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Autore: GReina    10/03/2023    4 recensioni
[POV Osamu] [tanto fluff familiare]
Atsumu è stato selezionato per rappresentare il Giappone alle Olimpiadi sfiorando la vetta del mondo. Osamu è fiero di lui, ma non per questo deve farlo vedere.
Genere: Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Atsumu Miya, Osamu Miya
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 Sul nostro petto

Se c’era una cosa per la quale i gemelli Miya concordavano, quella era che provare affetto verso l’altro senza mostrarlo mai era perfetto. Avrebbero entrambi ucciso per il fratello, ma che morissero loro piuttosto che dirlo apertamente all’altro.
Così, Osamu urlò e festeggiò in solitaria quando seppe che Atsumu era stato selezionato per giocare alle Olimpiadi, mentre si limitò ad una pacca sulla spalla e a un mormorato “sapevo che ce l’avresti fatta” non appena si videro. 
Andava bene così. Sapevano entrambi quanto valevano per il fratello e certamente non c’era motivo di dimostrare nulla, né – soprattutto – c’era motivo di umiliarsi. Sembrava quasi una sorta di competizione: non tra chi amasse di più l’altro, ma tra chi riuscisse a costringere il fratello a mostrarlo più apertamente.
Non era un segreto che in quello Osamu fosse il più bravo. D’altronde il biondo era il più espressivo dei due e certamente il più sensibile. C’erano state diverse occasioni che avevano spinto Atsumu tra le braccia di Osamu, un broncio in viso e del colore sulle guance mentre indispettito lo insultava per averlo costretto a reagire in quel modo. Ma quello che fece Atsumu per Osamu? Quello batté ogni cosa: le vittorie del castano dimenticate per sempre, Osamu sconfitto a vita.
Atsumu – il Giappone – era arrivato sul podio. Nessun oro, né l’argento, ma Osamu non avrebbe potuto essere più fiero. Diamine, non avrebbe potuto neanche se si fosse semplicemente selezionato tra i primi otto, sedici, trentadue al mondo. Ma Atsumu non si sarebbe mai accontentato, no, lui voleva sfiorare la vetta del mondo, e l’aveva fatto.
Così, una volta di ritorno dal villaggio olimpico, entrò da Onigiri Miya con un bel cerchio bronzeo ad ornargli il collo. Parte della squadra nazionale al seguito, non che la vista di Osamu fosse andata oltre il viso di suo fratello e del suo ragazzo lì accanto. Osamu aveva riservato loro l’intero locale. E perché no? Se lo meritavano. Lui se lo meritava. Nessun altro modo che il migliore ammesso per festeggiare il successo del suo stupido fratello.
Si abbracciarono. Stavolta nessuna sconfitta per nessuno, solo una vittoria per entrambi. Atsumu voleva essere elogiato e – per una volta, solo una, in vita sua – Osamu voleva elogiarlo. Si congratulò ancora… e ancora. Con Atsumu, con Rintaro, con Aran, con tutti. Poi li fece sedere intorno all’unico, grande tavolo presente in sala ed iniziò a servire da bere mentre le prime storie sulle Olimpiadi iniziavano.
Raccontarono di Oikawa Tooru, dell’Argentina, e del suo fastidiosissimo secondo posto sul podio, giusto un gradino sopra le loro teste, quel tanto che bastava per rendergli indelebile un altrettanto fastidiosissimo ghigno di vittoria.
Raccontarono dei letti di cartone e di come fossero riusciti a sfondarli anche dormendoci in solitaria, oppure in compagnia, come vollero specificare alcuni di loro (Atsumu, ovviamente, ed il burbero Kiyoomi che semplicemente non lo smentì; Hinata, con il suo semplice arrossire dalla punta dei piedi ai capelli già aranciati; persino Iwaizumi, con “il nemico” come lo aveva definito Atsumu).
E poi passarono a mangiare gli onigiri, specialità della casa, fatti con affetto ed orgoglio, e fu solo allora che Osamu poté unirsi davvero a loro. Si mise tra Atsumu e Rintaro, continuando a sorridere a entrambi, una mano sempre su di loro, che fosse una stretta al ginocchio, una pacca sulla spalla o una carezza sul braccio. Era più forte di lui: talmente orgoglioso da volerci stare il più vicino possibile. Lo faceva ghignare il modo in cui Suna lo fissava di rimando, promettendo passione e tanto sesso, mentre si sentiva imbarazzato ogni volta che i suoi occhi incontravano quelli di Atsumu: felici, commossi, elettrizzati. Spingeva Osamu a volersi congratulare con lui ad ogni scambio di sguardi, ma non poteva, sarebbe stato troppo umiliante. Lo spingeva a volerlo abbracciare, a metterselo in spalla e urlare al mondo che quello era suo fratello e che Osamu era fiero di lui. Ma con che faccia? No, piuttosto la morte.
E poi, il maledetto non gli diede scelta. Poi, Osamu capì il motivo dei suoi sguardi timidi, dei suoi sorrisi ansiosi ed eccitati insieme.
«Samu, aspetta.» iniziò in maniera semplice, con lui che si alzava per andare a preparare altre polpette di riso e suo fratello che lo fermava afferrandolo dal grembiule. Si alzò anche lui scostando la sedia per mettersi faccia a faccia con Osamu: fu come guardarsi allo specchio, ma l’immagine restituita – lo avrebbe ammesso solo nella sua testa – era più raggiante e solare che mai. E come tutti gli specchi rese anche Osamu in quel modo.
Atsumu si schiarì la gola. Era a disagio. Tutto il tavolo lo capì e pian piano si silenziò. Il setter non sembrava averlo notato, quasi fossero totalmente soli in quella stanza. Era come in cerca delle parole da dire, o forse in mezzo a una battaglia interiore per pronunciarle. Osamu non lo forzò, anche perché non aveva idea di cosa potesse volere da lui. Ringraziarlo per il pasto, per il sostegno, per l’orgoglio? Tutto quello gli era dovuto, non c’era motivo che Atsumu gli dicesse niente, e quello lo sapeva. 
Dunque aspettò, finché il biondo sembrò decidere che le parole sarebbero state superflue. Semplicemente, afferrò il laccio che aveva intorno al collo e se lo sfilò per metterlo a lui. Osamu fu talmente tanto preso alla sprovvista che non reagì. Guardò prima la medaglia, poi Atsumu. Il bastardo non era neanche imbarazzato. Un po’ rosso in volto ma certamente non per la vergogna. Osamu non l’aveva mai visto così felice. Quella medaglia rappresentava l’obiettivo della sua vita, era la concretizzazione della sua felicità, un modo per dire ad Osamu, a se stesso e al mondo intero che era soddisfatto delle sue decisioni, finanche – conoscendolo – uno schiaffo in faccia per tutti coloro che non avevano creduto in lui. Non c’era modo che la stesse dando via. Non c’era modo che la stesse dando a lui. Ma quando Osamu aprì la bocca per dire tutto quello ad alta voce, non ci riuscì. Emise strani e indefiniti versi, invece, che morirono all’istante alle successive parole di Atsumu:
«È tua. Lo è sempre stata.» era sincero, tranquillo mentre lo diceva. Quasi come l’avesse sempre saputo, quasi come non l’avesse mai ritenuta sua.
«Tsumu, no.» sussurrò afferrando il cerchio intorno al proprio collo, ma l’altro poggiò una mano sopra la sua per ammorbidirgli la stretta.
«E perché non dovrebbe?» Osamu avrebbe potuto dargli mille ragioni: era un suo traguardo, un suo risultato. Era suo. Ma poi, con un lampo improvviso ripensò ai successi del suo ristorante, a come nella sua testa fossero di Atsumu quanto suoi.
La mano scivolò via dalla medaglia, ma non lasciò andare quella di Atsumu, fanculo l’orgoglio. Gli occhi gli si appannarono, il cuore iniziò a compiere capriole.
Non c’era modo che Atsumu stesse dando a lui la sua medaglia, eppure lo stava facendo.
«Stronzo…» rispose al sorriso vittorioso di suo fratello. Poi lo abbracciò, e le fontane si aprirono. Non riuscì a smettere di singhiozzare. Fu patetico. Era una semplice medaglia. Eppure era tutto. I sacrifici di una vita, la scommessa di felicità di suo fratello. Era la dimostrazione che per tutti quegli anni Atsumu aveva continuato a portare Osamu in campo con lui.
«Stupido…» continuò, stavolta con voce meno ferma. «Come se mettere il mio numero sulla tua maglietta non fosse stato già abbastanza.» lo rimproverò, ed era sinceramente arrabbiato con lui… lo amava così tanto.
Atsumu rise. Piano, docile, in nessun modo per schernirlo. Afferrò le spalle di Osamu per scostarlo dalla sua spalla. Era sempre stato Atsumu il più emotivo. Come erano arrivati a quel punto?
«Asciugati gli occhi, bambinone.» lo prese in giro con affetto. Gli asciugò un paio di lacrime, poi lo fece tornare a sedere. «Sei patetico. Come pensi di preparare il nostro cibo?» gli afferrò il cappello e se lo mise in testa.
«Mi sembra un buono scambio.» scherzò. «Al cibo ci penso io.» lo abbracciò di nuovo da dietro. Osamu gli strinse il braccio.
“Ti voglio bene.” non se l’erano mai detto; mai ad alta voce. Non avrebbero cambiato adesso. Però lo sapevano: era ciò che stavano pensando entrambi. Poi Atsumu raggiunse la cucina, ed Osamu riprese a piangere. Avrebbe dovuto pagare oro per convincere Suna a non divulgare quel video.
   
 
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