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Autore: Losiliel    03/03/2023    1 recensioni
Morifinwë Carnistir Fëanárion, giovane nipote del re dei Noldor, vive in un meraviglioso palazzo nella splendente città di Tirion, in una terra benedetta da ogni ricchezza, circondato da una famiglia unita e numerosa. La sua vita sembra perfetta sotto ogni aspetto.
Peccato che lui non la pensi affatto così.
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[ Caranthir-centrico | coming of age | vita dei Noldor in Aman | Anni degli Alberi ]
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Caranthir, Fëanor, Figli di Fëanor, Nerdanel, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Los Tales'
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11

La Cacciatrice

(o quando scopri che, per una volta, puoi anche fare a meno dell’orgoglio)

 

 

Morifinwë non scese a cena quella sera e la mattina successiva raggiunse la sala da pranzo con calcolato ritardo, in modo da non incontrare il padre. Trovò però Tyelkormo, che stava ancora mangiando, e la mamma e Curufinwë immersi in una discussione che sembrava andare avanti da parecchio, a giudicare dal tono insofferente del piccolo, abituato a ottenere quello che voleva senza neanche fare la fatica di chiedere.

Quando lo videro arrivare la discussione si interruppe. Lui evitò di salutare, si sedette nel posto vuoto accanto a Nerdanel e si impossessò di una tazza.

– Ho sentito che… – cominciò il piccolo, ma Tyelkormo lo fulminò con uno sguardo che mise subito a tacere qualsiasi presa in giro avesse in mente, e la colazione proseguì nel silenzio più assoluto.

Quando Tyelkormo finì di mangiare si alzò e disse a Curufinwë: – Andiamo, genio, accompagnami fino alle scuderie.

– Cos’è, non ti ricordi la strada? – disse il piccolo, ma scese dalla sedia, salutò la madre e si affrettò per tenere il passo del fratello maggiore.

Solo quando i due lasciarono la sala da pranzo, lui trovò il coraggio di parlare.

– Papà ti ha detto che l’ho deluso per l’ennesima volta?

– Tuo padre non mi ha mai detto una cosa del genere in tutta la sua vita – rispose lei. – Ma se ti stai riferendo a quello che hai fatto alla gara, allora sì, me l’ha detto. E mi ha anche detto che ti sei pentito di averlo fatto.

– Quel deficiente di Tyelko si è messo in mezzo – si lamentò Morifinwë.

– Tyelkormo si è trovato in situazioni molto peggiori della tua, quando aveva la tua età – disse Nerdanel, – e ha imparato qual è la cosa migliore da fare.

– La cosa migliore per fare cosa? – chiese Morifinwë, – per affossare definitivamente quel poco di stima che papà poteva ancora avere di me?

– No, per non affossare quel poco di stima che tu puoi ancora avere di te.

Morifinwë rimase a metà di un boccone, cercando di decifrare ciò che gli era stato appena detto.

– Una bugia ne chiama un’altra – spiegò la madre, – e un’azione che non avremmo voluto commettere fa presto a giustificarne una successiva. Questo Tyelkormo lo sa per esperienza, e ha voluto interrompere il circolo sul nascere. Forse io avrei usato un metodo meno brutale, ma Tyelko resta pur sempre Tyelko, e non me la sento di dargli torto.

– Tu giustifichi sempre tutti – borbottò Morifinwë, e nel dirlo si rese conto di quanto questo gli fosse di enorme conforto.

– Già – confermò Nerdanel, poi aggiunse in tono più leggero, – cosa vuoi, anch’io ho i miei difetti.

– Vorrei che ce l’avesse papà, lo stesso difetto – disse lui.

– Fëanáro? Difetti? Quando mai? – Il sorriso della madre riuscì a essere dolce e sarcastico allo stesso tempo.

Morifinwë non riuscì a tenere il broncio. Sorrise a sua volta.

Nerdanel gli diede un leggero bacio sulla fronte. – Prenditi la mattina libera – disse, – ci penso io ad avvisare che salterai le lezioni.

Mentre finiva di fare colazione, Morifinwë notò che erano avanzati dei panini al cioccolato e decise dove sarebbe andato.

 

 

Trovò la fattoria molto più silenziosa di quanto non fosse di solito, quando vi si recava nel pomeriggio per le lezioni con Arsanarwë. Non c’erano bambini né ragazzini in giro, il viale che conduceva alla casa era sgombro, il piazzale davanti al portico deserto e quando bussò alla porta nessuno venne ad aprirgli.

Morifinwë rimase lì, col pacchetto dei dolci in mano, a sistemarsi dietro le orecchie i capelli che erano sfuggiti alla coda, e a chiedersi cosa gli fosse venuto in mente di andare in visita da qualcuno senza prima avvisare.

Stava per tornare sui suoi passi quando la porta venne aperta da un uomo alto, vestito di chiaro e con una lunga treccia d’argento che gli ricadeva su una spalla. Sotto il braccio aveva dei fogli arrotolati e sembrava quanto di più distante ci potesse essere da un contadino.

– Buongiorno – lo salutò treccia d’argento.

– Salve… ah… sono Morifinwë Fëanárion – disse lui, non sapendo bene come rivolgersi allo sconosciuto.

L’altro si illuminò: – Ah, sì, l’allievo – poi corrugò le sopracciglia sottili, – il maestro Arsanarwë, però, non c’è. Di mattina lavora alla scuola.

Ed ecco svelato il mistero dell’assenza dei bambini.

Morifinwë non trovò il coraggio di dire il vero motivo per cui era venuto. Strinse la presa sul pacchetto dei dolci e disse: – Ecco… allora ripasserò nel pomeriggio. Buona giornata.

Si voltò e sentì la porta richiudersi alle sue spalle. Non aveva fatto che pochi passi quando qualcuno la riaprì.

– Ragazzino!

Morifinwë riuscì a cancellare il sorriso che gli era affiorato alle labbra prima di girarsi nuovamente verso l’ingresso. Sulla soglia c’era Elle, col solito vestito azzurro e la treccia che le circondava il capo, ma la sua consueta calma era intaccata da una leggera increspatura delle sopracciglia.

Era quanto di più vicino a un’espressione preoccupata le avesse mai visto fare.

L’assurda idea che potesse essere preoccupata per lui gli balenò nella mente, e prima di potersi trattenere la espresse a voce alta: – Non eri poi così sicura che tutto si sarebbe risolto, a quanto pare.

Elle recuperò la sua compostezza e allargò le braccia per constatare l’ovvio. – Però avevo ragione.

Poi domandò: – Che ci fai qui?

– Volevo scusarmi con il maestro per il mio comportamento di ieri – rispose Morifinwë.

Era solo mezza verità e Elle lo capì all’istante. Incrociò le braccia e inclinò la testa di lato in attesa del resto.

– E va bene – disse lui, – volevo anche dirti che sono sopravvissuto, casomai ti stessi preoccupando… cosa che evidentemente stavi facendo – aggiunse, per recuperare un minimo di dignità.

– Più che altro – cominciò Elle, – non ero certa che ti avremmo più rivisto da queste parti.

Comprensibile. Persino lui aveva pensato che non avrebbe più avuto il coraggio di farsi rivedere dopo il pessimo spettacolo di sé che aveva dato il giorno precedente, sia col maestro che con lei.

E invece, eccolo lì. Per nulla preoccupato di difendere la sua reputazione.

– Il mio orgoglio deve essersi preso una vacanza – considerò, ad alta voce.

– Meglio così – disse lei.

Cadde il silenzio e durò abbastanza a lungo da permettere a Morifinwë di vedersi attraverso gli occhi della donna che gli stava di fronte: un ragazzino insicuro, bruttino e scarmigliato, con uno stupido pacchetto di dolcetti in mano, capitato a sproposito in un posto in cui non avrebbe dovuto essere. E che tra un attimo sarebbe stato invitato ad andarsene.

Invece la donna lo sorprese.

– Stavo andando a sistemare gli animali – disse, accennando a due grosse borse di tela appoggiate al muro vicino alla porta, – vuoi farmi compagnia? Poi potremmo condividere quello che hai portato.

Morifinwë pensò che badare agli animali non era certo un compito adatto a uno dei figli del principe Fëanáro e rispose, all’istante: – Volentieri.

Elle prese il sacchetto dei dolci e lo portò in casa, poi si caricò a tracolla le due borse e gli fece cenno di seguirla.

– Non teniamo molti animali – spiegò, incamminandosi, – per lo più alleviamo cavalli, e di quello si occupa la signora Rowen coi suoi uomini. Non ci metteremo molto.

– Non mi importa – disse Morifinwë, e si stupì nello scoprire che era vero. – Ho la mattina libera.

 

 

Fecero il giro della casa passando dal lato del frutteto. Attraversarono il cortile sul retro e raggiunsero il fienile, sotto il cui portico una donna dai capelli chiari e un uomo con una lunga cicatrice sul viso affilavano le lame di alcuni attrezzi. Poi proseguirono per i campi verso est, allontanandosi dalla fattoria nella direzione opposta all’area destinata ai cavalli. Il cielo era coperto da nuvole basse che promettevano pioggia e nell’aria aleggiava una debole foschia.

Elle camminava accanto a lui, alta e silenziosa. Ogni tanto Morifinwë ne sbirciava il profilo deciso, le braccia asciutte su cui risaltavano i muscoli definiti e il polso sinistro coperto dal bracciale di cuoio, ma per lo più teneva lo sguardo rivolto davanti a sé, sulla realtà che emergeva poco a poco dalla nebbia, i campi piatti e nudi, gli alberi quasi spogli e le basse siepi.

Il silenzio in presenza di Elle non lo metteva a disagio. La consapevolezza che non ci fosse bisogno di parlare, di trovare a tutti i costi un argomento di conversazione, gli infondeva serenità, proprio come era successo la sera in cui lei gli aveva offerto succo di mela ghiacciato dopo la lezione. E proprio come allora, Morifinwë sentì un’insolita pace farsi strada nel suo animo perennemente agitato. Una pace che difficilmente riusciva a provare, perfino a casa sua.

Il sentiero li condusse al luogo in cui sorgevano i ricoveri dei pochi animali di cui aveva parlato Elle: un pollaio, una conigliera e una bianca costruzione, bassa e lunga, dalla quale provenivano rari muggiti.

Elle aprì il cancelletto del pollaio e le galline uscirono tra schiamazzi e volare di piume, poi gli indicò un cesto di vimini che era appoggiato poco distante e gli disse: – Uova.

Morifinwë spalancò gli occhi. Una cosa era seguire la donna nei suoi compiti per farle compagnia, una completamente diversa era mettersi a fare il lavoro di un contadino. Si era forse dimenticata con chi aveva a che fare? Era il nipote del re, lui!

Ciononostante, afferrò il cesto ed entrò nel pollaio. Si affrettò a raccogliere le uova dai nidi incustoditi e a depositarle con cautela sul fondo del cesto. Quando uscì, vide che Elle aveva liberato anche i conigli, che adesso saltellavano nel prato dove si erano sparpagliate le galline. La donna riempì le mangiatoie con il contenuto delle borse, si fece consegnare il cesto delle uova e disse: – Ci manca solo il latte.

Morifinwë ebbe l’imbarazzante visione di sé stesso accucciato ai piedi di una mucca a chiedersi con terrore dove mettere le mani. Ma Elle non fece altro che raccogliere due grossi contenitori cilindrici appoggiati appena fuori dalla porta della stalla, agganciarli alle estremità di un palo e caricarseli sulle spalle.

Morifinwë realizzò con sollievo che la mungitura era stato compito di qualcun altro e ne ebbe la conferma quando Elle gridò: – Io vado, Faniel – e dall’interno dell’edificio una voce femminile le rispose, in tono allegro: – A domani, Elle! – e poco dopo, in tono ancora più allegro: – A domani, aiutante di Elle!

Morifinwë arrossì nel sentirsi chiamare così, tanto più che Elle stava portando tutto da sola: le borse vuote, il cesto delle uova e quella specie di bilanciere sulle spalle, che doveva pesare non poco. In quanto aiutante, non è che fosse granché d’aiuto.

Cercò di rimediare. – Vuoi una mano? – le chiese, accennando ai contenitori del latte.

– Sarei davvero messa male se avessi bisogno dell’aiuto di un ragazzino – disse lei, incamminandosi.

Lo disse senza cattiveria, col tono neutro di chi esprime un dato di fatto, ma Morifinwë si sentì insultato lo stesso. Come si permetteva di rifiutare il suo aiuto? Non era una cosa che concedeva a chiunque.

– Ehi! – le gridò, allungando il passo per rimanerle a fianco. Evidentemente i contenitori non erano pesanti come sembrava, perché Elle manteneva il ritmo sostenuto dell’andata senza dare segni di affaticamento. – Quando servivi i Cacciatori, laggiù all’Est, non avevi bisogno del loro aiuto per sopravvivere?

– Chi ti ha detto che servivo i Cacciatori? – domandò lei, senza fermarsi.

Morifinwë diede voce alle sue supposizioni, che col tempo erano maturate in certezze. – Ho pensato che, dato che sei una Nata all’Est e che sei al servizio della famiglia di Rowen…

– Io non servivo i Cacciatori – lo interruppe Elle, – ero una di loro.

Morifinwë si accorse di essere rimasto indietro di nuovo. A bocca aperta, per di più.

– Eri una Cacciatrice? – domandò, quando ebbe recuperato la voce. La raggiunse con una breve corsetta. – Allora è vero che hai un tatuaggio sotto quel bracciale!

Una ruga verticale comparve tra le sopracciglia della donna e le sue labbra assunsero una piega più severa del solito.

– Non ne voglio parlare – disse.

– Ma, non capisco – non riuscì a trattenersi lui, – se eri una Cacciatrice, come mai adesso sei…

– Una serva? – concluse Elle, e questa volta la sua voce lasciò trasparire una leggera nota di fastidio. – Ti sembra che ci sia bisogno di molta gente abile con le armi, qui in giro? Gente che vede al buio, che non dorme quasi mai, che espande le percezioni per tenere sotto controllo due leghe di territorio perché non ci sorprendano belve feroci? Io quello so fare, ragazzino.

Si fermò e lo guardò in faccia, come per accertarsi che le sue parole venissero comprese.

Ma Morifinwë continuava a non capire. Ribatté: – Cosa vuol dire? Puoi imparare a fare altro, ci sono mille cose che puoi fare. Qui in Aman si può fare tutto.

– E infatti ho imparato a prendermi cura degli animali e delle persone – rispose lei, di nuovo col tono piatto di chi constata l’evidenza.

– Ma… – ricominciò lui.

– Ti ho detto che non ne voglio parlare – tagliò corto la donna, – pensavo che tu fossi in grado di capirlo questo.

Morifinwë sentì l’enfasi posta su quel “tu” e pensò a ciò che aveva provato poco prima camminando accanto a lei: all’inconsueta pace e ai silenzi che confortavano invece che mettere a disagio. Per la prima volta si chiese se anche per lei non fosse lo stesso. Forse anche Elle apprezzava la compagnia di qualcuno con cui non doveva spiegarsi.

– Sì – le disse, – lo capisco. Scusa.

Elle ricominciò a camminare senza dire altro, e lui pensò di averla irrimediabilmente irritata e di aver rovinato quella che, fino a quel momento, era stata una piacevole mattinata. Ma poco dopo la vide piegare un angolo della bocca. “Che c’è?”, stava per chiederle, ma lei lo precedette e, sollevando il palo con attaccati i secchi per levarselo dalle spalle, disse: – Se proprio insisti, puoi portarlo tu.

 

 

Morifinwë arrivò alla fattoria madido di sudore, con la schiena a pezzi e le spalle che bruciavano, ma senza emettere un lamento. Quando Elle sganciò i contenitori dall’asta, lui si sentì così leggero che gli parve di sollevarsi da terra.

Consegnarono il latte all’uomo con la cicatrice, che aveva lasciato il fienile e ora li aspettava davanti all’ingresso. Nel farsi carico dei secchi, l’uomo lanciò a Morifinwë una lunga occhiata a metà tra il rispetto e la sorpresa.

Elle entrò in casa il tempo necessario a posare il cesto delle uova, e riapparve col sacchetto dei dolci e una bottiglia.

– Perché mi ha guardato così? – le chiese Morifinwë, mentre si incamminavano verso il frutteto.

– Chi?

– Cicatrice.

Elle inarcò un sopracciglio alla scelta del soprannome. – Perché non permetto mai a nessuno di fare le cose al posto mio – rispose.

– Ah, in questo caso – disse lui, massaggiandosi le spalle doloranti, – sono onorato che tu abbia fatto un’eccezione per me.

Elle incurvò appena le labbra, in quello che ormai Morifinwë sapeva essere la cosa più vicina a un sorriso che ci si potesse aspettare da lei, poi disse: – A quanto pare, anche il mio orgoglio si è preso una vacanza.

Arrivati alla panchina di pietra sotto il ciliegio, presero posto come il giorno precedente, lei nella zona più in ombra, lui alla debole luce di quel mattino uggioso.

Elle gli passò la bottiglia e Morifinwë bevve un lungo sorso. Era spremuta d’arancia, e pur non essendo la sua bibita preferita, aveva una tale sete che gli sembrò la cosa più buona che avesse mai bevuto.

Lei prese uno dei panini di Calwen, lo assaggiò e lo approvò con un mugugno soddisfatto. Finì di mangiarlo con calma prima di tornare a rivolgersi a lui.

– Tu non mangi, ragazzino? – gli chiese.

Invece di rispondere, Morifinwë disse: – Ho parlato a mio padre.

Gli uscì così, dal nulla, senza averne avuta l’intenzione.

Elle mise giù il secondo dolcetto, si pulì le mani una contro l’altra e gli dedicò tutta la sua attenzione.

Lui prese un respiro profondo e disse: – Gli ho detto quello che ho fatto. Che ho barato alla gara.

Poi scosse la testa e continuò: – Non credo che la cosa l’abbia sorpreso. Di sicuro non l’ha sconvolto. Almeno non tanto da distoglierlo dai suoi affari.

A ripensarci si sentiva ancora annodare lo stomaco. – Eru! Ho pensato di morire di vergogna prima, e di rabbia dopo. Non credevo che ce l’avrei fatta – concluse, e per la prima volta provò, insieme alla vergogna e alla rabbia, la soddisfazione per non essersi fatto bloccare dalle sue paure.

– Hai avuto coraggio – disse Elle, come se gli leggesse nel pensiero.

– No – disse lui, – ho avuto un fratello grosso due volte me che mi aspettava fuori per darmele di santa ragione se non l’avessi fatto.

Elle lo guardò per un lungo istante, con un sorriso trattenuto che le increspava le labbra. Poi fece una cosa che Morifinwë non le aveva mai visto fare: scoppiò a ridere.

I suoi occhi scintillarono dietro le palpebre socchiuse, come se avesse polvere di pietre preziose impigliata tra le ciglia. Le sue labbra scoprirono denti bianchissimi, e lui fece appena in tempo a notare che da un incisivo mancava un angolino, prima che lei si coprisse la bocca con una mano. Forse voleva nascondere quell’imperfezione, o forse voleva nascondere il fatto stesso che stava ridendo. Sembrava sorpresa della cosa almeno quanto lo era Morifinwë.

È bello vederti ridere, gli venne da dire, e si morse il labbro per non lasciarselo sfuggire.

– Sei il solito esagerato! – esclamò lei, interrompendo la contemplazione di Morifinwë e riportandolo all’argomento in questione.

– Lo dici perché non conosci Tyelko – ribatté lui, – è forte come un toro e largo come un armadio a due ante; non c’è niente che non gli riesca quando si tratta di muscoli.

– Se è così grosso mancherà in agilità – osservò lei.

– Macché, è bravo anche in quello! Una volta l’ho visto saltare…

Morifinwë si interruppe, colpito da una rivelazione improvvisa. In realtà, c’era una cosa che non aveva mai visto fare a Tyelkormo! E l’aveva vista fare proprio lì, alla fattoria, dal fratello di Lissi.

Un’idea folle gli balenò nella mente.

– Sei stata tu a insegnare a Káino a saltare sul cavallo al volo, vero? – disse.

Lei annuì, distratta, mentre tornava a occuparsi del suo dolce.

Morifinwë si vide volteggiare su Morvail davanti agli occhi stupiti e ammirati di Tyelkormo, s’immaginò il fratello che lo elogiava, che lo invidiava.

– Potresti insegnare anche a me? – chiese, cercando di mascherare l’impazienza.

Elle aveva ancora un luccichio divertito negli occhi, sebbene la sua espressione stesse rapidamente tornando quella impassibile di sempre.

Morifinwë lo considerò un buon segno e aggiunse: – Per favore?

– Non credo sia una buona idea – disse lei, ma non sembrava particolarmente convinta. Nè particolarmente interessata, a dire il vero, intenta com’era a gustarsi il suo dolce preferito.

– Ti porterò i secchi del latte ogni volta che vorrai – insistette lui, ignorando la sua schiena dolorante.

Elle scrollò le spalle e finì il panino in un sol boccone: – Non ne ho bisogno – bofonchiò.

– Ti pagherò in dolcetti al cioccolato! – la incalzò.

Questo attirò la sua attenzione. – Certo che sei testardo, ragazzino.

Morifinwë raddrizzò le spalle e si batté un pugno sul petto.

– Puro Noldo – dichiarò.

La battuta le strappò un altro mezzo sorriso e una concessione: – Vedremo.

Morifinwë stava per aprire bocca di nuovo, quando lei si alzò e disse: – Ora devo tornare al lavoro. Grazie per la colazione.

La guardò allontanarsi, con i suoi movimenti calibrati che non sprecavano neanche un briciolo di energia e i suoi passi silenziosi, che non facevano rumore nemmeno sulle foglie secche.

Quando tornò ad abbassare lo sguardo, si accorse che si era portata via il resto dei dolci.

Morifinwë sorrise fra sé. Forse aveva qualche speranza di riuscire a convincerla.

 

 

 


NOTE

Grazie a chi ha letto!

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë, Moryo = Caranthir
Tyelkormo (qui chiamato anche Tyelko) = Celegorm
Curufinwë = Curufin
Fëanáro = Fëanor

Personaggi di mia invenzione
Arsanarwë, il maestro di matematica di Morifinwë
Rowen, la moglie di Arsanarwë, fondatrice della fattoria, allevatrice di cavalli
Faniel, una donna che lavora alla fattoria. Il suo nome è un epessë che viene da fana (white), a causa di un ciuffo di capelli chiarissimi che spicca tra sua capigliatura nera.
Calwen, la responsabile delle cucine al palazzo di Fëanáro
Lissi, una bambina cha abita alla fattoria, nipote di Arsanarwë
Káino, il fratello maggiore di Lissi

 

  
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