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Autore: Spoocky    07/03/2023    1 recensioni
Missing moment fra "Duello nel Mar Ionio" ed "Il Porto del Tradimento": l'equipaggio della Surprise affronta le conseguenze dello scontro con le navi turche. Una battaglia che ha segnato tutti profondamente, in modi diversi.
La versione precedente di questo racconto è stata pubblicata con il titolo "Words and Scars". Il titolo è una citazione dal paragrafo iniziale de "Il Porto del Tradimento" che ha ispirato questo racconto.
Genere: Angst, Guerra, Hurt/Comfort | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Missing moments in Patrick O'Brian'
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Disclaimer: i personaggi appartengono agli aventi diritto.

Nota dell'autrice: se c'è ancora qualcuno disposto a veleggiare in queste acque, non sono scomparsa e non ho dimenticato questa storia.
Purtroppo, ho dovuto lasciarla da parte per mancanza di tempo, ma intanto ho del materiale nuovo da inserire.
Vi ringrazio per la pazienza. 


Buona Lettura ^^

Quella mattina Jack si alzò anche più anchilosato del suo solito ed ebbe la pessima idea di stirarsi le membra appena sceso dalla branda.
Il movimento gli fece stirare le ferite ancora in via di guarigione, che gli provocarono delle fitte atroci. Decise che per quel giorno avrebbe rinunciato alla sua nuotata mattutina.
Forse già prevedendo il suo stato d’animo, Killick aveva già imbandito la tavola per la colazione e aveva avuto la cura d’imbastire i suoi piatti preferiti: pane tostato, marmellata, aringhe grigliate, uova e pancetta croccante, con l’immancabile brocca di caffè ancora fumante.
Avere tutto quel ben di Dio a sua disposizione ebbe tuttavia l’effetto di aumentare la sua malinconia. Perché oltre alla distesa di piatti, ciotole e tazze, vedeva le sedie vuote che in un’altra mattina qualsiasi avrebbero potuto essere occupate dal dottore e da Pullings.
Si sforzò comunque di mangiare qualcosa e ben presto ritrovò l’appetito.

Finito di mangiare scese in quadrato e bussò con discrezione alla porta di Pullings.
Quando nessuno gli rispose mise dentro la testa e non si sorprese di trovare Stephen accasciato sulla sedia che dormiva con il capo a penzoloni, la barba non fatta e il viso tirato di chi era rimasto alzato tutta notte. Tom invece sembrava riposare tranquillo nella sua branda. Poiché il suo viso era quasi del tutto nascosto dalle bende, risultava difficile stabilire le sue condizioni ma dal secchio posato sotto la branda proveniva un vago sentore di vomito che fece rivoltare lo stomaco ad Aubrey, per le sue implicazioni più che per il contenuto in quanto tale.
Jack pertanto si limitò a dare una energica scrollata alla spalla del dottor Maturin, fino a farlo ritornare sulla sua.
Svegliato di soprassalto, Stephen sobbalzò sulla sedia ed emise un gridolino. Jack riuscì a zittirlo premendogli una mano sulle labbra e lo sospinse con dolce fermezza verso la porta, sbarrandogli la strada verso la branda con la sua mole.

Maturin sapeva che quella sarebbe stata una battaglia persa in partenza e si limitò a domandare: “C’è bisogno di te sul ponte, fratello?”
“No, almeno per ora no. Mowett ha tutto sotto controllo.”
“Bene. Allora fammi una carità, vuoi?”
“Certamente. Sono tutt’orecchi.”
“Resta qui con Tom mentre vado a fare il mio giro di visite, te la senti?”
“Ma certo, fratello. Lo faccio ben volentieri.”
“Te ne sono grato con tutto il cuore, anche da parte di Tom. Gli farà piacere vederti, se si sveglia mentre sei ancora qui.”
“Notte difficile?”
“Terribile. Tra la febbre e il dolore non ha avuto un attimo di pace, poveretto. Per questo, mi raccomando, non devi assolutamente affaticarlo se dovesse svegliarsi. Hai capito? Bene. Povero ragazzo, non un attimo di pace… Ma via! E’ ora che io vada. Di nuovo, grazie infinite mio caro.”
“Passa dalla cabina grande, se hai un momento. Killick ti darà l’occorrente per renderti presentabile e ti ho lasciato in caldo un bricco di caffè.”
“Ti ringrazio, fratello. Davvero sei una gioia per questo povero medico esausto.”
“Sì, sì. Ma adesso va’ che ti si fredda.”
Stephen si chiuse con delicatezza la porta alle spalle e lentamente Jack compì il passo che lo separava dalla branda di Pullings.

Quel poco del suo volto che poteva vedere era pallido e contratto dalla sofferenza, e il dottore gli aveva raccolto le mani, giungendogliele sul petto. Al capitano ricordò vagamente la decorazione di una lapide. Solo i movimenti erratici del suo magro torace mostravano che fosse ancora tra i vivi.
Vincendo la propria esitazione, Jack si chinò sul ferito e gli coprì le mani con le proprie: erano gelate. Gliele strofinò piano per scaldarle ma anche quella piccola attenzione fu sufficiente per svegliarlo.
Tom socchiuse l’occhio sano e sbatté appena le palpebre, ma il suo sguardo era annebbiato e confuso.
Aprì le labbra per mormorare qualcosa che Jack comprese solo per aver letto il labiale: “Chi c’è?”
Memore delle parole accorate di Stephen, Aubrey rispose scandendo bene le parole ma con il tono sommesso che considerava adatto alla stanza di un malato: “Sono io, Tom. Va tutto bene, non vi agitate.”
‘Povero ragazzo’ si trovò invece a pensare ‘Tanta fatica per la speranza di essere promosso e adesso è in fin di vita. Ah! Se non me lo fanno comandante questa volta! Perdio, con quello che sta soffrendo direi che se l’è guadagnata la promozione.’ Niente di tutto questo però venne alla luce e si limitò a chiedere: “C’è qualcosa che posso fare per voi, Tom?”
Ancora una volta dovette leggergli le labbra per capire: “Acqua…”
“Ma certo. Ma certo. Eccola. Mi raccomando, fate piano. Piano. Ecco. Così. Bravo.” Per aiutarlo a bere gli raccolse la nuca con una mano e gli inclinò appena la testa facendo attenzione a non farlo soffocare.
Quando Pullings gli sfiorò il braccio con una mano, come per allontanarlo, capì che ne aveva avuta a sufficienza e lo riadagiò sul guanciale.
“C’è altro che possa fare per voi?”
“Come?”
“No, dico, vi serve altro?” L’ansia che aveva accompagnato Jack fin dai primi momenti si sciolse come neve al sole e la sua mente innocente interpretò come positivo il fatto che, bene o male, Pullings gli stesse rispondendo, lasciando in secondo piano il fatto che le sue risposte fossero a malapena comprensibili.
Per tanto volle cogliere l’occasione per fare dello spirito, sperando di risollevare il morale del ferito: “Non avrete mica bisogno… di usare il vaso, vero?”
Se fosse stato lucido, e avesse avuto in corpo sangue a sufficienza, Tom sarebbe arrossito ed avrebbe balbettato qualcosa ma in quello stato non poté far altro che sbattere lentamente le palpebre.
Disgraziatamente Aubrey lo interpretò come un segno d’imbarazzo e scoppiò a ridere di tutto cuore, come sempre quando trovava uno dei suoi motti di spirito particolarmente divertente, del tutto incurante del fatto che spesso facessero ridere solo lui.

Le sue risa attirarono le ire del dottor Maturin come le mosche sul miele e non passò molto tempo prima che piombasse nella cabina, adirato come un’Erinni e quasi altrettanto scarmigliato: “Jack! Vergogna e disonore! Dovevo immaginare che avresti combinato un pasticcio.”
“Beh, Stephen, tu mi hai detto di non affaticarlo ed è quel che ho fatto. O, meglio, che non ho fatto. L’hai capita?” E di nuovo giù a ridere.
“Al diavolo la tua animaccia! Con quella tua finezza da pachiderma stai disturbando il mio paziente. I tuoi muggiti si sentivano fino al… al… al maschione di prua, ecco!”
“Il maschione! Il maschione di prua! Perdio, Stephen, questa è proprio bella!”
L’errore nel nominare il mascone costò caro a Stephen perché sfondò la paratia già lesa dalla parola “pachiderma”, di cui Jack non conosceva appieno il significato ma che suscitava sempre in lui grande ilarità. Riconobbe però le ragioni dell’amico e, sospinto dalle sue imprecazioni, si avviò verso la porta.
Se la chiuse alle spalle con un sorriso: era convinto che le cose stessero finalmente volgendo al meglio.

Malgrado le speranze di Jack, le cose non stavano volgendo al meglio proprio per niente.
Nel corso della sua breve visita la febbre di Pullings era rimasta stabile sui 102° ma nel giro di un’ora si era già alzata a 103° .

Venne poi il fatidico momento di cambiare le medicazioni.
Le bende vennero via abbastanza facilmente ma durante la notte l’essudato delle ferite era di nuovo trapelato nelle garze, incollandole alle suture. Dal colore Stephen lo riconobbe come lodevole pus e tirò un sospiro di sollievo momentaneo. Sapeva tuttavia che non sarebbe stato semplice toglierle, e lo sapeva anche il suo paziente, che in quel momento si stava aggrappando con tutte le sue misere forze alla coperta e tremava come una foglia.
Nel tentativo di rassicurarlo Stephen prese ad accarezzargli i capelli, consigliandogli di respirare a fondo e lentamente, rassicurandolo sul fatto che il dolore sarebbe passato presto.
Quando gli parve ragionevolmente tranquillo iniziò a staccare le prime garze. Adoperò la massima delicatezza possibile per non rovinare le suture ma questa volta tutta la buona volontà di Pullings non bastò ad impedirgli di gridare per il male che gli stava procurando.
Le sue urla si propagarono fino al cassero, facendo gelare il sangue a chiunque le sentisse.
La ferita sul costato era altrettanto infiammata e fu necessario anche in quel caso asportare con cautela la medicazione. Dopo aver terso i labbri delle ferite con aceto e spirito di vino il dottor Maturin mandò a chiamare il suo assistente perché lo aiutasse con le spugnature ed il cambio di posizione, che andava effettuato diverse volte al giorno onde evitare la formazione di piaghe o altre lesioni da decubito.
Al termine di tutti quei movimenti Pullings era pallido come un cencio e del tutto sfinito.
Quando lo avvolsero nelle coperte pulite si abbandonò al sonno con un brivido, aveva persino pianto per quanto forte era il dolore che sentiva.
Stephen congedò l’assistente e prima di rinnovare le medicazioni sulla testa del ferito gli deterse il viso con una pezzuola umida. Badò che fosse ben coperto e quanto più comodo possibile prima di ritornare alla sua veglia silenziosa.

Stephen aveva requisito uno dei manuali ordinatamente riposti su uno scaffale da Tom Pullings e aveva perso il senso del tempo oramai da qualche ora quando un bussare leggero lo distrasse dalla sua lettura.
“Avanti!” rispose d’istinto, senza neppure alzare gli occhi dal libro.
Gli fece eco l’inaspettata voce di William Mowett: “Buongiorno, dottore. Il pranzo è in tavola, se volete accomodarvi. Ho portato anche il brodo per Tom… per il signor Pullings, cioè.”
“Vi ringrazio, William. Datelo pure a me.”
“Andate a pranzo, Dottore.” Il tenente si concesse un sorriso tirato “Ordini del capitano.”
“Oh! Beh, in tal caso...” Si alzò dalla sedia stirandosi le membra e depose il volume sulla cassa da marinaio di Pullings, poi piantò i suoi occhi grigi in quelli di Mowett “Abbiate cura di lui, mi raccomando. E non esitate a chiamarmi se doveste aver bisogno di qualcosa. Ordini del capitano o no i miei pazienti hanno sempre la precedenza. A tra poco, William.”
“Arrivederci, Dottore.”

Non appena la porta si fu chiusa, sbarrando la strada ai bisbigli del quadrato che salutava il dottor Maturin, Mowett depose il piatto su uno stipo e si chinò sull’amico per svegliarlo.
In quel momento Pullings era stato fatto stendere su un fianco quindi bastò prenderlo per una spalla e scuoterlo leggermente. Subito riprese i sensi con un gemito.
“Scusami, Tom, ti prego scusami. Ma il dottore ha detto che devi mangiare e allora…”
“Chi c’è?” ansimò Pullings, un sussurro a malapena comprensibile e poco articolato che trafisse il cuore dell’amico.
“Non mi riconosci?” più che una domanda suonò come un’affranta constatazione “Sono io. Sono Will.” Sussurrò il tenente, piegandosi ancora di più verso il ferito e mostrandosi alla luce, perché potesse vederlo con l’unico occhio scoperto.
“Will?” Gemette allora Pullings.
“Sì, Tom. Sono io.”
“Will!” le labbra esangui del ferito si distesero in un sorriso, la cui sincerità era solo in parte deturpata dall’orrenda ferita.
“Sì, sono proprio io. No, non cercare di alzarti. Non ti muovere: ti faresti male. Ecco, lascia che ti aiuti io. Così. Piano. Piano.”
Con pochi e ridotti movimenti Pullings si ritrovò disteso con un cuscino sotto le scapole e uno dietro la nuca, perché lo sorreggessero mentre Mowett cercava d’imboccarlo.
Nausea e dolore erano ancora molto forti nonostante le assidue cure del dottor Maturin e un senso di malessere generale, abbinato a forti brividi, lo informavano che la febbre era salita ancora.
Dopo aver ingerito pochi cucchiai di brodo scosse lentamente il capo, indicando di non poterne assumere altro.

Subito Mowett si allarmò: “Cosa succede? Non ti senti bene?”
“Febbre…” riuscì ad articolare Pullings, con voce roca e flebile.
Il tenente gli pose le nocche su una tempia per saggiarne il calore ma le ritrasse quasi subito: “Mio Dio! Come scotti!”
Un brivido violento sopraffece il ferito, che si accasciò sui guanciali con un lamento: non sopportava più tutto quel dolore, e non poter articolare le parole gli causava una frustrazione quasi peggiore.
Per fortuna, il suo amico era disposto a tutto fuorché abbandonarsi alla disperazione, anche se in cuor suo sapeva di non poter fare nulla per alleviare la sua sofferenza.
Mowett prese a sfiorare con delicatezza una guancia dell’amico, rasata dal dottore quella mattina per impedire ai peli di infettare la ferita, e gli parlò piano: “Non arrenderti, amico mio, tieni duro. Lo so che fa male, lo so che è difficile ma non sei da solo. Sono qui, mi senti? Sono qui.”
“Will…”
“Shh, non parlare. Va tutto bene, va tutto bene. Riposa, Tom, dormi tranquillo. Guarirai presto, te lo prometto.”

Continuò a carezzare il viso ed i capelli dell’amico finché non fu certo che si fosse addormentato, solo allora permise alle proprie spalle di crollare sotto il peso della preoccupazione.
  
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