si trovò di fronte una nuova minaccia: uno pteranodonte dalla squamosa pelle marrone.

Quest’ultimo, con la sua enorme apertura alare, costrinse l’inglese ad una repentina virata fino a precipitare al suolo.

Toccata appena terra, si attivò una diabolica trappola. Attorno al mutante spuntò un rettangolo formato da sbarre d’acciaio e, a concludere quella rapida procedura, altrettante sbarre andarono a chiedere l’apertura superiore della struttura.


Accortosi appena di quanto accaduto al compagno, Giunan si trovò in un attimo nella sua stessa situazione. Un’altra gabbia tutta attorno al colosso.

Il pellerossa non si perse d’animo e, conscio dei suoi superpoteri, afferrò due sbarre con l’intento di piegarle come fossero carta. Di colpo, una forte scarica elettrica attraversò il suo corpo muscoloso. Grazie alla sua resistenza sovrumana, resistette per qualche minuto. Finché il Soggetto N. 5 non cadde al suolo esanime.


Nel mentre, la caccia del Soggetto N. 9 stava per avere la sua rapida conclusione, quando egli si accorse della mancanza del suo collega volante.

“Dov’è, Jack?” arrestando la sua corsa.

Nello stesso momento, il dilofosauro si voltò minaccioso verso di lui. Accompagnato da un rumore simile al serpente a sonagli, il collo del dinosauro si espanse, creandogli una parabola tutta attorno al suo muso con le fauci spalancate.

“Cazzo!”.

L’americano fece appena in tempo a scansarsi ed evitare così il viscido sputo velenoso che gli era stato appena lanciato contro.


“Ricordati del suo attacco velenoso!” gli urlò alle spalle T-Rex.

L’uomo in verde stava cercando, accovacciato vicino alla gabbia del Soggetto N. 2, di sbloccare quelle trappole elettriche di cui, a quanto pare, era perfettamente a conoscenza.

“Non dovevano funzionare! Erano state disattivate!” si malediceva in prima persona mentalmente “Qualcosa è andata storto!”.


Intanto, per Johnny il pericolo ora arrivava anche dall’alto. Infatti, lo stesso pteranodonte di prima ora scendeva giù in picchiata verso il mutante.

Grazie alla sua supervelocità, il biondo si rotolò a terra, evitando l’attacco e, inoltre, anche una nuova gabbia attivata, riuscendo ad attraversare le sbarre grazie al suo corpo resosi intangibile.

Appena rimessosi in piedi, un boato fece tremare tutta la zona circostante. Questa volta il dinosauro era decisamente enorme e, ancora peggio, carnivoro.

Non era il corrispettivo animale di Robert Carter, ma comunque alquanto pericoloso: un allosauro.

Le sue squame bluastre sembravano riflettere l’azzurro del cielo in cui si stagliava vedendolo dal basso.


Rimasto anche lui spiazzato per qualche minuto, T-Rex era riuscito a disattivare la gabbia con dentro il mutante britannico ed ora stava armeggiando con i suoi particolari braccialetti. Anch’essi erano verdi e presentavano una forma che richiamava le dita dei rettili preistorici, con relative unghie nere e appuntite.


Dopo aver emesso un nuovo ruggito primordiale, l’allosauro voltò la sua enorme testa. Con una rapidità impensabile vista la sua enorme mole, azzannò al volo il dinosauro volante e, stringendolo fra i suoi denti aguzzi in una morsa letale, non ebbe alcuna pietà di esso.


Robert Carter aveva smesso di digitare sul suo bracciale destro ed ora pareva prendere la mira verso il lucertolone, utilizzando tale oggetto come fosse un’arma da fuoco. Quello che difficilmente si riuscì a vedere fu una delle unghie scure del bracciale che partì, più silenzioso di qualsiasi proiettile, e si andò a conficcare sul largo collo dell’animale.

Per i primi minuti non parve succedere alcunché. Poi le palpebre dell’allosauro iniziarono a sbattere ad un ritmo sempre più lento. La carcassa dello pteranodonte gli scivolò giù dalle fauci, andando ad impolverarsi con l’impatto sul terreno. L’antico predatore barcollò, come fosse un gigante ubriaco, fino a crollare rovinosamente al suolo. Il sedativo aveva funzionato alla perfezione.


Riuscito a rimanere miracolosamente in piedi dall’impatto, il Soggetto N. 9 notò il dilofosauro che, silenziosamente, tentava una ritirata strategica.

“Bel tentativo…” gli concesse il velocista, prima di partire in un lampo.

Con un semplice pugno, dato ad una velocità elevata ma pur sempre controllata, la bestia fu messa KO.


Infine, i due mutanti liberi avevano raggiunto T-Rex che, nel frattempo, stava finendo di sbloccare l’ultima gabbia. Al suo interno, l’indiano si era ridestato dallo shock elettrico.

“Allora com’è possibile che queste trappole si siano attivate?” insistette lo statunitense.

“Non so. Anche perché sono solo dei prototipi quindi tuttora da testare seriamente” replicò il connazionale, mentre la cella scompariva sottoterra.

L’energumeno appena liberato parlò “Io un’idea ce l’avrei…”.

“Ipotizzo sia quella che abbiamo tutti... lo Spettro Bianco” confermò l’inglese.

“Non sarebbe la prima volta che utilizzano delle strane creature per i loro scopi, o peggio ancora contro di noi. Mi chiedo solo quanto in là si spingerà quel bastardo di Mohammed Al-Shirida per i suoi piano contro il mondo. Visto che nemmeno il riposo eterno dei dinosauri è garantito da quel figlio di puttana!”.

Dopo aver affermato ciò, Johnny Wayne fissò cupo il mare calmo della Costa Rica.

  
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