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Autore: Glenda    03/04/2023    2 recensioni
Firenze, primi duemila.
Artin ha trent'anni e già sa di vivere in un mondo ostile: padre in galera, madre in ospedale, lavoro intermittente e tre fratelli da mantenere, barcamenandosi ogni giorno tra assistenti sociali, bollette e microcriminalità dei quartieri popolari. Finché, il giorno in cui pensa di non farcela proprio più, un misterioso uomo che gli somiglia come un gemello gli propone un patto terrificante...
Questa è una storia d'ambientazione realistica ma dal tono magico-fiabesco, che riprende il filone tradizionale del principe e il povero e degli scambi di identità: ci sono protagonisti eroici, ottimismo, redenzioni inaspettate, gentilezza come se piovesse, e i miracoli accadono. Anche se lo sfondo è cupo. Anche se il mondo è pieno di falsità, macchinazioni, apparenze e ferocia nascosta.
Dunque astenersi i non amanti dei buoni sentimenti.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Forse fa male eppure mi va

di stare collegato,

di vivere d'un fiato,

di stendermi sopra il burrone e di guardare giù,

la vertigine non è paura di cadere

ma voglia di volare.

Mi fido di te.

Mi fido di te.

Mi fido di te,

cosa sei disposto a perdere?

 

(Lorenzo Jovanotti)

 

 

Capitolo 6

 

Oltre un mese trascorso a studiare come divenire in tutto e per tutto un’altra persona, l’esaurimento nervoso lo avrebbe fatto venire a chiunque: se non altro, questo lo avrebbe reso credibile!

Vittorio De Nistri gli aveva confessato di essere soddisfatto di lui oltre le più rosee speranze e, ferma restando la garanzia di non esporlo ad un rapporto troppo diretto con colleghi e pubblico, era convinto che il piano potesse procedere liscio. Un portavoce dell’azienda aveva già annunciato che Elia Avanzini si era ormai ristabilito e sarebbe tornato al proprio posto quanto prima.

Ma Artin aveva come la sensazione che una finzione del genere qualche pecca la dovesse avere per forza, quindi non rimase poi così turbato quando, poco dopo essersi seduto in quello che sarebbe stato il suo ufficio, vide Linda Dini comparire sulla porta.

- Elia! Io… io… Maledizione! -

Si morse istericamente il labbro: non riusciva ad aprire bocca, ma il rossore che le colorava le guance e il lieve tremore del corpo la facevano assomigliare ad una graziosa teiera in ebollizione che sta per fischiare. Questa almeno fu l'immagine che la fantasia offrì ad Artin, qualche istante prima di pensare che la trovava carina.

Aveva capelli dorati a caschetto – chissà se erano naturali, gli sembravano troppo biondi per una ragazza italiana – una bocca dalla strana forma, col labbro inferiore molto più pronunciato, che amplificava lo spessore della sua rabbia ma prometteva un notevole sorriso, e gli occhi erano celesti: non di quel grigio azzurrino che spesso si chiama celeste per vanità, ma celesti davvero.

Gli ricordava un po' Cameron Diaz ai tempi di Tutti pazzi per Mary, icona sexy tra i compagni di scuola superiore.

No, non era solo carina: era bellissima.

Era indubbiamente la donna più bella che avesse mai visto in vita sua.

- Elia, ora tu… -

Se fosse stato nei propri panni, si sarebbe sentito pieno di orgoglio che quello splendore di ragazza si preoccupasse per lui: si sarebbe alzato, l'avrebbe stretta tra le braccia a avrebbe detto “Sta tranquilla, sto bene, sono solo un grandissimo figlio di puttana”. Ma Elia Avanzini era veramente un figlio di puttana, dunque fece mente locale, ricordò le istruzioni, poi la squadrò da capo a piedi, e, senza neppure scomodarsi, disse:

- Chi ti ha dato il permesso di entrare? -

La domanda sembrò avere l’effetto di calmarla: quantomeno, questo poteva significare che aveva recitato nel modo giusto, ed in quel momento poco importava che il corollario di una simile constatazione fosse che era riuscito ad essere abbastanza stronzo da apparire credibile.

- E’ stato Brunetti. -

“Brunetti,” richiamò alla mente “addetto alla sicurezza.”

- Abbastanza corruttibile, quando si tratta di me: dovresti saperlo. -

Come fosse solita “corromperlo” - in vero - proprio non lo sapeva. Fatto sta che a poco era servito che Vittorio De Nistri avesse fatto trasferire Linda presso un altra sede e si fosse tanto prodigato di impedirle alcun contatto, anche solo telefonico o telematico, con lui.

- Non dovresti essere qui. Sei stata assegnata alla succursale di Novoli e in questo momento ti stai assentando dal lavoro. -

La ragazza si avvicinò a lui, decisa.

- In questo momento sto usufruendo di un regolare permesso. -

Artin si alzò in piedi, le andò incontro.

- Linda, ascolta. -

Non fece in tempo a capire se fosse stato il suono con cui aveva pronunciato quelle parole, o il gesto della mano che si era mossa verso la spalla di lei, o solo una normale prassi fra quelle due persone la cui intimità gli era sconosciuta e che non poteva che improvvisare, ma la ragazza scoppiò a piangere, mentre ogni segno di rabbia, di dubbio, di apprensione, spariva dal suo volto, gettato fuori insieme a quelle lacrime.

“Una teiera”.

- Linda… -

Era rimasto paralizzato: il pianto di una bella donna aveva mandato in pezzi così, in pochi secondi, il suo primo giorno di interpretazione. Di fronte a quel piccolo dolore, aveva dimenticato la battuta giusta e non c’era nessun suggeritore nella buca sotto i suoi piedi, niente, solo una ragazza triste, e un uomo notoriamente scostante e approfittatore che adesso avrebbe dovuto dirle qualcosa.

- Perché non mi hai mai risposto, Elia? Perché mi hai fatto stare così in ansia? Perché in un momento di difficoltà non hai voluto contare su di me? - incespicò sull’ultima domanda, come se avesse appena commesso un errore (anche lei!) nel copione.

Si morse le labbra di nuovo e si asciugò gli occhi col polsino della camicia: un gesto così poco elegante e così infantile che Artin si sentì stringere lo stomaco.

- Scusa. Lo so che tu conti solo su te stesso. -

Solo su se stesso.

Era questa l’opinione che Elia Avanzini dava di sé nell’intimità, nel rapporto interpersonale, nel rapporto di coppia? La recita aveva mostrato le sue crepe fin da subito, e allora pazienza. Una screpolatura più, una meno, non avrebbe fatto la differenza. Nessun uomo aveva diritto di dire ad una ragazza che piange per lui “volevo solo giocare e ora ti voglio fuori dalla mia vita“.

- Io non voglio contare solo su me stesso. -

Le mise le mani sulle spalle con decisione

- Hai visto dove sono finito, a forza di pensarla così? In piedi sulla cima di un palazzo. Incontro alla morte ci vai davvero contando solamente su di te, e fa una gran paura, Linda, una paura bestiale. Quando la guardi in faccia una volta, la morte, non vuoi più pensare di voler morire da solo. -

La ragazza smise di piangere: era stupita, ma le sua guance erano ancora bagnate. Artin estrasse un fazzoletto e glielo porse.

- Mi dispiace non averti cercata. Mi dispiace averti fatta preoccupare. Mi dispiace anche aver richiesto che tu non lavorassi più con me. Ma i medici hanno voluto così. Tagliare i ponti con la vita precedente è la condizione fondamentale per uscirne fuori, dicono. Avrei persino dato le dimissioni, se mi fosse stato possibile, ma tu dovresti sapere cosa significa presiedere la ***. E dopotutto, lo devo a De Nistri. -

Linda strizzò gli occhi, che si ridussero a due piccole fessure, non per questo meno celesti.

- D-davvero… lo hai fatto per questo? -

La domanda era così banale che probabilmente era un semplice modo per rompere il silenzio, ma Artin amava pensare che non esistessero domande oneste che non meritavano risposta.

- Scusa, - disse - sono ancora molto confuso. In fondo è passato poco più di un mese. Mi riprenderò. Tu però non puoi aiutarmi a farlo. Puoi venirmi incontro solo lasciandomi tutto il tempo che mi servirà. Puoi capirmi, Linda? -

Non era un bel modo per scaricare una donna. Non era un bel modo nemmeno per addolcire la pillola. Ma certo era meglio che sbatterle in faccia quanto Elia Avanzini se ne fregasse di lei.

- Io… -

La ragazza lo fissò solo un attimo, quasi a fare un piccolo esame delle intenzioni.

- Ti faccio chiamare un taxi. - disse Artin - Ti riaccompagnerà dove preferisci. -

- Potrò vederti fra un po’ di tempo? -

Un po’ di tempo. Un po’ di tempo era così generico. Non c’era nulla di male a promettere una scadenza indefinita in una situazione incerta come era quella.

- Credo di sì. - rispose - Più avanti… -

Linda finalmente sorrise.

- Grazie, Elia. -

 

Avrebbe voluto gridare forte. Magari fuori da quella finestra, e restare a guardare la sua rabbia rotolare sui viali pieni di turisti, intenti a vedere solo il bello che questo Paese può offrire. Avrebbe voluto far vedere a tutti che dietro le finestre dei ricchi palazzi affacciati sull'Arno le cose non erano poi migliori che nelle case popolari delle Piagge. Avrebbe voluto richiamare Linda, mentre saliva sul suo taxi, e chiederle perdono. A nome suo, e a nome di Elia. Sì, anche a nome di Elia, perché farlo avrebbe significato potersi affezionare un po' al personaggio che interpretava e che gli calzava addosso così stretto.

La differenza tra recitare bene e recitare male forse stava tutta lì, nel trovare un piccolo punto d'affezione verso il proprio ruolo. O verso chi te lo ha assegnato. Chissà.

Se solo avesse potuto voler bene a Vittorio De Nistri, avrebbe potuto giustificare se stesso con l'alibi dell'amicizia, ma questo pensiero servì solo ad accrescere la sua rabbia: Vittorio avrebbe potuto rendere tutto più facile, se solo avesse speso una parola, almeno una parola, sul sentimento che lo legava ad Elia. Invece, l'unica traccia di quel legame era rimasta nella stretta della sua mano su quel terrazzo.

Vittorio voleva far sparire ogni barlume di sentimento dalla controfigura di Elia Avanzini, e non perché fosse pericoloso per la loro messinscena, ma perché chiamarlo in gioco avrebbe voluto dire tirar fuori qualcosa con cui non voleva confrontarsi.

E avrebbe voluto dire dare fiducia a lui.

Vittorio voleva una marionetta, e lui non voleva esserlo, perché intorno a lui non c'erano altri burattini: c'erano persone, e se c'era una cosa in cui credeva davvero era che le persone avessero diritto di essere trattate con gentilezza.

All'improvviso, come se avesse appena toccato il fondo e adesso una nuova forza lo stesse spingendo su, decise che quella gentilezza poteva reclamarla.

Poteva non essere l'Elia Avanzini che gli avevano presentato. Poteva non essere uno stronzo. E in quel “non essere” c'era in gioco qualcosa di molto più grosso per De Nistri e la banca che per lui. Lui doveva preoccuparsi solo di sé e della sua famiglia. Vittorio aveva di fronte la propria rovina e quella di migliaia di investitori.

Non era il solo a temere delle conseguenze, non era il solo ad essere incastrato. Si erano incatenati l'uno all'altro, a vicenda. Un altro patto infernale.

Ma, nella sua posizione così precaria, quella reciprocità lo metteva al sicuro, perché, per Vittorio, era lui il diavolo al crocevia. Per un attimo si rese conto di quanto fosse grande il potere di un diavolo, e se ne sentì inebriato.

Pensò come avrebbe potuto essere cambiare quelle vite, influenzarle in qualche modo: non essere semplicemente trasportato in un'altra esistenza, ma portare la propria nelle loro.

Pensò a Vittorio, l'uomo che gli aveva stretto la mano con tutta la forza necessaria a riportarlo in questa vita, al legame che c'era in quella stretta, al legame con un uomo di cui non gli aveva voluto dire niente, salvo dargli istruzioni su come si comportava in pubblico.

Lui non poteva essere Elia, perché nessuno lo aveva messo in contatto con l'anima di Elia; poteva essere solo un imitatore.

Ma il pubblico avrebbe guardato lui.

Lui poteva, con la sua interpretazione, toccare gli spettatori.

Lui poteva toccare Vittorio. Poteva reclamare quella stretta per sé.

  
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