Anime & Manga > Haikyu!!
Segui la storia  |       
Autore: time_wings    15/03/2023    1 recensioni
[SakuAtsu]
I motivi del litigio tra i gemelli sono ignoti a tutti, nel giro delle corse di auto clandestine, a metà tra folklore e informazioni provenienti da fonti inaffidabili.
Con le sue modifiche, Atsumu è una leggenda, nel giro. Non c'è gara che lui e il suo gruppo non vincano.
Questo, almeno, finché un meccanico misterioso non inizia a tessere le vittorie del gruppo di Osamu dalla sua officina segreta.
Ad Atsumu non resterà che mettere l'orgoglio da parte (impossibile) e infiltrarsi nel garage del meccanico strano, spacciarsi per un incompetente, lasciarsi insegnare e, una volta conquistata la sua fiducia, scoprire tutti i suoi segreti, per impedire che Osamu lo batta ancora.
C'è solo un problema, però. Anzi due, se si tiene conto del fatto che questo meccanico sia semplicemente insopportabile.
La regola è che nessuno può entrare nell'officina di Sakusa.
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Kiyoomi Sakusa, Koutaro Bokuto, Osamu Miya
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Atto quinto_


Atsumu si lasciò alle spalle l’armadio e recuperò la sua moto proprio mentre il meccanico baffuto apriva l’officina.
“Oh, di buon mattino!” alzò il cappello in un desueto cenno di saluto. “Niente dolci oggi?”
“Oggi no,” ribatté Atsumu. Con un unico gesto fluido si infilò il giubbino e girò la chiave nella toppa del motorino. “Mi saluti la ragazza, Yoko,” disse, una volta che fu salito in sella.
Il meccanico scrollò le spalle. “Sei un po’ troppo insolente, altrimenti vi farei conoscere.”
Atsumu rise, senza neanche provarci forse dimostrò quell’insolenza, poi sollevò una mano in segno di saluto, mise in moto e partì.
Più che essere lui meteoropatico, sembrava che fosse il tempo a essere Atsumuropatico. Il freddo frizzante del mattino si era unito a un cielo grigio e carico che sembrava riuscire a trattenersi a stento dallo spaccarsi e piovere. L’umidità si appiccicava ai vestiti e il vento la solidificava, dandogli l’impressione costante che si stesse bagnando.
La moto, che sembrava essersi ripresa brillantemente dagli acciacchi del giorno prima, lo tradì ancora una volta quando non riuscì a evitare una buca. Saltò, poi scivolò. Atsumu riuscì a stento a tenerla dritta, almeno quel poco che bastò per accostare e dare un’occhiata.
Sbuffò condensa, poi smontò e si levò il casco con appena più aggressività del necessario. Lo abbandonò sulla sella e si accovacciò.
Un nuovo tipo di freddo gli serpeggiò fra le giunture delle ossa, appena individuò il problema. Si alzò di scatto e mise mano al portaoggetti, cavandone fuori una chiave inglese. Non era l’attrezzo giusto, ma non aveva di meglio. La incastrò a uno dei bulloni della pinza anteriore della ruota e strinse. Fece lo stesso anche con l’altro e poi con la ruota posteriore, il solco tra le sopracciglia sempre più marcato.
Lanciò la chiave inglese nel casco sulla sella e si sedette a terra, le gambe piegate davanti a sé e i gomiti sulle ginocchia, osservando il lavoro più facile e al contempo misterioso che avesse mai fatto alla sua motocicletta.
Perché diamine aveva le ruote allentate?
Possibile che…
“Incredibile,” disse di colpo una voce uguale alla sua, ma più liscia. “Il meccanico che resta a piedi. Ti direi che sei nel mio territorio, ma la verità è che mi fai un po’ pena.”
Ma certo, era a pochi passi dal garage della sua squadra.
Atsumu si voltò di scatto, la guardia già alta. Fece leva con una mano per alzarsi.
“Stai facendo una caduta imbarazzante, ‘Tsumu.”
“Per lo meno io non getto la spugna quando le cose si mettono male, ‘Samu.” Si ripulì le mani sui pantaloni, poi sospirò. “Cerco di rimettere a posto le cose. Questo perché so quello che faccio.”
Suo fratello si strinse nelle spalle e infilò le mani nelle tasche del giubbino. Reggeva una bustina di una panetteria non lontana da lì. Era una visione così quotidiana che gli diede sui nervi.
Più che schernirlo, Osamu sembrava perplesso. Era l’unica cosa che, fin da piccoli, aveva dato ad Atsumu la sensazione che per quante battute irriverenti riuscisse a sputare all’impronta, suo fratello fosse sempre in vantaggio. Se non li distinguevano per tutti quei piccoli segni particolari che per loro erano così evidenti, lo facevano perché Atsumu attaccava ridendo e scherzando, Osamu guardandoti come se fossi stupido. Questo li rendeva una squadra fenomenale e i loro rispettivi peggiori nemici.
“Intanto è la seconda gara di fila che perdete.” Suo fratello calciò una pietra. Rimbalzò contro un palo della luce e colpì la marmitta della moto. Un suono alto e metallico si allargò come onde sulla superficie di un lago.
“Disse quello che non ha fatto altro che perdere finora.”
“Non importa cos’è successo prima, importa che adesso non mi riesci a battere.”
Atsumu pensò al cuore dell’auto con cui Osamu correva, a Sakusa che ci lavorava sopra a orari improbabili, tra pause di cinque minuti e mascherine abbassate. Pensò alle sue dita che volavano tra i componenti e poi che si stringevano attorno alle sue nell’abitacolo della macchina con cui suo fratello vinceva.
Pensò all’unica regola che Osamu aveva imposto a Omi: non smontare completamente il motore, il fulcro dell’auto, il loro primo motore. Era assurdo che quell’ordine nostalgico venisse dallo stesso ragazzo che ora lo osservava con sufficienza, negli occhi la disinvoltura dei vincitori.
Atsumu sorrise, un pezzo di vetro scheggiato. “Io non canterei vittoria, ‘Samu. A volte si è fortunati.”
“Due volte?”
Gli diede le spalle e posò la chiave inglese nel portaoggetti. Nella loro lingua abbassare la guardia era la forma più alta di offesa, significava non avere paura. “Esatto. Solo due.” Si rimise il casco, il motore prese vita.
Osamu fece spallucce, di nuovo. “Con me non attacca, ‘Tsumu. Io lo so che sotto quest’aria da spaccone che hai non c’è niente.”
Atsumu non si sentiva molto in colpa all’idea di rubare i segreti dell’auto di suo fratello. Se Osamu poteva correre con un motore che aveva costruito Atsumu per metà, lui poteva familiarizzare col suo meccanico. D’altronde i gemelli condividevano tutto, no? Era Osamu che ci aveva tenuto tanto a rompere la tradizione solo finché gli faceva comodo. “Pensala come vuoi.” Con uno scatto, tirò giù la visiera del casco. “Ci vediamo in pista.”
Lasciò suo fratello nel riflesso dello specchietto retrovisore.
 
ᆞᆞᆞ
 
Il suo lato del garage era cristallizzato in un tempo ancora non illuminato. Ogni cosa era dove l’aveva lasciata. Paraurti verniciati per metà erano sparpagliati per terra, il tavolo era un’accozzaglia di progetti, matite e bulloni in bilico, in attesa solo di avere una scusa per cominciare a rotolare e catapultarsi oltre l’orlo del piano da lavoro.
Atsumu Miya era il tuner migliore in circolazione, nessuno toccava la sua roba in quel garage, nonostante le scommesse, gli intrallazzi, le facce brutte che passavano di lì. Era una dimensione sotterranea in cui ognuno aveva un compito, un lavoro da sbrigare. Piloti e organizzatori si trascinavano dietro brutte storie e affari da conquistare giorno e notte, tranne al mattino.
Nel garage del gruppo con lo storico di vittorie più lungo della storia delle corse clandestine, con l’alba sopraggiungeva il silenzio.
Ogni cosa era sospesa, come se Atsumu fosse stato via un minuto o una vita intera. Non c’era stato nessun temporale, lì, né divani adibiti a letti o ascensori cigolanti o boschi magici.
Si lasciò cadere sullo sgabello su cui aveva sudato e sputato sangue, quello che nelle ultime settimane era diventato troppo simile al trespolo della vergogna nell’angolo di una classe di ragazzini indisciplinati. Si accasciò con le braccia sul tavolo e vi appoggiò sopra la testa.
Tempo un secondo e si addormentò.
 

Atsumu non tornò più nell’officina di Sakusa.
La routine che gli era tanto mancata quando Akaashi lo aveva punito con quella missione adesso gli sembrava ogni giorno più incompleta, lacunosa. Tanto per cominciare, non aveva mai notato che lavorava giorno e notte alle sue auto senza neanche una finestra nei paraggi.
“Tsum Tsum!!” Bokuto non arrivò al suo tavolo da lavoro, ma atterrò. “Akaashi mi ha detto che hai finito.”
“Finito?” Atsumu si ripulì le mani sporche di grasso sui pantaloni della tuta e gli sorrise. “La gara è domani e io ho ancora una montagna di cose da finire.”
Bokuto si sedette su un disegno scartato. Era una fortuna che fosse un disegno scartato, altrimenti l’avrebbe ucciso. Era anche probabile che non si fosse reso conto di essersi seduto su qualcosa. “No, intendevo la missione da spia.”
Atsumu rovistò in un cassetto che traboccava di viti. “Ah, quello,” mormorò, tirandone fuori una ed esaminandola a caccia di iscrizioni. Dopo un attimo la lanciò di nuovo nella mischia e riprese a cercare. “Sì, ci ho messo un po’ a conquistare la sua fiducia, ma alla fine ha dovuto cedere anche lui al mio fascino.”
In risposta, lo investì una risata sguaiata. “Sei un grande!”
Atsumu si diresse all’auto giallo metallico a qualche metro da lui, armato del bullone giusto.
Lo era davvero, un grande, lo sapevano tutti e lo sapeva anche lui. Il fatto era che adesso era semplicemente inarrestabile. Ogni minima potenzialità inespressa del suo talento gli sembrava facilmente scoperchiabile, bastava solo essere creativi e pensare alle auto come a un gioco di squadra.
D’altro canto, le persone non erano mica un’accozzaglia di fegati, polmoni e pelle legati insieme, era insito nell’unificazione che la parola stessa – persona – suggeriva. Allo stesso modo un’auto non era un insieme di motori, filtri e batterie. Lo sapeva, l’aveva sempre saputo, non si diventava i migliori alle modifiche pensando a un radiatore come a un componente a sé stante, ma c’era qualcosa nel modo in cui Sakusa riciclava dove poteva e buttava via quando non serviva che era molto più sottile della semplice visione di un’auto come un insieme.
Qualcosa di armonico.
Ed era da lì che si accendevano le idee, i passi in più che Atsumu non muoveva.
“Bokkun,” disse quando ebbe finito. Si allontanò dalla macchina e lo raggiunse solo per appoggiargli un braccio sulle spalle. Non distolse neanche un attimo lo sguardo dalla sua creazione. “Sei pronto a far mangiare polvere a Osamu, domani?”
“Oh,” Bokuto rise, una tinta di competizione ne venò il rollio. Ricambiò la pacca sulla spalla con molta più forza di quanta ne avesse usata Atsumu, costringendo entrambi a ondeggiare. “Sono settimane che non aspetto altro.”
 
ᆞᆞᆞ
 
Le gare clandestine erano un casino.
Ci si sarebbe aspettato che il titolo si addicesse all’atmosfera, che fossero, appunto, clandestine. Silenziose, nascoste nelle tenebre, appena una sgommata nel silenzio che le celava. E invece no. Erano un via vai di gente e luci, risate irrintracciabili, buttafuori, auto che andavano e venivano. A dire il vero, ad Atsumu erano sempre sembrate il fratello cattivo di un festival per bambini.
“Hai finito, giusto? Niente scherzi stavolta.” Akaashi gli si era avvicinato affaccendatissimo. Era un atteggiamento che aveva sempre: sembrava un CEO intransigente e un papà che non dormiva da mesi nello stesso momento. 
“Niente scherzi. Hai un gioiellino.” Atsumu era sicuro che gestisse almeno venti cose al minuto e che avesse tutte le ragioni del mondo per essere così indaffarato, ma questo non gli toglieva il gusto di prenderlo un po’ in giro. In fondo non gli importava un bel niente di tutta quella roba. Non si interessava del giro di soldi e promesse che spiraleggiava attorno a quelle gare. Gli importava solo di modificare le auto.
Akaashi lo soppesò con lo sguardo. Forse valutava se fargliela pagare per la traccia ironica con cui gli aveva risposto. Evidentemente decise di lasciar stare, perché annuì e proseguì oltre.
Kenma lo seguiva, guardandosi attorno come se stesse prendendo a occhio le misure per le bare di ognuno, poi fissò lo sguardo su di lui. Atsumu gli fece un cenno di saluto con la testa, ma Kenma scrollò le spalle e passò avanti.
Ecco, lui Atsumu non lo capiva proprio.
Bokuto arrivò proprio in quel momento, sistemandosi il berretto in testa e poi tirando su di fretta la chiusura lampo come un vero atleta. Si fiondò su di lui con tutto il suo peso. Era possibile che, carico com’era, fosse anche pronto a tenere testa all’auto di Osamu facendosela di corsa. In quell’ambiente uno come Bokuto poteva risultare un po’ fuori luogo: si faceva vedere al garage del loro gruppo solo per testare auto e chiacchierare, camminando per quei campi minati come se fossero stati campi di fiori. Era quello che mentre gli altri discutevano di strategie si fermava a salvare le api. Atsumu credeva che invece quell’ambiente fosse nato esattamente per quelli come lui e che si fosse poi inquinato centesimo dopo centesimo, fino a diventare la vasca di squali che era ora.
Bokuto correva per il gusto di correre. Le gare erano uno stile di vita, il rombo del motore un genere musicale, l’adrenalina una pillola quotidiana. Anche se sembrava (e in fondo era così) che Akaashi gestisse l’intera combriccola, anche lui era lì solo perché irretito dalla passione dirompente di Bokuto, qualcosa che lui non aveva e che l’aveva quindi portato a scommettere sul suo pilota, pronto a tutto pur di realizzare i suoi sogni. Se Bokuto voleva correre, lui avrebbe racimolato i fondi per farlo anche vincere.
Per quanto strano, Bokuto era il motivo per cui tutti loro erano ancora lì, la colla del gruppo.
“‘Tsumu, non fa niente se oggi la macchina di Osamu è più forte. Io ti farò onore,” gli confidò, guardando l’orizzonte e risistemandosi il berretto già sistemato. Se fossero stati in un musical americano, a quel punto avrebbe sollevato una mano, spazzando da un’estremità all’altra dell’inquadratura, poi si sarebbe messo a cantare.
Atsumu rise. “Non c’è bisogno, Bokkun,” passò un dito sull’auto, gli sembrò che brillasse al suo tocco, anche se era solo il riflesso. “L’auto di Osamu è stata forte solo per un paio di settimane, tutto qui.”
“Ha-ha,” Bokuto sorrise, regalandogli un’occhiata complice. “Così ti voglio.”
“Tu spingi come al solito.”
“Puoi scommetterci.”
Prima che Atsumu potesse aizzarlo ancora un po’, l’aria si caricò di elettricità. Il gruppo di Osamu si riversò nel parcheggio come una scolaresca lasciata libera per una mezz’ora di esplorazione. Suo fratello lo cercò con lo sguardo, in mezzo ad auto che arrivavano sgommando e meccanici che si mettevano comodi. Quando lo trovò, gli sorrise.
Sei riuscito a tornare a casa con la tua moto tutto intero. Impressionante, gli avrebbe detto assieme a quel sorriso, ma avrebbe fatto il gioco di Atsumu, condannandosi anche a perdere. No, lui non giocava così, lui era tutto scherno e nessuna parola. Atsumu era tutte parole e falsa genuinità. Arricciò il naso, accennando con la testa nella sua direzione, poi sollevò il dito medio.
Osamu fece una piccola riverenza, come a dirgli che era stato molto elegante.
Atsumu distolse lo sguardo e sbuffò, poi incontrò gli occhi perplessi di Bokuto, che aveva seguito quello scambio muto. “Che c’è?”
“Ma che è successo?”
Lui sventolò una mano, come a scacciare una mosca. “Niente. Ci siamo capiti.”
 

L’aria si aguzzò. I fari rossi delle auto in partenza illuminavano una folla di volti anonimi, ombre notturne che di giorno scivolavano in identità imprevedibili. Per quanto polizia, droghe e sparatorie sentenziassero più o meno nettamente la scorrettezza di quello che facevano, Atsumu trovava che nelle gare clandestine ci fosse qualcosa di impareggiabile: tutti avevano una possibilità. Se ci si dimostrava abbastanza talentuosi, furbi o coraggiosi si poteva conquistare la notte.
Espirò, guardando Bokuto calarsi al volante dell’auto su cui gli sembrava di aver lavorato per tutta la vita. La notizia che quella gara sarebbe stata decisiva si era sparsa serpeggiando di voce in voce e la tensione si era ispessita di conseguenza. Quando ebbe la sensazione che la pressione fosse sul punto di bucare quella patina una volta per tutte, un colpo di pistola risuonò nel buio e le auto sfrecciarono in avanti, lasciandosi dietro i segni delle ruote sull’asfalto.
Il rombo si perse tra le risaie vicino alla strada, lasciando la gente raccolta a bordo pista in un religioso attimo di sospensione, poi le scuderie esplosero in discussioni su statistiche e chilometri orari.
Atsumu se ne stava a braccia conserte, fissando la strada davanti a sé e ascoltando senza partecipare.
“Osamu l’ha superato, ma Bokuto gli tiene testa,” li aggiornò Akaashi, un dito che premeva su un auricolare e gli occhi fissi sull’iPad di Kenma, armato di geolocalizzazione.
“Ha preso meglio lui la curva!” fece notare Hinata, entusiasta. “Sorpasso!”
Ma, di colpo, i commenti attorno ad Atsumu si interruppero.
O forse no.
Forse si spensero, si azzerarono.
Perché incontrò lo sguardo di Omi.
Se fossero stati in un musical americano, tutte quelle comparse si sarebbero immobilizzate in pose arzigogolate, scatti minimi e piedi che si riassestavano appena, come un flash mob più che un fermoimmagine, per dare quell’impressione più sospesa e teatrale. A quel punto Atsumu si sarebbe fatto largo nella folla, due riflettori puntati su di loro. Il suo incedere lento ma determinato avrebbe fatto da base di batteria a una canzone.
Ma non erano in un musical. Erano nella vita vera, una a caso, per nulla privilegiata. Una sacrificabile, che non stava in piedi da sola solo perché la preferita di qualche dio, una che come tutte le altre aveva l’irritante difetto di non accendere riflettori, non fermare le folle e, soprattutto, non aspettare nessuno.
Due lampi di luce gli passarono sotto gli occhi, il muso dell’auto di Bokuto sfondò con qualche secondo di vantaggio la linea immaginaria del via.
Atsumu deglutì a vuoto, poi fu travolto dal suo gruppo, che iniziò a spingerlo dove Bokuto aveva accostato. Il mondo alzò di nuovo il volume.
“EHI EHI EHI” tuonò Bokuto, uscendo dall’auto e piegando braccia e gambe come se stesse cercando propulsione per spararsi in aria. Travolsero anche lui, un’iniezione di adrenalina infuocò il sangue di Atsumu, precedendo appena di un attimo la  realizzazione che aveva battuto suo fratello. Quando lo investì, questa lo fece rinsavire. “Tsum Tsum!”
Atsumu imprecò e lo abbracciò.
Bokuto gli premette un braccio in testa e gli scompigliò i capelli, mentre urlava a un pubblico fatto di urla informi: “SIGNORE E SIGNORI, IL TUNER. MIGLIORE. DEL. MONDO.”
Atsumu riuscì a liberarsi dalla presa di ferro di Bokuto appena in tempo per cogliere la faccia nera di Osamu Miya che usciva dall’auto. Atsumu alzò gli occhi al cielo e fece spallucce, fingendo modestia, poi gli mandò un bacino.
Osamu si slacciò il casco con tocco di veemenza in più, ma non fece scenate. Si voltò e tornò dal suo gruppo.
Il suo gruppo.
Sakusa gli disse qualcosa, Atsumu non poté leggergli le labbra per via della mascherina, ma suo fratello annuì e gli strinse una mano. Poi si inchinò. Avrebbe aspettato che Omi lo guardasse di nuovo, ma Bokuto lo trascinò via verso il parcheggio. Qualcuno si era occupato anche di sgomberare la pista dalle loro macchine per la gara successiva.
 

La situazione si calmò un po’, riducendosi a sussurri concitati sulla leggenda che si scriveva da sola e fruscii di soldi invisibili. Atsumu era irrequieto, un pezzo del puzzle così insulso da non avergli dato pena per più di dieci secondi finalmente aveva trovato un posto.
Le gomme allentate. 
Appena si fu liberato dall’entusiasmo di Bokuto, dai discorsi di Akaashi e le insensatezze di Hinata, gettò un’occhiata al lato del parcheggio di Osamu.
Una macchia più buia della notte attirò la sua attenzione. Era un miracolo che non si fosse defilato, ma era anche impossibile uscire di lì in tutto quel via vai. Ora che il caos sembrava starsi attenuando non doveva lasciarselo scappare.
Si diresse rapido dall’altra parte del parcheggio, Sakusa fece il suo primo passo verso la libertà che – ne era certo – stava bramando disperatamente. Sulla strada verso di lui, un ragazzo che Atsumu ricordava vagamente gli iniziò a parlare. Lo ignorò.
“Hai messo le mani nella mia moto,” disse semplicemente, quando riuscì ad afferrargli una spalla e voltarlo.
Sakusa indossava ancora la sua mascherina nera, gli occhi appena spalancati per la sorpresa. Durò un secondo, l’emozione svanì via dal suo viso e si rese illegibile. Sembrava il primo giorno.
“La ruota era allentata, mi sono dovuto fermare per stringerla. Sei l’unico meccanico al mondo che lascia le ruote allentate. Hai messo le mani nella mia moto mentre dormivo.” Alle sue spalle, Atsumu sentì il gruppo di suo fratello agitarsi. La sabbia nella clessidra prese velocità.
Sakusa aggrottò la fronte, come se avesse avuto davanti un pezzo a cui non aveva ancora trovato la collocazione giusta. “Sono io quello scorretto, Miya?”
Atsumu prese fiato per ribattere, poi si arrestò. “Sì!” Sakusa sollevò un sopracciglio. “Guarda che ti ho invitato a venire qui, era praticamente una confessione. E poi non ti ho mai proprio mentito. Ti ho detto che imparo in fretta.”
“Ti sei fatto insegnare le basi del tuning per settimane.” Omi era calmo, non sembrava minimamente ferito o offeso. Atsumu aveva la sensazione di star gridando per farsi sentire in una folla di gente muta.
Si adeguò al tono più tranquillo di quella conversazione. “Sì, be’, e il tuo silenziatore era truccato, un principiante non avrebbe mai potuto modificarlo.”
“Sì, perché non ti volevo tra i piedi. Sono sicuro di avertelo detto.”
Una parte di Atsumu forse era offesa all’idea che gli avesse parlato del fratello e lo avesse baciato mentre Sakusa sapeva tutto. C’era qualcosa di imbarazzante e che lo faceva sentire stupido nell’essere rimasto all’oscuro. Non aveva avuto più un vantaggio, non aveva avuto la situazione in pugno e soprattutto non l’aveva capito.
Nella moto c’erano le sue modifiche, le sue firme, le sue confessioni, quelle che aveva passato una notte intera a cercare di comunicare. E adesso gli sembrava che Sakusa avesse lasciato le ruote allentate apposta, quasi a prenderlo in giro.
Atsumu sospirò, stavolta si calmò davvero. In fondo aveva giocato quello stesso scherzo a Omi per due lunghe settimane.
Con la mente meno annebbiata, si fece strada un nuovo dubbio. Inclinò il viso su un lato e guardò l’unico altro meccanico che avesse mai sopportato come se, alla sua officina, questo gli avesse fatto una domanda particolarmente difficile, un enigma che stavolta proprio non sapeva sbrogliare. Se aveva scoperto che era Atsumu Miya, il tuner più famoso e competente del giro  mentre lui dormiva, perché si era aperto con lui dopo? Non che con Sakusa fosse chiaro individuare un’apertura, ma accettare di dormire vicini, mostrargli la sua macchina, spiegargli ogni più minuziosa modifica e lasciargliela poi guidare… lasciarsi toccare, lasciarsi baciare non erano proprio in cima alla lista di cose che qualcuno che si sentiva tradito e preso in giro avrebbe pensato di fare.
“Omi, perché…”
La mano di Osamu gli premette sul petto e lo costrinse ad allontanarsi da Sakusa. Suo fratello si piazzò fra di loro e Atsumu sperò vivamente che non si assomigliassero troppo, perché era proprio brutto. “Qualcosa da dire al mio meccanico?”
Atsumu alzò le mani in segno di resa. Sarebbe potuto risultare pacifico se non avesse anche sorriso con scherno. “Parlavamo di fatti nostri, ‘Samu, ti sorprenderà sapere che non sei al centro del mondo.”
“Al centro del tuo sì. Vi conoscete?” si avvicinò, il mento in alto. “Che c’è, hai avuto così paura di perdere ancora che hai avuto bisogno di corromperlo?”
Strinse le dita e quasi tremò nel tentativo di non prenderlo a pugni. Sapeva che Osamu conosceva le sue debolezze, sapeva che le stava usando contro di lui. L’altra faccia dell’orgoglio. “Ti assicuro, stavamo parlando giusto così, tra tuner. Ma in fondo che ne puoi sapere tu? Ormai sei un pilota fatto e finito.”
Osamu non era uno che si lasciava trascinare dalle provocazioni, ma se queste provenivano da suo fratello era un
altra cosa. Lo guardò per qualche secondo, Atsumu riusciva a leggere ogni emozione e tentazione dibattersi nelle sue pupille, poi ogni segnale scomparve, Osamu strinse la mascella e si voltò verso Sakusa. Lo sguardo gli cadde a terra, le sopracciglia aggrottate, una mano ancora immobile sul petto di Atsumu, in riflessione.
Quando tornò a guardare suo fratello era calmo. Atsumu lo conosceva abbastanza da sapere che, se non aveva capito tutto, aveva capito abbastanza.
“Lo sai che è abbastanza per chiedere di rifare la gara e ordinare un controllo dell’auto…”
Atsumu gli afferrò il braccio e lo tirò giù, un attimo dopo strinse la mano libera sul colletto del giubbotto di Osamu e lo tirò su. “Non credere di essere l’unico ad avere dei segreti,” sussurrò in un sibilo. Con la coda dell’occhio, registrò distrattamente un gruppo di gente venuta a sentire.
“Le minacce non funzionano, ‘Tsumu. E io vedo attraverso ogni tuo bluff. Devi imparare a perdere, lo dico per te,” ribatté Osamu, calmo.
Atsumu abbassò lo sguardo sulla sua mano, le nocche bianche e i palmi che iniziavano a sudare. Il giubbino di un pilota…
Un moto di disgusto gli risalì la gola e lasciò andare suo fratello con uno spintone.
“Nessuna minaccia. Pensi che non sappia che ordini al tuo meccanico di non toccare il motore?” lo guardò negli occhi, scosse appena il capo. “Il nostro motore?”
Osamu sostenne il suo sguardo per qualche attimo, poi espirò piano dalla bocca e sembrò sconfitto. Atsumu non se ne compiacque.
In lontananza, un suono cadenzato si diffuse nella notte.
Non avrebbe mai pensato di non essere lui quello impulsivo, per una volta, ma il respiro di Osamu accelerò, un attimo prima che lo colpisse in faccia.
Attorno a loro si scatenò il caos.
Okay, non se lo aspettava per niente. Il sangue prese a pulsare forte contro la guancia, nella zona dell’impatto. Per un attimo gli parve di tornare a quando erano piccoli, fuori al garage in cui tutto era iniziato, quando Osamu faceva una battuta cretina ai danni di suo fratello e lui gli si scagliava contro, finché non finivano per rotolarsi e tirarsi calci, nell’eterna sfida per decretare il più forte.
Il suono in lontananza si acuì. In tutta quella confusione, Atsumu riuscì a registrarlo per la prima volta solo in quel momento.
Sirene.
“Merda…” sussurrò a se stesso, tenendosi metà faccia con una mano.
“Polizia!” gridò qualcuno. C’era sempre, quello che gridava ‘polizia’, per la stessa formula per cui c’era sempre qualcuno che su una nave nell’Atlantico all’improvviso gridava ‘America’.
La gente che li circondava si disperse come una folla di ratti. Atsumu spostò lo sguardo appena dietro la testa di suo fratello, in tempo per vedere Sakusa stringersi nelle spalle e poi sparire nella notte.
“TSUM TSUUUUM” la voce di Bokuto lo riscosse. Atsumu si voltò e vide Bokuto, Akaashi e un numero incerto di altre persone buie entrare nella macchina in cui avevano vinto. Un attimo dopo, riuscì a individuare solo la mano di Bokuto che sventolava dal finestrino, prima che filasse via a tutta velocità.
Il parcheggio si colorò di luci intermittenti rosse. Senza pensarci due volte, Atsumu corse alla sua moto.
“Cazzo,” mormorò, perché quando si andava di fretta era impossibile inserire le chiavi nella toppa al primo colpo. Sbuffò, poi mise in moto e si guardò attorno, in una rapida valutazione di quanto spazio avesse per la manovra e quanto tempo prima che quella fuga si trasformasse in un inseguimento.
Girò in una curva a U e, lungo il tratto rettilineo finale, si arrestò davanti a Osamu. Lui aggrottò la fronte, confuso.
“Se uno dei gemelli Miya viene arrestato non ci sarà nessuna rivalità su cui lucrare,” si giustificò Atsumu, in risposta.
Osamu si guardò attorno esitante, come se davvero ci fosse stato da valutare la via di fuga migliore quando ce n’era solo una. Voci indistinguibili si unirono al suono assordante delle sirene, alcune luci si spensero, sostituite dai fanali delle auto della polizia.
“Ti restano tre, due…”
Con un grugnito, Osamu si issò sulla moto dietro di lui. Atsumu partì prima di accertarsi che suo fratello si stesse reggendo.
Dopo qualche minuto, la pista divenne solo un puntino di luce in mezzo alla campagna ai margini di Tokyo.
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Haikyu!! / Vai alla pagina dell'autore: time_wings