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Autore: Milly_Sunshine    20/03/2023    2 recensioni
Dopo molti anni, Enrico torna nella sua città natale, dove ha accettato un lavoro nello stesso albergo nel quale lavorava suo padre. Qui rivede Carolina, sua vecchia amica che lavora alla reception, per la quale prova un'attrazione in apparenza non corrisposta ed è ignara delle vere ragioni che abbiano convinto Enrico a tornare a casa. Alle loro vicende si incrociano quelle di Vincenzo, figlio del vecchio titolare che ha di recente ereditato l'attività di famiglia. Ciascuno di loro ha i propri segreti, ma un segreto ben più grande, che risale all'epoca della loro infanzia, sta per sconvolgere le vite di tutti e tre. Il contesto è "generale/ vago" perché "persone adulte che vivono nei primi anni '90" non è contemplato.
Genere: Drammatico, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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OCCHI VIOLA

Stava ormai scendendo la sera, ma Roberto non sembrava infastidito dalla luce ormai scarsa. Non pensava minimamente ad alzarsi per premere l'interruttore e continuava a leggere le carte che aveva sulla scrivania con la sua aria imperturbabile.
Avevano dovuto lasciare in sospeso una conversazione importante, una mezz'oretta prima, e Giuseppe sentiva il bisogno di arrivare a una conclusione. Quello di cui avevano discusso non era un affare che potesse essere rimandato e lo sapevano entrambi.
Non bussò sullo stipite, né chiese a Roberto il permesso di entrare prima di varcare la soglia. Si diresse verso di lui, afferrò una sedia e gli si sedette di fronte. Gottardi distolse lo sguardo dai fogli che stava leggendo e lo fissò senza dire una parola. Attendere non servì a nulla, il titolare rimaneva in silenzio.
«Allora?» lo esortò Giuseppe. «Cos'altro vuoi sapere?»
«Non so» rispose Roberto, con un tono che appariva quasi sprezzante. «Cosa mi vuoi raccontare?»
«Non c'è niente da raccontare.»
«Partiamo male, se è tutto quello che hai da dire. Avete fatto qualcosa, quella sera. Era la sera della festa in centro. Ve ne siete andati con una scusa ben prima dei fuochi d'artificio.»
Giuseppe trovava assurdo che allontanarsi prima di uno spettacolo pirotecnico potesse apparire sospetto. In un altro momento l'avrebbe detto chiaro e tondo, ma sapeva di non potere perdere tempo, quando si sentiva addosso un giudizio tanto affrettato quanto assurdo.
«Siamo andati ad appartarci su una strada fuori dal centro abitato, in macchina.»
«E cos'avete fatto?»
«Secondo te?»
«Non so, dimmelo tu.» Roberto lo fissò con fermezza. «Se avete fatto un casino, me lo devi dire.»
«Abbiamo fatto sesso, niente di più» replicò Giuseppe. «Non avevamo la più pallida idea che...» Si interruppe. «Non mi dire che credi che siamo stati noi a...» Si fermò ancora una volta. «Come ti viene in mente? Da quanto tempo mi conosci? Lo sai che...»
Non riusciva a completare una sola frase. La domanda che gli aveva posto Roberto Gottardi quel pomeriggio, in tono serio, l'aveva spiazzato al punto da non riconoscere più l'uomo che aveva di fronte. Anche Roberto, se aveva certi sospetti su di lui, doveva provare la stessa sensazione, e da un momento all'altro erano diventati due estranei.
«No, Giuseppe, non so più niente. Sei strano, ultimamente... e anche lei. Non so cos'abbiate fatto, ma...»
Giuseppe non lo lasciò finire.
«Non abbiamo fatto niente, in che lingua te lo devo dire?! Come puoi anche solo pensarlo? Tutto questo non ha senso, ma se lo pensi tu, puoi anche solo immaginare a che rischio siamo esposti. Proprio adesso, che ci eravamo appena ritrovati...»
Roberto azzardò: «Vi siete appena ritrovati, oppure siete sempre stati insieme di nascosto?»
«Non dire cazzate» replicò Giuseppe. «Sai benissimo che ci siamo lasciati poco dopo quella sera, quando abbiamo capito che non potevamo stare insieme alla luce del sole. Avevamo paura che potesse succedere qualcosa e abbiamo preferito andare avanti ciascuno per la propria strada. C'è stato un certo tira e molla, tra di noi, nel corso degli anni, ma non c'è mai stato niente di più di quello che già sai.»
Era chiaro che Roberto non voleva discutere di quell'argomento, dal momento che si affrettò a cambiare discorso.
«Dovreste andarvene.»
«Dove?»
«Non lo so, ma lontano da qui. Nessuno sa di voi, a parte me. Vi allontanerete uno alla volta, prima uno poi l'altra.»
«Qualcuno potrebbe capire.»
Roberto abbassò lo sguardo sulle carte. Girò addirittura una pagina, come se fosse di nuovo concentrato sul lavoro. Non era così, aveva qualcosa in mente.
«Fino a che punto saresti disposto a spingerti per nascondere quello che c'è tra te e lei?»
«Non voglio nascondermi, né lo vuole lei» puntualizzò Giuseppe. «Sai benissimo che abbiamo sempre avuto le nostre buone ragioni.»
«Ascolta quello che ho da dirti, ma prima chiudi la porta.»
«Non c'è nessuno in corridoio.»
«Come vuoi.»
Giuseppe rimase in attesa che Roberto aggiungesse qualcosa, ma non accadde. Fu necessario esortarlo: «Allora? Cosa devi dirmi?»
«Immaginiamo che tu abbia commesso qualche illecito e che io ti faccia una proposta conveniente per entrambi. Hai lavorato abbastanza anni da potere andare in pensione. In più potrei darti dei soldi per andartene: una sorta di accordo.»
«Stai dicendo che, ufficialmente, io mi sono intascato del denaro non di mia proprietà e che tu, invece di denunciarmi, ti limiti a licenziarmi e a staccare un assegno a mio nome per tapparmi la bocca, perché anch'io so dei segreti scottanti su di te? Che non...»
Giuseppe si interruppe. Aveva udito dei passi. Lasciare la porta aperta era stata una pessima idea: Vincenzo Gottardi era appena entrato e spostava lo sguardo, fissando prima lui, poi il padre.
Quest'ultimo lo pregò: «Lasciaci soli. Stavamo parlando di una questione piuttosto seria.»
Vincenzo non disse nulla, ma nemmeno accennò a uscire.
Roberto ribadì: «Lasciaci soli, Vincenzo.» Stavolta il giovane Gottardi si allontanò. «Giuseppe, per cortesia, chiudi la porta. Avrai capito anche tu che è la cosa migliore da fare.»
Era un po' come chiudere il recinto dopo che i cavalli erano scappati, ma tanto valeva obbedire. Parlarono ancora, per qualche minuto. L'idea di Roberto non lo entusiasmava nel vero senso della parola, ma non era un'ipotesi da scartare. Quando uscì, Giuseppe era quasi convinto.
Imboccò il corridoio, diretto verso le scale che conducevano al piano di sotto. Aveva appena raggiunto la rampa, quando trovò Vincenzo Gottardi ad attenderlo. Il figlio di Roberto lo fissava con occhi gelidi.
«Che cazzo hai fatto?» volle sapere.
Per un attimo Giuseppe pensò potesse riferirsi al sospetto di Roberto, ma si rese conto ben presto che era impossibile. Non avevano fatto nomi, né erano stati espliciti abbastanza affinché qualcuno, origliando, potesse avere inteso qualcosa. Era molto più probabile che Vincenzo fosse appena arrivato, quando era entrato nella stanza, e avesse udito soltanto le ultime parole.
«Nulla che ti riguardi» replicò, senza farsi intimidire. Doveva recitare una parte, ormai, sarebbe stato meglio per tutti. «Tuo padre ti aveva chiesto di andare via, è chiaro che non voleva che tu fossi coinvolto.»
«Quanto hai rubato?» insisté Vincenzo. «Per quanto tempo l'hai fatto, prima di essere scoperto?»
«Non intendo rispondere a questa domanda» chiarì Giuseppe, «Né ad altre tue domande. Non ho niente da dirti.»
«Non tirare troppo la corda, Bianchi. Se scoprirò che hai fatto dei danni, convincerò mio padre a fartela pagare.»
«Se non sbaglio, tuo padre ti ha mandato a gestire quel suo localetto di basso rango sulla riviera. Mi sembra un segnale chiaro: non ti ha mai voluto intorno. Se ci tieni così tanto a lui, perché non provi a rispettare le sue volontà? Stai lontano dall'albergo e dai suoi affari.»
«Tu non sei nessuno per dirmi quello che devo o non devo fare.»
«Forse non sarò nessuno, ma anche tu non sei nessuno, qui dentro. Sei solo una zavorra che Roberto ha sempre cercato di scaricare altrove. Quando eri ragazzino, ti ha mandato a vivere con tua madre tenendoti il più lontano possibile, senza preoccuparsi del fatto che volesse portarti fuori città, quando sei cresciuto ha fatto ogni cosa per liberarsi di te, al punto da arrivare ad aprire quel pub per tenerti a cento chilometri di distanza. Essere figlio di Roberto non ti permetterà di dettare legge qui dentro.»
Vincenzo puntualizzò: «Non ho mai voluto dettare legge. Però i ladri mi stanno sulle palle, specie se si nascondono dietro l'aria di persone rispettabili.»
Giuseppe sapeva di non potere replicare. Doveva lasciare che Vincenzo pensasse che quella che aveva sentito fosse un'accusa e non una storia costruita ad arte. Nessuno doveva sapere che lui e Giovanna avevano una relazione. Avrebbero dovuto andarsene, in un luogo lontano, in cui nessuno li conosceva. Allora, per la prima volta, sarebbero stati davvero liberi.
 

Vincenzo si era seduto a terra e occasionalmente alzava lo sguardo a controllare se la donna che sembrava tenerlo d'occhio fosse ancora lì. Non la conosceva, ma non sembrava essere lì per caso. Cercò di passare in rassegna tutte le persone che potevano somigliarle, tra le sue vecchie conoscenze, ma quella tizia con la tuta fucsia e i capelli biondi raccolti in una coda in cima alla testa, che non aveva per niente l'aria della sportiva, non gli ricordava nessuno nello specifico. Cosa volesse da lui era un totale mistero, ma i misteri non gli piacevano particolarmente, pertanto si alzò, controllò in fretta di non avere erba secca o foglie attaccate ai pantaloni e si diresse verso di lei, che non parve turbata.
Solo quando furono a meno di un metro di distanza, Vincenzo le chiese: «Sei qui per me?»
«No.» La donna parve divertita. «Cosa te lo fa pensare?»
«Ti sei appostata lì come un falco e...» Vincenzo abbassò lo sguardo sulla sua tuta. «In realtà vestita così sembri più un pappagallo sudamericano, ma non fa niente. Comunque è da un po' che mi tieni d'occhio e non mi pare che ci conosciamo.»
La donna gli tese la mano.
«Olimpia Ruggeri, piacere.»
Vincenzo gliela strinse, ripetendo: «Sei venuta qui per me? Ho visto come mi fissavi.»
«In realtà no, non sono qui per te» rispose Olimpia, «Però ammetto che ti stavo fissando.»
«Non so se esserne spaventato oppure lusingato.»
«Non sono una killer che vuole prima adescarti e poi ucciderti.»
«Lo spero bene. Adesso, però, credo dovresti spiegarmi perché mi tenevi d'occhio così attentamente.»
Olimpia chiarì: «Mi ricordi qualcuno che ho visto qualche volta molto tempo fa, insieme a un mio amico d'infanzia. Mi sono detta che magari lo conosci, io non lo vedo da una vita. A proposito, non mi hai ancora detto come ti chiami.»
«Vincenzo. Vincenzo Gottardi.»
«Non ricordo il nome di quel tale, ma potresti essere tu. Conosci Enrico Bianchi?»
Vincenzo annuì.
«Sì, da decenni.»
«Io non lo vedo da un secolo» lo informò Olimpia. «So che è andato a lavorare lontano da qui, ma nessuno ha mai saputo dirmi con esattezza dove. Sembra abbia cambiato diversi posti, in realtà. C'è chi dice che abbia lavorato in un ristorante al mare, chi invece racconta che si sia trasferito da qualche parte al sud. Altri dicono in qualche località di montagna dell'estremo nord, mentre ho sentito dire anche che si sia trasferito all'estero. Eravamo molto amici, ai tempi delle scuole. Siamo stati anche compagni di banco in seconda media. Quando ti ho visto, mi è venuto da pensare a lui. Chissà che fine ha fatto.»
«So perfettamente che fine ha fatto Enrico» la informò Vincenzo. «Se vuoi, posso dirgli che lo stai cercando e che vorresti rivederlo.»
Olimpia sorrise.
«Sì, grazie, se non ti scoccia! Enrico saprà sicuramente dove trovarmi.»
A Vincenzo sembrava strano, ma ritenne plausibile che Olimpia abitasse ancora nella stessa casa di vent'anni prima. Ciò che non tornava era che non gli avesse ancora chiesto dove e quando l'avesse rivisto. In linea teorica, basandosi su ciò che lei stessa aveva affermato, non avrebbe dovuto avere la più pallida idea del ritorno in città di Enrico. Si aspettava che se ne rendesse conto anche lei stessa e che gli facesse qualche domanda in proposito, ma continuò a non accadere, un po' come se Olimpia stesse recitando una parte.
Avrebbe fatto meglio ad andare via, a dimenticarsi di lei e, se fosse capitata l'occasione, magari informare davvero Enrico del fatto che quella donna desiderasse vederlo, ma la puzza da bruciato che sentiva era talmente tanta da non poterla ignorare. Decise di fermarsi, di fare qualche domanda all'ex compagna di scuola di Enrico, per cercare di capire cosa le passasse per la testa.
«Come fai a ricordarti così bene di me?»
Olimpia riprese a fissarlo.
«Hai gli occhi viola.»
«Come, prego?»
«Mi ricordo il colore dei tuoi occhi.»
«Che io ho sempre visto come azzurri. Non esistono gli occhi viola, o almeno non credo.»
Olimpia ridacchiò.
«Forse sono io che non conosco i colori.»
«Molto probabile.»
«Però, detto questo, i tuoi occhi me li ricordo. Mi sono rimasti molto impressi, forse proprio perché a me sembrano viola. Così, quando ti ho visto, mi sono ricordata di te.»
«Devi avere una vista davvero supersonica se hai notato i miei "occhi viola" quando eri distante un bel po' di metri» ribatté Vincenzo.
«In realtà non è andata proprio così» puntualizzò Olimpia. «Ti ho visto e mi sono detta: "quel tizio sembra l'amico di Enrico con gli occhi viola". Avrei voluto venire a chiederti se eri davvero tu, ma mi sentivo troppo sfacciata. Per fortuna ti sei accorto di me e sei stato tu ad avvicinarti.»
«Già, per fortuna...»
«Cosa vuoi dire?»
«Niente.»
«Scusami se ti ho disturbato, non era mia intenzione. Anzi, magari me ne vado e ti lascio solo.»
Olimpia fece per voltargli le spalle, ma Vincenzo la trattenne.
«Eravate solo amici, tu ed Enrico?»
«Sì, perché?»
«No, niente. Mi sembri molto interessata a lui.»
«Non sono una sua ex con cui si è lasciato in cattivi rapporti» precisò Olimpia. «Io ed Enrico non siamo mai stati insieme. O per meglio dire, non dopo avere raggiunto l'età della ragione. Era il mio fidanzatino alle elementari e alle medie ci siamo rimessi insieme per breve periodo. A tredici anni gli ho dato il mio primo bacio, ma è qualcosa che abbiamo superato entrambi ben più di vent'anni fa.» Sorrise. «A proposito, sai per caso se almeno Enrico è riuscito a trovare l'anima gemella? Io purtroppo non ho avuto questa fortuna, mi sono sposata, ma è andata male.»
«Mi dispiace per te.» Ancora una volta Vincenzo fu tentato di andarsene, ma decise di resistere ancora un po'. «Ti va di sederci? Dovrebbe esserci una panchina qui, poco lontano.»
Olimpia accettò. Gli raccontò di sé - i suoi genitori erano titolari di un bar e lavorava con loro - e gli chiese di lui. Fu Vincenzo, quando le parlò dell'albergo che aveva ereditato da suo padre, a informarla che Enrico fosse uno dei suoi dipendenti. Olimpia non gli parve molto stupita, né gli fece molte domande in proposito, si limitò a pregarlo di nuovo di salutarlo da parte sua.
Ancora una volta Vincenzo ebbe l'impressione che fosse già a conoscenza di certi dettagli e che cercasse qualcosa da lui, e ovviamente non i suoi occhi "viola" o la possibilità di rivedere il vecchio amico, con il quale era probabile che già si frequentasse. Lasciarla andare via avrebbe significato non scoprire mai cosa volesse da lui, specie se non ci fosse stata la possibilità di incontrarla.
«Vieni spesso qui?» le chiese.
«Ogni tanto» rispose Olimpia, sembrando ben poco credibile.
Non restava altro che una soluzione, ovvero chiederle il nome del suo bar e dove si trovasse. Olimpia glielo disse e si spinse oltre, invitandolo ad andare a trovarla. Vincenzo era sempre più convinto: i suoi occhi erano stati soltanto una scusa per fare conversazione con lui, per conoscerlo.
Al contempo, per assicurarsi almeno la speranza di rivederlo, cercava di apparire rassicurante: «Non preoccuparti, non sono una pazza ossessionata da te. E, se la cosa ti preoccupa, non voglio trovarmi un uomo a tutti i costi, ne ho avuto abbastanza di mio marito. Quindi, se hai una fidanzata, non farò nulla per mettermi tra voi.»
Vincenzo non sapeva se ridere o trattenersi per non apparire scortese. Che razza di discorsi faceva quella donna? Certo, se aveva un bar ed era abituata a vedere gente di ogni tipo, doveva essere abituata ad avere a che fare con almeno qualche occasionale soggetto bizzarro, quindi dire cose strampalate poteva essere un'abitudine, per lei, ma non c'era motivo di farlo in sua presenza.
Optò per una battuta: «Ammetto che i miei occhi viola possano affascinare, ma non ho mai pensato che tutte le donne che incontro vogliano saltarmi addosso. Questo pensiero non mi aveva nemmeno sfiorato.»
«Ma una fidanzata ce l'hai?»
Vincenzo sospirò.
«Se proprio lo vuoi sapere, diversamente da Enrico, io ho trovato l'amore della mia vita, anche se la situazione non è semplice quanto vorrei.»
Preferì non aggiungere altro, e peraltro gli venne da pensare che, quando la stessa Olimpia gli aveva chiesto delucidazioni sulla vita sentimentale di Enrico, non si era nemmeno accorta del fatto che non le avesse dato risposta. Doveva sapere anche che era single, a meno che, addirittura, non avesse una storia proprio con lei. Nemmeno quell'ipotesi l'avrebbe sorpreso più di tanto.
«Sei fortunato» osservò Olimpia. «O almeno, lo spero per te. Anch'io mi ritenevo fortunata, prima che mio marito mi lasciasse.» Sospirò. «Pazienza, è andata così. Mi auguro che tu e la persona che ami possiate stare insieme per tutta la vita.»
Vincenzo abbassò lo sguardo.
«Lo spero anch'io.»
Olimpia si alzò in piedi.
«Si sta facendo tardi, è meglio che vada. Ti aspetto al bar, se vorrai venire.»
Vincenzo annuì.
«Magari farò un giro, uno di questi giorni.»
«Verrai sul serio?»
«Perché no? È solo un bar. Penso di non correre pericoli.»
«Puoi stare sicuro, con me» ribatté Olimpia. «Ammetto di potere sembrare strana, ma sono innocua.»
Furono le ultime parole che si scambiarono, prima che la misteriosa amica d'infanzia di Enrico se ne andasse. Vincenzo la guardò allontanarsi, con una certezza: sarebbe andato da lei. Enrico era il figlio di Giuseppe Bianchi e Olimpia aveva qualche genere di rapporto con lui. Era improbabile che avesse a che vedere con la storia del licenziamento di Giuseppe, ma non poteva escluderlo a priori. Era da tenere d'occhio.

   
 
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