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Autore: Orso Scrive    10/03/2023    0 recensioni
Atlantide, il grande faro luminoso dell’antichità, vera culla della civiltà umana, sta per essere annientata. Ma alcuni dei suoi figli tenteranno una fuga disperata, perché la cultura di quell’antica terra possa sopravvivere e il suo ricordo rimanere vivo nel nuovo mondo che nascerà...
(Storia scritta nel 2017)
Genere: Avventura, Drammatico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I FIGLI DI ATLANTIDE

 

Quando, quel mattino, Thuja riaprì gli occhi, si sarebbe aspettata di vedere la solita, bella e calda luce solare illuminare le pareti della casetta. Invece, risvegliatasi da uno strano sogno, credette di essere ancora immersa nel pieno della notte, poiché l’oscurità pervadeva ogni cosa. Ma com’era possibile? Era più che sicura di aver dormito a lungo e che l’alba fosse già passata da un pezzo.

La giovane, inquietata da quello strano buio, si levò a sedere sul pagliericcio e rabbrividì: nonostante fosse piena estate, quel giorno faceva anche molto freddo; per questo motivo, quindi, sopra la lunga e leggera veste bianca, si vide costretta ad indossare immediatamente la sua tunica azzurra, che aveva sfilato prima di addormentarsi. Alzatasi in piedi, s’avvicinò al bacile di pietra dove teneva l’acqua per le sue abluzioni mattutine; solitamente, il contatto di quel fresco liquido la ritemprava, ma quella volta non sarebbe stata così, poiché con meraviglia scoprì che l’intero contenuto della vasca era divenuto uno spesso strato di ghiaccio.

Chiedendosi che cosa potesse essere successo, lasciò la stanza ed andò alla ricerca del nonno. Abitualmente, a quell’ora, il vecchio era già in mare con la sua barca, a gettare le reti in cui intrappolare i pesci. Ma, osservando oltre l’uscio della casetta imbiancata di calce, Thuja vide che il cielo era tinto di un nero cupo e che le acque marine, fattesi grigie come il piombo, si agitavano come sospinte da venti implacabili, sebbene non avvertisse neppure una bava di leggera brezza soffiare dal litorale. Spaventata da quegli strani fenomeni, si guardò attorno e notò l’alta figura un po’ ricurva del nonno, immobile sulla spiaggia sabbiosa, gli occhi fissi contro il misterioso cielo.

Lo raggiunse e si fermò a qualche passo di distanza, rispettandone il meditativo silenzio; il nonno, sebbene si fosse preso cura di lei e di suo fratello Salix fin dalla loro più tenera età, l’aveva sempre messa in soggezione, poiché egli emanava un’austera sapienza, degna dei più reverendi sacerdoti, dei più dotti saggi; aveva scelto di essere un pescatore, ma non era forse quella una rappresentazione simbolica del pescatore di anime, ossia del più alto dei sacerdoti di Atlantide?

Avvertendo alle proprie spalle la presenza della nipote, il vecchio Tilia parlò, senza avere bisogno di voltarsi: «Avvicinati a me, Thuja. Non avere timore.»

La giovane fece qualche passo avanti e, vincendo i propri riguardi, si affiancò al nonno, pur mantenendosi a rispettosa distanza, tacendo fino a quando non fosse stato lui stesso ad interrogarla. Ed il vecchio, scrutandola con il suo sguardo magnetico, domandò: «Appena adesso ti sei levata dal tuo giaciglio e già la tua pelle è asciutta e ricoperta dalla tunica, e lo stesso vale anche per i tuoi capelli. Dimmi, Thuja, hai forse mancato di compiere le cultuali purificazioni del mattino, quest’oggi?»

Vergognandosi un poco per non aver adempiuto all’antico rituale, imposto a tutti gli abitanti della sacra isola di Atlantide sin dalle più remote antichità, Thuja rispose: «Non è stata colpa mia, nonno. L’acqua, nel bacile, si è congelata come se un inverno improvviso fosse disceso su di noi.»

L’anziano pescatore non replicò e la giovane, puntando lo sguardo al mare agitato ed al cielo nerissimo, osò domandare: «Quale prodigio incombe sulle nostre vite?»

Il vecchio lasciò vagare la vista tutt’attorno, sulle tenebre misteriose e sullo strano mare, attendendo qualche istante prima di dare una risposta al quesito della nipote.

«Un prodigio? Non sarebbe forse meglio dire un malvagio destino? Io non lo so, Thuja. Non posseggo la risposta che tu cerchi.»

Quelle parole spaventarono ancora di più la ragazza che, però, riuscì a controllarsi ed a non darlo a vedere.

Il vecchio continuò: «Qualcosa di singolare ed incomprensibile è all’opera oggi, qualcosa che neppure io, che pure ho veduto molte cose ed ho vissuto lunghi anni, saprei spiegare. Ma non dobbiamo temere nulla, non ancora. Thuja, non avere mai timore di ciò che non conosci: aspetta di comprenderlo, prima di temerlo.»

La giovane non si sentì molto persuasa dalle parole del nonno; sbagliato o meno che fosse, lei provava un certo timore per quello che stava accadendo tutt’attorno, poiché non sembrava essere nulla di naturale o, in ogni caso, di benevolo. Una cupa inquietudine la stava pervadendo e non ci sarebbero state parole sufficienti, in quel momento, a confortarla ed a scacciare da lei quei pensieri negativi. Dov’era il divino astro diurno? Dove mai era andato a nascondersi? Perché non brillava alto nel cielo, come sempre? Perché non vivificava più la sacra isola, eletta dagli dèi a propria dimora millenaria? Cos’era mai quell’oscurità, che nulla di buono lasciava presagire? Da dove proveniva? No, Thuja aveva paura e nessun discorso sarebbe valso a rassicurarla. Tuttavia, non ebbe il coraggio di contraddire il nonno, quindi si mantenne silenziosa al suo fianco, gli occhi sempre puntati su quel mare mosso da forze misteriose e su quella spessa e densa ombra che, come una nebbia innaturale, celava persino l’orizzonte.

Il volto del vecchio tornò a posarsi sulla nipote: «Vai nella legnaia e prendi alcuni rami di larice, torna in casa e fai un fuoco sul braciere, per sciogliere il ghiaccio del bacile. Sveglia tuo fratello Salix, che troppo a lungo sta indugiando nel sonno, ed insieme mondatevi e purificatevi come prescrive il rito. Prima d’indossare i vostri abiti migliori, cospargetevi d’unguento balsamico. Quando sarete finalmente pronti per comparire al cospetto dei numi, verrete con me al tempio, ad interrogare il futuro.»

Il tempio! Thuja non vi era mai entrata in vita sua, perché quella prerogativa spettava solamente a chi avesse raggiunto la completa maturità. Ecco perché il nonno desiderava che lei e suo fratello fossero completamente purificati, con tanto di aspersione del prezioso olio sacro: se così non fosse stato, non avrebbero potuto venire ammessi al sacro recinto, dato che avrebbe significato compiere un torto verso gli dèi, il penetrarvi con indosso le lordure del mondo fisico. Ma, se il vecchio riteneva di dover varcare la soglia dell’edificio santo in compagnia dei due nipoti per parlare al dio e chiedergli conto dell’avvenire, doveva esserci in gioco qualcosa di molto arcano ed inintelligibile.

Thuja era eccitata all’idea di poter finalmente entrare nel tempio, un luogo che aveva sempre e solo visto dall’esterno, peraltro senza neppure potersi avvicinare troppo, fantasticando su quali tesori si trovassero al suo interno, ma al medesimo tempo era spaventata da quello che avrebbe potuto scoprirvi e dal fatto che il nonno, il quale aveva sempre avuto una risposta pronta per qualsiasi interrogativo, non fosse adesso in grado di spiegare quanto stessero vedendo attorno a loro. Ora come ora, neppure lei sarebbe stata in grado di dire se fosse superiore la sua paura o, al contrario, il suo stupore.

Obbediente, ritornò verso la casupola, che si ergeva solitaria sulla spiaggia cosparsa di belle conchiglie, ed entrò nella legnaia, da dove uscì con una fascina che trasportò in casa. Sistemata la legna sotto il braciere, le diede fuoco con le pietre focaie, quindi pose il bacile con l’acqua ghiacciata sopra le fiamme. A questo punto, come le era stato ordinato di fare, svegliò il fratello e lo condusse al caldano, senza dire una sola parola. Toltasi la tunica azzurra, prese il bacile e, recitando inni e formule per gli dèi, versò l’acqua, ormai liquida e tiepida, sul capo del fratello, facendogliela scorrere su tutto il corpo e sulla veste bianca che egli, come lei, non toglieva mai, proprio come voleva la legge di Atlantide. Non appena ebbe compiuto questa parte dell’antico rituale, depose la vaschetta, che fu raccolta da Salix, il quale ripeté tutto versandole l’acqua addosso. Terminato ciò, i due si spalmarono la pelle delle braccia e delle gambe di olio delicato e profumato, per poi indossare, sopra le loro vesti bianche ancora umide, abiti intessuti con grande armonia di colori.

Solo a questo punto, Salix osò parlare.

«Che cosa sta succedendo, Thuja? Da dove arrivano questo freddo e questa oscurità?»

La sorella mostrò, oltre una finestra, il mare agitatissimo. Quella visione inaspettata riempì d’angoscia il cuore del fratello.

«Vuoi forse dirmi che il nonno è ugualmente uscito a pescare con le acque in quello stato?» chiese.

«Il nonno sta bene, Salix, e ci attende sulla spiaggia. Ma neppure lui è in grado di dire che cosa i nostri occhi stiano vedendo. Vieni, raggiungiamolo. Insieme, andremo al tempio.»

 

* * *

 

Il vecchio Tilia continuò ad incedere con calma e sicurezza, in apparenza senza badare affatto ai grandi globi infuocati che, adesso, a tratti, attraversavano il cielo, perdendosi lontani, oltre la vista, dopo essersi lasciati dietro una spaventosa scia di scintille e di elettricità. Dalle sue labbra, però, la litania che già da un pezzo aveva intonato si fece udire ancora più forte.

Alle sue spalle, invece, Thuja e Salix si strinsero con le braccia, impauriti da quelle orrende visioni, le quali non sembravano far presagire nulla di buono per l’avvenire. I due ragazzi erano nati e cresciuti nella grande isola di Atlantide, la dimora degli dèi, un tempo luogo ameno ed incantevole che, però, da ormai parecchi anni, versava in stato di tremenda decadenza a causa delle continue guerre volute dai dieci re, i discendenti di Nettuno stesso, per andare alla conquista di tutto il mondo. La magnifiche città dell’isola, ormai, erano spopolate, gli abitanti si erano ridotti a vivere in capanne lungo le coste, poiché le pianure e le montagne dell’interno erano ormai insicure, percorse da animali selvatici e da orde di predoni; la stessa capitale, la grandiosa ed armoniosa metropoli edificata da Nettuno in persona alternando cerchi concentrici di acqua e di terra, andava perdendo inesorabilmente la propria importanza. Le lunghe guerre, le quali avrebbero dovuto imporre il potere di Atlantide su ogni terra conosciuta, avevano finito per gettare l’isola in un vortice di rovina, dal quale sembrava ormai impossibile poter riemergere. Però, né il vecchio Tilia né, tantomeno, i suoi due nipoti, avrebbero mai potuto immaginare che quello che andava preparandosi sarebbe stato un cataclisma di immani proporzioni, che avrebbe mutato per sempre il volto del mondo, cancellando Atlantide dalla realtà e relegandola nell’ambito dei miti e delle leggenda.

Continuando a camminare, il nonno condusse Thuja e Salix oltre la spiaggia, seguendo una pista erbosa che, fino a non molti anni prima, era stata una strada lastricata e battuta da ricche carovane. Com’era mutato, il volto di Atlantide! Se ripensava alla propria giovinezza, al vecchio Tilia si velavano di lacrime gli occhi. Dov’erano i mercanti? Dov’erano finiti i fieri abitanti di quelle contrade? E gli dèi se n’erano dunque andati dalla sacra isola? Tutto finito, tutto sepolto sotto il velo distorto e tremendo del presente, un presente fatto di guerre e di lutti. E il tempio? Almeno quello sarebbe sopravvissuto alle ingiurie e dall’empietà, oppure al loro arrivo non avrebbero trovato più nulla?

No, ecco, il tempio era là, ancora superbo nella sua religiosa superiorità.

Era un imponente edificio, circondato da un massiccio muro, lungo il quale, alternati uno ad uno tra solide colonne che recavano i resti di un’antica colorazione verde, ormai del tutto sbiadita, erano appesi pannelli di bronzo e di oricalco raffiguranti scene di combattimento tra i leggendari tritoni, armati di lance e di gigantesche conchiglie utilizzate come scudi: erano, quelli, gli antichi abitanti dell’isola, ridotti all’impotenza da Nettuno e tramutati in uomini. Di quando in quando, sopra una delle lastre, compariva il volto mostruoso di una gorgone, poiché si diceva che quegli esseri raccapriccianti, capaci di tramutare qualsiasi essere vivente in pietra per mezzo dello sguardo, fossero stati posti dal dio del mare a custodia della sua isola. Per giungere all’ingresso del tempio, si doveva risalire una scalinata dai gradini molto alti, affiancata da un basso muricciolo, decorato con triangoli rossi ed azzurri e sul quale si trovavano numerose statue bronzee di delfini, i sacri animali di Atlantide. Ed il portale, maestoso e impressionante, di forma trapezoidale, era sormontato da un volto gigantesco, scolpito nella roccia più dura: il volto di Nettuno, con in testa la corona dei re d’Atlantide, con l’ureo a forma di delfino, lo sguardo fiero e sapiente rivolto in direzione della lontana capitale e la lunga barba che, aprendosi in due diramazioni, andava ad intrecciarsi attorno all’arco d’entrata.

I due giovani, avvicinandosi a quel luogo, sentivano i cuori gonfiarsi di stupore; abituati solo alle casupole dei pescatori, mai avrebbero potuto immaginare che esistessero simili edifici, nel mondo. Avevano sempre veduto il tempio da molto distante, perché non era loro permesso neppure di avvicinarsi, e già così era parso tanto grande, a quegli occhi non avvezzi che a basse casette tinte con la calce; ma vederlo da vicino era qualcosa di estremamente nuovo, di indicibile.

Il nonno li condusse lungo la scalinata. I delfini, attorno, comunicavano un senso di sicurezza e di fiducia, che per un momento fece distogliere i loro pensieri dagli strani fenomeni che si stavano verificando nel cielo.

Come furono giunti all’ingresso del tempio, un guardiano mosse loro incontro. Senza una sola parola, li squadrò da capo a piedi, poi fece un cenno del capo, il che significava che avevano il permesso di proseguire. Oltrepassare il grande portale, riempì l’animo di Thuja di strane e conturbanti emozioni; lo stesso, quasi sicuramente, dovette accadere al fratello. Entrambi, però, mantennero lo stesso passo costante e la stessa tranquilla sicurezza del nonno, che li guidò oltre un lungo corridoio, rischiarato a malapena da alcune lucerne fumose.

Ed ecco, finalmente, l’interno del tempio, il santo dei santi, il luogo in cui le anime e le menti degli uomini, congiungendosi con quelle degli dèi, entravano in comunione con l’Universo, il vivificatore, il Padre supremo che, prima dell’alba dei tempi, concepì il progetto eccelso del tutto. Era un concetto arcano, quello, che neppure i più alti sacerdoti sarebbero mai riusciti a spiegare completamente, poiché il linguaggio umano non avrebbe mai potuto produrre le parole adatte ad un simile scopo.

La stanza era velata da una cortina di fumo d’incenso, che si levava in lente volute in ogni direzione, celando allo sguardo i confini di quel luogo, di quell’ultima frontiera tra il mondo concreto ed il mondo immateriale; l’assenza d’ossigeno giocava strani scherzi, tanto che a Thuja parve di scorgere un movimento, nel mezzo di un grande cerchio di pietra che si trovava nel centro esatto della stanza, innalzandosi fino quasi a toccare il soffitto. Ma no, non era un’allucinazione… una figura ammantata di grigio chiaro era veramente coricata oltre il cerchio, una figura che si levò con leggerezza al loro sopraggiungere. Nonostante il lungo velo che ne ricopriva interamente le sembianze, si poteva facilmente intuire che si trattava di una donna, dinnanzi alla quale il vecchio, subito imitato dai due nipoti, si inginocchiò con aria deferente. Non ci fu bisogno di alcuna parola.

«La tua venuta al tempio quest’oggi, Tilia il pescatore, in compagnia dei giovani Salix e Thuja, è certo dovuta all’inquietudine per l’avvenire» disse la figura. La sua voce era strana, quasi metallica, cupa come le più irraggiungibili profondità della terra, né sembrava provenire da quel corpo, ma da ogni angolo del grande tempio.

«Gli dèi non ci sono favorevoli» continuò la voce. «Il loro sguardo s’è levato da Atlantide e s’è volto altrove. Il tempo è finito per la sacra terra di Nettuno, la collera dei numi immortali s’abbatterà su di essa come uno sciame devastante di cavallette. L’empio comportamento dei monarchi sarà punito e non vi sarà più alcuna possibilità di redenzione. Questo fu profetizzato allorquando l’isola venne sorta dal mare: fin quando regneranno l’armonia e la pace, essi vivranno con felicità; ma quando l’odio e la sete di potere accecheranno i loro cuori, quando le brame si faranno insipienti, essi saranno ricondotti tra i flutti e neppure il ricordo resterà delle loro azioni.»

Udendo quelle frasi tremende, Thuja fu scossa da un tremito di paura. E, come se si fosse resa conto di quello stato di panico, la sacerdotessa la rincuorò: «Non piangere prima del tempo, mia giovane Thuja. Non tutto è perduto. Chi avrà il coraggio di affrontare l’ignoto e gli sciabordii dell’onda spaventosa, varcherà la soglia d’Atlantide e sarà salvo. Chi vi riuscirà manterrà vivo il nome dell’isola anche dopo la sua fine e ne rammenterà i giorni di gloria e la grande disciplina.»

Una mano uscì da sotto il velo e, afferratone un lembo, lo sfilò, rivelando l’aspetto di una donna di bellezza ineguagliabile, dai lunghi capelli corvini che ricadevano lungo il corpo avvolto da un chitone di un verde brillante. Il volto della donna era grave, eppure sorrise amabilmente quando i suoi occhi incrociarono gli sguardi dei tre astanti. Parlò di nuovo e, questa volta, la sua voce era dolce ed armoniosa: «Andate, adesso, figli di Atlantide. Ora conoscete il destino dell’isola. Starà a voi scegliere se seguirlo o se continuare a vedere la luce del sole ancora per lunghissimi anni.»

Tilia si alzò e, senza una parola, si voltò per andarsene, imitato da Salix. Solo Thuja rimase indietro, contemplando gli occhi incredibilmente blu della sacerdotessa.

«Tu non verrai con noi?» le domandò. «Non ti metterai in salvo?»

Il sorriso della donna si fece ancora più bello.

«Figlia di Atlantide… figlia mia. Io sono la sacerdotessa dell’isola di Nettuno ed il mio posto è qui. Io ne sono la custode e seguirò la sorte che mi fu assegnata dagli dèi. Io vedo nei tuoi occhi la medesima luce che un tempo brillò nei miei: se la fortuna avesse voluto diversamente, se il fato non fosse stato avverso, tu saresti un giorno divenuta un’alta sacerdotessa, succedendomi in questo incarico onorevole e gravoso. Ma, forse, anche altrove potrai svolgere questo ufficio degno di lode. Perpetuerai, Thuja, il nome di Atlantide nei secoli?»

La ragazza si sentì smarrita di fronte a quelle rivelazioni. Davvero il suo compito sarebbe dovuto essere quello di divenire una sacerdotessa? Il nonno non gliene aveva mai fatto parola, neppure un accenno. Eppure, dinnanzi a quella donna così sicura e così forte da accettare il proprio destino senza paura, anche in un momento tanto tragico e solenne, non volle vacillare.

«Sì, se gli dèi lo vorranno, io lo farò» rispose con voce ferma, inchinandosi di fronte a quella figura che poteva solo ispirare devozione.

La donna si portò le mani al collo e ne sfilò una collana di conchiglie che portava attaccata, come pendente, una stella di un metallo rosso e brillante. Mormorando alcune parole, lasciò scivolare il diadema al collo della giovane.

«Questo è oricalco, il sacro minerale di Atlantide. Non lo troverai in alcun’altra parte del globo terracqueo. Da questo momento, tu hai un compito importante e difficile da portare a termine, Thuja. Dovrai salvarti, allontanandoti da Atlantide prima che sia troppo tardi e raggiungendo la terraferma. Non sarà un’impresa facile: antiche paure sortiranno dagli abissi, richiamate in vita nel momento del collasso; ed eserciti nemici dilagheranno sull’isola, prima della distruzione. Affrontali e superali. Raggiungi le porte di Atlantide ed oltrepassale. Non abbandonare mai il vecchio Tilia ed il giovane Salix: l’uno sarà il tuo mentore, colui dal quale apprenderai i segreti dell’isola, che sarò tuo compito tramandare in eterno; l’altro, sarà il guerriero che ti proteggerà e veglierà su di te. E non abbandonare mai questa collana, poiché in essa vivrà per sempre l’energia di Atlantide, l’isola che fu degli dèi. Ed ora va, figlia mia, figlia di Atlantide: il mio compito è terminato, il tuo deve iniziare.»

La sacerdotessa chinò il capo e baciò la fronte della giovane; poi, raccolto il lungo velo grigio, che aveva lasciato cadere in terra, si coprì nuovamente e tornò a coricarsi nel vano del grande cerchio di pietra.

Thuja, invece, seppur scossa e desiderosa di rivolgere mille domande a quella donna che, lo sapeva, non avrebbe rivisto mai più, si alzò in piedi e raggiunse in fretta l’ingresso del tempio, dove il nonno ed il fratello la stavano aspettando. Salix, impaziente di andarsene il prima possibile, sembrava irritato da quell’attesa, mentre il vecchio Tilia manteneva un aspetto sereno e distaccato.

Prima che la giovane avesse il tempo di proferire parola, il nonno disse: «E, così, ti è stato infine assegnato il compito che, un giorno, avresti comunque ereditato.»

«Io non capisco…» rispose confusa la ragazza.

«Quella sacerdotessa è mia figlia» comunicò il vecchio. «Ella è vostra madre. Ed il ruolo di sacerdotessa si tramanda di madre in figlia da generazioni: mia moglie fu anch’essa una sacerdotessa. Io stesso sarei dovuto divenire sacerdote, ma rifiutai quell’incarico del quale mi sentivo indegno.»

«Nostra madre?» ripeté Salix. «Ma, allora…»

«Ella resterà qui» proclamò il vecchio, con un tono che non ammetteva repliche. «Adesso, venite con me. Torniamo per un’ultima volta alla nostra casa a prendere l’indispensabile, poi ci appresteremo ad affrontare il lungo viaggio.»

Il nonno li guidò all’ingresso del tempio. Adesso, una fitta nebbia si levava dal terreno congelato, scricchiolante sotto i loro passi affrettati. Le uniche luci erano quelle provenienti dalle innaturali folgori che attraversavano il cielo. Ovunque si potevano scorgere persone disperate, che si prosternavano in terra ed alzavano le mani verso l’alto a supplicare gli dèi che concedessero una tregua. Ma non ci sarebbe stata. Atlantide era ormai inesorabilmente condannata e l’unica speranza di sopravvivenza, per i suoi abitanti, sarebbe stata quella di dare avvio ad un esodo senza precedenti. Ma chi avrebbe trovato il coraggio di abbandonare quel luogo ameno e felice? E da dove sarebbe scaturita la temerarietà necessaria ad affrontare i misteri ed i pericoli dei flutti impazziti? Molti avrebbero scelto di rimanere, condividendo fino alla fine la sorte dell’isola che aveva dato loro vita e sicurezza per molti secoli.

Camminando in fretta, Thuja e gli altri due giunsero rapidamente alla loro casetta sulla spiaggia. Sarebbe stato un colpo al cuore dover abbandonare per sempre quel luogo che, per quanto piccolo e povero, aveva offerto loro calore, riparo e intimità. Per Thuja e per Salix avrebbe significato lasciarsi alle spalle l’infanzia per entrare a pieno titolo nella vita adulta, mentre per il vecchio Tilia sarebbe stato un definitivo addio al proprio passato ed ai propri dolci ricordi. Ma non era quello il momento di perdersi in sentimentalismi e nostalgie; la cosa più importante, quella con la massima priorità, adesso, sarebbe stata il riuscire a mettere in salvo la vita.

Sulla soglia, trovarono ad attenderli un gruppetto di persone spaventate ed agitate, venute in cerca del vecchio Tilia, il quale avrebbe certamente saputo dare loro un qualche conforto. Thuja, notando che tutti loro, come presagendo di non dover più rivedere le proprie case, avevano con sé dei sacchi contenenti i propri effetti più cari, li riconobbe tutti: c’erano la sua amica Rodon e suo fratello Dendron, suoi coetanei, nonché i loro genitori, Laurus e Passiflora; vi era poi una donna molto anziana, Leucatema, lontana parente del nonno; e c’era pure Rhus, il guardiano del grande faro che sorgeva sulla scogliera.

Fu a quest’ultimo che, per primo, si rivolse il nonno, dopo aver calmato con un gesto della mano il loro vociare confuso ed incomprensibile.

«Cosa ci fai tu qui? Non avrai lasciato spegnere il braciere che illumina la via nell’oscurità, spero! Proprio oggi che il sole non si mostra ai nostri sguardi e le tenebre avvolgono ogni cosa nel loro impalpabile manto.»

L’uomo chinò il capo con vergogna.

«È così, invece, saggio Tilia» rispose, facendosi piccolo. «Ma ti assicuro che ciò non è dipeso dal mio volere. È accaduta una terribile disgrazia!»

«Di che cosa parli?» chiese quindi Tilia, con inquietudine.

«Una pietra enorme, infuocata, è discesa dal cielo con inaudita violenza! Essa ha colpito la sommità del faro, mandandolo in completa rovina. Io stesso mi sono a malapena riuscito a mettere in salvo.» E, sollevate le braccia, mise in mostra le escoriazioni e le bruciature che le ricoprivano completamente.

«E così, in questa ora sciagurata, coloro che tenteranno di mettersi in salvo non potranno neppure affidarsi alla luce familiare e sicura del faro» constatò il vecchio.

«Ora sciagurata? Mettersi in salvo?» intervenne Laurus. «Ma che succede, quindi?»

«Ti prego, rispondici, saggio Tilia» aggiunse Passiflora, stringendo a sé i due figli.

Il vecchio puntò per un momento lo sguardo antico e sapiente su ciascuno dei presenti e, poi, lo rivolse verso il lugubre mare, sul cielo solcato da incomprensibili paure e verso l’interno dell’isola sacra.

«È giunto il momento di andarsene» egli rispose, infine. «Chi vorrà continuare a vivere ed a mantenere vivida la recondita memoria sapienziale di Atlantide, dovrà volgere altrove i propri passi, poiché l’isola è stata condannata.»

L’anziana Leucatema ruppe il dignitoso silenzio in cui, unica, fino a quel momento, s’era mantenuta.

«Gli dèi ci hanno dunque negato il loro favore, da ultimo» disse, con voce grave. «L’ora di Atlantide è giunta.»

Quelle parole contribuirono a spaventare maggiormente gli altri, ma questa volta fu Thuja ad intervenire nel tentativo di riportare la calma.

«Abbiamo la possibilità di salvarci, tutti quanti» asserì con fermezza. «L’imbarcazione del nonno è grande a sufficienza per accoglierci tutti ed egli è un marinaio esperto, capace di affrontare questo mare agitato e spaventoso. Troveremo una nuova vita oltre le porte d’Atlantide.»

«Lasciare tutto questo» mormorò Rhus, volgendosi tutt’attorno con afflizione. «Non posso crederci…»

«Da lunghi anni, ormai, Atlantide non è più il luogo di pace e di saggezza che fu un tempo» gli ricordò il vecchio Tilia. «Questa terra è ormai corrotta, per questo i sacri numi hanno preso la decisione di punirla. Ma noi potremo ricominciare tutto da capo.»

«Noi ti seguiremo, saggio Tilia» disse Laurus.

«Io sarò la vostra guida oltre gli abissi» replicò il vecchio. «Mia nipote, invece, sarà colei che manterrà vive le nostre conoscenze e le tramanderà nei millenni a venire. Questo è il compito che la grande sacerdotessa ci ha affidato.»

«Saremo tutti con voi» affermò Leucatema.

Con un cenno del capo, il nonno indicò a Salix e a Thuja di entrare in casa e di mettere in un sacco l’indispensabile per il viaggio. Mentre i due nipoti si davano da fare, si rivolse agli altri presenti.

«Prima di andarcene per sempre da Atlantide, dovremo forse affrontare prove tremende. Ma se saremo saldi ed uniti, se non ci faremo cogliere dal panico, le supereremo tutte quante.»

«Noi ti seguiremo!» ripeté Laurus, con ancora più fermezza di prima.

Tilia si mise a sedere sopra una pietra grigia e levigata, poco discosta dall’uscio di casa; era lì che amava riposare, nei pomeriggi, contemplando l’orizzonte, oppure nelle sere d’estate, sollevando gli occhi al cielo. Su quella pietra avevano fatto meditato suo padre, suo nonno e tutti i loro antenati, per lunghissime generazioni. Non avrebbe potuto abbandonarla così, poiché essa era un simbolo, la prova del suo passato. E, tuttavia, era ben conficcata nel terreno: lui stesso ve l’aveva portata molti decenni prima, allorquando, lasciata la vecchia casa nell’interno dell’isola, s’era trasferito a vivere lì, nei pressi del mare. L’accarezzò con la mano scarna, incapace di poterla lasciare; migliaia di ricordi erano racchiusi in quella pietra. Rhus, il guardiano del faro, sembrò leggergli nel pensiero, poiché disse: «Saggio Tilia, se ci tieni, smuoverò io quella pietra dalla terra e la trasporterò fino alla tua barca.»

Il vecchio rispose con un amabile sorriso e si alzò; e, Rhus, aiutato da Laurus e da Dendron, cominciò immediatamente a darsi da fare per smuovere il pesante masso. Non fu un lavoro semplice e, quando Salix e Thuja giunsero con i bagagli, il lavoro non era ancora terminato.

«Non possiamo indugiare troppo» ricordò Thuja, guardando i tre uomini all’opera.

«Abbiamo ancora tempo a sufficienza» rispose il nonno. «E, poi, prima di salpare, abbiamo un altro compito che ci spetta» aggiunse, con un mormorio. Quindi, alzata la voce, cominciò ad impartire delle direttive: «Leucatema! Tu, Passiflora, Salix e Rodon datevi da fare con i bagagli, per trasportarli alla mia barca, che è tirata in secca sulla spiaggia, laggiù. Nel frattempo, mentre loro termineranno di asportare la mia pietra, io e mia nipote Thuja porteremo a termine un altro incarico, della massima importanza per il nostro futuro.»

Nessuno ebbe nulla da ribattere, quindi Tilia si avviò lungo la spiaggia, facendo cenno alla nipote perché lo seguisse. Il freddo era aumentato ulteriormente e nubi dense come il burro si erano ammassate in alto, minacciando pioggia ed aumentando ulteriormente l’oscurità, squarciata a intervalli irregolari da folgori e saette spaventose. Il sibilo delle meteore che si perdevano lontano era spesso seguito dal cupo rombo delle distruzioni che esse provocavano nell’interno dell’isola.

«Nonno, dove andiamo? Perché non aiutiamo gli altri a portare le nostre cose sulla barca?» domandò la ragazza, con voce tremante.

Anziché risponderle, il vecchio le pose un’altra domanda: «Hai per caso paura, piccola mia?»

«Sì, è così» confessò Thuja.

Il vecchio sospirò, mentre passavano nei pressi dell’antichissimo faro, eretto dal figlio di Nettuno, millenni addietro, per illuminare la rotta ai naviganti diretti verso la grande isola.

«Hai ragione ad averne, nipote» rispose poi. «La paura è un sentimento più che dovuto, in questo tragico frangente. Essendo conscio che non vi è alcuna speranza di poter continuare a vivere in questa terra che lo ha nutrito da lungo tempo, l’essere umano più sapiente non può che provare un supremo terrore. Ma noi ci salveremo, Thuja, e manterremo vive le nostre idee. Sfideremo il fato, vinceremo le nostre paure e riporremo le nostre aspettative in un mondo nuovo. Ma non potremo andarcene così, riducendoci alla stregua dei barbari che, certo, incontreremo sul nostro cammino. Se vogliamo che l’antica saggezza viva in eterno, dovremo condurla con noi.»

«Le nostre menti…»

«I nostri ricordi non saranno sufficienti, nipote mia. Perché la sapienza abbia vita, è necessario che essa sia messa per iscritto. Solo così, difatti, sarà possibile tramandarla di generazione in generazione. Il nostro dovere sarà quello di saperla decifrare ed interpretare. Ma il compito di preservarla dagli inganni del tempo, fu affidato dagli dèi alla parola scritta. E saranno proprio le parole scritte che noi condurremo con noi. Per questo motivo, dunque, ci stiamo recando alla grande biblioteca.»

Quelle parole colpirono profondamente Thuja, perché la biblioteca era considerata uno dei luoghi più sacri di Atlantide, oltre al tempio ed alla grande capitale. La ragazza la conosceva benissimo, poiché il nonno ve l’aveva condotta numerose volte per impartirle la sua istruzione. Quel vasto ed austero edificio conteneva migliaia e migliaia di tavolette iscritte da uomini antichi, tutto il sapere di Atlantide vi era infuso: codici di legge, testi sacri, poemi, insegnamenti, storie del passato, ricette… non era stato trascurato nulla, di ciò che potesse essere vergato secondo i magici caratteri della scrittura.

«Ma come faremo a portare via tutte quelle tavolette, nonno? Da soli ci impiegheremmo interi mesi solo per svuotarla e per trasportare i codici fino alla tua barca che, comunque, non risulterebbe sufficientemente capiente per accoglierli tutti quanti…»

«Non saremo soli, Thuja» profetizzò il nonno, con una certa evasività. «Ora, però, allunghiamo il passo. Il tempo a nostra disposizione va accorciandosi e non possiamo indugiare troppo.»

Nonno e nipote, pertanto, si affrettarono, continuando a camminare lungo la spiaggia per qualche miglio, prima di lasciarla seguendo un sentiero che s’inoltrava nel mezzo di un bosco. Camminarono ancora per una buona mezz’ora, fino a quando un acre odore di fumo non li bloccò. Colto da un improvviso timore, il vecchio Tilia iniziò a correre, subito imitato dalla nipote. Superata una svolta, si trovarono sulla cima di un dirupo, da dove si dipartiva un altro sentiero che conduceva fino all’imponente fortezza di pietra, la biblioteca, costruita nei pressi della costa, non lontano da un porto che ospitava centinaia di robuste ed agili navi da carico. Il bosco di larici circostante era in preda alle fiamme, che lo andavano divorando lentamente, ma la biblioteca non era ancora stata raggiunta dal fuoco devastatore. Dal loro punto d’osservazione, nonostante il buio ed il fumo, poterono facilmente scorgere centinaia di persone che lavoravano alacremente con dei secchi nel tentativo di spegnere l’incendio.

«Vieni!» ordinò il vecchio, gettandosi a folle corsa già per il sentiero scosceso. In breve, lui e la nipote furono ai piedi della fortezza dove, innalzato sopra un alto masso, un uomo anziano dalla lunga barba fluente dirigeva con aspre grida i volontari intenti nello spegnimento del fuoco.

«Prunus!» gridò Tilia, sovrastando le urla di tutti i presenti.

Il vecchio in cima al pietrone si volse e, riconoscendo il vecchio pescatore, rispose: «Tilia, fratello mio. Per fortuna sei arrivato, il tuo aiuto ci sarà prezioso. Una di queste strane folgori ha colpito un albero e, in breve, le fiamme si sono propagate in ogni direzione! Se solo queste nuvole si decidessero a far piovere…»

«Lascia perdere l’incendio, Prunus!» replicò il vecchio, inerpicandosi al suo fianco. «Abbiamo una questione molto più urgente di cui occuparci, al momento.»

«Quale questione potrebbe essere più importante della salvezza della biblioteca?» domandò l’altro vecchio, guardandolo come se fosse impazzito. «Sai bene che il sapere è il fondamento della nostra stessa esistenza…»

«Proprio per questo mi trovo qui, Prunus! Voi, tutti voi, fermatevi! Datemi ascolto!»

La voce tonante del vecchio Tilia si fece udire ovunque con ferma autorità, tanto che ogni uomo, senza più badare al fuoco, si radunò attorno al grande masso per prestargli attenzione.

Come si fu visto al centro dell’attenzione, Tilia parlò: «Ascoltatemi! Questi prodigi di cui siamo testimoni, non sono opera della natura. Il tempio lo ha confermato: gli dèi hanno deciso di punire Atlantide per l’empietà dei suoi sovrani! Da questa mattina, l’isola è condannata ad essere annientata definitivamente!»

Un sordo brusio si levò tutt’attorno, ma Tilia placò gli animi con un gesto imperioso della mano e riprese: «Sempre gli uomini di Atlantide hanno vissuto con la coscienza che questo tragico momento, un giorno o l’altro, sarebbe potuto arrivare. Per questo motivo, quindi, i nostri antenati eressero la biblioteca proprio qui, sulle sponde del mare, ed ordinarono che essa disponesse sempre, in ogni momento, di una grande flotta in grado di stivare le tavolette e di metterle in salvo oltre mare. Il tempo è venuto! Radunate le vostre famiglie e, tutti insieme, diamoci da fare per caricare le imbarcazioni e mettere in salvo noi stessi e tutte le conoscenze di Atlantide.»

Prunus, il bibliotecario, fattosi cinereo in viso, guardò di sottecchi il vecchio Tilia e la gente ammassata ai loro piedi. Poi, trovato il coraggio, gridò: «Non date ascolto a questo vecchio mentitore! Egli dev’essere stato abbandonato dalla ragione! Questo buio non è un prodigio, ma un semplice temporale estivo! Riprendere i secchi e rimettetevi al lavoro, prima che il fuoco possa…»

Ma, in quel preciso istante, una violenta scossa di terremoto, che fece ondeggiare paurosamente le pareti della biblioteca alle sue spalle, lo gettò in terra. Tilia, invece, riuscì a mantenersi in equilibrio.

«Radunate i vostri famigliari e dite loro di prepararsi a salpare, dopo aver trasportato tutte le tavolette a bordo delle navi! Prenderemo il largo, dirigendoci verso le porte d’Atlantide, oltre le quali ci attende la salvezza! È probabile che i flutti disperderanno la flotta, ogni nave sarà costretta a raggiungere un approdo diverso, ma ciò che conta sarà che la nostra sapienza antichissima possa sopravvivere. Poi, quando i tempi saranno maturi, riuniremo ancora una volta tutte le nostre conoscenze. Diamoci da fare, adesso, prima che sia troppo tardi!»

Quelle parole, furono accompagnate dalla visione di un’immensa meteora che, dopo aver solcato il cielo, andò a schiantarsi contro una montagna. Ormai persuasi, gli uomini si dispersero in ogni direzione per radunare i propri parenti, prima di fare ritorno e mettersi all’opera. Tilia, invece, disceso dal masso, dove Thuja lo attendeva, si chinò ed aiutò Prunus a risollevarsi.

Con voce bassa, il bibliotecario domandò: «È vero ciò che dici, Tilia?»

«Fratello mio, sai bene che non mentirei mai, specialmente riguardo una questione suprema come questa.»

«Se è vero che Atlantide sta per finire, io voglio morire con essa. Vi aiuterò a stivare le preziose tavolette sulle navi, ma poi rientrerò nella mia biblioteca, in attesa della fine.»

«Non ti è concesso, fratello mio. So bene che, per noi vecchi, la morte in esilio sarà un dolore grandissimo, ma dovremo rassegnarci a questo fato; noi dovremo contribuire più di chiunque altro a salvare il ricordo della nostra amata isola. Il tuo posto, pertanto, sarà sull’ammiraglia della flotta: dovrai porti a capo della spedizione e fondare una nuova biblioteca, là dove approderai.»

«Sebbene io sia il bibliotecario e tu un semplice pescatore, Tilia, sappiamo bene che la tua saggezza è assai superiore alla mia. Il ruolo di ammiraglio spetta a te. Se proprio dovrò salvarmi, allora sarò al tuo fianco, ma non potrò fare altro che obbedirti.»

«No, il mio ruolo è altrove» replicò il vecchio. «Altri sono in attesa della mia venuta, perché io possa metterli in salvo. Conosci mia nipote Thuja, suppongo.»

Il vecchio accennò con il capo alla ragazza, che si manteneva in disparte rispetto ai due saggi uomini.

«Certamente. Più volte ho avuto l’onore di assistere ai suoi studi: una mente molto brillante, degna nipote di tale sapiente.»

«Ebbene, la grande sacerdotessa del tempio l’ha designata come propria succeditrice. Io dovrò guidarla oltre le porte di Atlantide, insieme a suo fratello Salix e ad altre persone che hanno fidato a me la propria vita. Mi attendono alla mia barca ed io non potrò tradirli, perché vorrebbe dire venire meno al favore degli dèi. E come potrebbe mia nipote, futura grande sacerdotessa, compiere un simile sacrilegio? No, Prunus. La flotta della biblioteca, con tutto il suo carico di tavolette e con tutti i figli di Atlantide che prenderà a bordo sarà affidata a te. Se il fato vorrà, quando il desino della nostra isola si sarà compiuto, ci riuniremo tutti in una nuova patria.»

«E se non ce la faremo, Tilia? Se il sapere di Atlantide si disperderà e si frantumerà ai quattro angoli della Terra?» domandò il bibliotecario, con disperazione.

«Se il nostro esodo finirà con la nascita di tanti gruppi lontani tra loro, Prunus, lo accetteremo. Sebbene spezzato, il sapere di Atlantide continuerà a vivere e potremo quindi sperare che un giorno, domani, tra un anno, tra cento o mille, qualcuno lo riunirà nuovamente. Ma, prima di tutto, salviamolo.»

In quel momento, accompagnati dalle proprie famiglie, gli uomini che si erano allontanati cominciarono a fare ritorno; erano quasi mille, tra uomini, donne e bambini, e non avrebbero faticato a svuotare la biblioteca ed a trasportare ogni tavoletta sulle navi, dove avrebbero trovato posto anche tutti quanti loro.

Prima di cominciare a dirigere i lavori del trasloco, Prunus disse: «Chiederò a qualche coraggioso di avviarsi verso l’interno dell’isola per comunicare a quanta più gente possibile la notizia, sperando che si mettano in salvo.»

«No» lo fermò Tilia. «Ormai è tardi. Nell’isola ci sono molti santuari ed altri, come io stesso ho fatto, li avranno consultati. Tutti, a quest’ora, saranno stati informati del tragico destino che presto si abbatterà su Atlantide e ciascuno starà prendendo una propria iniziativa per trovare scampo. Non disperdere le tue forze, Prunus, ma lavora sollecitamente per mettere in mare la flotta il prima possibile. Se gli dèi lo vorranno, ci rivedremo in frangenti più felici di questo.»

«Addio, Tilia, fratello mio! Perdonami se, per un momento, ho dubitato delle tue parole. La buona sorte ti assista, ed assista anche tua nipote, la futura grande sacerdotessa, nonché tutti i tuoi protetti.»

Detto questo, il bibliotecario entrò nel grande edificio, subito seguito da un nutrito numero di volontari, mentre altri si dirigevano alle navi per prepararle a salvare ed altri ancora ricominciavano a lavorare con i secchi per contenere l’incendio quel tanto che fosse stato sufficiente ad impedirgli di avvampare fino alla biblioteca prima che fosse stata svuotata completamente.

Tilia, invece, in compagnia della nipote, ritornò sui propri passi.

«Li rivedremo, nonno?» domandò Thuja, le lacrime agli occhi, voltandosi a guardare per l’ultima volta la biblioteca, da cui già uscivano in fila gli uomini con le casse ricolme di tavolette.

«Chi può dirlo, nipote mia? La sorte è misteriosa ed il fato sfuggente. Torniamo dai nostri amici, adesso, perché cominceranno ad inquietarsi per la nostra assenza prolungata.»

 

* * *

 

Le operazioni di carico erano state ultimate. I bagagli, assicurati con delle corde perché non si muovessero facendo oscillare l’imbarcazione, erano stati deposti nella stiva, dove pure si trovavano viveri e acqua, che avrebbero permesso di sopravvivere a lungo in mezzo al mare. Anche il masso che il vecchio Tilia non aveva voluto abbandonare era stato trasportato a bordo, poi la nave era stata spinta in acqua. Era una bella barca, dalle forme agili, tinta d’oro e di verde e con gli occhi di un pesce gigantesco dipinti sulle fiancata; nel mezzo del ponte, si ergeva l’alto albero, la cui vela era ancora arrotolata, mentre nel punto più alto del cassero riluceva la barra metallica del timone. Sebbene fosse stata ancorata a pochi metri dalla riva, la foschia la celava quasi completamente alla vista, tanto che si poteva solamente intuirne la sagoma indistinta. Tutto era pronto per la partenza, ormai. Mancavano solamente Tilia e Thuja.

Ogni viaggiatore era già salito a bordo, tranne Salix, ancora fermo sulla spiaggia, gli occhi che vagavano inquieti in ogni direzione nel tentativo di avvistare le sagome del nonno e della sorella nel mezzo dell’oscurità e del vapore che, dopo una violenta scossa di terremoto, aveva cominciato ad affiorare da una fenditura apertasi nel terreno. Finalmente, li vide avanzare alla volta della barca, il passo rapido, cercando di ignorare le folgori che si susseguivano sempre più fitte.

«Nonno! Thuja! Finalmente!» urlò Salix.

«È tutto a bordo?» domandò il nonno, appena fu vicino.

«Tutto nella stiva. Gli altri ci attendono sul ponte. Abbiamo fatto appena in tempo a togliere il masso dalla terra, prima che una tremenda vibrazione mandasse in rovina la nostra casa. Non è rimasto più nulla.»

Tilia, con le lacrime agli occhi, guardò i resti della casupola, piccola ma confortevole, in cui aveva trascorso la maggior parte della sua vita. Con un singhiozzo, ordinò ai due nipoti di salire sulla barca e di prepararsi ad eseguire le manovre per salpare.

«Lasciatemi solo per un ultimo momento sull’isola sacra» mormorò. «Vi raggiungo immediatamente.»

Nella solitudine, con il silenzio rotto dallo sciabordare continuo delle onde, dal rombo dei tuoni e dal fragore delle pietre volanti, il vecchio pescatore s’inginocchiò, a lambire per l’ultima volta con le proprie mani il terreno della sacra isola di Atlantide. Affondò le mani nella sabbia umida e, tenendole chiuse, le ritrasse. Nella sinistra gli rimase solamente rena, ma nella destra restò imprigionata una bellissima conchiglia di colore rosso, ricoperta da fini granelli che parevano perline: il guscio di un clanculus, uno dei millenari simboli dell’isola di Nettuno. Il vecchio osservò quella piccola conchiglia con sguardo ammirato e devoto, quasi che stesse tenendo nella propria mano un segno inviatogli dagli dèi.

Tornato ad alzarsi in piedi, cercò con lo sguardo qualche punto di riferimento, ma l’oscurità gli precluse ogni immagine: non avrebbe, dunque, visto mai più nulla, di Atlantide?

All’improvviso, la terra tremò per l’ennesima volta, facendogli perdere l’equilibrio e gettandolo nuovamente carponi; la violente scossa di terremoto, propagandosi al mare, sollevò una grande ondata che investì la fiancata dell’imbarcazione, minacciando di sommergerla. Dal buio alle proprie spalle, il vecchio Tilia udì delle voci che lo invocavano.

«Nonno!» gridò la voce disperata di Thuja.

«Sto bene, arrivo!» urlò di rimando il vecchio, sollevandosi a fatica e trascinandosi nell’acqua, fino a raggiungere la nave, dove i suoi compagni di sventura lo aiutarono ad imbarcarsi. Sempre stringendo nella mano la conchiglia, si diresse verso il castello prodiero, pronto a mettersi al timone.

«Dobbiamo andarcene, o sarà troppo tardi» gli disse Leucatema. «Il mare va ingrossandosi e le scosse di terremoto di susseguono le une alle altre con rabbia sempre maggiore.»

«Noi ci salveremo» promise il nonno, poi si rivolse a Salix: «Nipote mio, scendi nella stiva e portami le carte nautiche che troverai all’interno di una cassa addossata alla paratia.»

Il nipote obbedì e, poco dopo, il vecchio si chinò sulla carta che lui stesso, decenni addietro, aveva disegnato. Gli altri, in religioso silenzio, gli si radunarono tutt’attorno.

«Noi ci troviamo qui» disse, indicando un punto sulla mappa. «Procedendo verso sud, dovremmo incontrare un lembo di terra, le ultime propaggini di Atlantide: la piccola isola di Nettuno, così si chiama. Un canale l’attraversa e noi lo seguiremo, per raggiungere finalmente le porte d’Atlantide. Non sarà facile, suppongo. Sarà difficile anche stabilire la rotta: se fosse giorno farei il punto con il sole, se fosse notte mi orienterei con le stelle. Ma questa misteriosa oscurità rende del tutto inutili le mie conoscenze in campo astronomico, il che mi obbligherà ad affidarmi all’istinto.»

Un mormorio agitato si diffuse tra gli astanti a quella rivelazione.

«Non temete, amici miei» li tranquillizzò Tilia. «Più e più volte mi sono trovato in balia della tempesta, senza più alcun punto di riferimento su cui fare affidamento, eppure, grazie all’uso dei sensi ed alla mia intuizione, mi sono sempre tratto d’impiccio.»

Rhus, il guardiano del faro, alzò un braccio per chiedere la parola.

«Come sai, vecchio Tilia, io stesso, al pari di te, provengo da lunghe generazioni di marinai. Sebbene il compito mio, come di mio padre prima di me, fosse principalmente quello di badare al faro, ho una precisa cognizione delle rotte e delle correnti. Ti prego, quindi, di accettarmi al tuo fianco al timone: nei limiti del possibile, ti aiuterò.»

«Ogni aiuto sarà ben accetto» replicò il pescatore. «Vedrete che, se collaboreremo e ci daremo tutti quanti da fare, riusciremo a trarci da questo impiccio. Ora mettiamoci all’opera! Laurus, Dendron e Salix, salpate le ancore e dispiegate le vele! Rhus, rimani qui con me alla barra! Rodon, Thuja, Passiflora e Leucatema, state pronte ad accorrere a qualsiasi evenienza!»

Ognuno corse ai propri posti. L’ancora fu ritirata e la vela quadrata distesa al vento. Girando la barra del timone, il vecchio puntò la prua della veloce nave verso il mare aperto, in direzione del meridione. Per un momento, tutti volsero i loro sguardi verso la grande e sacra isola di Atlantide, la terra che li aveva ospitati e nutriti da sempre e che non avrebbero riveduto mai più. Poi, l’oscurità celò ogni cosa ed essi tornarono ad occuparsi dei propri compiti.

 

* * *

 

Nonostante le altissime ondate, l’imbarcazione condotta dal vecchio Tilia, nocchiero espertissimo, si portò rapidamente e senza incidenti al largo, fino a quando l’oscurità cominciò ad attenuarsi e la luce del sole ritornò faticosamente a farsi strada tra la nebbia; anche il freddo sembrò diminuire. Ma quei mutamenti non dovevano indurre i fuggiaschi in una falsa sicurezza, poiché sapevano tutti quanti bene di trovarsi ancora in Atlantide e che non sarebbero stati al sicuro fino al momento in cui ne avessero varcato le porte.

Lentamente, all’orizzonte, cominciò a delinearsi il profilo della piccola isola di Nettuno, l’ultimo ostacolo che andava frapponendosi tra loro e la salvezza; ma cosa avrebbero trovato ad attenderli nel canale che avrebbero dovuto attraversarvi? Il nervosismo era palpabile, adesso. Solamente Tilia si manteneva completamente tranquillo, come se quella fosse solamente una delle sue tante uscite in mare per gettare le reti, ed un poco alla volta questa sua calma si diffuse anche negli altri.

Infine, eccola. La piccola isola di Nettuno, le cui sponde erano completamente circondate da un muro, tranne nel punto da cui si dipartiva il canale che avrebbero dovuto imboccare, vegliato da due statue bronzee raffiguranti i fierissimi tritoni, le armi strette tra le braccia possenti, quasi fossero pronti a fermare coloro che avessero osato superare la soglia del luogo che, secondo le leggende, aveva visto accendersi la contesa tra Nettuno ed i suoi nemici per il controllo di Atlantide. La piccola isola era un luogo sacro, in cui i profani non potevano accedere; ma loro, costretti alla fuga, avrebbero compiuto egualmente quell’atto sacrilego.

Tilia ordinò di ammainare la vela, lasciando che la barca venisse trasportata dalla corrente. Quindi, con agile mossa, imboccò l’ingresso del canale. Immediatamente, dovette correggere la rotta, per seguire una stretta curva, il che diede ai naviganti una strana visione: il canale, dinnanzi a loro, proseguiva venti metri più in basso. Com’era possibile? All’improvviso, capirono: oltre l’ingresso, si trovava una cascata, che scendeva vorticosamente verso la piccola isola! Impossibile, ormai, tornare indietro.

«Tenetevi saldi!» urlò Tilia, stringendosi alla barra. «Reggetevi!»

Ciascuno corse ad aggrapparsi a qualche sostegno, appena in tempo prima di iniziare la pazzesca discesa, che mandò il cuore in gola a tutti. Fu un vero miracolo se la barca non si rovesciò. Giunta al termine della cascata, la prua si inabissò per alcuni istanti, prima di tornare a galla sollevando due enormi ondate ai propri lati. Col fiato corto, i poveretti si guardarono attorno.

«Ci siamo tutti?» domandò Thuja, facendo una rapida conta con gli occhi. Per fortuna, nessuno era stato sbalzato fuori bordo.

Il vecchio Tilia, però, non badava a loro. La corrente impetuosa spinse in avanti la barca ed egli si vide costretto a mantenere in rotta l’imbarcazione per impedirle di andare ad arenarsi contro le rive vicine, sulle quali si trovavano enormi conchiglie, il cui guscio era talmente lucente da sembrare quasi essere stato plasmato in un qualche tipo di metallo. Dinnanzi a sé, vide aprirsi una bocca gigante, dalle fauci colme di affilatissimi denti. Atterrito, fu sul punto di cacciare un urlo, ma si trattenne nel comprendere che, in realtà, si trattava di una grotta da cui pendevano stalattiti enormi. Il canale proseguiva proprio dentro la caverna, così la barca fu costretta a penetrarvi. All’interno della cavità, però, non si vedeva quasi nulla, a causa di una nebbiolina persistente, causata dall’umidità.

«Questa cosa non mi piace» bisbigliò Salix. «Come fa il nonno ad orientarsi?»

«Non riesco a vedere nulla» si lamentò Rhus.

«Silenzio!» li ammonì il vecchio Tilia. «Non dobbiamo attirare l’attenzione. Non possiamo sapere chi si celi in questa nebbia.»

Avvolta dal silenzio, la barca continuò ad avanzare all’interno della gelida galleria, facendosi largo tra le volute della nebbia. Dove stavano andando? Sarebbero riusciti a riemergere alla luce? Nessuno di loro avrebbe saputo dirlo, poiché quel luogo li opprimeva, dava la sensazione di non avere fine, di poter continuare all’infinito, conducendoli fin nelle viscere della terra. Molti dei passeggeri tremavano, non solo per il freddo, poiché quel luogo sortiva davvero un sordo terrore nelle loro menti.

Fu quindi un momento di gioia incontenibile quello in cui, finalmente, videro una pallida luce fare capolino dal termine del tunnel; i raggi solare, un poco per volta, cominciarono a rischiarare la nebbiolina, che andò via via diradandosi. Finalmente, la prua della nave fu oltre la grotta ed i fuggiaschi tornarono a navigare nel canale dell’isola, avvolti dal calore dell’astro diurno. Ma la loro felicità fu di breve durata, poiché all’improvviso, da dietro alcune rocce avvolte di piante rampicanti, emerse una terribile creatura, un serpente marino dalle cui narici spirava del fumo misto a scintille. L’enorme rettile dalla pelle blu puntò contro di loro uno sguardo che, sebbene potesse apparire indecifrabile, non appariva per nulla lusinghiero, né sembrava prospettare alcunché di buono.

Probabilmente, però, non si sarebbe mai scagliato contro la baca se la giovane Rodon, fattasi prendere dal panico, non avesse cominciato ad urlare atterrita, alla vista di quell’immenso serpente.

«No, Rodon, no!» urlò di rimando sua madre Passiflora, cercando di calmarla.

Ormai, però, era troppo tardi per rimediare.

Disturbato da quelle alte grida e già innervosito dal passaggio dell’imbarcazione, il rettile scattò in avanti e si inabissò nelle acque, da cui riemerse un istante dopo, iniziando ad avvolgere la nave di Tilia nelle sue strette spire, intenzionato a stritolarla ed a mandarla a fondo.

«Dobbiamo liberarci, o sarà la fine per noi!» avvertì Tilia.

Thuja, all’improvviso, ricordò le parole della sacerdotessa, sua madre, che le aveva riferito che Salix sarebbe stato il guerriero che l’avrebbe protetta dai pericoli. La ragazza sollevò lo sguardo in quello del fratello e, tra loro, ci fu come uno scambio mentale, poiché senza bisogno che gli venisse apertamente ordinato, Salix rispose: «Sono pronto!»

Con uno scatto, il giovane saltò verso il corpo del serpente, brandendo un arpione raccolto dalla tolda, di quelli che il nonno utilizzava per catturare i pesci più grossi; senza paura, prendendo accuratamente la mira per non sbagliare, Salix scagliò con precisione e con forza la lancia, che andò a conficcarsi in uno degli occhi del serpente. Immediatamente, il mostro abbandonò la presa sulla nave e, agitandosi come un forsennato, sollevato altissimi spruzzi d’acqua, scomparve nelle profondità del canale, lasciando che l’imbarcazione fosse libera di proseguire.

Thuja corse ad abbracciare il fratello, la cui assenza di paura aveva cambiato la loro sorte nel giro di pochissimi secondi solamente, evitando un disastro.

«Tornerà?» domandò Dendron, avvicinandosi alla murata per scrutare dentro il canale.

«No, adesso ci lascerà passare» rispose il vecchio Tilia, aggiustando nuovamente la rotta per seguire le curve del canale, a volte decisamente strette.

La navigazione proseguì tranquilla per qualche minuto; attorno a loro, le rive, dapprima ricoperte di rocce e di vegetazione, si costellarono di statue e raffigurazioni di divinità. Tutti i grandi re di Atlantide erano lì raffigurati, eternati nei loro simulacri di pietra. Infine, eccola di fronte a loro: la maestosa statua bronzea di Nettuno, immensa, raffigurante il dio del mare, il signore dell’isola di Atlantide, adagiato con aria trionfale sopra un una coppia di delfini, lo sguardo fierissimo ed antico, il tridente stretto tra le mani, la fluente barba a scendergli fino al petto, un semplice velo magnificamente drappeggiato legato in vita, opera di immensa maestria, simbolo palpabile dell’ingegno e delle capacità tecniche degli atlantidei. Vedere quali grandiosi capolavori potessero scaturire dalle menti e dalle mani degli uomini riempì di tristezza i cuori dei fuggiaschi, poiché compreso che, con la distruzione ormai imminente della sacra isola, sarebbero scomparse pure grandi quelle grandiose conoscenze ed abilità tecniche. Sarebbe mai riuscito, l’uomo, a recuperare quella maestria, oppure avrebbe vissuto per sempre nella barbarie più completa? Chissà quali grandiosi insegnamenti, infine, sarebbero caduti nell’oblio, dimenticati per sempre nei secoli a venire. Ma loro, sebbene pochi e sparuti, con poche prospettive dinnanzi a sé, avrebbero fatto del loro meglio, si sarebbero dati da fare in ogni maniera affinché le conoscenze dell’antichità sopravvivessero e fossero trasmesse intatte attraverso il fluire del tempo, di generazione in generazione, per tutta l’eternità. Fu questa la loro silenziosa e solenne promessa all’immagine del dio, mentre le navigavano innanzi, lasciandosela sulla destra prima di passare attraverso un portale scavato nella roccia.

Ormai, erano di nuovo in mare, la piccola isola di Nettuno era dietro di loro e le porte d’Atlantide non dovevano essere più tanto lontane. Da quel momento in avanti, avrebbero navigato senza più timori, ognuno con i propri pensieri, con i ricordi alla casa abbandonata, agli amici che non si sarebbero più rivisti, ai profumi che a poco a poco sarebbero svaniti nel nulla, a quei paesaggi che sarebbero stati cancellati, a tutte quelle cose che sarebbero cadute nell’oblio, che probabilmente si sarebbero tramutate in leggende, storie non credute vere, troppo lontane nel tempo per essere accettate dai posteri come resoconti del proprio passato.

Le porte d’Atlantide svettavano nel mezzo del mare, grandi colonne sormontate dalla figure contorte dei delfini e, nel mezzo, il triangolo inscritto in un cerchio, il simbolo di Atlantide, il simbolo di una perfezione che non sarebbe rinata mai più a questo mondo.

Thuja si avvicinò al nonno.

«Ce la faranno gli uomini della biblioteca a varcare a loro volta gli ingressi?»

Il vecchio non rispose, lo sguardo perso all’orizzonte.

«E noi? Manterremo viva la cultura di Atlantide? Riusciremo in questo compito che gli dèi ci hanno affidato?» insistette la giovane sacerdotessa.

Gli occhi antichi e saggi del nonno si posarono in quelli giovani e freschi della nipote.

«Chi può dirlo, Thuja, chi può dirlo.»

Navigarono via, lontano, oltre le porte, verso l’orizzonte, mentre dietro di loro l’oceano celava per sempre sotto di sé Atlantide e i suoi misteri.

 
   
 
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