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Autore: _aivy_demi_    03/04/2023    19 recensioni
Questa raccolta partecipa a una serie di iniziative, comprendenti i gruppi Non solo Sherlock e Hurt & Comfort Italia, tra i generi più vari e i contesti più disparati.
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Credits to the arstist: #akame_(chokydaum)
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1- Just for her (Jessie, James, Meowth), gruppo Non solo Sherlock, casellina n.4: traumi nascosti; angst
2- Lavander Town, that night, gruppo Non solo Sherlock, #springbingo casellina n.1: Di notte a Lavandonia
3- Ghosts, gruppo Non solo Sherlock, #springbingo casellina n.2: di tipo spettro
4- Where, gruppo Hurt/Comfort Italia, #3frasific: esausto, compagno, lacrime
5- Finally over, gruppo Non solo Sherlock, #springbingo casellina n.3: tremore
Genere: Generale, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Anime, Videogioco
Capitoli:
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#Springbingo del gruppo Non solo Sherlock
Casella n.1: Di notte a Lavandonia
Prompt di Alice Signorina Beazley

 

 

 

«Ken, tesoro, rientra che è tardi, è pronta la cena!»
«Arrivo, nonna, aspettami!» Il bambino percorse i pochi metri che lo separavano dalla piccola abitazione saltellando allegro e canticchiando una canzoncina che aveva imparato dagli amichetti di Lavandonia. Non capiva bene tutte le parole, nonna Harue gli aveva confidato si trattasse di un antico dialetto conosciuto soltanto nel paesino, ma a lui piaceva lo stesso: era orecchiabile, gli piaceva, e se ne avesse conosciuto già il significato, l’avrebbe definita nostalgica.
A Lavandonia il sole tramontava sempre un po’ prima, il buio arrivava presto e l’illuminazione fioca della Torre si mischiava alle stelle. Ken era abituato a vedere al buio in un luogo dove le case potevano contarsi sulla punta delle dita di una mano, ma gli andava bene così: poca confusione, niente traffico, poche persone.
Tanto per lui contava ci fossero sempre i suoi due amici, Shin e Satoshi. Parlavano, giocavano, ridevano e scherzavano con lui ogni giorno, un po’ meno quando c’erano dei turisti in visita al cimitero della città. Ecco, in quel caso non si presentavano fuori. “Forse non gli piace la gente”, li giustificava Ken nella sua spontaneità, “però gli piaccio io, questo va bene.”
Nonna Harue stava preparando la cena, servì in tavola il pasto e mangiò in religioso silenzio mentre Ken raccontava ciò che aveva fatto quel giorno, dal sognare a occhi aperti di diventare un allenatore di Pokémon e poter viaggiare per il mondo, a rincorrere Shin e Satoshi su e giù per i gradoni della Torre. Veniva apostrofato più volte dalla vecchina che si premurava sempre di ricordargli di non salire oltre un certo numero di piani, ma Ken non ricordava mai quanti: sapeva che al piano terra poteva entrare, poi avvertiva una leggera punta di angoscia all’idea di prendere la prima rampa di scale e sconsolato se ne usciva nuovamente alla luce del sole, scrollandosi di dosso i piccoli brividi che gli avevano fatto il solletico. Prometteva di portare rispetto, così come lei desiderava, e di mantenere le distanze dagli sconosciuti, affidandosi alla compagnia dei pochi compaesani e dei suoi due coetanei. Così facendo, poteva essere considerato sempre al sicuro.


«Ehi, ma che ci fate qui? Sapete che nonna non mi fa uscire di notte, non posso…»
L’espressione di Satoshi alle parole di Ken cambiò: detestava ricevere un “no” come risposta, anche perché si divertiva parecchio con i compagni di giochi. Serrò i pugni e la bocca mimando una espressione di sentito disappunto, ma non insistette più di così: sapeva sarebbe stato inutile, disobbedire ai vecchi era vietato e portava soltanto guai.
«Solo per oggi, è una giornata speciale.» Gli occhi di Shin invece brillavano di aspettativa, piccoli puntini luminosi nel buio del retro di casa Nakamura, dove si affacciava la cameretta di Ken. «Fidati di me, ti divertirai tanto con noi
Ken fu tentato, ma ricordava le parole di Harue: “non uscire di notte a Lavandonia, sta’ dove io possa proteggerti. Promettimi di non disobbedire.”
E lui non lo avrebbe fatto.
Si scusò con i bambini, chiuse la finestra e tirò le tende scure.
Anche quella sera obbedì. Anche quella sera sua nonna sospirò di sollievo nel vedere come il nipote non avesse ceduto alle richieste dei due che vagavano tra una casa e l’altra, bussando, sussurrando, chiamando. Ricevendo sempre risposte negative.


«Nonna, perché non posso uscire di sera?» Ken ricordava la cupa rassegnazione di Satoshi e l’entusiasmo di Shin, voleva unirsi a loro, voleva correre per le strade deserte di Lavandonia anche di notte, giocare a palla, a rincorrersi, fantasticare sul futuro, stendersi sull’asfalto e guardare il cielo fino ad addormentarsi… perché non gli era permesso?
«Sono cose che non ti serve sapere, Ken. Ora va’, esci a giocare, approfitta di questo bel sole.»
Il bambino non rimbeccò, uscì a testa bassa e corse alla ricerca dei suoi amici. Nonna Harue lo salutò con la mano, chiudendosi la porta alle spalle e accomodandosi nel piccolo salotto: si lasciò cadere sulla poltrona e borbottò qualcosa su come fossero particolarmente insistenti loro quell’anno. Avrebbe dovuto fare qualcosa prima di vedere suo nipote raggiungerli e lasciarla da sola. Capiva che le raccomandazioni ormai non erano efficaci, Ken era un bambino esuberante e curioso, bisognoso di contatto, del prossimo, di altri a tenergli compagnia… da quando i genitori erano scomparsi lui gli era stato affidato, ancora troppo piccolo per capire, e mai avrebbe voluto segregarlo in una comunità tanto ristretta e protettiva, sapendo quanto fosse grande il sogno di Ken di vivere il mondo e scoprire ogni cosa.
Ma non poteva partire, non poteva lasciarlo andare.


«Ken? Pssss, ehi, Ken!» Il sussurro di Shin entrò dalla finestra della camera buia, picchiettando nelle orecchie del bambino. «Ken? Mi senti?»
Lui mugugnò qualcosa stropicciandosi gli occhi, ancora mezzo addormentato: scese dal letto quasi inciampando sul proprio pigiama, scostò le tende e salutò l’amico con un cenno della mano.
«Oggi ti va di venire a giocare con noi
Ken mugugnò qualcosa di incomprensibile senza dare importanza a quel “noi” anche se di Satoshi non c’era traccia.
«Dai, faremo presto, prometto che non sveglieremo tua nonna. Dimmi di sì…!»
Fu tentato, e avrebbe anche ceduto non fosse stato per Harue che intervenne piazzandosi tra il nipote e la figura fuori dispersa nella notte: spalancò la finestra recitando le parole della canzoncina che Ken cantava spesso con leggerezza, ripetendole come un mantra, per poi intimare Shin di allontanarsi e non tornare prima del mattino. Sigillò la vetrata, accompagnò il nipote a letto e gli intimò ancora una volta di non cedere mai alla richiesta di giocare dopo il tramonto.
«Anche se insistono, anche se sorridono… Ken, non dire mai di sì. Possono implorarti, prometterti dei regali, possono dirti di fare qualcosa di speciale, ma non accettare mai. Promettimelo, ti prego… non uscire mai al buio…»
«Spiegami, nonna, spiegami perché non posso…»
«Perché altrimenti… lascia stare… torna a dormire.»
Insistette il bambino, ma non ebbe risposta. Ancora una volta si accucciò sotto la coperta, riaddormentandosi con una strana sensazione a rimescolargli lo stomaco.


«Satoshi, come mai non c’è Shin oggi con noi?» Ken era preoccupato, non era da loro perdere una giornata di gioco all’aria aperta. Lavandonia quel giorno era deserta, avevano tutto lo spazio per giocare, faceva caldo e aveva tanta voglia di correre e sfogarsi.
Satoshi temporeggiò, cambiò più volte argomento, finse di non ascoltare o di non sapere, ma Ken non si arrese: lo mise alle strette. «Cosa succede qui di notte? Perché non volete mai parlarne? È un segreto tra te e lui? Dimmelo…» lo scosse per le spalle, destabilizzandolo, «dimmelo!»
«Non posso, Ken, non posso parlartene. Abbiamo promesso, non possiamo dirtelo…»


«Nonna, cosa succede di notte qui? È normale stare chiusi in casa così?»
Harue sospirò amareggiata, le ultime sere Ken parve sempre più agitato, non riusciva a riposare bene e rumori all’esterno attiravano continuamente la loro attenzione. Il sonno del bambino era disturbato e scosso da sogni che non riusciva a ricordare, sogni di voci a lui familiari, di parole che svanivano dalla testa subito dopo essere state pronunciate. Le occhiaie erano pesanti, il bisogno di dormire ancora di più.
«Tesoro, i bambini di notte non devono uscire a giocare.»
«Ma non esci nemmeno tu…»
«Certo, io non devo fare niente di sera. I miei doveri li svolgo durante il giorno, come tutti qui.»
Ken si arrabbiò, scattò dalla sedia della cucina ribaltandola sul pavimento di legno: «tutti chi? Siamo pochissimi, non ci vive quasi nessuno, e a parte un paio di persone, vedo soltanto Shin e Satoshi!» si fermò un attimo a riflettere, «anzi, negli ultimi giorni solo Satoshi… Shin non esce più…»
Harue sapeva. Lo aveva allontanato lei quella sera: Shin insisteva troppo, voleva Ken tutto per sé anche durante la notte e non era un bene. Il legame era forte ormai, pericoloso.
Andava reciso.
E così lei tentò, ottenendo un allontanamento provvisorio.
«Per favore, nonna. Prometto che non lo dirò a nessuno, va bene? Sarà il mio segreto, anzi, il nostro! Come una squadra, come una famiglia, perché noi siamo una famiglia, giusto?»
«Fidati, per il tuo bene e di questa città, fidati…»


Ken aveva smesso di uscire. La febbre era salita un pomeriggio, lasciandolo stanco, a letto da solo, chiuso nella sua camera. Nonna Harue aveva vincolato parte delle sue energie per prendersi cura di Ken, tralasciando alcuni dei doveri giornalieri. La Torre era scura quella sera, le luci erano spente.
«Strano…»
Il bambino si portò alla finestra, Lavandonia non era mai stata così buia. Dove prima c’era luce, anche se flebile, ora il nero.
E nel buio Ken vedeva le cose muoversi.
Quali cose? Non poteva saperlo, sua nonna non voleva rispondere nemmeno a questo.
Sentì sussurrare voci conosciute là fuori, le stesse dei suoi sogni, le stesse dei suoi amici. Si avvolse nella coperta sfoderata dal letto, si trascinò con fatica alla finestra della stanza e assottigliò lo sguardo: gli scuri non erano chiusi, nonna doveva averli dimenticati, e un nero così nero non l’aveva mai visto prima. Spostò le pupille a destra e a sinistra, alla ricerca della fonte di quei suoni.
Era sicuro fossero Shin e Satoshi, era così felice! Erano passati a trovarlo, sapevano che stava male… loro non volevano lasciarlo da solo, non come Harue che aveva raggiunto la Torre tutta trafelata, abbandonandolo malato in casa. Spalancò la finestra e rabbrividì: faceva freddo per la stagione, anche troppo, ma tanto lui era coperto.
Scavalcò il davanzale, poggiò i piedi nudi a terra e corse verso gli amici. Satoshi tentò di dissuaderlo, gli disse che avrebbe dovuto ascoltare le raccomandazioni della nonna, ma Ken non ascoltò. Li raggiunse, li abbracciò e in cambio ricevette il migliore dei sorrisi da parte di Shin, mentre l’altro piangeva.
«Ora sei davvero uno dei nostri, adesso non potrai andartene via mai più. I fantasmi della Torre non possono scappare da Lavandonia, e tu hai scelto di diventare un fantasma della Torre.»


Harue correva, correva quel tanto che il corpo acciaccato permetteva. Aveva udito fruscii lievi, lugubri, ascoltato piccole voci dai toni diversi.
Sussurri.
Passi.
Dove l’occhio non vedeva.
Le finestre della Torre ora nuovamente riflettevano sul terreno.
Lei aveva fatto più in fretta possibile: pregò con tutta se stessa di tornare a casa e ritrovare Ken steso a dormire, così come lo aveva lasciato, sentendosi sfuggire le ore del giorno dalle dita nodose. «Manca poco, manca poco.»
«Nonna?»
Si sentì chiamare dall’esterno.
Si voltò, e dove prima non c’era nessuno, ora tre bambini la stavano guardando: Shin sorrideva tenendo per mano Ken, in modo protettivo, Satoshi non riusciva nemmeno a guardarla negli occhi. Suo nipote invece si dondolava sui talloni, salutandola con la mano e sorridendo: «visto? Non è successo niente, stiamo giocando ai fantasmi della Torre!»
«Ken…»
L’ironia di Shin arrivò pungente. «Abbiamo vinto noi, vecchia.» Strattonò l’amico nella direzione dell’alta costruzione adibita a cimitero; «andiamo, andiamo nella Torre a giocare.»
«Ma io non posso…» Ken si sentì trascinare con una forza tale da farlo sollevare dal terreno. «Ho promesso…» Si voltò in direzione della vecchia, allungando il braccio verso di lei, ma era troppo lontana, sfinita. Era inginocchiata a terra, le mani tremanti a coprire un volto sfatto. Il bambino sentì il peso della colpa addosso, tentò invano di opporre resistenza e di raggiungere l’unica familiare che ancora aveva.
«Dove pensi di andare? È presto, andiamo a giocare nella Torre.» Shin strinse di più, strattonò e lo trascinò sul pavimento senza il minimo sforzo, allontanandolo dalla propria casa, da Harue.
Satoshi mimò un inchino profondo in direzione opposta, sussurrando un “mi dispiace”. Sapeva lei avrebbe sentito, e gli dispiaceva davvero, perché Ken non sarebbe più appartenuto a lei.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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