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Autore: Scarlett Queen    03/03/2023    2 recensioni
L'uomo col cappello di paglia arriva ad un villaggio, isolato e tranquillo.
L'uomo col cappello di paglia è un samurai vagabondo, male in arnese e senza una meta precisa, il suo nome è famoso e lui lo nasconde.
L'uomo col cappello di paglia trova, in quel villaggio isolato, un frammento di quiete, crogiolandosi al sole, vivendo sereno lontano dalla battaglia, riposando il corpo.
L'uomo col cappello di paglia riposa, e il mondo... il mondo è bianco e nero.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Giappone feudale
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Il rosso del vespro annunciava l’avvicinarsi della notte; ad occidente il cielo era divorato da un incendio innaturale e alle sue spalle, ad oriente, la notte incalzava allegramente allungando le proprie dita sul mondo. Il sentiero dell’uomo col cappello di paglia proseguiva attraverso i campi di grano selvatico, alti quanto e più un uomo, dove le volpi si annidavano in tane scavate nella terra e i banditi aspettavano ignari passanti. Non molto lontano, alle sue spalle, tre di quei tagliagole giacevano in mezzo al sentiero, due stringevano yari arrugginite, il terzo una katana e portavano tutti e tre delle braghe nere e delle giacche sgualcite. Aveva fatto loro un favore, il sangue strappato dai loro corpi aveva abbellito quelle misere vesti.
«Come se io possa dire di essere messo meglio» sospirò tristemente grattandosi una tempia con l’indice sinistro. Portava un kimono nero dagli orli delle maniche bianche, con sandali in rovina e le calze macchiate di terra e fango e il fodero in legno della sua katana era intaccato, rovinato e la lacca saltata via ormai da tempo, da quando aveva preso a vagabondare per il paese. Continuò ad avanzare, ascoltando avido il suono del vento che correva sul grano, quel fruscio morbido e carezzevole, puntando l’unico occhio sano sul cielo azzurro, terso e privo di nuvole. Che magnifica giornata, calda e ventosa, come se gli elementi fossero in pace con sé stessi e gli animi degli uomini fossero amorevoli gli uni con gli altri.
A quel pensiero rise di gusto e perseguì il cammino, portandosi una spiga di grano alla bocca e abbandonando le mani lungo i fianchi.
 
“cammino solo
attraverso il tempo
sognando pace”
 
Si fermò, pronunciando quell’haiku ad alta voce ed emise un basso verso esasperato, scuotendo mestamente il capo. «Ah, non credo di essere portato per la poesia» disse senza rivolgersi a nessuno in particolare, poi si ricordò che non ci sarebbe stato nessuno ad ascoltarlo comunque e agitò le spalle, muovendosi lungo il sentiero. Pochi miglia dopo, col sole ormai oltre l’orizzonte e il manto blu scuro trapuntato di gemme che i Kami gettavano sul mondo per la notte, come le coperte nelle quali si avvolgevano gli uomini, giunse lì dove il campo cessava, trasformandosi gradualmente in campi e risaie ben tenute, con la strada polverosa e giallastra che percorreva diritta il proprio percorso, attraversando poche case separate da un orticello privato e con un pozzo al centro, mentre su di una collinetta alla sua destra, in direzione ovest, sorgeva un piccolo tempio.
Le casse erano basse e squadrate, dai tetti in fascine di paglia e legno. La notte era fresca e piacevole e seduti sui talloni, fuori per la strada o nei portici stavano gli abitanti, per lo più gli anziani con la pelle segnata dal tempo, gli occhi vispi e le bocche sdentate e ridenti, con i crani chiazzati e parlavano del tempo, del volo degli uccelli, dei cavalli e del raccolto. Da quando il vecchio shogun era morto e al suo posto era stata scelta la moglie, il paese aveva conosciuto un periodo di pace, i daimyo erano stati svenati dal precedente gran capo militare e l’imperatore, alla capitale, era riuscito a riguadagnare parte dell’antico potere, riconoscendo l’importanza della pace per una nazione a lungo oppressa dalle fiamme di una guerra civile. L’uomo col cappello di paglia superò l’ingresso del villaggio, fiancheggiò i campi ed entrò nelle sue strade polverose segnate da impronte di piedi umani zoccoli di buoi e ruote di carri.
Uno degli anziani lo vide passare e si sollevò in piedi, inchinandosi con un sorriso gentile portava solo un perizoma addosso e stava chino sul peso degli anni. L’uomo si fermò, inchinandosi a propria volta. «Toshi san – chiese con voce amichevole – in questo posto un vagabondo può trovare di che dissetarsi?». Il vecchio parve pensarci un attimo, poi si avvicinò a lui, indicandosi l’orecchio e facendo intendere che non ci sentiva bene. L’uomo ripeté pazientemente la domanda e l’altro allora annuì.
«Questo è un piccolo villaggio samurai sama – disse inchinandosi profondamente, l’uomo davanti a lui aveva solo una spada e sembrava davvero male in arnese, ma non per questo avrebbe rischiato di offendere un sì fatto uomo armato – ma al feudatario piace molto la pace che si respira qui ed ha fatto costruire una Casa del Tè, alla base della collina»  e gli indicò una strada che passava fra una bottega da calzolaio e un’altra casa. L’uomo male in arnese col cappello di paglia ringraziò con un altro inchino e si avviò nella direzione indicatagli. La Casa del Te c’era, piccola ma bella alla vista, con un tetto rosso come le lanterne e una veranda ariosa. Togliendosi il cappello e tenendolo nella mano sinistra entrò fra le pareti mobili che scivolavano sugli appositi binari.
L’interno era caldo e piacevolmente chiassoso, con gli uomini del villaggi, tutti contadini, pastori, risai e mandriani che sedevano attorno ai bassi tavolini in legno, semplici ma graziosi e con qualche ragazza di aspetto gradevole che passava fra loro con degli yukata dai vivaci motivi agresti, con petali di ciliegio e foglie di cedro. Si tolse i sandali lasciandoli di parte all’ingresso ed entrò inchinandosi ai presenti, sedendosi ad un basso tavolo isolato e togliendosi il fodero dalla cinta, poggiandola contro la spalla sinistra. Una delle ragazze, dall’acconciatura perfetta, il corpo esile stretto nello yukata gli si avvicinò a passetti piccoli e rapidi, inchinandosi profondamente. «Gesuto sama desidera qualcosa in particolare?» chiese con voce aggraziata, inchinandosi ancora. L’uomo col cappello di paglia emise un basso sospiro esasperato, portandosi il pollice, sul lato destra della fronte e l’indice col medio sulla sinistra, scuotendo il capo.
«Non mi chiamo né “samurai” e tanto meno “gesuto” ragazza! Io sono – ma si fermò, mordendosi la lingua, dicendo il proprio nome avrebbe potuto dire addio alla “vacanza” che tanto desiderava prendersi – Yasei Furosha» disse alla fine con scioltezza. La ragazza si inchinò ancora, imitata dal samurai e disse:
«Perdonatemi, Furosha sama. Cosa posso portarvi?»
«Riso bollito in erbe piccanti, sakè e magari quando avrò finito un po’ di cha verde». Quella annuì e, con un ultimo inchino, si allontanò con la giusta velocità, né troppa né poca, il giusto affinché la curva delle natiche risaltasse sotto lo yukata. Il samurai vagabondo sollevò un angolo della bocca a quella vista e si tirò su le maniche, aspettando. Qualcuno lo stava ancora guardando con curiosità ma i più se ne erano tornati a mangiare e ridere. Sentì commenti entusiastici sulle tasse, sulle pattuglie più serrate dei samurai fra i feudi e sul fatto che oni, nokitsune e altre bestie si presentassero sempre di meno fra gli uomini, fuggendo la presenza della capillare rete di templi. Quando il precedente Shogun sedeva sul trono, Yōkai e mostri erano a piede libero e quel serpente se ne serviva indirettamente per impedire le rivolte, ma da quando il leggendario spadaccino l’aveva ucciso, le cose erano cambiate, in tutta la nazione. 
Dopo poco ritornò la medesima ragazza col vassoio con il cibò, poggiò tutto davanti all’ospite e si congedò, lasciandolo solo. L’uomo prese le bacchette, unì le mani davanti al volto per rendere grazie ai kami dell’abbondanza e del desco e iniziò a mangiare, raccogliendo pochi chicchi per volta e deglutendo un poco di sakè. Nonostante il suo aspetto, in ogni suo gesto si respirava una grande dignità d’essere, un’attenzione ai dettagli, all’etichetta e mangiava come fosse ad un banchetto di corte e non in una locanda. Quando gli fu portato il tè, il samurai infilò la mano destra sotto al kimono  e ne trasse fuori un sacchetto di pelle cinto da un laccio in cuoio e vi rovistò dentro brevemente prima di estrarne uno tsuka d’oro, facendo sgranare gli occhi alla cameriera. «Per il pasto, il tè, una stanza per qualche notte…e te» aggiunse alla fine, facendo balzare la moneta in aria e mandandola a ricadere nel suo palmo tremante.
La stanza al piano di sopra era piccola, ma come tutto in quel posto piacevole e accogliente con un morbido futon per terra, un pitale per le abluzioni corporee e su un tripode in ferro battuto un ampio vaso colpo d’acqua per le mani e il volto. Entrati, fecero scorrere la porta alle loro spalle, lo spadaccino si rinfrescò il folto, passandosi la punta delle dita dietro il collo e le orecchie e sentì alle sue spalle il lieve fruscio di vesti che si smuovevano  equando si voltò, vide la ragazza nuda, con lo yukata ai suoi piedi nudi. Con uno studiato rossore alle guance si coprì i piccoli, bei seni sodi e portò una tornita, morbida e pallida coscia davanti all’altra, a nascondere il suo sesso. L’uomo le si avvicinò lentamente, prendendole il mento con due dita e la baciò sulla bocca, incontrando le sue labbra fresche e ben disegnate e la accompagnò mentre quella si lasciava cadere sul futon.
Anche se era solo una yujo, una giovane donna di piacere, lui la possedette con gentilezza, stringendola fra le mani mettendosi seduto ed entrando in lei col membro duro e lucido dei suoi umori, mordendole piano le spalle e succhiandole delicatamente i capezzoli piccoli e graziosi. Quando ebbero superato l’orgasmo, si stesero sulle coperte, prendendo fiato e lei osservò il suo corpo, il petto ampio e forte, l’addome duro e i muscoli guizzanti, seguendone il contorno con la punta delle dita, guardandolo in quel suo unico occhio rimasto. «Ho sentito dire – sussurrò – che gli orbi non vedono i colori, è vero?»
Lui annuì piano, fissando il soffitto in legno ed espirando adagio «Il mondo è in bianco e nero – rispose con voce lenta – ma da quando lo vedo in questo modo, ho iniziato davvero a capirlo, come se i colori ne nascondessero la vera essenza… lo vedo semplice e bellissimo e attorno a me tutto è bianco, nero o un po’ grigio e io mi ritrovo immerso in un placido fluttuare». La ragazza ridacchiò, ammirata e si sollevò, coprendosi i seni con la coperta.
«Sei anche un poeta oltre che un samurai?»
«Nah – fece quello grattandosi la nuca e ridendo di gusto – ho solo rubato le parole che un monaco mi disse una volta. Non sono stato mai particolarmente bravo come poeta, anche se un giorno, in vecchiaia, mi piacerebbe scrivere… quando non riuscirò più a brandire la spada, allora porterò mano ad una penna e scriverò delle molte cose che ho visto?»
«E cosa hai visto, Furosha sama?» 
«Molte, molte cose» e poi, osservando la falce della luna fuori dalla finestra alle sue spalle sentì un lieve brivido lungo il corpo che nulla aveva a che fare col fresco della notte o col piacer e sussurrò, assorto.
 
steso la notte
nei lunghi giorni caldi
io giaccio quieto
 
La ragazza ascoltò in silenzio la voce dell’uomo e inclinò pensosa la testa da una parte, sollevando una ad una le dita della mano sinistra. «Non è poi così male – disse alla fine sincera – mi sembra che ci sia tutto, no?» e lui ridacchiò appena, infilandosi la mano destra sotto alla nuca e stringendola a sé col braccio sinistro, strappandole uno squittio di sorpresa prima di chiudere gli occhi e lasciarsi cullare dal respiro della giovane, sognando, lontano, oltre il corpo, quei campi di battaglia che si era lasciato alle spalle. La guerra era finita, il paese era tornato sereno ma lui.. lui avrebbe continuato a viaggiare per quelle lande, affrontando ciò che il destino gli avrebbe messo davanti.
 
*
 
Scoprì che il villaggio aveva un nome, Hinan, rifugio, e che era stato chiamato così dal suo fondatore, un samurai che in quella regione fuggiva da chi lo voleva morto e trovandovi riparo battezzò quel borgo, appunto, “Hinan”. Il vecchio al quale aveva chiesto informazioni, la sera prima, era il capo di quella comunità e al mattino successivo lo vide nella sala comune della locanda, intento a bere del cha e a ridacchiare con le ragazze del posto. «Ahi, Furosha sama! – esclamò allegro vedendolo scendere le scale e sollevando la coppa nella sua direzione – avete dormito bene vedo, sono contento. Ad Hinan andiamo orgogliosi della nostra ospitalità, ahi!» e bevette altro tè, inchinandosi profondamente quando le fu riempita nuovamente la coppa.
«Vi devo chiedere perdono, soncho san – disse il samurai, sedendosi, invitato, al suo tesso tavolo – avessi saputo chi eravate vi avrei trattato con cortesia, perdonate questo sciocco» e portò le mani alle ginocchia, chinandosi ancora, ma quello agitò una mano, scuotendo il capo.
«Ie, nessuno sbaglio, Furosha sama e chiamatemi Jenji, Jenji il capovillaggio, per servirvi»
«Jenji san, allora vi ringrazio per la vostra gentilezza».
«Ah, un smurai come voi sono merce rara, anche di questi tempi lieti, tutti che stanno a testa alta davanti ad un povero vecchio, ma voi siete diverso vero? Si sì, lo leggo nel vostro occhio, voi siete un’anima singolare, amico mio».
«Immagino che possa dire che sono un esemplare più unico che raro, si» asserì il samurai, ridacchiando assieme al vecchio e contagiando le cameriere della Casa del Tè. Così iniziò il primo giorno nel villaggio di Hinan, e l’uomo che si faceva chiamare Yasei non lo trascorse nell’ozio, giacché l’ozio era per i nobili o gli scansafatiche, ma mentre i nobili avevano del più grandi responsabilità della semina o del mungere le vacche e gli scansafatiche erano come parassiti nel manto di un cane, egli non era né l’una né l’altra cosa e si fece raccomandare dal capovillaggio per portare avanti certi lavori pesanti. Così facendo, Yasei tagliò la legna per il trogolo del minuto, abile fabbro locale, per la locanda o per quelle famiglie i cuoi uomini erano o troppo giovani o troppo vecchi.
Nelle sue forti mani, l’ascia si muoveva veloce e precisa e quando iniziò a usare sotto il kimono, si liberò dalla parte superiore, brandendo l’attrezzo con la sola mano destra, levandola e abbassandola con colpi singoli, spaccando i ciocchi di legno. Vedendolo mezzo nudo delle ragazzine del villaggio ridacchiarono e corsero via, lasciandolo divertito e perplesso allo stesso tempo e continuò il proprio lavoro, trasportando una buona catasta da solo. «Vi sono davvero grato, prego Yasei sama, sedete e prendete del cha, mia moglie ne ha preparato un poco per le mie vecchie ossa». Tutti lo chiamavano “sama” in virtù della sua spada e del suo, probabile, essere un samurai, il che lo rendeva superiore a qualsiasi persona al villaggio, anche del suo capo che lui chiamava “san” per rispetto della sua più veneranda età. Ringraziò il fabbro con un inchino, si dissetò col buon tè che sua moglie gli servì e assaporò la quiete prima di congedarsi e cercando altre mansioni.
Alla fine della giornata aveva munto le vacche e aiutato a disossare uno dei campi e per rinfrescarsi scese al fiume che correva dappresso al villaggio, oltre il confine meridionale dello stesso. Hinan confinava con una piccola ma folta foresta di bambù e una mezza giornata di cammino più a sud stava una delle città di scambi del feudo, Domyaku dalla quale partiva la grande strada che portava sino alla capitale del feudo. Hinan era uno dei tanti villaggi che rispondevano al bisogno di Domyaku e la città, a propria volta, li foraggiava. «Tutti hanno detto che siete un grande lavoratore – gli disse Jenji quella sera, versandogli del sakè e mangiando con lui del buon pollo con verdure calde e saporite con sale e spezie, alla locanda nei pressi del tempio – molti samurai passano di qui alle volte ma nessuno lavora, avevate ragione a dire che siete unico, ahi!».
«Sono cresciuto in un villaggio come questo» rispose Yasei portandosi bocconi di pollo alle labbra, gustandoli lentamente e puntando l’unico occhio nerissimo sul vecchio «Mio padre era un armaiolo e mia madre era maestra di calligrafia e quando arrivò la guerra aveva quindici anni e mio padre mi fece dono di questa spada – e gli mostrò la katana dentro il suo fodero, stringendola con entrambe le mani, soppesandola con cura, guardandola con una grande tenerezza – mi disse che ci ha lavorato da quando sono nato, battendola su sé stessa decine di migliaia di volte ogni notte… non so se il vecchio esagerasse, ma non ha mai perso il filo mentre la maggior parte delle nostre spade si smussano facilmente e vanno curate. Io l’ho sempre trattata con rispetto e mai, mai una volta si è intaccata, la lama» e la snudò con un solo, fluido movimento, muovendola piano davanti ai loro occhi e osservando il proprio riflesso, quindi la rifoderò, sospirando. «Quando me la regalò, mi disse che non sarebbero mai riusciti a mantenermi e di cercare fortuna con questa, che non mi avrebbe mai tradito, e così è stato. È grazie ai miei genitori se ho appreso la bellezza del lavoro manuale, la calma che infonde, la dignità dietro alla creazione degli oggetti».
Il vecchio Jenji si congedò poco dopo e il samurai si ritirò nella propria stanza, mettendosi a sedere intrecciando le gambe e snudò la spada, poggiandosela sulle cosce e prima di dormire meditò profondamente, distaccando la mente dal corpo, rivivendo alcuni suoi ricordi… quando non era in battaglia, il samurai ricorreva a quella tecnica per potersi allenare nello scontro, trasportando il sé del presente sui luoghi del proprio passato, applicando quanto imparato alle prime, goffe imprese di un giovane scavezzacollo con una spada troppo potente fra le mani. “Questa spada, Yasei no kaze… la mia sorella nello spirito e nel sangue” pensò levandone la lama davanti al volto e facendoci scorrere sopra il palmo. Il filo recise la pelle senza sforzo, il sangue scivolò sulla lama e scomparve, assorbito dal metallo. “Una spada vivente… c’è solo un uomo al mondo capace di darvi la vita… il destino ha voluto che fosse mio padre, e tu l’ultima delle sue creazioni” e la rimise nel fodero, coricandosi su un fianco e addormentandosi.
Venne svegliato sul fare dell’aurora dal suono delicato della pioggia contro il tetto della locanda; rimase per del tempo ad ascoltare, assorto prima di mettersi seduto e svuotandosi le viscere nel pitale prima di sciacquarsi il viso e far scorrere la porta, scendendo di sotto e sistemandosi la katana al fianco. Fuori l’aria era uggiosa, ingrigita dalla pioggia e il campo di grano selvatico ondeggiava pigramente mentre la strada si trasformava in fango. Si sedette sulla veranda, ponendosi il cappello di paglia in testa e nascose le mani nelle ampie maniche, chiudendo gli occhi e concedendosi una breve meditazione prima che il mattino si prendesse a pieno titolo il suo posto nel fiume che era lo scorrere del tempo. «Furosha sama, vi siete svegliato presto» disse una voce di ragazza e l’uomo non ebbe bisogno di guardarla per sapere che era la ragazza che aveva pagato la prima notte e nemmeno per sapere che si ea seduta sui talloni due passi dietro di lui, con le mani raccolte in grembo. Il mondo per lui era bianco e nero e nel nero dietro le proprie palpebre percepiva distintamente i movimenti del “bianco”.
«Ahi. I miei sensi si sono fatti molto più affinati da quando calco i campi di battaglia, ormai da vent’anni e anche la caduta di un granello di sabbia sarebbe capace di destarmi».
«Oh, Furosha sama, voi vi prendete gioco di me – squittì la ragazza portandosi educatamente una mano alla bocca per coprire il risolino – a sentirvi, voi sembrate uno di quegli spiriti invincibili che appaiono e scompaiono in questo paese».
«Ma tu senti – borbottò l’uomo ponendo le mani sulle ginocchia – e perché non potrei esserlo?»
«Furosha sama… voi siete un uomo, gli spiriti non fanno l’amore con le yujo» e rise ancora lei, facendolo arrossire di fastidio e si grattò il collo, raschiando le unghie contro la barba sfatta. Quel giorno avrebbe chiesto di potersi radere, stando in mezzo alle donne e gli uomini del villaggio non gli garbava l’idea di apparire troppo trasandato “Anche se immagino che sia un ottimo travestimento” pensò con un lieve sorriso sulle labbra sottili.
«Forse tu non sai molto sugli spiriti, ragazza – disse alla fine dopo un poco di silenzio – ma in battaglia ne ho dovuti combattere talvolta, per un motivo o per un altro… e sono più carnali di quanto si sarebbe soliti pensare».
«Furosha sama, dovete aver visto davvero molto allora… potreste raccontarmi qualcosa?». L’uomo col cappello di paglia ci pensò un attimo, portandosi il pollice e l’indice al mento; aveva davvero visto molto, troppo per poter raccontare qualcosa così a cuor leggero e alla fine scosse piano il capo, voltandosi a guardarla da sopra una spalla, sorridendo gentile.
«Un giorno scriverò la storia della mia vita – disse – e potrai leggere tutto ciò che vorrai su questo povero samurai» e così tacque e la ragazza, capendo di essere stata congedata, si inchinò sino poggiare la fronte al suolo e lo lasciò solo, rientrando nella Casa del Tè. Sul far della nona ora del mattino, la pioggia leggera cessò, le nuvole si diradarono e rimase solo il gocciolio ritmico dell’acqua che ruscellava lieve dai tetti, gocciolando sulle verande e sui portici. L’uomo rientrò per fare colazione e si recò poi ai campi, dove aiutò i contadini con l’aratro, facendo si che i buoi non affondassero nel fango, raccolse con loro le verdure di stagione e si prodigò per sistemare gli attrezzi in legno danneggiati, lavorandoli assieme all’artigiano del villaggio. Così fu il terzo giorno e quindi il quarto, il quinto, il sesto, il settimo, l’ottavo, il nono e il decimo.
Una settimana divennero due, le due tre e alla fine, passò un mese, l’estate entrò nel proprio vivo e le giornate si fecero, lunghe calde e dorate. L’uomo giacque con la ragazza altre quattro volte e lei gli fece dono del proprio nome, Yuko. Un nome grazioso tanto quanto la persona che lo portava. Ben presto, l’uomo fu tenuto in gran rispetto dalla comunità di Hinan e capitava sempre più spesso che i bambini lo assillassero affinché partecipasse ai loro giochi. «Dovresti fermarti da noi, Yasei san» disse una sera Jenji mentre cenavano nella locanda, con Yuko che serviva loro le pietanze, facendo restare colmi piatti e ciotole mentre tutto attorno si levava un allegro vociare. «Sei forte e lavori sodo, tutti noi abbiamo tratto gran giovamento dalla tua presenza e ci sai fare con i bambini… non ti nascondo che continuo a chiedermi chi sia l’uomo al quale appartengono tutte queste qualità e non parlo del tuo nome, ma del tuo passato» bevé del sakè e l’uomo lo osservò con l’unico occhio rimastogli, sorseggiando il vino di riso a propria volta; Yuko on si perdeva una sillaba ma non intervenne, restando discreta e invisibile come si conveniva ad una ragazza in quelle circostanze.
«Ho solo viaggiato molto da quando avevo quindici anni, Jenji san – alla fine Yasei aveva insistito affinché almeno il vecchio con lui non utilizzasse l’appellativo “sama”, facendo sì che parlassero da pari a pari – e ora che ne ho trentacinque ne ho venti alle spalle… sono una vita intera, a pensarci bene» disse pensieroso, facendo girare il sakè nella coppa prima di berlo e poggiarla sul tavolino in mezzo a loro, piegandosi in avanti, flettendo il gomito destro verso l’esterno e poggiando la mano sul ginocchio. La barba sfatta era sparita e l’uomo col cappello ora sembrava davvero un samurai, con i cappelli nerissimi raccolti e le vestita rimesse a nuovo dalle donne locali. «Semplicemente credo che la gentilezza e l’umiltà siano alla base del bushido. Non nego che molti samurai mi hanno deriso alle volte per questa mia linea di pensiero».
«Ahi, dopotutto sei un guerriero, i guerrieri combattono non tagliano la legna, non raccolgono le verdure, non mungono le vacche e non aiutano le bestie a figliare, eppure tu fai tutte queste cose, Yasei san. Per questo ti rinnovo il mio invito, resta qui a Hinan… hai trovato, forse un posto nel quale goderti la pace che cerchi».
«Non sono in pena – rispose lui sincero – io adoro combattere, Jenji san, sono un samurai e questa spada è la mia via – aggiunse colpendo l’elsa della katana – cercavo solo un luogo dove riposare durante i caldi mesi estivi, appena tornerà la frescura dell’autunno riprenderò i miei viaggi».
«E a cosa ti portano, i tuoi viaggi, Yasei san?»
«Questo lo sanno solo gli dei, e io seguo il cammino del bushido, senza rimpiangere la mia vita… credo di essere più felice di molti altri uomini a questo mondo» disse con un largo sorriso. E quella notte, fece di nuovo l’amore con Yuko, riversando nel suo ventre piatto la propria lussuria sotto forma di caldo seme e giacque sulla schiena, osservando i seni della yujo che ondeggiavano invitanti mentre lei lo cavalcava, con le sue mani sui fianchi ampi e che scivolavano sulla vita, sull’addome e sulle cosce sode, tese nell’amplesso prima che un secondo orgasmo prosciugasse loro le forze.
 
*
 
All’inizio del terzo e ultimo mese dell’estate di quell’anno, il villaggio venne attraversato da un gran fermento ed entusiasmo, Yasei si accorse di come tutti ad Henin fossero impegnati nel renderlo pulito e accogliente. Le strade furono spazzate più volte, gli escrementi degli animali usati per concimare i terreno, le galline rinchiuse nei pollai e i cani spazzolati molte volte. Yasei aiutò come poté quando scoprì che si avvicinava la festa dell’estate, organizzata per salutare la stagione che se ne andava e che, in quell’occasione, il daimyo in persona si sarebbe recato al villaggio per gustarsi la sua quiete. Yasei non mostrò alcun mutamento nel suo umore, ma in cuor suo si rese conto di una realtà: preso sarebbe partito e anche se l’idea lo elettrizzava, non negava che la cosa gli provocava un denso sentore di malinconia, poiché fra quelle casupole egli aveva respirato, molto più che altrove, l’idea della pace che aveva contribuito a creare…e poi c’era Yuko.
Aveva avuto decine di amanti e giaciuto con centinaia di donne di piacere e certo ad alcune si era in qualche modo affezionato ma yujo, con i suoi sedici anni, era bella e snella, era colta nonostante fosse una yujo di campagna e insieme avevano composto, anche solo per gioco, molti haiku e lei lo prendeva in giro per la goffaggine dei suoi versi.
 
corre il tempo
nei baci dell’estate
il mondo ride”
 
Sussurrò l’ultima delle sue composizioni, seduto in mezzo all’erba della campagna di Henin osservando i fanciulli che giocavano con bokken, spade di legno che il falegname aveva fatto per loro sotto il suo ordine e relativo compenso e notò con un sorriso che alcuni di loro, con le dovute accortezze, sarebbero potuti diventare dei buoni samurai. Dopotutto, se sotto il vecchio shogun solo i nobili potevano ambire alla carica, la nuova Nobildonna capo militare aveva fatto sé che anche gli ultimi potessero ambire a quella carica e lui la riteneva cosa buona e giusta. Si sollevò in piedi, vi era uno fra i piccoli in particolare che colpiva con forza, facendo risuonare il legno ad un buon ritmo; si avvicinò ai bambini intenti nel gioco e quelli sussultarono appena, fermandosi dov’erano e inchinandosi. «Che diamine, da quando i mocciosi sono diventati così educati?» borbottò intrecciando le braccia davanti al petto, sollevando il mento in una parodia di espressione severa.
«Come punizione per tanta educazione, dovrete combattere me! Se riuscite a colpirmi avrete uno tsuka d’oro tutto per voi! Coraggio, il mostro oni sta venendo a prendervi!» esclamò e, sollevando le braccia sopra la testa, si avventò qui bambini. Quelli risero e corsero in tutte le direzioni, accerchiandolo e tentando di colpirlo, ma Yasei rise di quei goffi assalti e li evitò con piccoli movimenti studiati, rispondendo con pochi colpi di mano, facendoli cadere a terra di schiena o di faccia, facendo loro lo sgambetto, ridendo di quelle mosse troppo ampie e teatrali, poco adatte alla battaglia e più al teatro. «Ie, ie! – esclamò quando li ebbe messi tutti al tappeto – più è ampio il movimento e più offrite opportunità all’avversario! A meno che voi non siate così rapidi da potervi permettere una simile mossa, vi consiglio di evitarla. Coraggio – esclamò battendosi le palme sul petto – provate ancora, manca ancora un po’ al pranzo!»
Giocarono e si rotolarono nell’erba per un’altra ora, poi il caldo si fece insopportabile e i bambini se ne andarono, un po’ delusi e un po’ soddisfatti. Nessuno di loro era riuscito a colpirlo neanche di striscio o per sbaglio, ma in cambio avevano avuto qualche moneta per comparsi dei dolci alla festa di fine estate. L’uomo si osservò andare via divertito, raramente aveva visto tante buone promesse tutte in un solo villaggio e in un villaggio come quello era ancora pi raro. «Oya, oya – sospirò facendosi aria col cappello di paglia – che strano posto è mai questo, la calma della montagna e l’irruenza del torrente convivono nello stesso luogo» e così dicendo si avviò  a propria volta verso la Casa del Tè, desideroso di mangiare e di farsi un bagno, quella serata sarebbe arrivato il daimyo e il signore sarebbe rimasto a Hinan per tutti i sette giorni della fiera. In cuor suo, Yasei si chiese se sarebbe stato opportuno o meno invitare Yuko.
Si lavò all’aperto, in una delle belle vasche sul retro dell’edificio rosso e si immerse nella pozza fredda, pulendosi di dosso polvere e sudore e una delle donne della locanda gli fece un massaggio rinvigorente, scacciando la spossatezza del caldo. Quando poi gli fu detto che i vestiti erano puliti e asciutti, li indossò con un sorriso sul volto e si sistemò i lunghi capelli corvini alla maniera dei samurai, ma a differenza di tutti gli altri, lui non li tagliava e pur raccolti, essi erano selvaggi e gli coprivano tutta la testa, ricadendo in ciocche davanti al volto. Non aveva mai voluto tagliarli, nemmeno quand’era al servizio di un padrone e ogni volta che i suoi compari tentavano di metterlo al proprio posto, egli li pestava col piatto della katana, lasciandoli doloranti nella polvere. «L’arroganza dei forti – disse nel mettersi i sandali e assicurandosi il fodero alla cinta – suppongo di essere ancora vivo solo perché valgo molto più che da morto» un po’, aggiunse pensando, come tutti al mondo.
Quella sera, il sole era calato da poco quando la folla del villaggio, in totale cento anime vivaci e festaiole, si riunì all’ingresso meridionale del villaggio e tutti si inchinarono a terra, con la fronte che si copriva di polvere e le vesti migliori tirate a lucido. Per primi entrarono cinque samurai a cavallo, avvolti in delle splendide yoroi laccate, con impressionanti menpō sul capo e due spade al fianco, una corta e una con presa a mano doppia. «Il daimyo, il nobile Kawada Tsuruki sama!» Udendo quel nome, Yasei quasi sollevò il capo, incredulo. Con tutti i villaggi nel paese, proprio in quello di Tsuruki doveva capitare? Con un sorriso esasperato pensò che anche quella doveva essere stata una scelta degli dei ed espirò, almeno la sua permanenza nel villaggio non ne aveva risentito e gli era stato possibile godersi la pace.
Sei robusti samurai, con solo il kimono addosso e le spade in vista entrarono fra le case trasportando un ricco palanchino dai tendaggi di seta azzurra e dietro di loro venivano dieci samurai in armatura armati con lunghe yari lucenti e gli archi in spalla, le faretre piene. Ci fu un silenzio quasi irreale quando i sei portatori posero il palanchino a terra e ne uscì un uomo giovane, di venti anni. Kawada era diventato daimyo cinque anni prima, quando il vecchio shogun era stato assassinato e a lui era stata concessa la carica di samurai dalla nuova Nobildonna e il titolo di daimyo della ridente provincia meridionale di Araki. Era bello e fiero nel suo kimono e con le spade al fianco, con il volto glabro ma orgoglioso e i capelli neri lucidissimi. Jenji si fece avanti chinando il capo sino a terra e gli sorrise cordiale. «Kawada sama, il nostro villaggio è davvero lieto di averla come ospite. Immagino che vogliate far visita al tempio prima di tutto».
«Tu mi conosci davvero molto bene Jenji san – rispose Kawada con un gran sorriso e inchinandosi profondamente – desidero onorare i kami del villaggio prima di godermi la festa, ma permettetemi di presentarvi mia moglie» e così dicendo si fece da parte e dal palanchino scese una creatura semplicemente troppo bella per essere vera. Era alta un metro e ottanta, una gigantessa fra la gente del posto, con perfetti occhi a fessura, una cascata di capelli nerissimi, come l’ebano e un corpo voluttuoso che non aveva eguali fra le donne del paese, non fra quelle umane e il suo yukata ne esaltava la curva generosa dei seni e dei fianchi, con la vista stretta e lunghe gambe tornite coperte. Il suo volto era incerato di bianco e coperto da un grande ventaglio che sostenne. La cosa impressionante erano anche le sue unghie, lunghe, curate e affilate… affilate come spade.
Ci fu un urlo, una figura maschile superò con un sol balzo le guardie del daimyo e si udì il sibilo di una spada e poi uno scontro. Yasei aveva attentato alla vita della moglie del daimyo, ma la sua katana era stata fermata da quella del giovane signore e in un attimo tutti i samurai della scorta lo circondarono, le armi puntate contro di lui e tutti, al villaggio, trattennero gli urli appena, orripilati e terrorizzati da quel gesto. «Yasei san – balbettò Jenji cadendo a terra e guardandolo come se avesse davanti un mostro – Yasei san. Tu, perché…» ma il daimyo scosse la testa, zittendolo e guardò intensamente l’unico occhio sano dell’assassino, poi, davanti a un villaggio incredulo, scoppiò a ridere, ma non era una risata di scherno o di trionfo, ma una risata genuina. La moglie dal canto suo non si era mossa e osservò il marito e l’uomo che voleva ucciderla con un luminoso luccichio negli occhi del colore del ghiaccio.
«Sensei sama! – la voce di Kawada esplose all’improvviso mentre riponeva la spada, sotto gli sguardi confusi dei samurai – di tutti i posti che mi sarei aspettato… Henin era l’ultimo, l’ultimo nel quale avrei pensato di rivederti» e fece cenno a tutti di abbassare le armi, con un gran sorriso. «Ie, ie! Va tutto bene, e anche non fosse così, saremmo tutti già morti se questa fosse stata la sua intenzione. Anzi, onorate quest’uomo, voi selvaggi! – esclamò rivolgendosi ai samurai che s’inchinarono di fretta, sino a terra, pregando che venisse loro perdonato l’errore – costui è stato compagno d’armi di mio padre e mio maestro, lui è Miyamoto Musashi!» esclamò agitando una mano nella sua direzione. La donna che lo accompagnava sgranò gli occhi e tutti quelli che erano presenti spalancarono la bocca, troppo sorpresi per poter emettere un suono. Sentendo tutti quegli occhi su di sé, Miyamoto che era stato Yasei Furosha, che era stato ancora prima l’uomo col cappello di paglia male in arnese sorrise rassegnato, grattandosi la nuca con la mano sinistra e distese la bocca in un ampio, luminoso sorriso colpevole.
«Ah, beccato! Accidenti a te, Kawada kun! – esclamò poi a sua volta stringendo il giovane signore per il collo, picchiandolo in testa con l’elsa della spada davanti a cento ventun occhi increduli – andartene in giro con una donna così bella, ho frainteso io, ahi!» e si inchinò sino a terra, le palme contro il sentiero e batté la testa tre volte, con un sorriso imbarazzato «Vogliate scusarmi, Onna sama – disse rivolgendosi alla Nobildonna del daimyo – ho temuto per la vita del mio signore, ma non volevo recarvi un’offesa».
«Date le circostanze – disse lei spostando il ventaglio dal volto, esibendo una bocca bellissima, ma lacerata in profondità e che si curvava in un eterno, macabro sorriso verso le orecchie – non posso che perdonarvi, Musashi sama. Fra la mia gente voi siete davvero famigerato» disse, e colei che parlò non era umana, ma uno spirito, una Kuchisake – onna, un demone. Miyamoto in quei cinque anni trascorsi dalla leggendaria notte in cui lo shogun venne assassinato e le sue guardie gli si ribellarono aveva ucciso decine di Yōkai, ma allo stesso tempo, ne aveva difeso altrettanti dalle persecuzioni degli ignoranti. Poiché anche fra quelle creature vi erano stati sanguinari e onorevoli e Miyamoto non li perseguitava, né traeva il piacere che provavano i monaci nell’ucciderli… lui uccideva coloro che perpetravano il male contro gli innocenti.
«Ma perché non ci avete detto subito chi eravate, Musashi sama?»
La voce di Yuko era carica di risentimento mentre, all’interno della Casa del Tè, tutti non avevano occhi che per l’uomo che sorrise impacciato, sollevando la tazza di sakè e buttandola giù d’un solo sorso «Volevo solo starmene un po’ in pace in questo villaggio, senza nessuno che mi riverisse come fossi un gran signore! E ci sarei riuscito non fosse stato per te» disse agitando l’indice contro Kawada che sedeva attorno ad uno dei tavoli riuniti per lui, Miyamoto e la Nobildonna, che si teneva il ventaglio sulla bocca, sedendo sui talloni. «Bakageta! Cosa è passato per la mente della Shogun per farti daimyo? Ah! Donne, ci sarà un motivo se non ce ne sono molte al potere… sono una cosa rara quelle sveglie davvero ecco» ma non lo disse con cattiveria e Kawada rise di gusto assieme a molti dei presenti; i samurai, invece, sotto le armature sudavano freddo. La sensazione di essere davanti ad un uomo del genere era schiacciante, lui che si diceva nella battaglia di Jurakazi aveva ucciso da solo diecimila uomini.  
«Non sei cambiato, Sensei sama – disse con sincero affetto nella voce, chinando il capo – tentare così alla vita di mia moglie, ma ho capito che eri tu appena le nostre spade si sono incrociate. Hai fermato la mano vero? Se no avresti tagliato noi due, il palanchino e tutta la scorta a metà».
«Ie, ie! Non darmi poteri innaturali che non ho, sarei riuscito a eludere la tua guardia senza sforzo, ma nel momento in cui ho attaccato ho visto che lei era pronta a difenderti con la vita, credendo che io volessi ucciderti, ancora le mie scuse, Hajuno sama» ma la donna si schernì agitando la mano destra con uno dei suoi inquietanti sorrisi.
«Io devo ringraziarvi, Musashi sama. Ho saputo che avete salvato la vita ad una mia simile, non molto tempo fa, liberandola da un tempio nel quale era stata rinchiusa per essere giustiziata».
«Monaci bastardi – sbottò lui, grattandosi il mento – pensavano fosse la responsabile degli omicidi, ma era solo una ragazza gelosa che il suo amato si fosse invaghito della Kuchisake onna. Ovviamente ho capito subito che non era lei, ahi. Quella povera Yōkai faceva parte della comunità vicino, un sacco di gente amabile invero e non aveva mai alzato le mani su alcun umano, nutrendosi dei cadaveri freschi del cimitero».
«Sei davvero impressionante – disse ammirato Kawada – avevo sentito che dalla morte del tiranno vagavi per la nazione, come uno degli Spiriti dei Campi di Battaglia, ma trovarti nel mio feudo, ad Henin… i kami devono averci benedetto, ahi! Portate del sakè per tutti, il daimyo offre da bere a tutto il villaggio!». Ci fu una grande ovazione generale e nella confusione. Yuko si alzò non vista, uscendo all’esterno della locanda. Miyamoto sbuffo esasperato e con un inchino al daimyo e alla signora sua moglie uscì a sua volta, superando tutte quelle mani che volevano toccarlo, dargli pacche sulle spalle a la vide sotto la veranda, stretta nello yukata.
«Ecco perché ho tenuto segreto il mio nome – disse portandosi accanto a lei – come avrei potuto vivere tranquillo se tutti avessero saputo chi ero? Appena qualcuno sente il nome “Musashi” si comporta come se fossi un kami o qualcosa del genere. Gli uomini sono uomini, anche l’Imperatore non ha nulla di divino» sbottò alla fine, facendola sussultare per quelle parole ma non si fermò sotto il suo sguardo spaventato «Lo vedi? Io sono fiero di essere ciò che sono e di portare questo nome, ma è anche un peso. Io sono Musashi Miyamoto, l’Assassino dello Shogun, il Lupo dei Campi di Battaglia e tanto altro ma sono anche un uomo!  E un uomo, alle volte, sente il bisogno di un po’ di pace» e si buttò a sedere sulla veranda, agitando le mani nelle maniche e sforzandosi di meditare, ignorando il clamore della festa.
Yuko fece come per mettergli una mano sulla spalla, poi però si inchinò profondamente e passò oltre, lasciandolo solo con i propri pensieri.
 
“l’anima trema
la spada soffre sola
in calde notti”
 
E aprì piano gli occhi, udendo appena il vociare della locanda… sembrava proprio che la sua vacanza fosse infine finita. “Solo altri sei giorni – pensò stringendo la spada – e riprenderò il mio cammino”.
 
*
 
Al mattino successivo, col villaggio addormentato per il mangiare, il bere e le molte emozioni della sera precedente, Miyamoto risalì per la prima volta la scalinata in lucida pietra assediata da ciuffi d’erba che portava al piccolo tempio in cima alla collina. In quei tre mesi non aveva mai pensato di recarsi a pregare, ma ora che l’inganno era stato svelato, sentiva che era suo dovere pregare i kami del posto affinché perdonassero le sue bugie. Si fermò davanti al torii rosso che teneva a bada gli spiriti maligni: la struttura era piccola e semplice, senza nessun monaco a vegliare sulle statue e offerte, con il tetto nero lucido e due pilatri all’ingresso ricoperti di kanji sacri ai kami. Salì gli ultimi scalini e si voltò, osservando il campo di grano selvatico, il villaggio di Henin con le sue terre e prese un profondo respiro. «Ricco è l’uomo che vive in questo modo» sussurrò voltandosi ed entrando nel tempio.
Con sua sorpresa, vi era un’altra figura, la figura desiderabile della Kuchisake onna era piegata e seduta sui talloni dei piedi nudi davanti ai simulacri e aveva acceso tre bastoni d’incenso, mormorando le preghiere. Suo malgrado, Musashi osservò la curva delle natiche, la pianta liscia dei pallidi piedi nudi, il disegno delle cosce e sussultò quando la donna demone si voltò a guardarlo, con un’espressione imperturbabile sul volto. «Perdonate, Hajuno sama – disse inchinandosi profondamente con la fronte sino a terra – per la mia intrusione qui e per il mio scellerato comportamento di ieri sera». E rimase così in attesa fin quando non la sentì ridere e sollevò gli occhi sul suo perfetto, innaturale viso sfigurato, sentendo la propria virilità inturgidirsi. Benevola o no, la donna non poteva evitare l’effetto che faceva sui mortali che poggiavano lo sguardo su di lei.
«Ie, vi ho già detto ieri sera che non avete nulla di cui scusarvi, Musashi sama» rispose lei alzandosi in piedi e lasciandosi il tempio alle spalle, fermandosi poi davanti a lui e sedendosi sui talloni, agitando piano il bel ventaglio per farsi aria «In effetti ero curiosa di sapere se eravate straordinario come dicevano le mie sorelle o mio marito… e devo ammettere che siete riuscito a spaventarmi eri notte ma ve ne prego, ditemi» asserì con un ampio movimento del braccio sinistro, portandosi la mano in grembo e facendosi aria educatamente, battendo le palpebre tinte di un rosso erotico che lo fece inturgidire ancora di più «Kawada sama, come vi è sembrato quando le vostre spade si sono incrociate?»
«È molto agile, ha dei riflessi pronti, la sua tecnica è di alto livello ed ha una buona postura e presenza – elencò con voce pratica, mettendosi seduto a sua volta sotto il cocente sole del mattino – ma è un umano, è diventato daimyo in tempo di pace e non vi saranno guerre per molto tempo credo… Temo che sia debole – aggiunse alla fine dopo aver esitato un attimo – ma se un tempo la debolezza era un peccato, di questi tempi felici essi sono una virtù. Non è come me, che continuerò a combattere ancora per molti anni no, lui è destinato alla grandezza, anche se in modo diverso» la Kuchisake onna annuì e rimasero in silenzio l’uno davanti all’altra prima che Miyamoto facesse quella domanda che aveva in testa sin dalla nottata appena trascorsa, dabbasso alla locanda «E, perdonate se la domanda vi offende, ma come vi siete conosciuti, voi e i Kawada kun?» la donna rimase stupita dal fatto che Miyamoto si rivolgesse al suo signore con quell’appellativo, ancora di più considerando che chiamava il vecchio capovillaggio “Jenji san”. Ma dopotutto, un mostro come lui poteva permettersi queste piccolezze e molto altro.
«È una domanda legittima considerando che siete stato il suo maestro di spada – rispose gentilmente, con la propria voce vellutata e spettrale al contempo, passandosi una mano fra i lunghi capelli tenuti sciolti, neanche lei rispettava appieno l’etichetta dopotutto – e cercherò di rispondervi ma senza annoiarvi, so che eravate qui per pregare…  È successo un anno fa, sul fare dell’autunno. Io avevo fame, tanta, tanta fame, ero in uno stato pietoso e mi spinsi sin dentro le mura della città dei nobili Tsuruki in cerca di cibo, e mi imbattei in Kawada che usciva da una Sala del Tè. È solito uscire da palazzo senza scorta, quello sciocco – e nel dire quelle parole, il cuore della donna tremò d’amore e allo stesso modo la sua voce e io… io tentati di aggredirlo, ma ero molto debole, tanto che Kawada riuscì a vincermi, immobilizzandomi a terra con la katana ma contrariamente a quanto pensassi, egli non mi uccise e anzi, mi portò al palazzo, dove mi nutrì col proprio sangue. Stetti presso la sua dimora finché non mi fui ristabilita, tre mesi dopo e Kawada mi chiese di sposarlo… accettai con gioia poiché ormai il mio cuore gli apparteneva».
Quando si congedò, Musashi restò nel tempio più a lungo di quanto avesse pianificato pensando alle parole della demone e sorrise, come si sorrideva davanti all’ingenuità dei bambini. «Accidenti a te, Kawada kun – sbottò alla fine alzandosi in piedi quando i suoi bastoncini si furono consumati del tutto – ne hai trovata una davvero bella, di moglie, bakageta, sono invidioso» e scese dalla collina, guardando ancora il paesaggio “Altri cinque giorni”. Il tempo fu tiranno e balsamo assieme. Da quando tutti sapevano chi erano, l’atmosfera al villaggio era cambiata, i bambini si tenevano lontani, nessuno voleva che lavorasse e si prodigavano in inchini e ringraziamenti per qualsiasi cosa e alla locanda non vollero più i suoi soldi e Yuko evitò il suo sguardo per tutti i giorni che restavano sino alla fine della festa. Ne parlò con Kawada, una sera che uscirono assieme a cavallo, solo loro due per le campagne del feudo e il nobile abbassò lo sguardo, sentendosi in colpa.
«È stata colpa mia, Sensei sama – disse mentre se ne stavano presso un piccolo corso fluviale, facendo abbeverare i cavalli e sgranchendo le gambe – ma l’emozione di vedervi non mi ha permesso di essere lucido». Presso il fiume, la terra era argillosa, le canne crescevano fitte e rigogliose con ranocchie e altri anfibi che vi rumoreggiavano nel mezzo e gli steli d’erba erano alti quanto il polpaccio di un uomo e tutti ondeggiavano come un mare di smeraldo smosso dal vento. Kawada lanciò una pietra nel fiume, osservandola rimbalzare e sorrise rassegnato. «Mia moglie ha detto che avete parlato a lungo – disse poi – che idea vi siete fatto di lei?» e a quella domanda Musashi sorrise, ricordando che la donna gli aveva posto il medesimo quesito e si sedette sull’erba, distendendo la gamba sinistra e flettendo la destra, poggiandoci sopra il braccio. Per lui tutto ciò che lo circondava era bianco e nero: il sole, il cielo, gli alberi, i fiori e le persone. I colori erano spariti e l’essenza del mondo danzava davanti ai suoi occhi, sfumandosi al suono de vento, della pioggia e della calma. Respirò profondamente… ecco perché viaggiava, si disse, per godere di momenti come quelli.
«È una creatura bellissima, troppo bella per uno stolto come te, ragazzo – scherzò, mettendosi un lungo stelo d’erba fra le labbra – ma è anche fedele, orgogliosa, forte… sono fiero di te per aver trovato una donna così ma ti dico anche. Attento, Kawada kun, molti monaci considerano quelle come lei un abominio» e tacque, lo fecero entrambi ed entrambi sedettero sull’erba, chiudendo gli occhi e Musashi si addormentò, facendosi cullare dal vento, dai profumi dell’estate, dallo scroscio carezzevole del fiumiciattolo. Giunse così, in fine, il giorno della partenza del daimyo: la sera prima Henin diede fondo a tutte le proprie riserve e si fece un gran banchetto all’aperto durante il quale la Kuchisake onna prese il proprio shamisen e ne pizzicò appena le corde, prima di cantare e cantò del dio sole e della dea luna, della guerra antica fra il giorno e la notte e dell’amore fra i due regnanti che aveva fatto si che il mondo nascesse e con esso tutte le forme di vita che lo popolavano.
Miyamoto si allontanò verso la fine del ricevimento, la spada al fianco e il cappello di paglia in testa. Non voleva che ci fossero cerimonie o altro, non voleva essere invitato da Kawada a seguirlo a palazzo e nemmeno trovarsi ancora in presenza della signora, non quando la sua voce gli faceva battere il cuore e lacrimare l’unico occhio sano; si fermò tuttavia davanti all’ingresso del sentiero del campo di grano nel trovarsi davanti Yuko, vestita come se si preparasse ad un viaggio, co un kimono al posto di uno yukata e i capelli sciolti sulle esili spalle. Miyamoto la guardò un attimo, in silenzio, poi annuì con un sorriso; non era suo il potere di impedire ad una persona di seguire il proprio cuore e così camminarono assieme, perdendosi fra le alte spighe.
Al mattino successivo tutti si sarebbero chiesti che fine avessero fatto, ma i due erano ormai distanti molte miglia  e non si guardarono mai indietro. Per Musashi Miyamoto il mondo era bianco e nero, ma il profumo della Kuchisake – onna avrebbe portato dei colori nella sua mente per molto tempo e Yuko, al suo fianco, vivacizzò il suo viaggio: per cinque era stato solo, adesso che con sé viaggiava una yujo chi poteva dire cosa lo avrebbe atteso alla prossima svolta?
 
per alti campi
passa la nostra strada
sotto il cielo terso”.


 
Note dell'autrice:
Prima di tutto, alcune premesse: nonostante il periodo preso in esame, questa è una storia di fantasia che si rifà ai miti e alla storia del Giappone (in particolare di quello feudale) ma con dovute libertà interpretative, fra le quali prendere un personaggio come Musashi e, diciamo, adattarlo ai bisogni della narrazione, pur cercando di rendergli giustizia al meglio possibile.
In secondo luogo, gli "haiku" presenti nella storia sono tutti di mia invenzione e temo siano l'uno peggio dell'altro anche se m sono sforzata di seguire le regole della loro composizione e terzo, ammetto che il finale sia un po' frettoloso ma non non sono avvezza al genere di questa shot in particolare e non volevo concludere il tutto con un combattimento di qualche tipo, quindi ammetto che non sapevo bene cosa inventarmi, m alla fine sono abbastanza soddisfatta.
Detto questo, credo di aver detto tutto, spero vi sia piaciuta e, che dire... alla prossima!
 
 
 Miyamoto Musashi
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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