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Autore: Losiliel    31/03/2023    0 recensioni
Morifinwë Carnistir Fëanárion, giovane nipote del re dei Noldor, vive in un meraviglioso palazzo nella splendente città di Tirion, in una terra benedetta da ogni ricchezza, circondato da una famiglia unita e numerosa. La sua vita sembra perfetta sotto ogni aspetto.
Peccato che lui non la pensi affatto così.
.
[ Caranthir-centrico | coming of age | vita dei Noldor in Aman | Anni degli Alberi ]
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Caranthir, Fëanor, Figli di Fëanor, Nerdanel, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Los Tales'
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15

Lezioni di ballo

(o quando non puoi fare a meno di trovare nuovi modi per renderti ridicolo)


 

Morifinwë era ancora sul viale d’accesso della fattoria quando alle sue orecchie giunse il suono allegro dei flauti e quello delle arpe che li accompagnavano. Quando bussò alla porta principale e nessuno venne ad aprirgli, girò attorno alla casa per accedere al piazzale sul retro e scoprire che i racconti di Lissi riguardo ai festeggiamenti della Meren Tulusto erano a dir poco sotto dimensionati.

Sembrava che tutta la Piana Dorata si fosse radunata a festeggiare alla fattoria di Rowen. Una folla eterogenea occupava ogni spazio disponibile del piazzale, dalla casa al fienile, dalla vigna al prato. Adulti, bambini, ragazzini di ogni età, alcuni vestiti con gli abiti semplici tipici della Piana, altri con abiti dai colori vivaci e dalle fogge inconsuete, facevano del loro meglio per godersi la festa più attesa dell’anno.

Su tutto il cortile era teso un enorme telone blu scuro, che oscurava il riverbero argentato delle notti Amaniane quasi completamente, tranne nei punti in cui era stato forato da piccoli buchi circolari per simulare il cielo stellato. La versione campagnola di ciò che a palazzo facevano con le ampolle di rugiada.

La musica proveniva dal lato ovest, quello che dava sui pascoli, dove era stato eretto un piccolo palco. Un’orchestra di cinque o sei elementi si stava esibendo in quel momento e, poco distante, altri aspettavano il loro turno con in mano gli strumenti. Appena sotto al palco partiva la pista da ballo, che si protendeva fino nel centro del piazzale: una pedana di legno scuro, levigata da anni e anni di passi di danza, ora affollata di gente che si scatenava sulle note di un brano particolarmente vivace.

Sotto il porticato del fienile tavoli carichi di cibo e di bevande si intravedevano appena, nascosti dalla massa di ospiti che si serviva con l’entusiasmo di chi non mangia da giorni. I tavolini disposti lungo il lato prospiciente alla vigna erano l’ambita meta di coloro che, agguantato il più possibile da mangiare e da bere, intendevano godersi la festa nel tranquillo ruolo di spettatori.

Sul lato sud, quello delimitato dai muri della casa, erano state allestite postazioni di gioco alle quali si accalcavano i più piccoli per sfidarsi a gare di tiro al bersaglio o di abilità di altro genere. In palio c’erano le tradizionali statuette di legno che raffiguravano i mostri del passato, destinate a essere bruciate prima della fine della festa. Ed ecco, infatti, poco distanti, i due cerchi di pietra nei quali era accumulata la legna per i falò che si sarebbero accesi allo scoccare della terza ora.

Morifinwë si fece largo tra la folla, con le orecchie che rimbombavano di musica, di voci e di risate, alla ricerca di qualche faccia nota.

Non passò molto che sentì la voce di Rowen innalzarsi sul frastuono.

– Moryo!

Lui fece appena in tempo a voltarsi nella sua direzione, che la moglie del maestro lo catturò in un abbraccio stritolante. Un’impresa non da poco, considerato il suo ingombrante pancione e il bicchiere che teneva in mano.

– Sono felice che tu ce l’abbia fatta! – esclamò Rowen, ma appena l’ebbe guardato bene in faccia spalancò gli occhi ed esclamò: – Eru santissimo, cosa ti è successo?

Morifinwë si ricordò solo in quel momento del taglio sul sopracciglio e del presumibile occhio nero e balbettò: – Ah, questo… non è niente. Sono andato a sbattere contro una porta.

Rowen lo guardò sospettosa, ma non fece in tempo a dir nulla perché proprio in quel momento sopraggiunse Káino a trascinarlo via.

L’amico lo condusse all’assalto del tavolo delle vivande, da cui riemersero con un piatto stracolmo di ogni prelibatezza, poi lo accompagnò sotto i tralci di vite, in un angolo nascosto dove altri ragazzi e ragazze della loro età avevano steso una coperta e radunato viveri che sembravano dover bastare per un anno intero.

Dopo essersi saziati a sufficienza e dopo che Morifinwë ebbe raccontato con dovizia di particolari – ma sorvolando sul motivo scatenante – la sua rissa a palazzo, Káino non volle sentir ragioni e se lo tirò dietro sulla pista da ballo. La danza non era in cima alla lista delle attività preferite di Morifinwë – implicava trovarsi troppo al centro dell’attenzione per i suoi gusti – ma in quella confusione presto si accorse che nessuno avrebbe fatto caso a lui, e che a fianco di Káino, che evidentemente non era stato costretto a prendere lezioni di ballo come parte della sua educazione di base, non era certo lui quello che rischiava di fare brutte figure.

Ciononostante, appena notò Arsanarwë che cercava di richiamare la sua attenzione dalla zona dei tavolini, ne approfittò per lasciare lo scatenato gruppo di giovani.

Il maestro stava parlando con un uomo dalla corporatura abbondante quasi quanto la sua, che teneva in mano un bicchiere di vino e che, a giudicare dagli occhi lucidi e dal rossore sulle guance, ne aveva già bevuti parecchi.

– Morifinwë! Che bella sorpresa – esclamò Arsanarwë quando fu a portata di voce.

– Sei uno dei figli del principe Fëanáro? – chiese l’uomo col bicchiere, in tono leggermente strascicato.

– Si, signore – confermò lui. Il suo nome, quando pronunciato per intero, non gli lasciava la possibilità dell’anonimato. – Sono un allievo del maestro Arsanarwë – aggiunse, per giustificare la sua presenza alla festa.

– Ah, il nostro Arsanarwë, qui – esclamò l’uomo, battendo con vigore una mano sulla spalla del maestro, – sta portando avanti un progetto importante.

Morifinwë ci mise un istante a capire di cosa stesse parlando: – Si riferisce alla nuova scuola? – azzardò.

– Sono così pochi i maestri disposti a insegnare fuori dalla città – confermò l’altro con entusiasmo, – ma per fortuna adesso i nostri ragazzi non dovranno più andare fino a Tirion per studiare.

Prese un generoso sorso di vino e continuò: – E questo è solo il primo passo. Lo vedi quell’uomo laggiù? – Morifinwë cercò di individuare a chi si riferiva, tra la folla, mentre schivava le gocce che traboccavano dal bicchiere del suo interlocutore. – È un guaritore. Ha aperto una piccola casa di guarigione presso la fattoria qui vicino… così la prossima volta che qualcuno si romperà un osso cadendo da cavallo non gli toccherà farsi trasportare su fino in città.

Morifinwë cominciò rimpiangere di aver lasciato la pista da ballo; se quell’uomo aveva la stessa indole del maestro sarebbe stato capace di tirare avanti per ore col suo monologo.

– Devi assolutamente ringraziare tuo padre da parte nostra.

– Mio padre? – Morifinwë riportò di colpo tutta la sua attenzione sull’uomo troppo loquace.

– È grazie a lui se tutto questo è stato possibile! – esclamò l’altro. – Ha sostenuto fin da subito le nostre richieste, e l’ha dimostrato incoraggiando Arsanarwë a fare la sua scelta. Il principe Fëanáro è un uomo dalla vista lunga.

E dai propositi molteplici, pensò Morifinwë.

– Lo farò sicuramente – disse ad alta voce, e cercò disperatamente qualcosa da aggiungere.

La voce di Lissi che lo reclamava fu la sua occasione per la fuga.

– Perdonatemi, devo andare – si scusò, – mi stanno chiamando.

– Ma certo, divertiti ragazzo! – disse Arsanarwë e, prima che il suo compagno potesse ripartire col suo panegirico, lo prese sottobraccio e lo condusse verso i tavoli dove erano attesi dai loro amici.

Lissi era chiaramente indispettita dall’essere stata tenuta all’oscuro della presenza di Morifinwë, così quando riuscì finalmente ad appropriarsi della sua mano gliela fece pagare facendosi accompagnare a una delle postazioni dei giochi di abilità, puntando il dito verso il premio più ambito, una specie di orso di legno con aculei sulle spalle grosso quanto un gattino, e ordinandogli in tono perentorio: “vinci quello, Moryo!”. Poi lo stette a guardare mentre lui, obbediente, cercava di centrare bersagli in movimento con palline di stoffa pressata. Fortuna che aveva una buona mira, o ci sarebbe rimasto tutta la sera.

Quando gli venne consegnato il premio, per poco non si ferì le dita tanto erano aguzzi gli aculei che uscivano dalla schiena dello strano animale. Esitò prima di consegnarlo alla piccola.

– Attenta che punge – la avvertì.

Lissi, con un sorriso che accecava, glielo sfilò di mano afferrandolo sapientemente per una zampa. – Certo che punge, ma quando bruceranno, queste spine manderanno scintille su fino al cielo!

Morifinwë stava per obiettare che barattare il rischio di ferirsi con le migliori scintille della festa forse non era uno scambio favorevole, ma poi si rese conto che solo un adulto avrebbe detto una cosa del genere e rise di sé stesso, contagiato dall’entusiasmo della piccola.

Sorvolando la folla con lo sguardo per rintracciare Káino, si accorse che non era ancora riuscito a incontrare Elle e si chiese se non fosse rimasta a festeggiare la Meren Tulusto con la sorella.

Lo domandò a Káino quando riuscì a raggiungerlo insieme a Lissi e al suo mostro pungidita.

– No, è rientrata ieri – disse Káino, mentre agitava una mano in direzione di una coppia di amici sulla pista da ballo, pronto a tornare nella mischia. – È che a Elle non piace molto la confusione.

– Lei non festeggia mai l’Arrivo – si intromise Lissi, poi si illuminò tutta ed esclamò: – Ma forse, se glielo chiede Moryo, cambia idea!

– Impossibile – tagliò corto Káino, – andiamo, Moryo.

– Se vuoi ti dico dove puoi trovarla – insistette la piccola, e senza attendere una risposta gli spiegò come raggiungere la sua camera.

Morifinwë si finse poco interessato, ma appena riuscì a svignarsela dal controllo dei due fratelli si intrufolò in casa. Trovò le scale per accedere al primo piano e arrivò senza intoppi alla porta indicata dalla bambina.

La trovò socchiusa.

Sbirciò dentro, ma la camera era immersa nell’oscurità e dal pertugio tra la porta e lo stipite si riusciva a intravedere ben poco. Rimase fermo nel corridoio silenzioso, mentre il desiderio di bussare e quello di andarsene lottavano dentro di lui.

Una voce roca proveniente dall’interno sbloccò la situazione: – O dentro o fuori, ragazzino.

Morifinwë osò spingere la porta e fare un passo nella stanza. Alla luce che entrava dal corridoio alle sue spalle riuscì a individuare la sagoma di Elle, seduta a gambe incrociate su un letto, e poco altro.

A quanto pareva, invece, lei ci vedeva benissimo perché chiese allarmata: – Cos’hai fatto all’occhio?

– Sono andato a sbattere contro una porta – rispose lui, sperando che la bugia la convincesse a lasciar perdere. Ovviamente non funzionò.

– Fammi vedere – disse Elle, alzandosi, e lo invitò a entrare con un cenno della mano.

– Vedere? – ribatté lui, – è una parola, qui dentro.

La donna sbuffò. – Non si può temere il buio, in una notte come questa – disse, – tra poco tutto il male del mondo verrà spazzato via dalla luce.

A Morifinwë sembrò di percepire una nota ironica nelle sue parole, che sparì del tutto quando lei aggiunse, con gentilezza: – Apri pure le tende.

Morifinwë avanzò con cautela fino alla finestra e scostò i pesanti tendaggi scuri. Lo investì la luce argentea della notte e la musica che fino a quel momento la spessa stoffa aveva smorzato: la camera dava infatti sul cortile della festa. Quando tornò a voltarsi, vide un ambiente più grande di quanto si era aspettato, ma spoglio e disadorno. Un armadio di modeste dimensioni, il letto su cui era stata seduta Elle e un tavolo erano gli unici arredi. Un quadro appeso sopra il letto ritraeva, con tratti semplici e colori sbiaditi, un grande fiume sotto un cielo punteggiato di stelle, barche e palafitte sulle sue acque.

Elle gli si avvicinò col suo muoversi preciso e silenzioso. Al posto del solito vestito, indossava pantaloni larghi e una camicia che si incrociava sul davanti, chiusa da lacci che facevano più volte il giro della vita. Il suo volto, incorniciato dalla pettinatura rigorosa, mostrava la consueta, quieta impassibilità. La donna osservò con attenzione l’occhio di Morifinwë e gli toccò delicatamente prima il sopracciglio, poi lo zigomo.

– Doveva avere un bel destro, quella porta – commentò. E dopo un attimo aggiunse: – Ti va di dirmi la verità?

Morifinwë pensò di insistere con la sua bugia, oppure di inventarsene una più efficace, ma per qualche incomprensibile motivo mentire a quella donna gli risultava impossibile.

– Ho fatto a botte – ammise, e alzò il mento di scatto, per affrontare a testa alta qualsiasi commento ne sarebbe derivato.

Elle si limitò a sollevare le sopracciglia. – È per questo che hai abbandonato i fasti del palazzo?

Morifinwë scrollò le spalle, lieto del cambio d’argomento.

– Non è male neanche qui – disse, e poi in un lampo d’ispirazione, aggiunse: – Perché non scendi a vedere?

– Non mi trovo bene con la gente – rispose lei, come se quello potesse chiudere il discorso.

Considerato che, con tutta Valinor disponibile, Elle aveva scelto di abitare in una fattoria dove vivevano almeno altre venti persone con le quali aveva, apparentemente, un ottimo rapporto, la scusa era a dir poco debole.

Morifinwë raccolse il suo coraggio e la provocò con le sue stesse parole: – Ti va di dirmi la verità?

Lei gli voltò le spalle e andò ad aprire l’armadio. – Ragazzino, la tua impertinenza finirà per procurarti dei guai – disse. Tornò con una boccetta di unguento e gli fece segno di spalmarselo sotto l’occhio.

– Aiuta a far sparire il livido e il gonfiore – spiegò, porgendoglielo.

Morifinwë fece come gli veniva detto. La pomata gli diede subito un leggero sollievo che lo distolse per un attimo dai suoi propositi. Ma quando lei andò a riporre la boccetta, lui tornò all’attacco: – Allora?

Elle richiuse le ante, e per un lungo momento non fece altro che tenerci le mani appoggiate sopra. Quando tornò a voltarsi verso di lui, Morifinwë si pentì all’istante di aver insistito.

Una ruga verticale tra le sopracciglia incrinava l’impassibilità del suo volto, e le palpebre abbassate riuscivano a malapena a nascondere un luccichio sospetto nei suoi occhi. Chiaramente, qualsiasi fosse il motivo per cui se ne stava rintanata al buio in camera sua durante una delle feste più attese dell’anno, era qualcosa che la faceva soffrire.

Morifinwë cercò un modo per rimediare al suo errore, ma si trovò del tutto impreparato davanti a quell’inaspettata dimostrazione di fragilità.

Elle tirò giù la manica della camicia fino a coprire per bene il bracciale che aveva al polso, un gesto che aveva tutta l’aria di essere inconsapevole, e parlò con voce così bassa che rischiò di confondersi con la musica che entrava dalla finestra.

– Questa festa mi ricorda le persone che ho perso.

Ripose le mani lungo i fianchi, tornò ad assumere un’espressione neutra e aggiunse a voce più alta: – Non ho bisogno di una giornata che mi ricordi chi ho perso, me lo ricordo già da sola a ogni rifiorire di Laurelin. Tutti i giorni che Eru fa cominciare in questa… benedetta terra annegata nella luce perpetua.

Morifinwë colse l’esitazione davanti all’aggettivo più usato per definire la sua terra natia e, improvvise, gli tornarono in mente le parole del nonno sulle persone lasciate lungo la via, e l’espressione addolorata di Finwë quando le aveva pronunciate, quel lontano giorno. Gli sovvennero domande che non si era mai posto: quanto poteva essere complicato adattarsi a una vita completamente diversa da quella a cui si era abituati? Quanto poteva essere difficile superare la perdita dei propri cari? Se l’avessero chiesto a lui, avrebbe risposto senza esitare: impossibile.

– Il mio compito era difenderli. Ho fallito – disse lei, seguendo, senza saperlo, la direzione che avevano preso i suoi pensieri.

E allora Morifinwë si rese conto che si trovava davanti a qualcosa di profondamente ingiusto. Ingiusto come nessun’altra ingiustizia in cui si era imbattuto da quando era nato. Più ingiusto del fatto che suo padre non lo degnava di alcuna considerazione, più ingiusto del fatto che lui veniva trattato diversamente dai suoi fratelli, più ingiusto di essere nato mediocre in una famiglia di eccellenze.

Elle aveva vissuto una vita di fatica e di sofferenze, dedicata a proteggere gli altri: era la persona che più si meritava al mondo un po’ di felicità. Eppure non riusciva a trovarla.

Pensò di nuovo al nonno, che aveva condotto il suo popolo fuori dall’oscurità e che ora lo governava dalla risplendente Tirion. Pensò che anche lui doveva aver patito tanti dolori, eppure adesso viveva felice in un grande palazzo contornato da figli e nipoti che lo amavano. Gli era stato persino concesso di formare una nuova famiglia quando la prima moglie aveva rinunciato alla vita.

Perché Elle non poteva essere felice?

Strinse i pugni, unghie conficcate nei palmi, ancora una volta incapace di reagire a quella sensazione di impotenza che ben conosceva, quella che lo assaliva quando non poteva far andare le cose come voleva lui. Era disarmato. Era costretto in un corpo troppo piccolo, imprigionato in una mente troppo limitata. Di certo Tyelkormo sarebbe riuscito a rallegrare Elle con le sue battute. Di certo Russandol sarebbe stato capace di confortarla con sagge parole. Makalaurë avrebbe lenito le sue sofferenze con la musica…

– Ragazzino – disse la donna, interrompendo il flusso dei suoi pensieri, – non volevo turbarti. Sono sicura che la festa è molto divertente, è solo che non fa per me.

– Perché no? – saltò su lui, deciso a fare del suo meglio pur sapendo di non essere all’altezza dei suoi fratelli. – Invece è proprio per te, tutto questo! Non capisci? I mostri che fuggono stanotte sono quelli che vi sono rimasti attaccati addosso. Questa festa è per te, è per voi Nati all’Est, che avete il diritto, più di tutti gli altri, di vivere nella gioia.

Elle scosse la testa: – Magari fosse così semplice.

Morifinwë non riuscì a fermarsi: – Tu sei forte, sei gentile, sei coraggiosa… nessuno più di te merita la felicità.

– Moryo. Basta.

Un ordine secco, che lo fece indietreggiare di un passo, come colpito da una forza invisibile. Gli si oppose con tutta la nuova determinazione che gli bruciava dentro. Raddrizzò le spalle e si piantò le mani sui fianchi. Dichiarò: – Non intendo andarmene da questa stanza senza di te.

– Sei la persona più testarda che abbia mai conosciuto! – esclamò Elle, alzando gli occhi al soffitto. Rimase così per un lungo momento, come se potesse trovare incisa sulle travi la ricetta per liberarsi di un ragazzino fastidioso. Alla fine disse: – E comunque, non saprei neanche cosa fare.

Morifinwë seppe di essere a un passo dalla vittoria e si sforzò di tenere sotto controllo il sorriso che minacciava di sfuggirgli. Allungò una mano in direzione della finestra e di tutto ciò che li attendeva là fuori: – Non hai che l’imbarazzo della scelta – la esortò, – ci sono giochi, cibo strepitoso, vino a fiumi… ma direi che l’attività che va per la maggiore è il ballo.

Elle si aggrappò a quell’ultimo appiglio: – Non so ballare – disse.

– A questo posso rimediare io – propose Morifinwë e, senza pensarci due volte, spostò il tavolo contro la parete. Poi si mise di fronte a Elle e fece un profondo inchino.

– Stai scherzando? – disse lei.

– Avanti – la invitò lui, porgendole la mano.

– Ma neanche per sogno – Elle incrociò le braccia sul petto.

– Allora ti sfido! – declamò Morifinwë, in tono solenne. – Mia signora, grande Cacciatrice, che vede al buio, che non dorme mai, che salta sui cavalli al galoppo e identifica un pericolo a mille leghe di distanza. Ti sfido a imparare quattro passi di danza da un ragazzino petulante che ha l’unico merito di essersi appena preso un pugno in faccia.

Elle scoppiò a ridere: – Per tutte le stelle del cielo, so che me ne pentirò.

E stava per dire qualcos’altro, senza dubbio una nuova obiezione, quando Morifinwë si portò un dito alle labbra per chiedere il silenzio. La musica si riappropriò della stanza e lui ne riconobbe il ritmo.

– Questa è facile – le disse, con entusiasmo.

Era un ballo con mosse codificate, in cui i partecipanti stavano uno di fianco all’altro, allineati in file. Lui soppresse la voce dentro di sé che gli stava urlando di smettere di rendersi ridicolo, contò il tempo delle battute, e cominciò la danza in modo speculare, perché lei potesse imparare più facilmente.

Elle non era fatta per ballare. Lei calibrava ogni movimento con precisione assoluta, non faceva un gesto che potesse consumare più energia del dovuto, esattamente l’inverso di ciò che era richiesto da quel tipo di balli, pensati proprio per dare libero sfogo all’energia. Ma allo stesso tempo, il controllo totale che aveva del suo corpo le permetteva di imparare i passi che Morifinwë le mostrava senza sbavature, e senza che fosse necessario ripeterglieli due volte.

Il ritmo si fece più vivace. Morifinwë, che ballava al contrario, inciampò nei suoi passi e lei lo imitò, enfatizzando il gesto. Lui sogghignò e continuò a sbagliare di proposito, e lei ad andare dietro ai suoi finti errori. Si inventarono a turno nuove mosse sempre più assurde e ben presto si trovarono a ridere insieme, mentre la musica aumentava il ritmo prima del gran finale.

Quando la canzone terminò, loro stavano ancora ridendo, e per poco non persero l’inizio del brano successivo.

– Questa è ancora più semplice – disse Morifinwë, cercando di ricomporsi, – non devi fare altro che lasciarti portare dal tuo compagno.

E prima di rendersi conto che il compagno in questione era lui, le prese una mano e se la appoggiò sulla spalla, le afferrò l’altra e le cinse il fianco. Poi la guidò nella danza.

O per lo meno ci provò. Perché eseguiti pochi passi Morifinwë cominciò a sentire la testa che gli girava. Forse era per quel poco vino che gli avevano fatto assaggiare i ragazzi, o per il ballo che richiedeva parecchie giravolte, o per le conseguenze del pugno che si era preso.

O forse non era la testa a girargli, ma gli strani pensieri che avevano cominciato a vorticare al suo interno: quella sera aveva fatto a botte nel Palazzo Reale e ora stava ballando con una donna molto più grande di lui, da solo nella sua stanza. Si sentì un vero ribelle. Si chiese cosa avrebbe fatto Tyelkormo, alla sua età, al posto suo, e solo allora si accorse che, nell’impeto della danza, aveva stretto la presa e adesso i loro corpi erano molto, molto più vicini di prima. Gli occhi di Morifinwë erano esattamente in linea con la gola di lei, bastava un niente per scendere con lo sguardo fino allo scollo della camicia.

Proprio in quel momento, Elle si fermò e fece un mezzo passo indietro, ripristinando la distanza tra loro.

– Va bene, va bene, penso di aver capito! – la sua voce roca era animata di allegria. – Sarà meglio scendere, ora, altrimenti ci perderemo tutta la festa.

Morifinwë aveva ancora una mano sul suo fianco e l’altra che le teneva le dita. Per un attimo pensò che non ci sarebbe stato un altro posto in tutta Arda dove avrebbe voluto essere tranne quello. C’era davvero una festa là fuori? Non se lo ricordava.

Alzò la testa per guardarla in viso e le cose peggiorarono. Gli occhi di Elle scintillavano sotto le ciglia scure e una treccia le ricadeva sulla spalla, sfuggita dalla sua acconciatura a corona. Sorrideva. E non si trattava di un angolo della bocca che si piegava ironico verso l’alto, ma di un sorriso pieno, completo di labbra dischiuse, dente scheggiato e gioia repressa.

Morifinwë cercò di pescare due parole di senso compiuto dal brodo in cui si era trasformato il suo cervello e l’impresa si rivelò impossibile.

Lei scivolò via dalle sue braccia e fece un altro passo indietro, apparentemente ignara del tumulto che lo squassava. Attendeva una risposta. Era meglio dargliela prima che si accorgesse che il suo cavaliere era vittima di un attacco di… cosa? Afasia improvvisa? Rimbecillimento acuto?

– Sì, scendiamo – fu tutto ciò che riuscì a tirare fuori Morifinwë, con voce impastata.

Elle riagganciò la treccia sfuggita alle altre e senza alcuna esitazione lo precedette alla porta. Lui la raggiunse dopo un istante, e dovette fare uno sforzo non da poco per evitare di prenderle la mano mentre scendevano le scale e uscivano nel piazzale dove era in corso la festa.

Rare volte Morifinwë si era sentito così orgoglioso di aver raggiunto un risultato, rifletté, mentre guardava Elle che veniva catturata dall’abbraccio di Rowen e che scambiava due parole con lei, che veniva invitata alle danze da capelli d’argento, che si serviva del vino, che tornava a ballare.

Elle-felice, o per lo meno Elle-che-cercava-di-essere-felice, era lo spettacolo migliore che l’intera festa potesse offrire. Sarebbe rimasto tutta la notte a guardarla se Káino gliel’avesse permesso e non l’avesse trascinato di qua e di là per fargli provare tutte le cose che, a sentir lui, si stava perdendo.

Ma allo scoccare della terza ora, quando Telperion raggiunse la piena maturità e il tendone si aprì sulle loro teste, e i due falò vennero accesi e tutti gridarono di gioia, e i bambini gettarono i mostri di legno nei fuochi alimentati con polveri che coloravano le fiamme d’oro e d’argento, Morifinwë sentì una presenza al suo fianco e scoprì che non aveva bisogno di voltarsi per capire chi fosse.

– Herenya-coi, Elle – disse, nell’augurio di rito, – e che tutti i mostri se ne vadano.

– Herenya-coi, Morifinwë – rispose lei.

I fuochi divampavano, scintille d’oro e d’argento venivano spruzzate nel cielo sereno e portate via dal vento leggero.

Morifinwë non distolse lo sguardo dalle fiamme. Sentiva la donna accanto a lui così vicina che gli sarebbe bastato distendere le dita per prenderle la mano.

Non lo fece.

Rimase a guardare i mostri di legno bruciare, pregando che anche quelli che abitavano nel cuore di Elle svanissero per sempre.





 


NOTE

Capitolo un po’ lunghetto, mi sono fatta prendere la mano… spero non vi siate annoiat* troppo! A chi ha resistito: grazie per aver letto ❤︎

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë, Moryo = Caranthir
Fëanáro = Fëanor
Tyelkormo = Celegorm
Russandol = Maedhros
Makalaurë = Maglor

Personaggi di mia invenzione
Arsanarwë, il maestro di matematica di Morifinwë
Rowen, la moglie di Arsanarwë, fondatrice della fattoria, allevatrice di cavalli
Káino, un amico di Morifinwë
Lissi, la sorellina di Káino
Capelli d’argento, il soprannome con cui Morifinwë chiama un collega di Arsanarwë

Nomi di mia invenzione
Meren Tulusto, la Festa dell’Arrivo, importante ricorrenza che festeggia l’arrivo dei Noldor in Aman
Herenya-coi, l’augurio di una vita prospera scambiato per tradizione alla Meren Tulusto. È composto da herenya (fortunate, blessed, wealthy, rich) e coi, abbreviazione di coivië (life).
Piana Dorata, ampia pianura tra Tirion e Valmar

A proposito di mostri bruciati etc
Ho spesso fatto riferimento al fatto che gli Elfi della Grande Marcia abbiano dovuto affrontare enormi pericoli e creature terribili. Metto qui tre dei tanti estratti su cui si basa questa assunzione.
1) Prima del risveglio degli Elfi nella Terra di Mezzo: “Melkor […] vegliava, e lavorava; e le creature malvagie da lui sedotte si aggiravano ovunque, e i boschi scuri e immersi nel sonno erano visitati da mostri e figure paurose” (Il Silmarillion, cap. 3, L’avvento degli Elfi)
2) Al risveglio degli Elfi, prima dell’arrivo di Oromë, “Melkor was on the watch, and his spies were many. And it is thought that lurking near his servants had led astray some of the Quendi that ventured afield, and they took them as captives in Utumno, and there enslaved them.” (HoME, vol 10, The Annals of Aman)
3) Dopo il risveglio degli Elfi, quando i Valar catturano Melkor e lo portano con loro in Aman, “many evil things yet lingered in Middle-earth that had fled away from the wrath of the Lords of the West, or lay hidden in the deeps of the earth.” (HoME, vol 10, The Annals of Aman)
Insomma, a quei tempi, la Terra di Mezzo non era proprio un posto sicuro per viverci.

La terza ora, impropriamente chiamata da me: “mezzanotte”
Un’altra cosa a cui faccio spesso riferimento è la suddivisione del giorno in ore a Valinor. Per chi fosse interessato, qui trovate un mio piccolo schema di riferimento, sulla base di ciò che viene detto nel Silmarillion.

  
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