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Autore: FluffyHobbit    23/03/2023    0 recensioni
[Un Professore]
[Un Professore]Sequel di "Tu non innamorarti di un uomo che non sono io"
Dal testo:
"Non vedo l'ora che arrivi stasera, 'o sai?"
[...]
"Ma se siamo svegli da tipo cinque minuti…"
[...]
"Sì, ma oggi è una giornata speciale e stasera lo sarà ancora di più."
Genere: Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Roma, 24 Dicembre 2017
 
Domenico aveva trascorso l'intera mattinata in commissariato e tutto il pomeriggio in un rifugio per animali dove svolgeva regolarmente volontariato -durante le feste ricevevano sempre molte donazioni, da un lato, e molte richieste di adozione dall'altro, quindi c'era bisogno di tutto l'aiuto possibile-, e adesso stava tornando al proprio appartamento.

Per quanto si sforzasse, sia nei pensieri che nelle chiacchiere quotidiane, non riusciva proprio a definirlo 'casa', -non diceva, ad esempio, 'ho dimenticato le chiavi a casa.', ma 'ho dimenticato le chiavi al mio appartamento.'- nonostante vivesse lì ormai da molti anni: per lui una casa, una casa vera, era molto più del semplice posto in cui si abita. Non era nemmeno un posto, a dire il vero, e purtroppo era lontana.

Ad accoglierlo, comunque, non trovò il solito buio ed il solito silenzio, ma un fascio di luce in corrispondenza della porta della cucina ed un chiacchiericcio accompagnato da un rumore di pentole sempre da quella stessa stanza.

Superò quindi il piccolo atrio d'ingresso, dove lasciò il cappotto e le chiavi, per poi incamminarsi nel corridoio verso quella direzione, e più si avvicinava più un allettante profumo di cibo andava a stuzzicargli il naso, riuscendo perfino a fargli venire un po' di acquolina in bocca, il che non era cosa da poco, considerata la situazione.
Affacciatosi appena oltre la porta vide sua madre, sua sorella ed Enzo indaffarati a preparare il cenone di Natale, sembravano proprio degli elfi di Babbo Natale all'opera -erano arrivati da un paio di giorni, come ormai facevano ogni anno per non lasciarlo solo durante le feste-, e quella vista, che un po' aveva il sapore di casa, fu sufficiente a fargli spuntare un sorriso sulle labbra, piccolo, che non arrivava agli occhi, ma sincero. Era davvero felice e grato che fossero lì e si sentiva in colpa di non essere capace di dimostrarlo meglio, come avrebbero meritato.

"Buonasera!"

Mormorò timidamente, quasi avesse paura di disturbare, salutando con un rapido gesto della mano.

Subito tre sorrisi belli e luminosi, si voltarono verso di lui, felici di vederlo ed in grado di dimostrarlo.

"Ah, Mimmo, eccoti qua! Ti stavamo per chiamare, non tornavi più!"

Esclamò sua madre, con la voce piena di preoccupazione, mentre gli si avvicinava.

Domenico la salutò con un bacio su ciascuna guancia, mettendo una mano sul suo braccio, su cui fece muovere un po' il pollice in una carezza di scuse, per poi soffermarsi a guardarla, abbozzando un sorrisetto. Adesso, sul suo viso, c'era qualche ruga in più ed i capelli erano del tutto bianchi, del resto gli anni erano passati anche per lei, ma era sempre bellissima ai propri occhi.

"Scusami, hai ragione, avrei dovuto avvisare..."

Replicò, sinceramente dispiaciuto, ma Rosa subìto gli rivolse un gran sorriso -tutta la preoccupazione era sparita- e gli diede un buffetto affettuoso sulla guancia ricoperta da uno strato di barba.

"La cosa importante è che ora stai qua, anche perché..."

Si allontanò verso il tavolo, da cui prese un vassoio pieno di frittelle d'alghe fumanti.

"...mi devi dire come sono venute! Le ho fatte mo' mo', so' belle calde calde, anzi sta' attento che ti scotti!"

Domenico aveva lo stomaco chiuso, anche se a pranzo non aveva mangiato, ma quelle frittelline tonde e dorate, striate di verde, con il loro profumino delizioso, avrebbero fatto venire fame anche ai sassi, quindi ne prese una e la divorò in un paio di bocconi.

"E che vuoi che ti dica, ma'? Sono buonissime, perfette come sempre!"

Diede un altro bacio sulla guancia di sua madre, la quale stava sorridendo soddisfatta, e poi si spostò verso Enzo per salutare anche lui.

"Ue Enzì, come va?"

Chiese, dandogli una pacca sulla spalla. Enzo sorrise, sollevando una mano ad indicare il tavolo pieno di cibo, in parte già pronto ed in parte da cuocere, ma solo perché l'avrebbero mangiato in un secondo momento e quindi c'era ancora tempo.

"Va come vedi! A te, invece, com'è andata coi micetti tuoi?"

Domenico accennò un sorriso che, almeno per qualche istante, gli illuminò anche gli occhi.

"Ah, è andata benissimo! Molti di loro oggi hanno trovato una casa, è davvero un bel Natale. Ovviamente, prima di approvare queste adozioni, sono stati fatti tutti i controlli e gli incontri del caso, quindi...sono fiducioso, ecco."

Spiegò, gesticolando: gli faceva sempre piacere parlare dei gatti che aiutava ed era lieto che Enzo gliel'avesse chiesto.

Enzo si mostrò un caloroso sorriso, che gli arrivava fino agli occhi azzurri e gli illuminava tutto il viso contornato dai riccioli biondi che gli ricadevano sulla fronte e ai lati.

"Ma che bello! So' contento, so' contento!"

Rispose, allegro, e Domenico era certo che lo intendesse davvero. Lo conosceva ormai da anni e non aveva dubbi che fosse una persona di buon cuore, non avrebbe potuto chiedere di meglio per sua sorella. Fu proprio verso di lei, impegnata a tagliuzzare il baccalà da friggere, che si diresse lentamente, conscio di quanto sua sorella odiasse essere disturbata mentre lavorava o cucinava.

"Ti posso salutare o rischio di fare la fine del baccalà?"

Domandò con una punta di scherzo nella voce, sforzandosi di mostrarsi sereno e giocoso anche se l'umore era di tutt'altro tipo.

Sara si passò la lingua sul palato, facendola scattare in un verso di incredulità. Posò subito il coltello e si pulì le mani, rivolgendo al fratello un gran sorriso.

"Certo che puoi, anzi devi! Vieni qua!"

Esclamò affettuosa e, senza dargli il tempo di muoversi, fu lei a stringerlo tra le braccia con tutta la forza che aveva.

Domenico lasciò andare un sospiro non appena se la sentì addosso, e avvertì i propri occhi inumidirsi: aveva ricevuto molti abbracci da quando la propria famiglia era salita a Roma, e Dio solo sapeva quanto lo aiutassero a scaldare quel corpo che, ormai, sembrava essere fatto di ghiaccio, eppure non bastavano mai perché il freddo, prima o dopo, ritornava sempre.

Cinse a propria volta Sara tra le braccia, dolcemente, e le posò un bacio tra i capelli neri raccolti in una morbida coda, sfruttando quella differenza d’altezza di pochi centimetri che avevano.

"Come stai? Ti sei fermata un attimo, oggi?"

Domandò anche se, conoscendola, era certo che non si fosse riposata nemmeno un istante. Sara ridacchiò e alzò il capo verso di lui, sorridente.

"Sto bene, sto benissimo! Lo sai che quando cucino non mi stanco. Tu, invece, come ti senti?"

Domenico sollevò l'angolo delle labbra nell'ombra di un sorriso, scrollando appena le spalle. Gli sarebbe piaciuto poter dire che si sentiva bene, ma avrebbe mentito e Sara naturalmente se ne sarebbe accorta. Stava male, questa era la verità, il dolore era ormai parte integrante della propria vita, lo sentiva agitarsi dentro di sé ogni giorno come un animale in gabbia, era un ospite indesiderato dal quale tuttavia non voleva liberarsi: l'alternativa era l'apatia, era l'essere completamente anestetizzato a qualsiasi emozione e sensazione, piacevoli o meno, e allora preferiva soffrire, pur di sentire qualcosa. Preferiva soffrire, perché quel dolore gli ricordava tutto l'amore che c'era stato prima.

"Si può avere una domanda di riserva?"

Mormorò in risposta, rassegnato.

Sara fece un piccolo sospiro e addolcì lo sguardo che posava sul fratello, portando una mano sulla sua guancia per fargli la carezza. Un po' si pentì di aver posto quella domanda, ma decise di sfruttare l'occasione per parlargli di tutta quella situazione. Sapeva che Domenico stava male, era da dieci anni che stava così, ormai divideva la sua vita in un prima ed in un dopo l'avvocato Claudio Vinci, e se il prima era stato privo di significato -da come diceva lui, almeno-, il dopo era un completo disastro. Non avrebbe mai e poi mai perdonato il famoso avvocato per aver ridotto così il sangue del proprio sangue e non capiva come facesse Domenico a provare ancora qualcosa per lui.

"Mimmo, lo so che non ti va di parlarne, ma dopo tutto questo tempo non puoi stare ancora così per lui, quello stronzo non se lo merita!"

Disse, parlando con il cuore in mano, ma Domenico serrò la mascella, in un gesto istintivo, e si sottrasse alla sua carezza. Sapeva che fosse il suo affetto fraterno a parlare e non era arrabbiato con lei -anzi, a parte inverse avrebbe detto ben di peggio nei confronti di Enzo-, ma non poteva sopportare che lei definisse Claudio in quel modo, che era di quanto più lontano dalla realtà potesse esserci: Claudio aveva il cuore più buono del mondo, lo pensava ancora nonostante tutto, ma era anche spaventato -ricordava perfettamente i suoi occhi blu sgranati, impauriti e pieni di colpa che si posavano sulla sua ferita rossa- ed era per questo, solo per questo, che lo aveva lasciato.

"Senti, ma 'a piccirella dove sta? Vorrei salutare anche lei..."

Replicò, perché su una cosa sua sorella aveva ragione: non voleva parlarne.

Sara sospirò di nuovo e si morse la lingua per evitare di insistere, aveva colto l'antifona.

"In camera da letto, sta facendo il riposino. Sono sicura, però, che le fa piacere se vai a rimboccarle le coperte."

Rispose, con dolcezza. Domenico annuì, accennando un sorriso.

"Allora vado da lei e poi vengo a darvi una mano, torno subito."

Fece per allontanarsi, ma Sara lo trattenne.

"Perché non vai a riposare anche tu? Qui siamo già in tre, ce la facciamo. Tu hai avuto una lunga giornata, sarai stanco..."

Domenico scosse il capo e le fece una carezza sulla guancia, anche per scusarsi del gesto di poco prima.

"Non ti preoccupare, non sono stanco. Mi fa piacere darvi una mano, davvero."

Preferiva tenersi impegnato, che fosse con il lavoro, il volontariato o in questo caso la cena di Natale, così da non avere troppo tempo per lasciarsi prendere dai pensieri. Se avesse provato a dormire, invece, quei pensieri lo avrebbero raggiunto e lui comunque non si sarebbe riposato, quindi tanto valeva rendersi utile.

Lasciò la cucina, passò in bagno a lavarsi accuratamente le mani -era comunque stato tutto il giorno fuori casa, doveva stare attento prima di avere a che fare con una bambina piccola- e poi, senza fare rumore, entrò in quella che era la propria stanza da letto, che aveva ceduto a Sara, Enzo e alla piccola Lucia -lui e sua madre, invece, dormivano provvisoriamente in salotto, sul divano letto-.

Come suggeriva il nome, quella scriccioletta di appena un anno era la luce degli occhi dei suoi genitori, ovviamente -Sara ed Enzo si erano sposati sei anni prima ed erano riusciti ad averla soltanto dopo anni ed anni di tentativi e visite mediche-, ma anche dello zio, che stravedeva per lei.

Si sciolse in un morbido sorriso a vederla rannicchiata stretta stretta al suo coniglietto di peluche azzurro, regalo che le aveva fatto lui stesso in occasione del suo battesimo e da cui lei non si era più separata, che era quasi più grande di lei, tanto da farla sembrare ancora più piccola di quanto fosse.

Le si avvicinò, dunque, senza fare il minimo rumore, per rimboccarle le coperte: il suo corpicino sembrava quasi scomparire sotto il piumone che l'avvolgeva e che si sollevava e abbassava quasi impercettibilmente al ritmo del suo respiro, spuntava fuori soltanto il visino circondato da riccioletti neri ed illuminato dalla lucetta da notte che avevano messo sul comodino, dal momento che Lucia, come un po' tutti i bambini, aveva paura del buio.

Il suo sonno, però, al momento sembrava tranquillo e sereno, senza alcuna traccia di quella o altre paure, immerso probabilmente in un sogno bellissimo. Lui avrebbe dato qualsiasi cosa per fare in modo che non conoscesse mai gli incubi, perché sapeva quale effetto potevano avere sulle persone e non voleva che lei patisse in quel modo, ma sapeva anche che prima o poi sarebbe accaduto, perché non poteva proteggerla per sempre.

"Buon riposo, passerottina mia."

Sussurrò a bassissima voce -le aveva dato quel soprannome perché quando era molto piccola, ed in parte anche adesso, emetteva sempre dei versetti acuti del tutto simili ai pigolii di un passerotto per cercare di comunicare con loro-, mentre le faceva una carezza leggerissima sulla guancia, sfiorandola appena con il dorso dell'indice.
Lasciò la camera con la stessa cura con cui era entrato e chiuse la porta dietro di sé non prima di aver posato gli occhi un'ultima volta su Lucia, per poi tornare in cucina. Lì, come promesso, si rimboccò le maniche e aiutò gli altri nella preparazione del cenone -nessuno, nemmeno Sara, gli chiese più di Claudio, cosa di cui li ringraziò in cuor proprio- poi si spostarono tutti in salotto per mangiare e festeggiare il Natale, anche se per lui da anni ormai quella festa non aveva più alcun significato. Ciononostante, solitamente riusciva almeno a godersi la compagnia della propria famiglia che aveva il magico potere di farlo stare un po' meglio, ma quest'anno proprio non ce la faceva e perfino il trascorrere l'intero cenone con l'adorata nipotina seduta in grembo non era riuscito a strappargli più di qualche sorriso, per quanto sinceri.
La mancanza della persona più importante della propria vita era troppo forte, la ferita che si era coperta di una sottile cicatrice nel corso del tempo era ora tornata a riaprirsi: lui e Claudio si erano incontrati, appena un paio di giorni prima, per un sadico scherzo del destino, se si poteva definire incontro quello che era avvenuto. Lo aveva incrociato in uno dei corridoi del commissariato, senza saperlo camminava in direzione di Claudio, il quale invece veniva dall'altra estremità, ma quando si era accorto di averlo davanti era ormai troppo tardi per fare dietrofront e il corridoio era troppo vuoto per fingere di non averlo visto.

Anche se avesse avuto modo di farlo, comunque, non credeva che sarebbe stato capace di distogliere lo sguardo da lui, dal suo elegante completo blu scuro che lo avvolgeva come se ci fosse nato dentro -e che tuttavia non rendeva giustizia alla bellezza del suo corpo nudo, quella che lui conosceva bene-, dalla barba curata che gli copriva le guance e quasi gli nascondeva le labbra che aveva baciato mille volte e da cui era stato baciato altre mille -avrebbe dato qualsiasi cosa per aggiungere solo un altro bacio a quel conto e sentire per un'ultima volta quelle labbra screpolate dal freddo posarsi sulle proprie-, dai suoi capelli perfettamente in ordine -senz'altro adatti all'avvocato Vinci, ma non al suo Claudio, il ragazzo che da lui se li faceva arruffare- e, naturalmente, dai suoi occhi blu, un mare sempre più distante.

Si accorse, però, che anche Claudio lo aveva guardato e quel singolo sguardo gli aveva dato il coraggio di andare a parlargli, ma prima che potesse anche solo salutarlo, l'avvocato si era infilato in un ufficio, rendendo impossibile qualunque approccio.

Non era la prima volta, in quei dieci anni, che in un modo o nell'altro si incrociavano in tribunale o in commissariato -dati i loro mestieri sarebbe stato strano il contrario-, ma non era mai successo in momento così vicino a quella data che, un tempo, avrebbero festeggiato come anniversario. Quella coincidenza non poteva essere casuale, non riusciva a fare a meno di pensarci, e più ci pensava e più credeva che potesse essere un'occasione da sfruttare per...per riallacciare un minimo di rapporto, anche se non di natura romantica -non era così disilluso da credere che Claudio avrebbe potuto cambiare idea-, anche solo di banale conoscenza.

Così, un po' dopo mezzanotte, si congedò dal resto della famiglia e si spostò sul terrazzino, dove sarebbe stato più tranquillo, portando con sé la birra -la terza o la quarta da quando era cominciata la cena, non ci aveva fatto caso- per darsi coraggio. Si appoggiò al muretto, estrasse il cellulare dalla tasca, e non gli ci volle molto ad arrivare alla lettera C della propria rubrica, che non era poi riempita da chissà quanti nomi.

Fece un respiro profondo e bevve un sorso di birra prima di premere sull'icona verde ed avvicinare il telefono all'orecchio: gli avrebbe augurato buon Natale e poi gli avrebbe chiesto come stava, gli interessava sapere solo questo, e magari avrebbe aggiunto di potersi incontrare per prendere un tè insieme, uno dei prossimi giorni, con la scusa del lavoro. Sì, poteva andare, doveva solamente dire queste esatte cose e nulla più.

Negli istanti di pausa tra uno squillo e l'altro sentiva il proprio cuore accelerare, speranzoso di ascoltare quella voce così famigliare dall'altra parte, e ad ogni nuovo squillo si abbatteva, deluso.

"Questa è la segreteria telefonica dell'avvocato Claudio Vinci. Al momento non sono disponibile, lasciate un messaggio dopo il segnale acustico e verrete richiamati al più presto."

Si sentì dire dopo diversi squilli a vuoto e la voce che parlava era quella che tanto desiderava udire, ma era registrata e per questo gli suonò terribilmente fredda ed impostata, quasi come se non fosse stata la sua. Sospirò e chiuse la telefonata premendo sull'icona rossa, ma non si perse d'animo.

"Forse è al telefono con qualcun altro, oppure è lontano e non lo sente..."

Si disse, quasi per autoconvincersi, prima di fare un secondo tentativo: avrebbe potuto registrare un messaggio, certo, ma non sarebbe stato come parlargli davvero e lui ne aveva un disperato bisogno.

Questa volta, tuttavia, gli squilli furono molti di meno e la telefonata venne interrotta ancor prima che potesse avviarsi il messaggio registrato, segno che era stata chiusa volontariamente da chi era dall'altra parte, cioè da Claudio.

Fece ancora una prova, poi un'altra ed ancora una, e tutti quei rifiuti furono per lui come proiettili che gli laceravano il corpo, prima di rendersi conto di quanto fosse inutile tutto ciò: Claudio non aveva voluto parlargli di persona e non voleva farlo neanche adesso, era fin troppo chiaro.

Trangugiò ciò che restava della propria birra in un unico sorso e tornò dentro, accasciandosi sul divano, dove fu subito raggiunto da Sara.

"Non risponde?"

Chiese con infinita dolcezza, comprensiva, senza aver bisogno di domandare chi fosse il destinatario di quelle telefonate, perché poteva essere soltanto una persona.

Domenico scosse il capo, guardandola con occhi gonfi di lacrime. Se non fosse stato completamente distrutto, si sarebbe sentito ridicolo.

"No..."

Mormorò, con voce appena percettibile. Lei, senza aggiungere nulla, si mise seduta accanto a lui e lo avvolse con un braccio, tirandolo accanto a sé. Domenico liberò un singhiozzo e si strinse contro Sara, facendosi così piccolo che tra i due sembrava lei quella più grande, immergendosi in quell’abbraccio caldo e bello. Erano ben altre, però, le braccia di cui sentiva il bisogno.
*****

Claudio era seduto alla scrivania del proprio ufficio, come ogni giorno da quando era diventato avvocato: non era stato facile, ma se aveva una qualità, quella era la perseveranza -capa tosta, avrebbe detto qualcuno- e così, negli anni, da dipendente in uno studio altrui era arrivato ad essere titolare di uno studio che portava il proprio nome e di cui non poteva che essere orgoglioso.

Dava tutto se stesso, anima e corpo, alle persone che difendeva con il proprio lavoro e nemmeno la Vigilia di Natale faceva eccezione: era un giorno come un altro e non valeva più degli altri, anche se c'era stato un tempo in cui per lui, quel giorno era stato tutto.

Sentì un leggero bussare alla porta che lo costrinse a sollevare lo sguardo, spostandolo dallo schermo del computer e dagli appunti.

"Entra pure, Arthur!"

Disse a colpo sicuro -non c'erano altre persone in quegli uffici oltre a loro-, e quando, un istante dopo, la porta venne aperta, vide spuntare la figura longilinea di Arthur Peirò, un giovane e promettente futuro avvocato che aveva preso come praticante, il quale in teoria non avrebbe nemmeno dovuto trovarsi lì in quel momento, dato che era pur sempre la Vigilia di Natale, ma quando aveva saputo che lui sarebbe andato allo studio aveva insistito per "dare una mano e fare compagnia", così tanto che alla fine Claudio aveva dovuto lasciarlo fare.

Quel ragazzo, a differenza della maggior parte dei suoi colleghi universitari, non proveniva da una famiglia per così dire blasonata, in cui da generazioni ci si tramandava il titolo e lo studio legale, ma da una famiglia di operai che aveva anche un altro figlio, più piccolo, a carico e riusciva a pagarsi gli studi solo attraverso molti sacrifici e qualche lavoretto che, per forza di cose, lo avevano rallentato nel regolare svolgimento del percorso universitario.

Ciononostante era stato l'unico, tra tutti i presenti alla conferenza che lui aveva tenuto l'anno precedente presso la sua Facoltà, a porgergli una domanda che non fosse banale, ma anzi quasi scomoda, segno di quanto fosse preparato e, soprattutto, motivato. Per questa ragione, Claudio si era ricordato di lui quando aveva ricevuto la sua richiesta di praticantato qualche mese prima e l'aveva accettata molto volentieri, senza doverci pensare su due volte. Ora, a distanza di tempo, poteva affermare con sicurezza di non essersene assolutamente pentito.

Arthur avanzò di qualche passo nell'ufficio del proprio superiore, al quale rivolse un sorriso composto, ma sincero. Era infinitamente grato a quell'uomo, che non era solo un ottimo avvocato -il migliore di Roma, ne era sicuro!-, ma anche una persona buona e gentile alla quale doveva molto: era stato l'unico ad accettare di prenderlo lì, mentre tutti gli altri avvocati a cui si era rivolto l'avevano rifiutato in malo modo quando erano venuti a sapere del ritardo che aveva accumulato negli esami, ed in più si era anche offerto di coprire tutte le spese che gli rimanevano per il completamento degli studi, il che gli aveva permesso di non dover più barcamenarsi tra due lavori diversi e lo studio, così da potersi concentrare soltanto sull'università. Senza di lui, sarebbe stato ancora in alto mare.

"Mi perdoni avvocato Vinci, non volevo disturbarla, ma ho pensato che forse era il caso facesse una pausa e le ho portato questa..."

Spiegò, mostrando la tazza fumante che teneva tra le mani. Lavorava al fianco di quell'avvocato da mesi e non ci aveva messo molto a capire che quando si buttava sul lavoro si dimenticava di tutto, anche e soprattutto di se stesso, e che quindi avesse bisogno di qualcuno che lo tirasse fuori da quella specie di abisso in cui si immergeva. Gli aveva sempre dato l'impressione di essere una persona molto sola, in questo senso.

Claudio si ritrovò a curvare le labbra in un sorriso appena accennato -non aveva molte cose per cui sorridere, ormai da un bel po'- ed allungò una mano per prendere la tazza, che subito lo investì con un piacevole odore fruttato. Avrebbe dovuto essere abituato alle attenzioni di Arthur, senza il quale sicuramente avrebbe saltato moltissimi pasti in quelle infinite giornate di lavoro che si imponeva, ma riuscivano sempre a coglierlo di sorpresa. In fondo, non credeva nemmeno di meritarsele.

"Grazie, sei gentile...ma anche capa tosta!"

Esclamò, con tono bonario. Arthur sgranò gli occhi, leggermente confuso.

"Io...ehm...cosa sarei?"

"Una testa dura! Ti ho detto mille volte che puoi darmi del tu e chiamarmi Claudio, possibile che tu abbia memorizzato interi volumi di diritto e questo semplice concetto proprio non ti entri in testa?"

Rispose Claudio, rimproverandolo scherzosamente, ed Arthur fece una risatina, scrollando le spalle.

"Non è che non mi entra in testa, è che la rispetto troppo per rivolgermi a lei in un altro modo, avvocato."

Spiegò, guardandolo con ammirazione. Claudio liberò uno sbuffo divertito, ma dal retrogusto amaro, e poi sospirò.

"Ti assicuro che c'è ben poco da rispettare, qui, oltre all'aspetto professionale. Dammi del tu, va bene così."

Rispose, per poi portarsi la tazza alle labbra. Non fece nemmeno in tempo ad assaporare quella tisana ai frutti di bosco che si rese conto, spostando casualmente lo sguardo sull'orologio del proprio computer, di quanto fosse tardi.

"Ma sono le otto passate, che ci fai ancora qua?"

Esclamò, guardandolo preoccupato. Arthur, in risposta, lo indicò con un rapido cenno del capo.

"Anche lei è ancora qui, quindi sono rimasto anch'io."

Replicò, come se fosse stata la cosa più ovvia e naturale del mondo. Claudio prese un profondo respiro e poi curvò l'angolo delle labbra in un sorriso che non arrivava agli occhi.

"Ed io ti ringrazio davvero tanto per la dedizione, ma non è necessaria. Va' a casa, non voglio che la tua famiglia mi denunci per sequestro di persona."

Rispose, con una punta di sarcasmo, ed intanto pensava 'Torna da loro, tu che puoi'.

Arthur fece una risatina, ma poi si morse un labbro, indeciso sul da farsi. Aveva voglia di tornare a casa, certo, ma non gli sembrava una buona idea lasciare l'avvocato da solo.

"E lei, invece, che fa? Non torna a casa?"

Si permise di domandare, lasciando trasparire una leggera nota di preoccupazione nella voce. A Claudio non sfuggì ma, di nuovo, non gli sembrava meritata.

"Io mi trattengo ancora un po', il tempo di finire di leggere un paio di cose..."

Rispose, indicando il pc con un gesto vago della mano libera.

"...ma ci metto poco, promesso. Non ti preoccupare, non c'è bisogno che mi aspetti, davvero."

Aggiunse, accompagnandosi con un sorriso rassicurante.

Arthur sospirò, rassegnato. Non era per niente convinto di quella promessa, ma non poteva certo trascinare via l'avvocato -dal suo stesso studio, tra l'altro- con la forza.

"Va bene, d'accordo. Torno il ventisette, allora?"

Domandò, sicuro che l'altro sarebbe tornato a lavorare il prima possibile, forse perfino il giorno dopo, ma che al tempo stesso non gli avrebbe mai permesso di seguirlo anche il giorno di Natale.

Claudio liberò uno sbuffo divertito e scosse il capo, poi tornò a guardare il ragazzo con affetto.

"Hai lavorato bene in questi mesi, hai fatto più di quanto fosse tuo dovere e meriti decisamente più di un paio di giorni di riposo. Goditi queste feste, goditi i tuoi affetti, per il resto mi faccio sentire io."

Arthur annuì, grattandosi distrattamente una guancia coperta da un leggero strato di barba molto curato.

"D'accordo, grazie. Allora io...io recupero le mie cose e poi vado..."

Replicò, indicando la porta con un gesto vago della mano. Claudio si alzò, fermandolo con un cenno.

"Aspetta..."

Si avvicinò all'appendiabiti accanto alla porta dell'ufficio e prese la propria sciarpa ed il proprio cappello, che poi porse ad Arthur.

"Prendi questi. Fa freddo, fuori."

Disse, con tono dolce. Si era accorto, infatti, che il ragazzo era arrivato lì quel giorno indossando soltanto un cappotto che poteva andar bene per l'assolata mattina, ma non per la buia sera.

Arthur sgranò gli occhi per un istante, sorpreso, poi scosse il capo.

"Ma no, avvocato Vinci...grazie, ma non è necessario..."

Balbettò, timidamente. Claudio non era minimamente dello stesso avviso e alzò gli occhi al cielo.

"Ah, sciocchezze! Non lo sai che la testa e la gola sono fondamentali per un avvocato? Devi tenerli protetti!"

Esclamò, con un tono che non ammetteva repliche ma al tempo stesso manteneva una sfumatura affettuosa, ed intanto gli calcò il cappello sul capo, aggiustandolo per bene sui suoi folti capelli castani che gli arrivavano al collo, e gli avvolse la sciarpa blu intorno allo stesso.

Arthur si ritrovò così sistemato ancor prima che potesse accorgersene, e per un attimo gli sembrò di essere tornato a quando, da bambino, sua madre lo aiutava a prepararsi per andare a scuola.

"Eh, ma allora servono anche a lei! Più a lei che a me, se vogliamo dirla tutta..."

Provò a dire, ma Claudio liquidò l'obiezione con una pacca sulla spalla.

"No, servono di più a te perché tu sei venuto con la motocicletta, io in auto. Dai, poi me li restituisci appena ci vediamo, non è la fine del mondo!"

Sorrise, per concludere la propria opera di convincimento. Arthur sospirò profondamente e annuì appena, accennando un sorriso.

"Allora...buon Natale, avvocato Vinci."

Claudio inarcò leggermente le sopracciglia, in un'eloquente espressione di richiesta.

"Dai, per favore, è Natale, fammi questo regalo: chiamami Claudio almeno una volta!"

Arthur ridacchiò appena, annuendo leggermente.

"D'accordo, d’accordo, mi correggo: buon Natale, Claudio!"

Esclamò, arrossendo automaticamente. Claudio accennò un sorriso, soddisfatto, e dopo un'ultima sistematina alla sciarpa lo lasciò andare.

"Scrivimi non appena arrivi a casa, eh!"

Disse, più serio, perché anche se il tragitto che l'altro avrebbe dovuto fare non era molto lungo, lui era comunque preoccupato a causa del traffico.

Arthur ridacchiò, annuendo per rassicurarlo. Ecco, anche in questo gli ricordò un po' la propria madre.

"E faccia lo stesso anche lei! E non si attardi troppo..."

Replicò, con una certa apprensione nel tono di voce che cercò di dissimulare adottandone uno più scherzoso. A Claudio, però, non sfuggì quella piccola sfumatura nascosta, essendo abituato a cogliere tutti i più piccoli mutamenti in chi gli stava intorno, e annuì per tranquillizzarlo.

"Promesso."

Arthur, dopo avergli rivolto un'ultima occhiata, lo salutò ancora una volta e poi uscì dall'ufficio.

Claudio liberò un pesante sospiro non appena l'altro chiuse la porta e si passò una mano sul volto, che cominciava a sentire stanco, prima di tornare alla scrivania. Si concesse la piccola pausa che Arthur gli aveva praticamente imposto, il tempo di mandare giù i sorsi di tisana ancora abbastanza caldi nella tazza, e poi tornò a concentrarsi sul proprio lavoro, fermandosi solo per leggere e rispondere al messaggio che Arthur gli aveva inviato circa mezz'ora dopo che se n'era andato, con cui lo informava di essere arrivato a destinazione.

Subito dopo riprese a studiare studiando i fascicoli degli ultimi clienti che aveva accettato pro bono -la più recente era appena di un paio di giorni prima- e continuò finché si rese conto che andare avanti sarebbe stato deleterio, dato che la testa e gli occhi gli facevano così male da non capire nemmeno cosa stesse leggendo e che dunque era meglio rincasare.

Se ne convinse ancora di più dando un'occhiata all'orologio appeso alla parete, che segnava le ventidue da poco passate e che gli ricordava di non aver mantenuto la promessa fatta ad Arthur appena un paio d'ore prima, ma in fondo sapevano entrambi che sarebbe accaduto. Si affrettò a sistemare la propria scrivania -spense il computer, riportò al loro posto i faldoni, infilò l'agenda con gli appunti nella valigetta e lavò la tazza da cui aveva bevuto la tisana- e ad infilarsi il cappotto, per poi lasciare lo studio legale.

La strada era deserta, chiaramente erano tutti a festeggiare nelle case da cui proveniva un vociare indistinto, e a fargli compagnia Claudio trovò soltanto le luci dei lampioni e delle luminarie ed un vento gelido che lo portò a stringersi bene nel cappotto lungo il tragitto -non troppo breve, ma abbastanza lungo da fargli entrare quel gelo nelle ossa- che lo separava dalla propria auto.

Si prese qualche minuto per scaldarsi, strofinando le mani tra loro, soffiandovi in mezzo e passandosele sulle braccia, e poi mise in moto il veicolo che, vista la quasi totale assenza di altre persone in giro, non impiegò molto tempo a riportarlo al condominio in cui abitava.

Arrivato al pianerottolo, si premurò di scattare una foto alla propria porta d'ingresso, facendo attenzione ad inquadrare la targhetta con il nome sopra al campanello, che inviò ad Arthur come prova dal proprio rientro, accompagnata da un breve messaggio di scuse -Come al solito ho perso il senso del tempo, spero di non averti fatto preoccupare troppo. Auguri a tutti.- e solo allora entrò in casa.

Aveva senso definire casa un luogo che non lo accoglieva con suoni, calore o luci, ma solo con un freddo e silenzioso buio che ricopriva ogni cosa? Probabilmente no, ma, come si ripeteva ogni giorno, era meglio che fosse così.

Lui una casa vera l'aveva avuta, in un certo senso l'aveva ancora, ma era lontana -e doveva restare tale-, quindi preferiva adottare quel termine convenzionale, per quanto stridente, per aiutarsi a non pensarci, anche se non ci riusciva mai.

Si sfilò rapidamente il cappotto, lasciandolo sull'appendiabiti all'ingresso, e attraversò il soggiorno giusto il tempo di lasciare la ventiquattrore sulla poltrona, ma il suo vero obbiettivo era la cucina: non aveva molta fame e non aveva nemmeno fatto una spesa adatta al Natale -che senso avrebbe avuto farla, se lui nemmeno lo festeggiava?-, ma era il caso che mangiasse comunque qualcosa, dopo la giornata di lavoro che aveva passato.

Optò per una carbonara nutriente e veloce, che poi divenne una pasta all'uovo dal momento che gli mancava il guanciale, ma andava più che bene così. Non valeva nemmeno la pena sforzarsi di preparare qualcos'altro, tanto qualunque piatto, anche il più raffinato, non sarebbe stato gustato a dovere dalla sua bocca che, ormai da tempo, accettava il cibo solo per necessità.

Era diventato ancora più difficile mangiare dopo l'incontro di appena due giorni prima a cui adesso, mentre se ne stava seduto al tavolo della cucina in totale solitudine e silenzio e senza nulla -né il lavoro e né la preparazione di quel semplice piatto di pasta- che potesse distrarlo il proprio cuore era libero di tornare: si era offerto di aiutare personalmente una giovane donna, la quale si era rivolta a lui tramite un'associazione dedicata, a denunciare il marito violento -era uno di quegli incarichi pro bono di cui stava consultando i documenti in ufficio- e quando lei gli aveva dato appuntamento proprio in quel commissariato, che era il più vicino a casa sua, gli sembrò di essere oggetto di un pessimo scherzo del destino che accettò con amara rassegnazione. Certo, avrebbe potuto mandare uno dei tanti avvocati o avvocatesse che lavoravano insieme a lui, e di cui si fidava ciecamente, ma aveva dato la propria parola e non voleva tirarsi indietro.

Stava appunto raggiungendo la propria cliente quando, in un corridoio che sembrava essere stato lasciato libero dal sadico destino, aveva incrociato Domenico. Gli erano bastati pochi secondi, che si erano dilatati all'infinito nel tempo, per venire catapultato di nuovo in quel bosco da cui si sentì immediatamente accolto, ma da cui di sbrigò ad uscire al più presto per non devastarlo, per non incendiarlo. Se si allontanava da lui, era solo per il suo bene.

Quella fuga lo portò, fisicamente, ad attraversare la porta più vicina, che per fortuna dava su un ufficio momentaneamente vuoto, in cui si fermò per un po', non avrebbe saputo dire quanto, facendo del suo meglio per domare il proprio cuore imbizzarrito che scalpitava per tornare da dove era appena venuto, ma riuscendo soltanto a nascondere i propri tumulti interiori dietro la maschera dell'avvocato, che però era sufficiente a fargli fare il proprio lavoro e ad aiutare quella donna, ed era questo tutto ciò che importava.

Alla fine, quasi metà della pasta rimase nel piatto, perché gli si era stretto lo stomaco a ripensare a quegli occhi verdi e non riusciva a mandare giù neanche più un boccone, per cui, anche se a malincuore -odiava gli sprechi-, la gettò nella pattumiera.

Lavò le poche cose che aveva usato per cucinare e mangiare, poi andò in bagno a lavarsi i denti, cercando come sempre di non soffermarsi troppo sul proprio riflesso –era diventato difficile sopportarlo-, e subito dopo tornò in salotto, dove si accasciò con poca grazia sul divano.

Accese la televisione, più per bisogno di distrazione che per vero interesse a guardare qualcosa, e cominciò a scorrere tra i vari canali, cimentandosi nell'impresa praticamente impossibile di evitare qualsiasi cosa avesse a che fare con il Natale, dalle commedie romantiche ai concerti e solo dopo tanto vagare, finalmente, trovò la replica di un programma di cucina che faceva decisamente al caso suo. Non gli importava granché di quegli aspiranti chef e delle ricette che proponevano, ma si sforzò comunque di dedicarvi tutta la propria concentrazione, con la speranza che il sonno lo avrebbe colto presto in modo da poter concludere anche quella giornata.
Era talmente assorto e concentrato che ebbe un sussulto quando sentì l'Estate di Vivaldi -la suoneria del proprio cellulare- risuonare in lontananza. Mentre si alzava, diede un'occhiata veloce all'orologio da polso e notò che era da poco passata la mezzanotte, tipico orario in cui ci si scambiava gli auguri di Natale e pensò che forse poteva trattarsi di qualche collega che lo chiamava per quel motivo -se avesse dovuto scommettere, avrebbe puntato tutto su Arthur-, quindi si affrettò a raggiungere l'ingresso dove aveva lasciato il cappotto per recuperare il cellulare nella tasca interna, ma non fece in tempo ad intercettare la chiamata.

Tornando in soggiorno, sbloccò lo schermo per richiamare a propria volta, ma il respiro gli si mozzò in gola quando lesse il nome sulla notifica delle chiamate perse: Domenico Liguori.

L'aveva salvato in rubrica in quel modo freddo, impersonale, nel tentativo di cancellare anche quella traccia di ciò che c'era stato tra loro, ma a dimostrare che avesse fallito c'erano le sue mani che tremavano, insieme al suo cuore.

Con dei movimenti meccanici si portò di nuovo a sedere sul divano e posò il cellulare sul tavolino davanti a sé, su cui fissò gli occhi che già sentiva pizzicare, con buona pace del filetto alla Wellington che stava preparando il concorrente in televisione.

"Forse ha sbagliato numero..."

Mormorò a sé stesso, perché non voleva pensare agli altri motivi per i quali Domenico -'L'ispettore Liguori', si corresse in mente- avrebbe voluto telefonargli in piena notte proprio alla Vigilia di Natale, che per loro era stata ben più di questo.

Quell’ipotesi venne confutata in un attimo, quando le note di Vivaldi ripresero a diffondersi nella stanza, e sullo schermo illuminato comparve nuovamente quel nome.
Questa volta Claudio ebbe modo di reagire e, senza doverci pensare troppo, trascinò l'icona rossa in modo da rifiutare la chiamata.

Era chiaro a questo punto che non si fosse trattato di un caso e che l'altro avesse cercato intenzionalmente un contatto; adesso stava a lui proteggerlo da una scelta sbagliata, metterlo al riparo dalla sofferenza che, inevitabilmente, gli avrebbe causato ancora.

Si ritrovò a doverlo fare una seconda volta, poi una terza ed una quarta, e più andava avanti più la vista gli si appannava, fino a quando si decise a spegnere il cellulare, dando così una conclusione definitiva a quello stallo. Lo faceva per lui.

Chiuse gli occhi, si lasciò cadere sullo schienale del divano, e cominciò a singhiozzare, dilaniato da un dolore straziante che lo squarciava da dentro, ma non c'era nessuno che potesse accorgersi delle sue lacrime e dei suoi lamenti: era circondato da una solitudine opprimente, che lo avvolgeva e stringeva fino a togliergli il fiato, ma in cuor proprio sapeva che fosse giusto così. Non meritava niente di meglio.
   
 
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