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Autore: _Agrifoglio_    27/02/2023    14 recensioni
Una missione segreta, un’imboscata vicino al confine austriaco e il corso degli eventi cambia. Il senso di prostrazione dovuto al fallimento, il dubbio atroce di avere sbagliato tutto, un allontanamento che sembra, ormai, inesorabile, ma è proprio quando si tocca il fondo che nasce, prepotente, il desiderio di risorgere. Un incontro giusto, un’enorme forza di volontà e, quando tutto sembrava perduto, ci si rimette in gioco, con nuove prospettive.
Un’iniziativa poco ponderata della Regina sarà all’origine di sviluppi inaspettati da cui si dipanerà la trama di questa storia ricca di colpi di scena, che vi stupirà in più di un’occasione e vi parlerà di amore, di amicizia, di rapporti genitori-figli, di passaggio alla maturità, di lotta fra concretezza e velleitarismo, fra ragione e sogno e della difficoltà di demarcarne i confini, di avventura, di duelli, di guerra, di epos, di spirito di sacrificio, di fedeltà, di lealtà, di generosità e di senso dell’onore.
Sullo sfondo, una Francia ferita, fra sussulti e speranze.
Davanti a tutti, un’eroica, grande protagonista: la leonessa di Francia.
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Copertina-dimensionata

Il Congresso di Vienna
 
Europa, primavera del 1814
 
Un’accoglienza calorosa e trionfale fu riservata a Sua Santità Papa Pio VII quando, liberato dalla prigionia di Savona, poté rientrare nello Stato Pontificio.
In ogni tappa dove la carrozza papale si fermava, le scene di giubilo erano sempre le stesse. Una delegazione di notabili accoglieva l’illustre ospite e una folla festante, composta da tutti gli strati della popolazione, si assiepava ai lati del convoglio e faceva da corona all’arrivo, per poter guardare il Pontefice anche solo da lontano e ricevere la benedizione al passaggio di lui.
Nella natia Cesena, Pio VII si trattenne dal 20 aprile al 7 maggio 1814, soggiornando a Palazzo Chiaramonti, dove era venuto al mondo e godendo, dopo tanto tempo, della vicinanza dei membri ancora in vita della sua famiglia.
Il ritorno a Roma del Pontefice ebbe luogo il 24 maggio 1814 e fu salutato dall’esultanza della folla. I romani, nobili, borghesi e plebei, lo accolsero festosamente ed egli riprese possesso dei suoi palazzi dove ritrovò i Cardinali che gli erano rimasti fedeli, alcuni dei quali, come lui, avevano patito deportazione e prigionia.


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L’11 maggio 1814, Lord Arthur Wellesley fu insignito del titolo di Duca di Wellington, per i servigi da lui resi alla Corona, nel corso della Campagna Iberica.
Era rimasto lontano da casa per diversi anni e i due figli che, quando era partito, erano piccolissimi, al ritorno del padre a Londra, si trovarono davanti un estraneo. Per quanto Kitty li incitasse a manifestargli affetto, essi vedevano in lui l’eroe nazionale di cui sentivano parlare ovunque con ammirazione e reverenza e, nella loro mente di bambini, provavano soggezione e sacro rispetto per quell’uomo sconosciuto che consideravano un monumento più che un padre.
I rapporti fra i Duchi di Wellington si erano, ormai, del tutto raffreddati. Durante l’assenza del marito, Kitty, che ora superava di poco i quarant’anni, era alquanto invecchiata, divenendo sordastra e miope, cosa che la costringeva a stringere gli occhi per mettere a fuoco persone e oggetti. Per quanto la Duchessa si sforzasse costantemente di essere una brava moglie e di rendere felice il marito, nella speranza di rinverdire l’amore che li aveva uniti in gioventù, Lord Arthur preferiva stare ovunque tranne che a casa sua e non sopportava a lungo la presenza della consorte che considerava opprimente, gelosa e completamente priva di buon senso.
 
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Versailles, Palazzo Jarjayes, aprile 1814
 
Ad aprile del 1814, nacque, a Palazzo Jarjayes, il primo nipote di Oscar e André, figlio di Honoré e della moglie Élisabeth Clotilde. Al neonato fu imposto il nome di Oscar André Augustin Victor François Louis e fu battezzato nella cappella del palazzo, il giorno stesso della nascita.
Un grande ricevimento si svolse due settimane dopo, quando la madre del bambino si era ripresa e vide la partecipazione di tutti i parenti, fra i quali c’era Antigone anche lei prossima al parto.
Il Generale de Jarjayes, che ormai camminava aiutandosi col bastone, malgrado i quasi novant’anni, era completamente lucido. Esultava per tanta abbondanza di maschi dopo la penuria della sua figliolanza. Oscar e André, conoscendolo, lo lasciavano dire e fare mentre Antigone non si trovava d’accordo col nonno. Pensava, in cuor suo, che gli uomini fossero sopravvalutati, che, come la madre aveva testimoniato, le donne potessero fare qualunque cosa e che, tempo qualche generazione, lo avrebbero ampiamente dimostrato.
Ai festeggiamenti, partecipò anche il Marchese de Saint Quentin. La vista del neonato e della gioia che gli brillava intorno accese in lui il desiderio di formare una famiglia, con una moglie e dei figli. Da anni, ormai, si scriveva con Bernadette che aveva modo di incontrare, a Palazzo Jarjayes, per le festività pasquali e natalizie oltre che in occasioni come quella. Pensava fosse giusto prendere una decisione definitiva, perché gli anni passavano per tutti e non era corretto tenere ulteriormente nell’incertezza una donna di ventitré anni e mezzo. Era sicuro dei suoi sentimenti per Bernadette e anche di quelli di lei, ma dentro di sé sentiva che, finché non fosse riuscito a estrarre la spina che lo tormentava, avrebbe donato alla moglie una felicità sulla quale aleggiava un’ombra.
Il giorno successivo al ricevimento, André, che si era accorto dell’aria pensierosa dell’amico, si avvicinò a lui e, offrendogli del cognac, lo invitò a confidarsi.
Tanti anni prima, nei pochi mesi di permanenza a Lille, André aveva rappresentato una figura paterna – o ciò che più si avvicinava all’immagine di un padre – per il quattordicenne Marchese che, ancora adesso, teneva in gran conto il parere di lui.
– Vi ho visto molto assorto nei Vostri pensieri, in questi giorni, Marchese – esordì, con un sorriso, André, tenendo il bicchiere in mano.
– Perdonatemi, Conte di Lille! Offuscare con la mia tetraggine la gioia legata alla nascita del Vostro primo nipote non era nelle mie intenzioni! – disse il Marchese, sinceramente dispiaciuto e visibilmente imbarazzato.
– Il mio non era un biasimo, ma un invito a confidarVi, in nome dell’amicizia che ci lega da quasi trent’anni – lo rassicurò André, con viso aperto ed espressione rassicurante.
– Che sollievo! – esclamò il Marchese – Non vorrei mai offendere Voi e la Vostra famiglia!
– Non ci riuscireste molto facilmente! Noi siamo avvezzi a tutto o quasi! – scherzò André – I pensieri che Vi assillano hanno a che vedere con la Vostra inclinazione per la nostra Bernadette?
Il Marchese de Saint Quentin fu molto sollevato dal fatto che André avesse preso l’iniziativa di affrontare un discorso che lui non avrebbe mai intrapreso spontaneamente e, con altrettanto sollievo, espose, in modo convulso e non sempre ordinato, le sensazioni che provava, i dubbi che nutriva, i sentimenti che gli bruciavano l’anima e i rimpianti che lo tormentavano.
– La nostra diversità di censo e di rango… Il mio passato da libertino… Il passato di lei fra le braccia di un altro… E, poi, colei che non ho mai toccato, ma il cui ricordo paradossalmente mi tormenta più di quello di ogni altra…
In una serie di immagini appena abbozzate, ma di grande potenza, che qualche decennio più tardi si sarebbero potute definire “pennellate impressionistiche”, l’uomo descrisse il suo stato emotivo, ponendolo, come uno scrigno prezioso, nelle mani fidate dell’amico.
André lo guardò con infinita comprensione, tacque un poco per raccogliere i suoi pensieri e, dopo qualche istante, iniziò a rispondergli:
– Marchese, mentirei se negassi che il censo e il rango costituiscano un problema. Questi elementi divideranno sempre gli uomini, ma l’importanza di essi è destinata a scemare nei secoli a venire e, già adesso, pesa meno rispetto ai tempi della mia gioventù. Bernadette, poi, ha ricevuto un’educazione del tutto analoga a quella dei miei figli e Vi assicuro – e lo affermo per esperienza personale – che nessuno, frequentandola senza conoscerla, capirebbe che non è aristocratica. Io dovetti ottenere un titolo nobiliare per sposare Oscar mentre Bernadette è ancora borghese, ma i figli che, in caso di matrimonio, avreste seguirebbero la Vostra condizione e non quella della madre.
Fece una pausa e proseguì:
– Riguardo al passato, di Bernadette e Vostro, ha poco senso rivangarlo, se a unirvi è l’amore. Un sentimento profondo e sincero supera qualsiasi avversità e appiana ogni incomprensione. Voi non siete perfetto e neppure Bernadette lo è, entrambi avete commesso degli errori, ma adesso siete persone diverse e più consapevoli. Se siete disposti a raccogliere la sfida con lo slancio nell’anima e l’entusiasmo nel cuore, sarebbe un delitto rinunciare per il passato. Oltretutto, lasciatemelo dire, Voi esagerate sia il Vostro passato da libertino sia l’amore di Bernadette per l’altro!
– Ritenete che non fosse un amore intenso?
– Questo dovreste chiederlo a Bernadette. A parer mio, si trattò di un’infatuazione giovanile, prima e di un cedimento dovuto alla desolazione, dopo. La poverina agì come se fosse stata ubriaca.
– E il giovane Lavoisier?
– Un bravo ragazzo, ma debole e immaturo, a mio avviso poco adatto a una giovane coraggiosa e passionale come Bernadette. Se lo avesse sposato, col tempo, avrebbe capito di amarlo più come un fratello che come un marito e di avere sprecato la propria vita con una persona non alla sua altezza.
– Ma c’è sempre l’altra… Quella che ha fatto perdere la testa a me!! – sbottò il Marchese, portandosi le mani sul capo.
– Qui, sta a Voi capire se si tratti di vero amore. Posso soltanto dirVi che concentrare i propri pensieri e dedicare la propria vita a una donna irraggiungibile è fonte sicura di dolore e di annientamento. E’ come se dentro di Voi ci fosse un tarlo che, istante dopo istante, Vi consuma e, ogni giorno, una parte di Voi Vi abbandonasse e Voi foste più vuoto, solo e perso del giorno precedente.
André tacque un attimo, perché i ricordi del passato lo stavano ghermendo come un’onda riemersa dalla risacca. Gli occhi gli brillarono e un magone gli serrò la gola. Poi, con voce leggermente commossa, proseguì:
– Ci sono tante cose da stabilire. La donna in questione merita questo sacrificio? Di che tempra è, che valori coltiva, cosa le arde nell’anima? Cosa Vi unisce a lei? Una vita vissuta insieme, fianco a fianco o una mistificazione? Cosa sapete di lei? Ne avete una visione onesta che, malgrado l’esaltazione che spinge l’amante a collocare l’amata su un sacro piedistallo, Ve ne fa cogliere pregi e difetti o in Voi, piuttosto, alberga una proiezione del Vostro struggimento e della Vostra passione? Amate la vera Paolina o l’immagine che Vi siete costruito di lei?
Il Marchese si strinse ancora più forte la testa fra le mani, perché André, pur con la sua gentilezza e il suo tatto, aveva agito su di lui con la mano di un chirurgo preciso e per nulla pietoso. Sentì dentro di sé che l’amico aveva ragione e avvertì verso di lui un moto di enorme riconoscenza.
 
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Isola d’Elba, Portoferraio, 18 agosto 1814
 
Mia buona Luisa,
ti ho scritto spesso. Suppongo che tu abbia fatto la stessa cosa, tuttavia non ho ricevuto nessuna tua, dopo di quella di qualche giorno fa, della tua partenza da Vienna. Non ho ricevuto nessuna notizia di mio figlio. Questo fatto è atroce. Madame è qui, si è ben ristabilita. Sto bene. Il tuo alloggio è pronto e ti aspetto sempre per la vendemmia. Nessuno ha diritto di opporsi al tuo viaggio. Io ti ho scritto vieni dunque, ti aspetto con impazienza, sai quali sono i miei sentimenti per te. Non ti scrivo più a lungo perché è possibile che questa lettera non ti arrivi. La Principessa Paolina sarà qui a metà settembre. E’ il tuo onomastico e te le auguro buono, addio mio bene. Napoleone, 18.8.1814
 
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Svizzera, 25 – 26 settembre 1814
 
Nel giugno del 1814, l’ex Imperatrice Maria Luisa si recò nella località termale di Aix-les-Bains, per riprendersi dall’angoscia e dalla stanchezza degli ultimi mesi. Il padre le aveva messo al fianco il Generale Adam Albert von Neipperg, per il quale la giovane donna aveva iniziato a provare dei forti sentimenti sin dall’epoca del suo soggiorno milanese.
Fu ad Aix-les-Bains che Maria Luisa ricevette la lettera – una delle tante – con cui Napoleone la invitava a raggiungerlo sull’isola d’Elba per settembre. La donna, però, non aveva alcuna intenzione di recarvisi e, comunque, non avrebbe mai intrapreso il viaggio senza il consenso paterno.  
Napoleone l’aveva sempre trattata con rispetto e gentilezza e di questo gli sarebbe stata eternamente grata. I sentimenti che nutriva per lui, tuttavia, non erano mai stati profondi e, per tutta la vita, avrebbe ricordato il suo soggiorno alla corte imperiale con estremi disagio e sofferenza. Ciò che voleva fare, adesso, era dimenticare e ricostruirsi una vita. Napoleone, del resto, non si era mai lesinato le amanti, come la famosa Contessa polacca, quella Maria Walewska le cui bellezza ed eleganza tutti decantavano. Ora, però, i rapporti di forza si erano invertiti, lui era caduto in disgrazia e non era più in grado di imporle alcunché mentre lei era tornata a essere un’Asburgo.
Sarebbe partita, quindi, ma per Vienna, al fine di discutere del futuro proprio e del figlio.
Durante il viaggio di ritorno attraverso la Svizzera, i sentimenti della donna per il Conte von Neipperg crebbero ulteriormente, finché, la sera del venticinque settembre, affacciandosi alla finestra dell’albergo nel quale alloggiava, lo vide scendere da cavallo e avvertì un tuffo al cuore.
Quella stessa notte, l’Arciduchessa prese una ferma decisione: non sarebbe più stata sola.
 
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Vienna, Palazzo di Schönbrunn, 1 novembre 1814 – primi mesi del 1815
 
Dopo la caduta di Napoleone, le principali potenze europee si riunirono a Vienna, nel Palazzo di Schönbrunn, per ridisegnare l’assetto dell’Europa. Si voleva, in buona sostanza, riportare le lancette dell’orologio indietro di venti anni, a prima dell’inizio dell’avventura napoleonica, rimettendo sui troni i legittimi Sovrani e cancellando tutte le modifiche apportate dall’avventuriero corso, come se nulla fosse accaduto.
Della delegazione francese, facevano parte, fra gli altri, il Ministro degli Esteri Talleyrand, Oscar e André. Maria Antonietta volle partire insieme a loro, per rivedere la terra natia dopo quarantacinque anni di assenza. La accompagnavano il Conte di Fersen, Madame de Tourzel e la Principessa di Lamballe. Arrivata a destinazione, fu accolta con tutti gli onori, ma senza alcun trasporto, dall’Imperatore Francesco I che la conosceva appena.
Eccitata come una bambina, mostrava al Conte di Fersen, alle sue dame, a Oscar e ad André i luoghi della sua infanzia e della prima giovinezza, le stanze e gli angoli del parco che aveva amato. Tutto conservava l’incanto del passato, ma, allo stesso tempo, le appariva diverso.


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– Questa è la scala blu, quante volte l’avrò percorsa! Questa è la camera dei pesci! – esclamava, non appena raggiungeva un ambiente – Questa è la sala degli specchi! Questa, invece, è la sala del biliardo! Qui, c’era la stanza dei bambini, dove ci riunivamo e giocavamo! Questo è il salone dell’Imperatrice mia madre e questa è la stanza che dividevo con mia sorella, la Regina Maria Carolina! Il mio letto era lì! Quante birichinate abbiamo architettato, in questa camera, ai danni della governante!
– Potete dirlo forte! – scandì la voce decisa di una donna appena entrata nella stanza.
Maria Antonietta si voltò e, con gioia e stupore, riconobbe in lei la Regina Maria Carolina. Le due sorelle si abbracciarono festanti, come quando erano piccole e, subito dopo, la Regina di Francia presentò alla sorella il Conte di Fersen, Oscar, André e le dame che le si inchinarono secondo il cerimoniale.
Maria Carolina era a Vienna sin dal gennaio del 1814 e, grazie al suo carattere d’acciaio, con grande disappunto dell’Imperatore e del Principe von Metternich, aveva personalmente avviato delle trattative finalizzate a rimettere il marito sul trono di Napoli.
– Perché, alla fine, i tiranni come Bonaparte finiscono tutti come meritano! – disse, al termine del suo racconto.
– Fatemi vedere in che stanza risiedeva Napoleone, quando occupò il palazzo! – la esortò Maria Antonietta.
– Sapevo che me lo avreste chiesto. Andiamo!
Oltre all’amata sorella, la Regina rivide altri familiari ed ebbe modo di conoscere la nuora mancata, Maria Luisa, da poco tornata in Austria, a seguito della sconfitta dell’imperiale consorte. Maria Antonietta la giudicò una cara ragazza, ma notò in lei un’eccessiva ritrosia, troppa timidezza, scarsa spontaneità e una vera e propria vocazione all’acquiescenza e all’arrendevolezza che potevano celare tutto e il contrario di tutto. A Maria Antonietta piacevano le persone di carattere come Oscar e non le “gatte morte” e, pur continuando a considerare la pronipote una cara ragazza, reputò che il cambio di moglie fosse stato più che vantaggioso per il figlio.
In quel periodo, Maria Luisa era chiacchieratissima per l’inizio della sua relazione col Conte von Neipperg. La notizia era trapelata, ma l’ex Imperatrice continuava a comportarsi da figlia devota e obbediente, come se nulla fosse.


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Parlando di lei con Maria Antonietta, l’Imperatore Francesco assunse le arie del padre contrito che poco aveva potuto fare per la figlia.
– Il mio cuore di padre rabbrividisce al pensiero di mia figlia, sposata con quel tiranno senza Dio, con quell’anticristo!
Maria Antonietta, in realtà, sapeva bene che Francesco I, convinto da Metternich della convenienza di quel matrimonio forzato, aveva fatto molto poco per la figlia, così come aveva fatto ben poco per lei, quando ancora imperversavano i giacobini. Era arrivato al punto di dichiarare guerra alla Francia per la questione del contingente militare austriaco di cinquantamila uomini, causando indirettamente l’ascesa di Napoleone.
Quel nipote segaligno, col viso lungo e perennemente corrucciato, non le aveva fatto una grande impressione.
– Non ho mai permesso agli affari di Stato e al calcolo politico di avere la meglio sui miei legami familiari – rispose la Regina, chiudendo, così, definitivamente, il piagnisteo.
Oscar e André visitarono Vienna. Videro il Duomo di Santo Stefano, il Prater, la Chiesa di San Carlo Borromeo, la Chiesa dei Cappuccini, la Hofburg e tanti altri luoghi.
Il Congresso, purtroppo, non procedeva, tanto che si diffuse il detto che esso danzava, ma non camminava. Questo perché, mentre molteplici erano i balli e le occasioni mondane organizzati dalla corte imperiale e dai nobili per intrattenere gli ospiti stranieri, Re e Ministri non si accordavano sulla spartizione delle terre conquistate dal tiranno e su quali fossero i confini da ripristinare. Talleyrand giocava su più tavoli, stringeva rapporti con chiunque e tentava in tutti i modi di realizzare il miglior tornaconto possibile per la Francia.
Alcune decisioni importanti, tuttavia, furono prese, come la sottoscrizione – interponendovi i suoi zelanti uffici Pio VII – della “Dichiarazione contro la tratta dei negri” o la discussione di diverse clausole riguardanti la restituzione delle opere d’arte trafugate dall’Imperatore.


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Verso la fine di febbraio del 1815, la rappresentanza del Regno Unito passò da Lord Castlereagh al Duca di Wellington. L’eroe della penisola iberica diede a Oscar l’impressione di un militare molto pragmatico e capace che, però, non trattava bene la moglie.
Durante un ricevimento, la Duchessa di Wellington – che, essendo molto miope, soleva starsene in disparte, a rimuginare sul fatto che il marito corteggiasse altre dame o che la gente parlasse male di lei – chiese a Lord Arthur spiegazioni sulle voci che lo legavano a una certa signora. Lui le rispose stizzito e la piantò in asso nel bel mezzo della sala, raggiungendo un gruppo di conoscenti.
André, che aveva assistito alla scena, si avvicinò alla Duchessa e la invitò a danzare.
Talleyrand e Metternich erano sempre più contrariati per il fatto che il Congresso non procedeva. A gennaio e a febbraio, parlarono fra loro con frequenza sempre maggiore e con l’aria di chi complotta. Oscar li teneva d’occhio e temeva.
 
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Roma, Palazzo Borghese, febbraio 1815
 
Il Conte di Canterbury era stato nominato Ambasciatore nello Stato Pontificio e, con l’inizio del nuovo anno, era partito alla volta di Roma insieme alla moglie. Poche settimane dopo, il Marchese de Saint Quentin era andato a trovare la sorella e il cognato, con l’intenzione di trattenersi presso di loro per qualche tempo.
Con la caduta di Napoleone e il ritorno del Papa, l’atmosfera, a Roma, era molto cambiata. Si lavorava alacremente per ripristinare lo status quo ante e per cancellare gli effetti della tempesta napoleonica.
Una delle questioni all’ordine del giorno era il recupero delle opere d’arte trafugate da Napoleone, secondo quanto stabilito al Congresso di Vienna. Della questione, fu incaricato lo scultore Antonio Canova che alle indiscusse doti artistiche univa delle grandi abilità diplomatiche oltre alla rara capacità di rendersi gradito a ogni interlocutore. Assicurandosi l’appoggio dell’Inghilterra, Canova, in pochi mesi, riuscì a far rientrare nello Stato Pontificio moltissime opere, tanto che, nel 1816, Pio VII lo insignì del titolo di Marchese di Ischia di Castro, iscrivendolo nell’albo d’oro della nobiltà capitolina.
Il Principe Camillo Borghese, marito separato di Paolina Bonaparte, dopo la caduta del cognato, si trovava nella difficile situazione di nobile romano imparentato col nemico. Per scrollarsi di dosso ogni ombra di sospetto, aveva deciso di aprire le porte del suo palazzo di Campo Marzio ad Antonio Canova, allo scopo di dimostrare di non nascondere alcuna delle opere trafugate da Napoleone.
Quale Ambasciatore della Gran Bretagna, il Conte di Canterbury aveva accompagnato lo scultore e ai due si era unito il Marchese de Saint Quentin, certo del fatto che non avrebbe rivisto Paolina che aveva abbandonato il tetto coniugale da molto tempo.
– Vi do il benvenuto nella mia dimora – disse il Principe Borghese, rivolgendosi ai tre ospiti.
– Vi ringrazio, Vostra Eccellenza – rispose Antonio Canova – Vi assicuro che la nostra visita è una pura formalità, giacché nessuno dubita della Vostra correttezza.
– Difatti, non troverete opere trafugate, qui. Anzi, l’Imperatore mi forzò a vendergli trecentoquarantaquattro dei miei capolavori. Io, in compenso, ho implementato la mia raccolta con pezzi provenienti dagli scavi in Egitto e con altre opere regolarmente acquistate. Venite a vedere la mia collezione.


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Capolavori di Caravaggio e di Gian Lorenzo Bernini, come Apollo e Dafne, il ratto di Proserpina ed Enea con Anchise e Ascanio li guardavano con la loro ieratica imperturbabilità. Raffaello, Tiziano, Giorgione, Antonello da Messina, Annibale Carracci e Rubens si contendevano l’attenzione degli stupefatti visitatori.
In una sala appositamente dedicata, i reperti dell’antico Egitto, figli di una civiltà ancora poco conosciuta, conferivano all’ambiente un’aura di esotismo e di mistero.
Mai avrei potuto offrirle un tale splendore – pensava, fra sé e sé, il Marchese – eppure tutto ciò non è stato sufficiente a trattenerla.
– Credo che abbiamo visto tutto – disse Canova, dopo avere girato tutti gli ambienti.
– Rimangono le cantine – rispose il Principe Camillo Borghese – Non voglio che, su di me, pendano dei sospetti.
I tre visitatori, preceduti dal padrone di casa, scesero nelle cantine, facendosi luce con dei lumi a olio.
– Ecco dov’era finita! – esclamò lo scultore, dopo avere posato gli occhi su una scultura marmorea.
In un angolo della cantina, giaceva, sensuale e discinta, la statua di marmo scolpita da Canova, effigiante Paolina Borghese nei panni di Venere Vincitrice. Mollemente adagiata su un divano munito di un solo bracciolo, detto Agrippina, la figura appoggiava la testa alla mano destra mentre, in quella sinistra, stringeva delicatamente la piccola mela che Paride le aveva appena donato, incoronandola la più bella delle dee. Il viso della statua era soddisfatto, ma sereno, come se la vittoria fosse giunta senza sorpresa, quasi fosse stata un atto dovuto. Il busto era nudo e faceva mostra di seni adolescenziali e di un ventre tondeggiante e proporzionato. Una veste leggerissima e aderente copriva l’intimità della figura e ne sottolineava le gambe ben tornite, dalle quali spuntavano i piedi nudi e delicati. Il panneggio del drappo, il fatto che esso coprisse l’essenziale, sottolineando il culmine delle nudità senza consentire di vederle e il gioco dei chiaroscuri, accentuato dai lumi a olio, esaltavano la sensualità dell’opera.
Inizialmente collocata in una delle sale del palazzo, il Principe aveva deciso, in un secondo momento, di trasferirla nella sua camera da letto, ingelosito dagli sguardi degli estranei. Dopo la separazione dei due coniugi, cagionata dalle numerose e reciproche infedeltà, la scultura era stata trasportata nelle cantine e lì inevitabilmente dimenticata dopo la caduta dell’Imperatore che aveva reso anacronistica la celebrazione dei fasti napoleonici.
Il Principe Camillo Borghese entrò nella cantina, evitando di guardare la statua e, subito dopo, iniziò a mostrare al Conte di Canterbury e a Canova ogni angolo del polveroso ambiente.


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Il Marchese de Saint Quentin rimase, invece, impietrito, più del marmo che gli stava di fronte, alla vista dell’immagine di colei che aveva amato. La statua era molto somigliante e coglieva perfettamente l’essenza di Paolina, sontuosa, seducente, elegante e spudorata, ma senza volgarità. Splendeva bella e sensuale come una dea, pensò il Marchese, ma, come le dee, era anche falsa e bugiarda. Era di marmo levigato, liscia e perfetta, ma anche fredda e incolore. Peggio, pensò il Marchese, era senz’anima, era morta! Lui, invece, voleva calore e amore, lui voleva vivere!
Chinò gli occhi verso il basso, strinse le labbra e, di colpo, si rese conto che là fuori c’era la vita. Ripensò al dolce viso di Bernadette, roseo e pieno di amore, riudì le parole di André e si sentì come risvegliato da un lungo sonno.
– Con questo, abbiamo visto proprio tutto – disse il Principe Camillo Borghese ai suoi ospiti.
– L’avevo detto, Vostra Eccellenza, che si trattava di una pura formalità – fece eco Antonio Canova, con voce gentile e rispettosa.
I tre uomini attraversarono la porta della cantina e il Marchese li seguì subito dopo. Giunto sulla soglia, rivolse un ultimo sguardo all’immagine di colei che aveva amato e, poi, si voltò indietro, chiudendosi la porta alle spalle.
 
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Vienna, Palazzo di Schönbrunn, inizio di marzo del 1815
 
Nei primi giorni di marzo, mentre a Vienna si discuteva, un messo fece irruzione nel salone dove Re e Ministri erano riuniti e portò la notizia che forse nessuno si sarebbe aspettato di udire.
– Napoleone Bonaparte è fuggito dall’isola d’Elba! Lo scorso 26 febbraio, intorno alle sei del pomeriggio, è salpato da Portoferraio a bordo del bastimento Inconstant e non vi ha più fatto ritorno!
Stupore e sgomento serpeggiarono fra i presenti mentre Metternich e Talleyrand si scambiavano segni di intesa e sogghignavano.
 
 
 
La lettera scritta da Napoleone alla moglie è autentica. In alcune di queste lettere, si firmava: “Tuo Nap.
Ciò che ho scritto sulla villeggiatura di Maria Luisa e su quello che è seguito è vero. E’ di mia invenzione, invece, il fatto che l’ex Imperatrice conoscesse il Conte von Neipperg prima della caduta del marito e del suo ritorno in Austria.
La Regina Maria Carolina morì nel castello di Hetzendorf, l’8 settembre 1814, circa due mesi prima dell’inizio del Congresso di Vienna, colpita da un ictus. Nella mia storia, l’ho fatta sopravvivere, per descriverne la riunione con Maria Antonietta.
L’Imperatore Francesco II, poi Francesco I (quando il Sacro Romano Impero cessò di esistere), si disinteressò completamente della sorte di Maria Antonietta e chiuse le porte in faccia a Danton, quando questi gli propose uno scambio di prigionieri con conseguente liberazione della Regina. Lo stesso Imperatore fece sposare la figlia Maria Luisa con Napoleone, dopo averla educata a detestarlo. Il calcolo politico ebbe la meglio, ma, quando la figlia andò a lagnarsi, lui diede la colpa a Metternich, dicendo di non essere stato informato delle trattative matrimoniali in corso. Si sposò quattro volte, ovviamente senza avere mai divorziato.
Nella mia storia, l’Imperatore Giuseppe II invia in Francia un contingente austriaco di cinquantamila uomini, per aiutare la sorella a sgominare i rivoluzionari. Alla morte di Giuseppe II, i successori non accettano le condizioni economiche di estremo favore praticate alla Francia in cambio dell’invio del contingente militare, richiamano in patria i soldati e Francesco II (poi, I) dichiara guerra alla Francia. La guerra va male, perché la permanenza in Francia, per due anni, del contingente militare ha reso edotta l’Austria dei pregi e dei difetti dell’esercito francese. Per uscire dall’angolo, Oscar, consigliata da Alain che ha militato sotto di lui in Italia, chiede alla Regina di affidare un’armata a un giovane e oscuro Generale, Napoleone Bonaparte e ciò ne favorirà l’ascesa.
Canova fu effettivamente incaricato di recuperare le opere dello Stato Pontificio trafugate da Napoleone e, nel 1816, fu creato Marchese di Ischia di Castro, un Comune laziale.
La statua raffigurante Paolina Borghese nelle vesti (?) di Venere Vincitrice fu realmente relegata in cantina. Ora, si trova nella Galleria Borghese. A chi le domandò se avesse avuto problemi a posare nuda, Paolina Borghese rispose che la stanza era perfettamente riscaldata e che, comunque, Canova non era un vero uomo.
Secondo una ricostruzione forse un po’ fantasiosa, Metternich e Talleyrand favorirono la fuga di Napoleone dall’isola d’Elba. Siccome i partecipanti al Congresso di Vienna non si sbrigavano a mettersi d’accordo, loro avrebbero fatto in modo che Napoleone fuggisse, ben sapendo che non avrebbe avuto chances di mantenere il potere, per impaurire Re e Ministri e indurli a concludere qualcosa. Io, nel capitolo, mi sono mantenuta sul vago, lasciando uno spiraglio aperto alla tesi fantasiosa.
Grazie ancora, come sempre, a chi vorrà leggere e recensire!
   
 
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