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Autore: berettha    29/03/2023    1 recensioni
I ragazzi sopravvissuti alla guerra si ritrovano anni dopo per un gelato sul canale.
La storia di chi è fuggito e di chi invece, imperterrito, continua a tornare.
Genere: Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Mary MacDonald, Remus Lupin
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Altro contesto, Malandrini/I guerra magica
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The Christmas kids were nothing but a gift 
And love is a tower where all of us can live 

You'll change your name, or change your mind 
And leave this fucked up place behind 

But I'll know, I'll know 
I'll know, I'll know 
I'll know, I'll know 
I'll know, I'll know 

 
 
 
West Midlands, Birmingham, 1987 
 
“La Tatcher? Ha vinto la Tatcher?”  
“Evidentemente.”  
Mary finì di mangiare il gelato, che le stava già colando sulle dita. Se le pulì alla gonna di jeans, lasciando lunghe strisce appiccicose sul tessuto. Con una smorfia le osservò sbiadirsi al sole. 
“Ma chi l’ha votata?” Riprese, afferrando i tovagliolini di carta dall’altra parte del tavolo, quelli un po’ plasticosi che non ti pulivano mai veramente.  
Un gabbiano si tuffò a capofitto nel canale, altri gracchiarono sopra le loro teste. 
“Io no, e di questo son certo.” Sbuffò fuori Marian, nascosto dietro al Guardian. “Come mai non ne sei contenta? Dov’è finita la Mary femminista? Una lady al comand-”  
“Proprio perché sono femminista non ne sono contenta!”  
“Calmati tigre.”  
Marian rise mentre Mary gli lanciava un’occhiataccia. Lo stesso gabbiano di poco prima si posò accanto a loro, per asciugarsi le piume al sole. 
Non troppo caldo, né troppo freddo. Ogni anno Mary aspettava gli ultimi giorni di primavera e i primi dell’estate come un orso aspetta di uscire dal letargo: un po’ si sentiva, un’orsa. Una di quelle grosse e rotonde che si vedono nei documentari della BBC, che escono fuori dalla grotta scrollandosi di dosso la neve e il freddo dell’inverno appena passato. 
Mary non aveva una pelliccia, ma una t-shirt con le ciliegie dei suoi colori preferiti. Non andava giù al torrente a pescare i salmoni che risalavano la corrente ma giù al canale dalla La-Pop per mangiarsi il gelato: sempre i soliti due gusti, fragola e pistacchio, tra l'odore del pesce e quello delle macchine.
Con lei, non il vecchio orso a capo del branco ma il mite Marian, che lavorava come pediatra nello studio dove lei invece era segretaria. 
Dopo essersi diplomata l’ultima cosa che avrebbe voluto fare era quel corso di stenografia che invece era sembrato tanto caro alla madre, ma dopo tutto quello che era successo e tutto quello che aveva dovuto vedere era stato come... una boccata d’aria fresca? La normalità, che tanto aveva cercato di evitare da ragazza, alla fine della storia, l’aveva salvata. E soprattutto, le aveva permesso di incontrare Marian. 
All’inizio non era stato facile, le domande sulla sua vita prima del suo ritorno a Birmingham si erano fatte talmente insistenti che aveva pensato di lasciarlo, allontanarsi da lui e cercare una nuova storia dall’altra parte della città: Ma che scuola hai frequentato? Tornavi solo d’estate? Avrai avuto degli amici, Mary! Non mi racconti mai nulla! Ma poi lui si era reso conto che amarla era amare anche tutti i segreti che si portava sulle spalle e con un tacito accordo, avevano deciso che esisteva solo il qui, e l’ora. 
Qualche volta gli concedeva un piccolo scorcio, un a Lily e James sarebbe piaciuto questo ristorante, o ancora, ho letto questo libro, me lo prestò Peter quando eravamo ragazzi, solo per il piacere di vedere gli occhi di Marian sbarrarsi, la bocca socchiudersi in un’innocente espressione di sorpresa che le faceva ridere il cuore. 
“Lily? Chi è Lily?” Chiedeva, quando si sentiva un po’ più coraggioso del solito, oppure ci andava in punta di piedi, avvicinandosi all’obiettivo girandoci un po’ intorno, “Peter, eh? Bei gusti quel ragazzo. Mi puoi ripetere chi è? Non penso di ricordarmi la sua faccia.”  
Qualche avrebbe voluto farlo, davvero. Avrebbe voluto aprirsi anima e corpo e cuore e servirgli la sua vita su un piatto d’argento. Raccontargli di Lils e Marlene, dei pigiama party, della gita in Cornovaglia, della stramba scuola che aveva frequentato per sette anni della sua vita, di come si era sentita estranea il primo anno per poi invece ritrovare quell’alienazione quando d’estate tornava a casa e poi le feste di compleanno al dormitorio, l’importanza che avevano avuto per lei i T.Rex e David Bowie, i colori del Lago Nero quando in febbraio ghiacciava... Ma non poteva, non senza tirare fuori anche i Malandrini. Non senza diseppellire la guerra, il tradimento, il volto di chi aveva condiviso con loro mesi di speranze per poi essere quello che gliele aveva strappate via dalle mani. 
E quello era troppo. 
Sapeva che se qualcosa avesse mai trovato il coraggio di uscir fuori da lei, quello che sarebbe rimasto della sua intera persona non sarebbero stati altro che macerie e resti. 
Sei anni dopo il ricordo di quella notte di Halloween sanguinava ancora, nonostante tutti gli sforzi per suturare la ferita. I punti cadevano, e la pelle si riapriva.  
Succedeva quando vedeva i bambini della scuola elementare prendere l’autobus, e si ritrovava a pensare che Harry ormai avrebbe dovuto avere circa la loro età.  
O come quando Marian aveva invitato a cena un suo tirocinante, un giovane ventunenne dall’accento Londinese: anche noi eravamo così... piccoli? Si era chiesa, osservandone la faccia paffuta e ancora segnata dall’acne. 
“A cosa pensi Mary?”  
Il gabbiano evidentemente si era asciugato abbastanza, perché aveva ripreso il volo assieme ai suoi compagni, aspettando che i ristoranti mettessero fuori la spazzatura con gli avanzi del pranzo. 
“A nulla. All’estate.”  
Marian allungò una mano verso di lei, intrecciando le loro dita. Con la punta del pollice, lo sentiva disegnare cerchi infiniti attorno alle sue nocche. 
“Dici sempre così. Ma li vedo i tuoi occhi, sai? Son molto più lontani.” 
Mary arrossì, abbassando lo sguardo sulle macchie di gelato sulla sua gonna, “Non fare il romantico.”  
“Ma io sono romantico.”  
“Ah! È vero.” Ammise. 
Si scambiarono un bacio appiccicoso e zuccherino da sopra il tavolo, disseminato dai fazzolettini plastificati che Mary aveva ridotto a brandelli senza nemmeno accorgersene. 
“Quindi? Quando viene a trovarti questo tuo amico?” Le chiese, allontanandosi da lei. 
Era l’unica persona del prima con cui avesse ancora un qualche rapporto: qualche lettera occasionale, una cartolina ogni tanto... Insegnava, lui, ma non aveva mai un posto fisso.  
Seguiva il vento, o meglio, i posti vacanti. Capitava che una professoressa di letteratura prendesse lo streptococco, ed eccolo entrare in azione. 
Mary non sapeva dire se amasse o meno il suo lavoro, non con la sezione 28 che gli gravava sulle spalle e il suo passato da studente ribelle, ma ci sarebbe stato sicuramente il modo di scoprirlo: presto sarebbe venuto a Birmingham. 
Nella lettera che gli aveva mandato una settimana prima si parlava di una cattedra vacante in una scuola media in centro, e la speranza di potersi incontrare. 
Ovviamente Mary ne era stata entusiasta, ma la felicità era andava a scemare man mano che la data dell’incontro si avvicinava e al suo posto si stava addentrando dentro di lei la paura di dover aprire dei cassetti all’interno della sua memoria che forse era meglio restassero chiusi. 
“Dopodomani.” Rispose a Marian, rosicchiandosi l’unghia del pollice. 
“Come hai detto che si chiama?”  
“Remus. Remus Lupin.”  
 
Scotland, Perth, 1987 
 
Remus affondò le mani in tasca, alla disperata ricerca di un fazzoletto. 
Una leggera pioggia cadeva sulla stazione e tutto attorno, tanto lieve da potersi vedere solo sotto la luce dei lampioni ma abbastanza persistente da avergli inzuppato completamente scarpe e giaccone. 
L’ennesimo starnuto. 
Sentì qualcuno che accanto a lui si muoveva a disagio, il rumore delle sue scarpe che si allontanavano: saranno state le cicatrici o la paura di beccarsi l’influenza? 
Il treno per Birminghman arrivò alla stazione in ritardo di una decina di minuti, e Remus si lasciò finalmente cadere sui suoi sedili sospirando di sollievo. 
“Biglietto, prego.” Una donna rubiconda e tondeggiante si avvicinò al suo scompartimento, la camicia tanto stretta sul petto che i bottoni sembrano poter saltar via da un momento all’altro. 
“Ecco, signora.” Remus sorrise, senza venir ricambiato. 
Dietro quei nuvoloni che coprivano il cielo una luna crescente più arrabbiata del solito aveva posato gli occhi su di lui, ne sentiva lo sguardo bruciare sulle ossa, tirare i suoi muscoli, annodargli le viscere... il lupo cresceva, al contrario di Remus che si sentiva sembra più piccolo, fino a scomparire con l’arrivo della luna piena. 
Un uomo si sedette di fronte a lui, costringendolo a ritirare le lunghe gambe che aveva disteso di fronte a sé contro al suo corpo.  
Lui sorrise, al contrario della controllora. E sorrise anche Remus suo malgrado. 
“Glasgow?” Si ritrovò a chiedere. L’uomo lo guardò con la coda dell’occhio, mentre tirava fuori un pacchetto di sigarette dai pantaloni della tuta.  
“Mh mh.” Annuì, portandosene una alla bocca. Il sorriso era andato scemando, ma ancora se ne poteva scorgere l’ombra sulle labbra. Questo fece sentire Remus stranamente a suo agio. “Si sente dall’accento, vero?”  
“La maglia.” Con un cenno del volto portò l’attenzione alla t-shirt dei Celtic che portava l’uomo, “Mia madre era di Glasgow. Ci passavo le vacanze estive.”  “Città terribile, eh?”  
“Già.”  
Lo osservò rigirarsi la sigaretta fra le labbra, scoprire i denti macchiati. “Torni a casa?” 
“No.” Remus lanciò un’occhiata alla sua destra, verso il resto del vagone: le luci al neon brillavano su una lunga fila sedili stranamente vuoti. “Scendo a Birminghman.”  
Allungò nuovamente le gambe, e l’uomo davanti a lui aprì le sue, accogliendo Remus nel suo spazio.  
“Vacanza?”  
“Lavoro.”  
L’uomo allungò anche lui una gamba, sfiorandogli il polpaccio con la punta della scarpa da ginnastica. 
“Mi chiamo Arran, comunque.” 
“Remus.”  
“Particolare.”  
Prima c’era stato il letto di Noah, un ragazzo che frequentava la facoltà di legge di Londra, che apriva gli scuri alle sette del mattino e gli parlava del diritto delle assicurazioni marittime quando Remus avrebbe solamente voluto una tazza di caffè. 
Poi quello di Emma, che non era altro che un materasso in uno squat giù a Camden Town, ed era stata lei a dirgli per la prima volta che la sua intelligenza era sprecata per quel mondo.  
Fu lei a buttarlo nel mondo delle sostituzioni, aiutandolo con gli esami per adibirlo all’insegnamento ed inviando i suoi curriculum alle scuole del circondario.  
All’amore aveva smesso di crederci da tempo, ma quello che aveva avuto con lei probabilmente si avvicinava abbastanza.  
Nonostante ciò, ricordava ancora il sollievo di Mary quando l’aveva chiamata da una cabina telefonica di Dundee, per comunicarle che la distanza non aveva fatto bene alla loro relazione e che si era conclusa con una furiosa litigata al telefono. 
“Beh, dovresti trovare qualcuno di serio, Rem. Qualcuno che si prenda davvero cura di te, del vostro futuro, non che viva in un’occupazione.”  
Ce lo avevo, avrebbe voluto risponderle, ma guarda come è finita. 
Invece si era morso la lingua, immaginando il dolore nel suo volto se avesse avuto il coraggio di nominarlo.  
Si era reso conto di come evitasse accuratamente l’argomento prima, nelle sue missive e quelle rare volte in cui poteva permettersi di radunare qualche spiccio per chiamarla. Prima, prima, prima, prima che la loro vita fosse completamente tolta a forza dai cardini che la reggeva per esser poi gettata via alla rinfusa.  
Prima, quando tutto il loro mondo era la torre dei Grifondoro e i giardini che circondavano il castello. 
Non che per Remus fosse diverso: meno si parlava di lui, più si sentiva in pace. Aveva letto su di un manuale di psicologia che il cervello riusciva a cacciare via i ricordi più dolorosi, nascondendoli alla persona e il suo personale modo di andare avanti era fare finta che la sua coscienza avesse lavorato in quello stesso modo. 
Sirius Black? Mai sentito.  
La notte di Halloween di sei anni fa? Un tragico incidente. 
Ma per quanto si sforzasse se la radio mandava in onda Starman, lui cambiava stazione, e se a sorridergli in un pub era un ragazzo coi capelli lunghi e scuri, Remus abbassava svelto lo sguardo. 
Arran era biondo, i capelli li aveva rasati e gli occhi erano di un azzurro slavato, impossibili da scambiarli con quelli grigi che aveva il maggiore dei Black. 
“Hai una stanza? A Birminghman?” Gli chiese. 
Remus annuì. 
Quella notte, per lo meno, non avrebbe dormito da solo. 
 
West Midlands, Birmingham, 1987 
 
Mary affondò il viso nel maglione dell’amico, pungendosi la guancia con la lana ruvida. Solo Remus poteva portare un capo del genere alle porte dell’estate. 
Qualche cicatrice in più sul viso, qualche capello grigio che cominciava a spuntargli sulle basette, ma era sempre Remus. 
Remus il più alto del suo anno, che la sovrastava di trenta centimetri buoni, Remus con le occhiaie e la giacca rattoppata. 
Remus, Remus, Remus.  
“Beh? Come è andato il viaggio?” Gli chiese, sollevando il viso verso il suo, “Sono parecchie ore, ti sarai annoiato un sacco. Io odio viaggiare in treno.”  
Lo osservò arrossire, stringerla nuovamente in un nuovo abbraccio prima di rispondere, “Oh tranquilla. Ho trovato da passare il tempo.”  
“O hai trovato con chi passare il tempo?”  
Mary.”  
Appena lo aveva visto, in piedi di fronte al La-Pop con tutta l’ingenuo disagio che ancora lo distingueva fin dai primi tempi di scuola, ogni preoccupazione che l’aveva assillata i giorni precedenti si era dissolta in una nuvola di vapore. 
Nulla era rimasto, se non il suo Remus. E il vuoto che si era portata appresso in quei sei anni sembrava essersi un po’ ristretto, occupato nuovamente dalla persona che era stato uno dei suoi migliori amici per quasi metà della sua vita. 
Davanti ad un gelato si aggiornarono su tutto quello che avevano mancato di raccontarsi per posta, l’appartamento che Mary aveva intenzione di comprare con Marian, quella donna anziana che chiedeva di essere visitata quasi ogni giorno saltando la fila, sua mamma che pretendeva un matrimonio vecchio stile. 
“Non ti pare esagerato? Sono quasi gli anni Novanta.” 
Remus invece l’ascoltava, rigirandosi la palettina di plastica tra le mani, mordicchiandone i bordi. 
“Pistacchio e fragola.” Disse dopo poco, accennando un sorriso. Indicò il gelato di Mary, ancora quasi intatto dopo aver parlato così tanto. “Come quello di Hogwarts. Ricordi? Il venerdì quando iniziava il caldo c’era il gelato, per dessert.”  
Mary abbassò lo sguardo sulla piccola coppetta che stringeva tra le mani. Pistacchio e fragola. Come aveva fatto a dimenticarsene? Come aveva fatto a scordarsi di Marlene che le rubava sempre qualche cucchiaiata dal bicchiere?  
“Non dovevo dirlo, vero?” Remus la squadrò preoccupato, corrucciando le sopracciglia, “Ti è passata una nuvola sul volto.”  
“No, no,” Mary si bloccò, le parole che inciampavano l’una sull’altra nella sua gola, incapaci di venire fuori, “E’ che- me lo ero scordata. Non parlo mai di... Hogwarts... e-”  
Sospirò, spingendo verso Remus il gelato. “Sto iniziando a dimenticare.” 
Era Lily che aveva le lentiggini sul naso? O Dorcas?  
“Forse dovresti parlarne, qualche volta. Tenere vivo il ricordo dell’affetto.”  
“Oh, no. No, no, no. Non posso. È finito tutto, non c’è motivo di piangersi addosso sul passato.” 
Remus continuava a guardarla, e Mary non poteva sopportarlo quello sguardo pieno di tristezza. Ce le aveva avute Lily le lentiggini? O era Peter? No. Marlene. Petrer. Dorcas.  
Non ci pensare. Non ci pensare. 
“Sei mai stata a Godric’s Hollow? Da Lily e James?”  
“No.” Ammise, vergognandosi, “Non posso, Rem.”  
Ci aveva provato, prima di tornare a Birmingham con la coda tra le gambe e il cuore spezzato. Ma poi aveva intravisto la lapide dai cancelli del cimitero, la terra ancora smossa tutta attorno, una singola corona di fiori e... 
Se ne era andata. 
Si era stretta nella giacca, chiedendo scusa ai suoi amici e se ne era andata. 
Non si era voltata indietro nemmeno una volta, perché se l’avesse fatto, sarebbe andata in pezzi. E non poteva permetterselo. 
Si continuava a sopravvivere, come aveva sempre fatto. 
Ingoia il rospo, Mary MacDonald, e sii forte. 
Remus le prese le mani tra le sue, stringendole appena. Mani ruvide, piene di cicatrici, con le unghie mangiate fino alla carne viva. 
“Pensavo si stesse innamorando di qualcun altro.” Le disse, la voce ridotta ad un sussurro. La guardava, ma i suoi occhi erano distanti anni luce e ci volle qualche secondo per capire di chi stesse guardando.  
“Pensavo che non avesse modo di lasciarmi, con tutto quello che stava succedendo. Pensavo che semplicemente un giorno sarei tornato a casa e- I suoi vestiti sarebbero scomparsi dall’armadio semplicemente e-”  
“Oh, Rem.”  
“E se ne è andato. Ma non con qualcun altro. Se ne è andato col nemico, Mary. Stava tramando contro di noi e io pensavo che stesse semplicemente uscendo con qualcun altro senza avere il coraggio di dirmelo.  
E sai qual è la cosa peggiore, Mary? È che se tornasse domani chiedendo scusa, io lo perdonerei.” 
Remus era un fiume in piena. La diga era straripata, e l’acqua scrosciava contro di lei togliendole il respiro.  
“Lo perdonerei, Mary. James deve odiarmi così tanto.” 
“Non dirlo, Remus. James non ti odierebbe mai. Probabilmente non odia nemmeno Sirius...”  
Remus soffocò una risata, “No. Non lo odia. James era incapace fisicamente di provare odio.”  
“Lo so.”  
Rimasero lì, con gli occhi annbbiati e le mani che tremavano, strette le une nelle altre, cercando un’ancora che non riuscivano a trovare da nessuna parte. 
Il sole tramontava alle loro spalle, spegnendosi nel canale. 
“Lo avrebbe perdonato.” Mormorò Remus, probabilmente più a sé stesso che a Mary, “Ci avrebbe perdonati tutti.”  
 
 

 

 

 

   
 
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