Anime & Manga > Boku no Hero Academia
Ricorda la storia  |      
Autore: pansygun    01/02/2023    1 recensioni
Bambini festanti, regali da scartare, riunioni familiari: è questa l'immagine che Izuku ha delle feste natalizie, mentre osserva fuori dalla finestra della sua cameretta la neve che scende a coprire la sua città.
Per quanto festoso sia, il giorno di Natale lascia nel suo cuore più melanconia che gioia, portandolo a chiudersi in se stesso e a fare una specie di bilancio emotivo.
Così, imbacuccato per bene e con la musica nelle orecchie, sfida la leggera nevicata con una passeggiata per liberare la mente dai brutti pensieri.
- - -
Boy x Boy
Turpiloquio
Fuffosità a tratti
- - -
{Ogni riferimento a fatti, persone o cose è puramente casuale.}
Tutti i diritti riservati ©️ | 2022
Genere: Hurt/Comfort, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Izuku Midoriya, Katsuki Bakugou
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Se la malattia e la tristezza sono contagiose, non c’è niente al mondo
così irresistibilmente contagioso come il riso e il buonumore.
~ Charles Dickens ~
 
Quell’anno Natale cadeva di domenica.
Una seccatura in più, dato che tutti avrebbero lasciato i dormitori e sarebbero tornati a casa per passare quella strana festività occidentale con le proprie famiglie.
Certo, avevano fatto un po’ di festa a scuola tra compagni il venerdì sera, con i cappellini, la torta, i biscotti e le decorazioni e tutto il resto, ma l’aria di vacanza si sentiva già dal lunedì, complice anche la nevicata abbondante degli ultimi giorni.
Izuku guardava sconsolato fuori dalla finestra della sua cameretta, in attesa che sua madre lo chiamasse per il pranzo, la testa poggiata contro il braccio destro, intrecciato al sinistro sopra la piccola scrivania.
I suoi occhi smeraldini continuavano a inumidirsi e una specie di magone andava e veniva tra il petto e la gola ogni volta che vedeva qualcuno passare lungo la strada, infagottato in sciarpone e cappello, il passo spedito di chi è in ritardo per andare da qualche parte. Sospirò e spostò la testa, poggiando la guancia sull’altro braccio.
Era molto difficile che Izuku odiasse qualcosa o qualcuno. Non era nella sua indole. Eppure, quella volta, quel Natale gli stava andando un po’ di traverso: era una festa che non gli apparteneva, primo. E, secondo, era l’ennesima festa che passava da solo con sua madre.
Le voleva bene, sia chiaro, la amava davvero, perché al mondo erano rimasti soli, l’uno per l’altra. E questa cosa lo rattristava ogni volta che c’era una festa da passare con lei oppure lo faceva sentire tremendamente in colpa ogni volta che, durante le festività, preferiva gli amici alla sua compagnia. E si sentiva in bilico, come se stesse camminando su una fune sospesa.
Sospirò di nuovo ad udire la voce della donna chiamarlo e si alzò di malavoglia, mentre il cielo grigio continuava a far cadere grossi fiocchi di neve.
Con le dita sulla maniglia, prese un profondo respiro e deglutì quel misto di tristezza e solitudine che neppure tutti i messaggi che aveva ricevuto quella mattina erano riusciti a lenire, e si avviò a passo trascinato verso il soggiorno.
Il katsudon di sua madre era una delle cose a cui forse non avrebbe mai rinunciato. Come la torta alle fragoline di bosco e panna zuccherata, su cui lei aveva tentato, in maniera maldestra, di riprodurre il faccione di Santa-san con la glassa al cioccolato e mezza fragola per cappello. Ne avevano riso assieme, prendendosi un po’ in giro a vicenda, perché Izuku sapeva quanto sua madre ci tenesse.
Ma, nonostante la dolcezza di quella torta e di quel momento, quel magone era sempre lì a rovinargli il sapore di ogni cosa in quella giornata di festa.
Aveva pure lasciato vincere sua madre a Iroha Karuta, pur di vederla felice, facendo in modo che non si accorgesse del suo malessere.
Poi s’era vestito per bene, mettendo pure gli scarponcini pesanti e l’aveva salutata, infilandosi le cuffiette nelle orecchie.
«Faccio una passeggiata!», le aveva gridato, ormai con un piede fuori dalla porta di casa, pentendosi subito della propria scelta: lì fuori si gelava!
Izuku strinse i denti e si fece coraggio, percorrendo la balconata fino alle scale, scendendole con calma per evitare di scivolare, la musica alta che rimbombava nel cranio e il freddo sulle guance umide a gelargli le lacrime.
Appena fuori casa si era lasciato sopraffare dalla tristezza e da tutti i sentimenti negativi.
Per tutta la mattina aveva continuato a ricevere auguri e foto sul gruppo di classe: tavole imbandite, case addobbate in maniera discutibile, cani travestiti da renne e persone, un sacco di persone, attorno ai suoi compagni di classe dalle facce sorridenti.
Invidia. Aveva provato una profonda invidia per quelle tavole ricche, quelle famiglie numerose, quei sorrisi di gioia.
Non provava così tanta invidia da quando era piccolo, da quando i suoi sogni di bambino s’erano infranti su una insulsa lastra da radiografia.
Ma era un’invidia diversa, questa volta.
Aumentò il passo, sfregandosi il naso gocciolante col dorso del guanto e cambiando canzone, mettendone una più ritmata, più arrabbiata. Magari avrebbe smesso di pensare e si sarebbe concentrato sul testo, si sarebbe concentrato su un altro problema, o gli sarebbe salita una tristezza diversa.
Non c’era nessuno per strada, così si fece un po’ di coraggio e si mise a cantare, stonando, ma senza sentirsi, mentre i suoi piedi lo conducevano a un paio di isolati da casa sua, davanti alla cancellata aperta di un piccolo parco giochi.
Gli alberi spogli ondeggiavano le fronde alla leggera brezza, che scompigliava anche i suoi capelli verdi, facendolo rabbrividire.
Nessuno doveva essere entrato lì a giocare, perché le giostrine per bambini erano ancora ricoperte di neve e il terreno non aveva alcuna impronta.
Le poche villette nei dintorni avevano lucine colorate nei giardini e i bagliori caldi dell’interno sembravano tanti occhi che lo fissavano.
Lui era lì, da solo, in quella insulsa domenica di Natale.
Si diede dello stupido, perché avrebbe potuto fare come l’anno precedente quando, il primo gennaio, s’era rifugiato in un cinema e ci aveva passato il pomeriggio, guardando un vecchio film rimasterizzato e poi una specie di horror.
Non sapeva bene cosa fosse più da sfigati: se starsene lì impalato al freddo o guardare un film da solo al cinema durante lo spettacolo pomeridiano.
Tirò su col naso e si diede un piccolo slancio con i piedi, fluttuando a mezz’aria con la schiena inarcata, prima di emettere dal palmo un fascio nero d’energia che lo trascinò ad aggrapparsi ad un grosso ramo di un albero, facendo cadere la neve che s’era depositata sulla sua superficie nodosa.
Quando smise di dondolare, allentò stancamente la presa e si lasciò cadere in piedi sulla panchina sottostante, controllando la distanza percorsa dal cancello sino a lì, lasciando la distesa di neve intonsa e perfetta.
Sorrise debolmente, mentre con i piedi puliva un po’ la panchina, prima di sedervisi di peso e cambiare canzone.
Sarebbe rimasto fuori ancora un pochino, si disse, magari fino all’imbrunire.
Forse quel tempo sarebbe bastato per calmarsi.
 
 
 
 
«Lava quei dannati piatti, ragazzino! O giuro sulla testa di tuo padre – Ehi! - che ti faccio pentire di essere nato! Intesi?».
A poco era valso lo sguardo di sfida che aveva rivolto a quella vecchia strega.
Lui, Bakugō Katsuki, il Dio delle esplosioni mortali, Dynamight, aveva dovuto soccombere ad un insulso ordine casalingo.
Aveva sconfitto villain pericolosissimi solo durante il primo anno alla UA e non riusciva a dire di no a sua madre. “Patetico.”, si disse, andando con passo pesante verso la cucina.
Ma preferiva di gran lunga quello che continuare a dover per forza giocare con i suoi cugini più piccoli o ascoltare quel decerebrato di suo zio (il fratello di suo padre) che blaterava di finanza e altre cose assurdamente noiose e fuori luogo per una festa in famiglia.
Katsuki da sempre odiava il fatto che, per sua madre, ogni occasione era buona per invitare gente a casa. Quello stupido Natale (una domenica, oltretutto!) non si era minimamente risparmiata, riempiendo la casa di decorazioni e di quegli idioti dei suoi parenti che lui detestava.
Cacciò un piatto in lavastoviglie con un po’ troppa forza, rompendolo a metà e imprecando nel raccogliere i cocci, mentre sua madre, dall’udito finissimo, l’aveva sentito dal salotto e gli stava urlando contro che quello era «…il servizio buono, disgraziato!».
Il biondino roteò gli occhi e strinse i denti, ignorandola come la maggior parte delle volte, finendo il compito che lei gli aveva assegnato, stando ben attento a non rompere neppure un bicchiere.
E solo quando si fu vestito di tutto punto e con la mano già sul pomello della porta si prese la sua rivincita.
«Dove credi di andare, eh?», gli domandò la madre, con uno strano cipiglio in volto, pronta di sicuro a riempirlo d’insulti.
«A FANCULO!» e richiuse il portoncino dietro di sé con un tonfo sordo, tanto che pure la corona decorativa all’esterno si sfracellò al suolo.
Inspirò a pieni polmoni l’aria pungente del pomeriggio e allargò le braccia, stiracchiandosi per bene, mentre alzava il volto al cielo e rimaneva impalato, sotto la neve, attendendo che qualche fiocco gli si sciogliesse sulla lingua.
Lo faceva da bambino, quando era più spensierato e quando essere un eroe era solo un sogno o un gioco.
Quando lo vide, Katsuki si stava incamminando lungo il vialetto di casa, con le mani ficcate nelle tasche del giaccone e il naso sepolto nella sciarpa di lana grossa che gli aveva recapitato sua nonna: i suoi occhi cremisi avevano notato quel tenue bagliore verdognolo oltre gli alberi del parco, ben sapendo a chi appartenesse, e la sua mano aveva afferrato istintivamente il cellulare, estraendolo dalla tasca e controllando la chat di classe.
Katsuki era sempre stato una specie di bambino prodigio, con un’intelligenza ben oltre la media, anche se aveva carattere e modi decisamente discutibili. Tra le tante buone qualità, v’era quella di saper osservare le persone, alle volte così bene che queste per lui erano proprio come un libro aperto.
Izuku faceva parte di quelli facili da leggere, per quanto Katsuki stesso non lo volesse ammettere, forse proprio perché si conoscevano fin da piccoli.
«Stupido nerd.», disse a denti stretti, mentre scorreva tutte le ottantotto notifiche che comprendevano foto di cani travestiti da renna, tavole imbandite e il faccione di Kirishima-kun circondato da altrettante facce di mocciosi.
Il cuore sembrò contrarsi in maniera strana, tanto che le sue dita sfiorarono il centro del petto come a sincerarsi che l’organo fosse ancora al proprio posto e funzionasse a dovere.
Per certi aspetti (rari, estremamente rari!) lui e quell’idiota dai capelli verdi un po’ erano simili.
Sbuffò pesantemente e guardò il parco, scuotendo la testa, calcando i passi sulla neve scricchiolante del marciapiede. Sapeva che pure a Deku faceva schifo il Natale.
 
 
Sciaf!
Izuku cacciò un urletto a sentire qualcosa di gelido colpirlo alla nuca, mentre la neve gli s’infilava giù per il collo, provocandogli un brivido.
Si voltò di scatto, massaggiandosi il punto colpito e subito si pentì di averlo fatto.
Vederlo fu un colpo. Fortissimo. Dritto allo stomaco. «Kacchan…», sussurrò, mentre il ragazzo biondo s’avvicinava pulendosi le mani sui pantaloni.
Era come un angelo vendicatore, pensò Izuku assurdamente, con quei capelli biondo cenere umidi di nevischio e le sopracciglia abbassate sugli occhi cremisi in un’espressione corrucciata, la cicatrice che si estendeva oltre l’occhio destro lo rendeva ancora più minaccioso.
Si guardò attorno e, solo in quel momento, si rese conto di essere finito nel suo quartiere. Squittì di timore vedendolo raccogliere altra neve da terra e formare una palla perfetta, che passava da una mano all’altra con un ghigno sadico sulla faccia.
Si affrettò a coprirsi il volto con le braccia prima che quella palla gli finisse sul naso con piena potenza.
Quando tolse quella protezione, Izuku fu scosso da un brivido in una reazione istintiva e il suo cuore perse un battito a trovarselo così vicino, piegato nella sua direzione con il solito ghigno strafottente sulla faccia, tanto che per qualche istante non riuscì neppure a parlare. Katsuki sollevò le dita, quasi fino a sfiorargli la guancia. Gli veniva da piangere, ma non sapeva bene se per tutta la tristezza accumulata o per il sollievo di avere Kacchan lì con lui. Si sentì invece strappare gli auricolari dalle orecchie con poca grazia e la solita voce rauca che lo scherniva si sostituì alla musica: «Hai sconfinato, Deku!».
Il biondo gli lanciò contro le cuffiette, rimanendo a braccia conserte di fronte a lui. Non era proprio un approccio dei migliori, ma non aveva idea di come fare.
«Eh! – si grattò nervosamente la testa - Non mi sono reso conto di essere dalle tue parti!».
«Tsk! Posso sempre riaccompagnarti a casa a calci nel culo se hai perso la strada!», gli disse, con i beffardi occhi rossi fissi su di lui e un’espressione torva sul viso severo, ma il tono gli era uscito meno cattivo del solito.
Izuku si ritrovò a sorridergli mestamente e a dargli le spalle, rimettendosi gli auricolari: «Magari più tardi, ok?» e a quelle parole Katsuki rimase interdetto.
“C’è un messaggio sottinteso nel modo in cui mi volti le spalle?”, si chiese, osservandolo dall’alto, mentre armeggiava col cellulare alla ricerca di una canzone adatta, mugugnando qualcosa.
Nell’ultimo anno erano successe così tante cose che quel biondino dal carattere esplosivo aveva imparato a mitigare sé stesso e i propri scatti d’ira e prestare maggiore attenzione alle persone. Si domandò dunque se non fosse il caso di prestare attenzione anche al silenzio di quello stupido compagno di classe, solitamente tanto allegro e chiacchierone.
Perché ora lo stava ignorando? Va bene che il Natale era un giorno di merda e che il loro rapporto non era più come ai tempi delle medie, ma così…che cazzo gli prendeva?
Con un movimento fluido, Katsuki scavalcò la panchina e si mise seduto accanto a Izuku, urtandolo nel farlo e togliendogli di nuovo un auricolare: «Che cazzo fai, ah? Mi ignori?».
Di nuovo il verdino gli sorrise, alzando un poco gli angoli della bocca. Ma quella era più una smorfia che un sorriso. «Sì, Kacchan. – fece una lunga pausa, in cui si sforzava di respirare normalmente – Ti sto ignorando.».
Il tono di Izuku era come una sferzata aspra, e Katsuki s’irrigidì per reazione.
Vedendolo confuso, il verdino addolcì il tono e tirò la bocca in una smorfia piatta: «Ho solo voglia di stare un po’ da solo, Kacchan.» e gli prese dalle mani l’auricolare, infilandoselo di nuovo, reclinando la testa all’indietro e chiudendo gli occhi.
La musica stavolta era meno pestata, dolce, e serviva a calmargli cuore e pensieri.
In fondo, avere Kacchan lì lo rincuorava e si ritrovò a sorridere senza davvero rendersene conto.
Era un sentimento strano quello che provava per lui, un misto tra l’ammirazione, l’affetto e il senso di sfida, che li portava ad avvicinarsi ed allontanarsi a più riprese, come un elastico che si tende e poi si rilascia. Ma la cosa che gli piaceva di Kacchan è che lo riteneva una specie di punto fermo della sua vita, nonostante tutto, nonostante tutti.
Delle dita calde gli sfiorarono la guancia sinistra e, di nuovo, si ritrovò senza cuffiette e…senza cellulare: il biondino stava scorrendo tra le canzoni, assorto, borbottando un “merda”, “decente”, “schifo”, “passabile” a seconda del brano.
Si ritrovò a fissarne il profilo affilato e gli occhi rossi saettavano sullo schermo più velocemente dello scorrere delle canzoni sotto il suo polpastrello.
«Non vieni qui da così tanto tempo che avevo cominciato a credere che avessi dimenticato questo posto.», esordì Katsuki a mezza voce, prima di abbassare il volume della canzone e voltarsi a guardarlo.
Era un azzardo quello, perché se il solito approccio non aveva funzionato, forse così quel deficiente gli avrebbe raccontato cosa succedeva davvero. Perché intuire i malesseri era una cosa, azzeccarli invece…
Per Izuku era sparito tutto – il brusio della città in lontananza, la musica nel suo orecchio, il cinguettio stanco degli uccelli nel boschetto. Esisteva solo lo sguardo fisso e un po’ tenebroso di Kacchan, e l’espressione vagamente stordita sul suo viso quando si erano guardati negli occhi. E una pulsazione affrettata che gli martellava nelle vene, insistente. Nella gola. Nel petto.
«La neve toglie il senso dell’orientamento.».
«Quelle sono le commozioni cerebrali. – ridacchiò il biondo – E poi ci sono i cartelli, idiota di un nerd!»
Katsuki continuava a fissarlo come se potesse guardargli fino in fondo all’anima, nei suoi angoli più oscuri e segreti. E Izuku continuava ad aveva paura di quello che poteva scorgervi, così distolse lo sguardo.
«Sono arrivato qui senza pensarci, in realtà…», si giustificò, torcendosi le dita. Non era una bugia quella, anzi. Aveva camminato e pianto e girato a casaccio per un po’ prima di approdare lì. Ma tanto Kacchan non gli avrebbe creduto. Pure il mugugno che fece dopo glielo confermava.
La musica cessò e Katsuki avvolse le cuffiette attorno al telefono di Deku prima di porgerlo al legittimo proprietario. «A che pensavi allora?».
Erano poche le volte in cui Katsuki si concedeva un tono tanto calmo e pacato. Si toccò di nuovo al centro del petto, grattandolo. Ogni tanto quella vecchia cicatrice gli dava noia e prurito, ma era una delle tante cose che teneva per sé.
Con la coda dell’occhio vide Izuku reclinare di nuovo la testa all’indietro e prendere un profondo respiro: «Cose tristi. Sai…a volte capita.».
«Mh. Natale è un periodo da schifo.».
Il verdino lo guardò di sfuggita, stupito di quell’affermazione. Sapeva che Kacchan non amasse particolarmente quel periodo, avendo sempre svicolato eventi sociali o feste e quant’altro. Ma… il Natale? Lui che aveva la possibilità di passarlo a casa, con una famiglia numerosa? Per Izuku le sue parole erano inconcepibili!
«Natale è una bella festa, Kacchan. Non dovresti dire cos-», ma si sentì afferrare per il bavero della giacca, strattonato verso il biondo.
«Bella festa, bella festa, ma tu sei un piagnucolone del cazzo e le tue azioni non corrispondono alle tue parole, Deku!», e lo scuoteva mentre diceva quelle frasi aspre contro la pelle fredda della sua faccia.
Katsuki lo mollò con uno strattone e si sistemò meglio sulla panchina, braccia incrociate al petto e gambe larghe, un ginocchio che sfiorava a più riprese quello di Izuku, che non lo toglieva da quella posizione, ma che, anzi, era sollevato da quel contatto.
«Le feste sono sempre tutte uno schifo, lo sai come funziona per me.».
«Beh, non sei comunque coerente. E ti odio quando ti metti a rimuginare troppo sulle cose. - esalò, tuffando il naso nella sciarpa, alitando per scaldarlo e dando una spallata al verdino –Rischi di farti male per niente.».
Izuku si mise a ridacchiare, portando entrambe le mani alla bocca e alitandoci sopra per scaldarle, ricambiando la spallata: «Vuoi farmi tu del male, Kacchan?».
Il biondo spalancò gli occhi a quell’affermazione, infilando di più la faccia nella lana della sciarpa, sentendo le guance andando a fuoco.
“Perché non si rende conto di quel che dice ‘sto coglione?”, imprecò tra sé prima di uscirsene con un semplicissimo: «Ti disintegro!», mentre quel deficiente di Deku se la rideva sotto i baffi. Però aveva pure lui le guance arrossate.
Quando Izuku riuscì a calmarsi, si sentì sollevato dopo quella risata liberatoria e quella mezza presa in giro verso l’amico. Si voltò a guardarlo: «Grazie, Kacchan. Sto un po’ meglio adesso…».
Ma quelle sue iridi rossastre che lo scrutavano lo resero irrequieto e anche invaso da un’emozione che aveva paura di definire. Sentiva come il bisogno di prendere le distanze. Così si alzò dalla panchina, ormai intirizzito dal freddo, pronto per tornare verso casa, e guardò dietro di loro le impronte lasciate dal biondino sulla neve, portando poi l’attenzione alla distesa intonsa da dov’era venuto.
«E zia Inko? Come se la passa?».
Quella domanda portò l’attenzione di nuovo sul biondino. Quand’erano piccoli era solito per rispetto chiamarla in quella maniera e gli si scaldò il cuore a sentirla chiamare così dopo tutto quel tempo. Annuì in risposta e ricambiò la domanda: «Sta bene. E zia Mitsuki?». Forse Kacchan aveva sempre avuto ragione: era semplicemente un piagnucolone troppo emotivo se pure una domanda di quel tipo gli faceva pizzicare gli occhi.
Katsuki si alzò a sua volta e fece il giro della panchina: «La vecchiaccia sta fin troppo bene!», ghignò.
Gli occhi verdi di Deku non si staccavano da lui, come se quel loro muto salutarsi fosse per lui pesante e lo costringesse a tornare ai suoi brutti pensieri che lo avevano accompagnato per tutto il giorno.
Di nuovo quel prurito al centro del petto fece fare una strana smorfia a Katsuki, che batté il piede a terra, quasi infastidito da ciò che stava per uscire dalle sue labbra: «Ti va di passare a salutarla?».
Izuku sgranò gli occhi, che parevano quasi voler fuoriuscire dalle orbite: non entrava in casa di Kacchan da…secoli! Si limitò ad annuire con forza e a seguire l’amico lungo la distesa di neve, rovinandola con altre orme, altre scie di passi.
Katsuki avanti a lui di qualche metro e si fermò ad attenderlo, lasciandosi affiancare, prima di parlare con voce calma e un mezzo sorriso sulle labbra: «La saluti e poi ce ne andiamo.».
Izuku rimase interdetto: «Ce- Ce ne andiamo? Tu ed io?».
«Mh-m.», lo squadrò con i suoi occhi rossastri, che riflettevano le luci dei primi lampioni che si stavano accendendo lungo la strada, rendendolo quasi fiammeggianti.
«E dove?».
«A casa tua.», e Deku cominciò a balbettare qualcosa di incomprensibile, facendolo ridere. Il povero ragazzo si ritrovò ad avere il cuore che batteva troppo velocemente e le mani gli sudavano sotto i guanti. Perché voleva andare con lui a casa sua?
Kacchan non gli rispose fino al cancello d’ingresso della sua villetta: «Zia Inko fa sempre quella buona torta di fragole, giusto?».
«S-sì.» e Izuku lo seguì oltre la soglia di casa, venendo investito da un delizioso profumo di biscotti e da risate e suoni di giocattoli.
Katsuki lo aiutò a sfilarsi il giaccone, lasciandogli addosso sciarpa e guanti, come a ricordargli che non si sarebbero fermati.
La chioma bionda della signora Bakugō spuntò dalla porta del salotto appena la porta si chiuse dietro di loro.
«Figlio disgraziat- oh! IZUKU-CHAN! Ma che bella sorpresa!» e il verdino se la vide arrivare improvvisando una corsetta prima che lei se lo stringesse addosso, una decina di “Buon Natale” detti ad ogni bacio o pizzicotto sulle guance fredde.
«Bu-buon Natale, zia Mitsuki!», provò a dire mentre era ancora nelle grinfie di quelle dita sottili e calde.
«Ma quanto tempo! Come stai? Come va con la scuola? Mio figlio non mi racconta mai niente!» e mentre lei lo tempestava di domande, Izuku guardava disperatamente dietro la donna, cercandone il figlio che sembrava essersi volatilizzato di colpo.
«EHI! VECCHIA CIABATTA!  - la donna si voltò verso la cucina - IL VINO DA DOLCE DOVE L’HAI MESSO?».
«SCREANZATO! Ma come si fa a trattare così la propria madr- oh! Izuku caro come sta tua mamma? Me la saluti vero?» e Izuku non poté fare altro che annuire e prendere il cellulare, componendo il numero di casa propria per permettere a Mitsuki-san di salutare sua mamma.
L’urletto che ne seguì gli perforò il timpano e sorrise a vedere la felicità sul viso della donna mentre blaterava del più e del meno con sua madre.
In un certo senso gli sembrò di essere tornato piccolo, quando in quella casa ci veniva a giocare spesso, quando pure le loro madri si trovavano a bere il the e i pomeriggi passavano spensierati.
«Preso.».
Sobbalzò a vedersi di fronte Kacchan, che studiava minuziosamente l’etichetta del vino che teneva tra le mani. Una sberla sulla nuca del biondo gli fece chinare la testa, prima che sua madre gli levasse dalle mani il vino e ne leggesse a sua volta l’etichetta.
«Ma certo Inko-san! – la donna li osservò entrambi con un sopracciglio alzato – In realtà ti ho preso un piccolo presente, una sciocchezza! Mando quell’ingrato di mio figlio a portartelo, va bene?», e ricacciò la bottiglia nelle mani del ragazzo, prima di andarsene, continuando la telefonata. Quando la donna tornò con un piccolo sacchetto pieno di piccoli fiocchi di neve di glitter sull’esterno, riconsegnò il cellulare a Izuku e gli scompigliò i capelli in un gesto affettuoso. «Questo è per la tua mamma. Ha insistito perché Katsuki si fermi da voi a cena – fulminò il figlio con uno sguardo – e per te non deve essere un problema, intesi?».
La risposta di Kacchan fu un semplice “Tsk” e una spallata a Izuku, mentre afferrava il pacchetto e si avviava alla porta: «Allora? Ti muovi, nerd?».
Izuku salutò la donna e si affrettò a rivestirsi per bene prima di uscire nel gelo della sera, Kacchan sempre avanti a lui di qualche passo.
«Muovi il culo, Deku! Non ho voglia di congelarmi!», lo incitò il biondo, fermandosi ad attenderlo oltre il cancello di casa, prima di cacciargli in mano la bottiglia di vino.
Izuku gli sorrise e si avviarono a passo svelto verso casa Midoriya.
«Sai Kacchan?».
«Mh.».
«Pensavo che questa giornata finisse di merda così come è iniziata…».
Katsuki voltò la testa e lo osservò: rispetto a quando l’aveva incontrato al parco aveva un’espressione più distesa, serena.
«…invece, la fine non è poi così male, non trovi?». Quel tono fece ridacchiare il biondino, non per ilarità o per imbarazzo, ma perché quelle parole le sentiva vere, reali. Sue, in qualche modo.
Alzò una mano e gliela posò pesantemente sulla testa, scompigliandogli i capelli: «Già.», si limitò a dire.
Perché, alla fine, era pur sempre Natale, e, per quanto fosse un po’ una giornata strana e talvolta non allegra, non valeva davvero la pena né di essere tristi né arrabbiati.
   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Boku no Hero Academia / Vai alla pagina dell'autore: pansygun