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Autore: Losiliel    07/04/2023    0 recensioni
Morifinwë Carnistir Fëanárion, giovane nipote del re dei Noldor, vive in un meraviglioso palazzo nella splendente città di Tirion, in una terra benedetta da ogni ricchezza, circondato da una famiglia unita e numerosa. La sua vita sembra perfetta sotto ogni aspetto.
Peccato che lui non la pensi affatto così.
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[ Caranthir-centrico | coming of age | vita dei Noldor in Aman | Anni degli Alberi ]
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Caranthir, Fëanor, Figli di Fëanor, Nerdanel, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Los Tales'
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16

Il piano

(o quando scopri che le cose andavano troppo bene per poter continuare)


 

Quella notte Morifinwë la sognò.

Erano in camera di Elle, come la sera prima. Le tende erano socchiuse e la stanza giaceva nell’oscurità quasi completa.

C’era anche la musica, proprio come la sera prima. Ma questa volta loro due erano sdraiati nel letto, lui su un fianco, appoggiato su un gomito, la guardava dall’alto; lei con la testa adagiata sul cuscino ricambiava lo sguardo. Morifinwë sentiva il suo corpo aderire a quello della donna, sentiva il calore di lei attraverso i vestiti, desiderava che non ci fossero.

– Sei diventato grande – diceva lei, e gli sfiorava il sopracciglio ferito.

Lui le afferrava la mano. Scendeva con una lenta carezza fino al bracciale. Prendeva i lacci tra le dita.

– Posso? – chiedeva, in un sussurro.

– Slega – diceva lei, e la sua voce era più roca del solito.

Morifinwë sapeva che era un sogno perché la sua mano non tremava mentre slacciava il bracciale e lo sfilava, con gli occhi incatenati a quelli scuri della donna.

Le sfiorava il polso e sotto le sue dita impazienti, curiose, la pelle di lei era in rilievo.

Morifinwë vi posava sopra lo sguardo, alla ricerca del tatuaggio.

Ma non era il disegno stilizzato di un’arma che marchiava il polso della donna.

Era una fila di lettere che formavano un nome.

Senza alcuna vergogna – perché come poteva averne se lei aveva detto: “sei diventato grande”? Se lei aveva detto: “slega”? Come poteva averne se sulla sua pelle era inciso quel nome?

Senza alcuna vergogna, Morifinwë si portava il polso di Elle alle labbra e vi faceva scorrere sopra la lingua.

E assaporava ogni singola lettera del proprio nome.



 

Si svegliò con un fascio di luce che lo colpiva in viso – doveva essere mattino inoltrato – e con un vago senso di disagio che la sua mente, ancora annebbiata dal sonno, non riusciva a spiegarsi. Di certo non doveva preoccuparsi di essere rimasto a letto troppo a lungo, i festeggiamenti della Meren Tulusto proseguivano anche il giorno successivo alla notte dei falò.

E che notte, era stata! Prima una scazzottata a palazzo, poi la festa alla fattoria, poi il ballo con Elle nella sua camera da letto…

Oh, Eru!

La sua camera da letto.

Il ricordo del sogno appena fatto riemerse dall’oblio potente e vivido come se gli fosse rimasto aggrappato appena dietro le palpebre. Un sogno sensuale, se proprio non lo si voleva definire erotico. Morifinwë arrossì violentemente, e una veloce occhiata sotto le lenzuola al suo pigiama macchiato gli confermò ciò che temeva.

Si tirò il cuscino sul viso e soffocò un lamento. Non era la prima volta che gli succedeva, ma era la prima volta che riusciva a ricordare con chiarezza cosa aveva sognato. E questo non gli piaceva. Non gli piaceva per niente. Perché di certo significava qualcosa, e lui non aveva nessuna voglia di scoprire cosa.

Ma il suo cervello si mise al lavoro per conto proprio alla ricerca di spiegazioni, ignorando le priorità che lui stava tentando di impartire a sé stesso, ossia: alzati, vai in bagno a lavarti, e cerca di evitare Tyelkormo nel tragitto tra le due cose.

Morifinwë si arrese al corso dei propri pensieri e cominciò ad analizzare la situazione con quel poco di razionalità di cui era ancora capace. Era evidente che provava qualcosa per quella donna, per quanto incomprensibile potesse sembrare. La sera prima aveva ballato con tante ragazze, ma nessuna di loro gli aveva fatto un effetto minimamente paragonabile a ciò che aveva provato quando aveva tenuto tra le braccia Elle nella loro strampalata lezione di ballo.

Doveva ammetterlo: il sogno non era altro che la conferma di qualcosa che già sapeva. Bisognava solo avere il coraggio di chiamare le cose col loro nome.

Già, ma quale?

Morifinwë provò con “attrazione”. Sembrava il termine giusto per definire ciò che provava per lei, anche se non riusciva proprio a capire perché mai dovesse provare attrazione per una donna adulta – molto adulta – dal volto severo – non quando rideva alle sue battute, però – dal carattere schivo – più che schivo, riservato – e che aveva l’aria di poterti spezzare in due con una mano sola, se avesse voluto.

Eppure il sogno era stato così reale – lui sdraiato nel suo letto, il sapore della sua pelle, il calore del suo corpo – e le conseguenze così… tangibili, che “attrazione” non sembrava abbastanza per descrivere un’esperienza di tale intensità.

Forse la parola più giusta era “desiderio”.

Provò a sussurrarlo per vedere che effetto faceva: – La desidero. – Un flusso di calore gli scese tra le gambe e il suo viso avvampò di vergogna. Morifinwë non conosceva molto di quella materia, ma una cosa la sapeva: era sbagliato desiderare una persona che non ricambiava il tuo desiderio, né mai l’avrebbe fatto.

Stai calmo! ordinò a sé stesso e a quella parte del suo corpo che non voleva saperne di sottostare alla ragione. Il desiderio si poteva tenere sotto controllo, non era più un bambino, maledizione! E subito una vocina dentro di lui gli suggerì che forse era proprio quello il punto: che non era più un bambino.

La zittì. Non era il momento di lasciarsi distrarre da voci inesistenti, soprattutto se avevano la spocchiosa cadenza di quella di suo fratello piccolo. Gli serviva un piano. Anzi, la soluzione era talmente chiara che non gli serviva neppure un piano: senza dubbio tutto questo… ardore improvviso… si sarebbe spento non appena avesse smesso di vederla. Doveva solo evitare di incontrarla ancora. Semplice. Pulito. Definitivo.

Allora perché si sentiva come se gli avessero dato fuoco al cuore senza prima prendersi la briga di strapparglielo dal petto? Perché il solo pensiero di non vederla più lo faceva sentire come se gli avessero attaccato una pietra al collo prima di buttarlo nelle profondità degli abissi?

E soprattutto, perché stava usando delle metafore – di dubbio gusto, per giunta – per tentare di dare un senso a una stupida, banalissima reazione involontaria del suo corpo?

Tutto questo non c’entrava affatto col desiderio.

La verità irruppe nella sua coscienza così all’improvviso che Morifinwë non ebbe il tempo di negarla.

Si era innamorato. Per la prima volta nella sua vita.

E la scoperta avrebbe anche potuto rallegrarlo se non si fosse portata dietro quel piccolo, terrificante particolare che rovinava tutto.

Si era innamorato di una serva che aveva l’età di suo nonno.

Affondò il viso nel cuscino e gemette per la terza volta da quando si era svegliato.

Perché, dannazione, perché finiva sempre per cacciarsi nelle situazioni più sbagliate?



 

Morifinwë tenne fede al suo piano.

Si limitò ad andare alla fattoria solo il giorno della settimana in cui aveva lezione col maestro, facendo attenzione ad arrivare puntualissimo e a scappare via non appena Arsanarwë lo congedava.

Elle non disse nulla riguardo alla diminuzione delle sue visite, così come non ne aveva commentato l’aumento. Le poche volte che si incrociavano lo salutava con un neutro: “Buongiorno, Morifinwë”, o con un cenno della mano.

Quello che c’era stato tra loro la sera della Meren Tulusto, di qualunque cosa si fosse trattato, sembrava aver avuto effetto solo su Morifinwë. E dopotutto perché avrebbe dovuto essere diversamente? Era lui il ragazzino in preda agli stimoli della crescita, vittima di pulsioni imbarazzanti e sentimenti fuori luogo. Lei era una donna adulta, matura ed equilibrata, che gli stimoli della crescita, se mai li aveva provati, se li era lasciati alle spalle in un altro mondo.

Káino e Lissi, come era prevedibile, ci rimasero molto male per la sua improvvisa scomparsa, ma lui si giustificò dicendo che era stato messo in punizione a causa della rissa a palazzo e, per placare le accese proteste dell’amico, gli promise anche che sarebbe andato con lui a quel misterioso evento chiamato l’Oscuramento dello stagno. Gli avevano detto che si sarebbe svolto alla fine di Ulvórë, e per allora Morifinwë aveva calcolato che sarebbe riuscito a sopprimere il suo inopportuno sentimento – giusto nel caso ci fosse andata anche Elle.

Il senso di colpa che provava per aver detto una bugia ai suoi amici riguardo alla punizione datagli dal padre scomparve quando la punizione divenne realtà. Col pretesto che Tyelkormo si stava preparando per il suo viaggio a nord per la mappatura dei territori poco esplorati, Morifinwë venne costretto a spulciare tutti i volumi di argomento geografico o naturalistico che poteva reperire in biblioteca, alla ricerca di eventuali vecchie mappe che potessero aiutare il fratello nell’impresa. E a copiarle.

E così, i lunghi e noiosi pomeriggi che si era immaginato di trascorrere da solo a crogiolarsi nell’autocommiserazione, si trasformarono in lunghi e noiosi pomeriggi trascorsi da solo col capo chino su un foglio e con una matita in mano, nel tentativo di riprodurre quanto più fedelmente mappe di territori di cui lui ignorava perfino l’esistenza.

L’unico svago che gli era rimasto era allenarsi con Morvail al salto al volo. Non voleva tornare da Káino, quando quel pasticcio fosse finito, avendo dimenticato tutto ciò che Elle gli aveva insegnato, e così continuava a esercitarsi nel giardino di casa, sul viale che conduceva al laboratorio della madre, che era sufficientemente ampio ma fuori dai percorsi più frequentati.

Ulvórë arrivò al suo apice e alla fattoria cominciarono gli ultimi preparativi per l’imminente nascita del primogenito di Arsanarwë. Tutta la casa era in subbuglio. A giudicare dal rumore che Morifinwë sentiva durante le lezioni, sembrava che al piano di sopra fosse in atto un trasloco per far posto a un’intera famiglia, invece cha a un singolo neonato. In parte era davvero così, perché per l’occasione sarebbero rientrati i genitori di Lissi e Káino con il loro seguito. I due fratelli non stavano più nella pelle, e tutto il reparto scuderie era impegnato a predisporre la sistemazione dei nuovi esemplari che la coppia avrebbe portato con sé.

Arsanarwë, quando si accorse che la situazione stava diventando troppo caotica e che nemmeno lui riusciva più a lavorare con la dovuta attenzione, sospese le lezioni.

Il che portò le visite di Morifinwë alla fattoria a zero.

Il suo piano aveva funzionato alla grande, si trovò a pensare ironicamente, mentre dava calci ai sassi sulla via Ezellohar rientrando a piedi dalla sua ultima lezione per metterci più tempo. Adesso non c’era più nemmeno quel singolo pomeriggio che gli fornisse un motivo per uscire di casa. Sorpreso dal proprio malumore, si chiese da quando il pensiero si doversene stare a casa propria fosse diventato un peso per lui.

Fortunatamente il peso gli venne presto levato dalle spalle. Quando Morifinwë terminò le fonti geografiche nella biblioteca di casa, infatti, il padre lo mandò a consultare anche quelle custodite nel Palazzo Reale.  Ormai a un passo dalla consunzione per noia, Morifinwë non fece neppure finta che l’incarico gli dispiacesse, e l’unica cosa che pretese fu di andarci la mattina presto per incontrare meno persone possibile.

A palazzo, le carte geografiche erano conservate in una stanza a cui si accedeva dalla biblioteca. Era un locale accogliente e spazioso, con paesaggi di Aman affrescati sulle pareti e con il soffitto costellato di piccole luci verdi e dorate, che richiamavano alla memoria lo scintillio delle foglie nei boschi presso Valmar. Le mappe erano riposte arrotolate in bassi scaffali contrassegnati da targhette in metallo. Su un tavolo di legno lucido nel centro della sala erano appoggiati piccoli animali in marmo usati per tenere distesi i fogli durante la lettura.

All’ora in cui arrivava Morifinwë la biblioteca era ancora deserta e lui la attraversava con passo veloce. Poche svolte tra gli scaffali, una piccola deviazione attorno a una maestosa arpa che, chissà per quale motivo, era riposta proprio in un luogo dove avrebbe dovuto regnare il silenzio, lo portavano dritto all’arco che separava il locale principale dal suo nuovo luogo di lavoro. Arrivato lì, riponeva con calma sul tavolo i suoi attrezzi: il foglio su cui disegnare, il blocco degli appunti, matite, squadre e compassi, poi andava alla ricerca delle carte che riguardavano le terre situate tra Valinor e Araman e si metteva all’opera.

Il più delle volte lavorava chino sul foglio, tutta l’attenzione focalizzata sulla perfezione del tratto, sul difficile compito di renderlo uguale a quello originale. Ma non di rado i luoghi sconosciuti che si componevano sotto le sue dita lo conducevano lontano sull’onda della fantasia, e allora Morifinwë si trovava a immaginarsi esploratore, e pensava con nostalgia a Káino e alle loro escursioni. I piccoli blocchi di marmo a forma di cavallo diventavano i loro destrieri e lui li faceva correre sulle mappe, come fossero Morvail e Haninkë che si sfidavano incitati dai loro cavalieri.

Quando dalla biblioteca cominciavano a provenire i rumori dei visitatori, Morifinwë capiva che presto qualcuno sarebbe arrivato a invadere anche il suo angolo privato e si preparava ad andarsene. Impacchettava le sue cose, riponeva le mappe e, inoltrandosi tra gli scaffali con la speranza di non incontrare nessuno, scivolava fuori dalla biblioteca e poi da palazzo.

A volte, invece, era il suono dell’arpa che arrivava fino a lui. Erano i giorni in cui suo cugino Findaráto veniva a suonare il prezioso strumento custodito nella biblioteca. Allora Morifinwë rimaneva ben nascosto nella sua stanza, sia perché non gli andava di aver a che fare con nessuno degli Arafinwioni dopo i pessimi trascorsi con Angaráto, sia perché, doveva ammettere, il cugino era un arpista eccezionale ed era un piacere lavorare avendo in sottofondo il suono della sua musica.

Una mattina, mentre si attardava oziosamente su una mappa di Tol Eressëa ai tempi in cui era abitata – cosa che non aveva nulla a che vedere con il suo incarico, ma che gli permetteva di fantasticare su lui e Káino esploratori di quelle terre abbandonate alla ricerca di antichi manufatti – fu sorpreso da strani suoni provenienti dall’arpa, del tutto diversi da quelli che era solito produrre l’Arafinwion.

La musica, sempre che si potesse definire tale quell’accozzaglia di note, era sorretta da un ritmo sostenuto, ripetitivo, quasi ossessivo nel suo perenne riproporsi sempre uguale, come se il suonatore pizzicasse le corde lunghe con instancabili dita d’acciaio. La melodia, sui toni più acuti, era invece discontinua, dava alcuni trilli sincopati e poi taceva a lungo, lasciando il posto al battito pulsante delle note basse.

Non era musica che poteva uscire dalle mani di Findaráto, quella.

Morifinwë osò mettere la testa fuori dalla stanza e fare qualche passo nella biblioteca. Allungò il collo per sbirciare da dietro uno scaffale e scoprire chi si permetteva di tormentare in quel modo lo strumento più antico e pregiato del palazzo.

Un uomo di spalle imbracciava l’arpa con tanta foga da avercela quasi in grembo. Le maniche arrotolate di una bianca camicia spiegazzata mettevano in mostra avambracci possenti con muscoli contratti nello sforzo. Non erano dita d’acciaio quelle che pizzicavano le corde, ma in senso figurato non poteva esserci paragone migliore: i tendini tesi, i movimenti così veloci che l’occhio faticava a seguirli, facevano pensare a un marchingegno meccanico piuttosto che a mani in carne e ossa. La testa del suonatore ondeggiava al ritmo della sua musica e una moltitudine di trecce nere si agitavano sulla sua schiena come serpenti in preda al delirio.

Morifinwë lo conosceva bene, quell’uomo. Findekáno frequentava casa sua da prima che lui nascesse.

Rimase incantato a guardarlo, mentre il suo orecchio si abituava all’aggressività del suono e, poco a poco, si lasciava conquistare da quella musica disturbante e da tutto ciò che essa, innegabilmente, comunicava.

Passione, irrequietezza, desiderio insoddisfatto.

Tutto ciò che da settimane Morifinwë stava cercando di sopprimere, quella musica lo riportava prepotentemente in superficie, lasciandolo esaltato e terrorizzato al tempo stesso.

Quando il brano terminò, senza preavviso, senza l’accenno di un calando, Morifinwë andò alla ricerca d’aria come uno che riemerge da una lunga apnea. Il respiro che prese rumoreggiò nel silenzio più totale.

Findekáno si voltò di scatto, la fronte imperlata di sudore, gli occhi ancora accesi dalla passione.

– Moryo – disse, riconoscendolo, – scusami, io stavo… ecco… di solito a quest’ora non c’è nessuno.

Morifinwë combatté contro il desiderio impellente di ritirarsi dietro lo scaffale. Non capiva bene a cosa avesse appena assistito, me era certo che si trattava di qualcosa di troppo personale perché l’artefice gradisse un testimone.

Non aveva mai visto Findekáno in quello stato. Il cugino, per come lo conosceva lui, era la personificazione stessa della spensieratezza e della disinvoltura, uno che, in quanto a battuta pronta, riusciva ad avere la meglio persino su Tyelkormo. Mentre ora, eccolo lì, spaesato e a corto di parole.

– Non mi hai disturbato – riuscì a dire Morifinwë, – e comunque me ne stavo andando.

– No, no, resta pure, io ho finito. – Findekáno ripose l’arpa sulla sua base con delicatezza, allungò una mano dietro di sé per recuperare la giacca che aveva abbandonato sullo schienale di una sedia, ma sembrò non trovare la forza di alzarsi dallo sgabello. Appoggiò la fronte sulla cassa dello strumento e mormorò: – Hai mai desiderato qualcosa al punto che ti sembra di impazzire, ma sai che non potrai mai averla?

Morifinwë rispose prima di rendersi conto che probabilmente Findekáno aveva dato voce, senza volerlo, a un pensiero privato.

– Sì – disse.

Ed era la verità. Quante cose avrebbe voluto, che non avrebbe mai potuto ottenere! Avrebbe voluto essere figlio unico, tanto per cominciare. Anzi, no, avrebbe voluto essere il migliore dei suoi fratelli. Avrebbe voluto ottenere, come la ricevevano gli altri, l’ammirazione da parte del padre. Oh, Eru benedetto! Era da quando aveva memoria che provava questo desiderio. E più di recente se n’era aggiunto uno nuovo, anch’esso destinato a rimanere irrealizzato e, considerato l’effetto che gli aveva fatto quella musica, ancora ben lontano dal venire soppresso.

– Mi dispiace – disse il cugino, come se condividessero lo stesso problema, anche se Morifinwë non aveva idea di cosa potesse tormentare lo spensierato Findekáno. E neppure aveva intenzione di chiederglielo. Ne aveva già abbastanza di suoi, di problemi, senza dover andare a indagare su quelli degli altri.

Ma forse avrebbe potuto imparare qualcosa di utile per risolvere la propria situazione.

– Come si tira avanti in questi casi? – domandò.

Findekáno si passò una manica sulla fronte per detergere il sudore e quando abbassò il braccio i tratti del suo viso erano più distesi.

– Ci si accontenta di quello che si può avere – rispose.

A Morifinwë non sembrò una grande rivelazione. – E questo basta?

– Non sempre – ammise Findekáno.

– E quando non basta, cosa fai? Torturi strumenti di pregio?

Il cugino sbuffò una mezza risata: – No, di solito mi sfogo con l’esercizio fisico. Corro, nuoto, mi arrampico. Faccio delle cretinate solenni per mettermi in pericolo di proposito… – si interruppe, lo sguardo vagamente allarmato. – Ma non dire a Nelyo che te l’ho detto, mi spella vivo se scopre che racconto queste cose al suo fratellino.

Morifinwë non ci pensava neanche a informare Russandol di quella conversazione. Tanto più che il migliore dei suoi fratelli non avrebbe mai potuto capire; di certo non aveva desideri irrealizzabili, lui.

Findekáno scese dallo sgabello infilandosi la giacca. – A volte mi chiedo se sono nato dalla parte giusta del mare – sospirò.

Morifinwë ebbe un leggero sussulto all’udire parole tanto blasfeme.

Parole che negavano, implicitamente, la riconoscenza dovuta ai Valar, che li avevano sottratti alle tenebre e accolti nella loro terra. Che sminuivano il sacrificio di coloro che avevano dato la vita per condurre alla salvezza i loro padri. Parole che rinnegavano tutto ciò che avevano insegnato loro fin da quando erano bambini: loro, gli Eldar di Aman, erano i benedetti, i fortunati, loro erano la civiltà. Gli altri, che Eru li proteggesse, erano infelici che brancolavano nell’oscurità, perduti per sempre.

Eppure, da qualche tempo Morifinwë aveva cominciato a capire che la realtà era più complicata, e un’affermazione come quella del cugino – si accorse – non suscitava più in lui lo sdegno che avrebbe provocato l’anno precedente.

– Chiedo scusa – disse Findekáno, forse temendo di aver esagerato. – Oggi non ne azzecco una. Tu come te la passi?

Morifinwë sospirò, sollevato. La conversazione tornava a essere una pura formalità. Presto si sarebbe conclusa.

– Al solito. Confuso, il più delle volte – rispose, già col pensiero alle sue mappe, mentre l’altro si dirigeva verso l’uscita. – Ma tutti dicono che quando sarò più grande cambierà.

– Questo è certo – confermò il cugino. E appena prima di sparire in corridoio aggiunse, con un ghigno ironico molto più in linea col Findekáno che lui conosceva, – quando sei più grande peggiora.


 

 

 


NOTE

Ce l’ho fatta! È stata un giornata complicata, ma alla fine ce l’ho fatta...
Grazie a chi ha letto, e a venerdì prossimo ❤︎

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë = Caranthir
Tyelkormo = Celegorm
Angaráto = Angrod
Findaráto = Finrod
Arafinwion = figlio di Arafinwë, cioè Finarfin
Findekáno = Fingon
Nelyo, Nelyafinwë, Russandol = Maedhros

Personaggi di mia invenzione
Arsanarwë, il maestro di matematica di Morifinwë
Káino, un amico di Morifinwë
Lissi, la sorellina di Káino
Morvail, il cavallo di Morifinwë
Haninkë, il cavallo di Káino

Nomi di mia invenzione
Meren Tulusto, la Festa dell’Arrivo, importante ricorrenza che festeggia l’arrivo dei Noldor in Aman
Ulvórë, una stagione intermedia tra il nostro autunno e un inverno mite

 

  
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