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Autore: Zobeyde    11/04/2023    2 recensioni
Prequel de “Gli ultimi maghi”
Sono anni turbolenti per l’Europa: la Belle Époque sta per tramontare, sotto l'incombere di una guerra come non se n’erano mai viste, e nella millenaria città di Arcanta, dove la magia esiste e i suoi abitanti hanno da sempre vissuto al riparo dalla corruzione del mondo, c’è chi non può restare indifferente ai cambiamenti fuori dalle sue mura incantate:
Abigail Blackthorn, in fuga da una gabbia dorata per aiutare chi soffre nelle trincee, dove inaspettatamente troverà amore e dannazione.
Solomon Blake, cinico, ladro, machiavellico, determinato a rendere la magia grande come un tempo, fino al giorno in cui scoprirà che ogni cosa ha un prezzo.
Zora Sejdić, maga decaduta che ha fatto dello spiritismo la propria arma per la scalata al potere. Un’arma però che si rivelerà presto a doppio taglio…
Dal testo:
[…] Vede, ambasciatore, io non credo né negli dei, né negli uomini. Credo che ognuno di noi, presto o tardi, venga chiamato a giocare un ruolo in una partita ben più grande. Deve solo capire qual è il suo. […]
Genere: Angst, Fantasy, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo, Violenza
Capitoli:
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DECADUTI

 
 
Čvava sero po tute
i kerava
jek sano ot mori
i taha jek jak kon kašta
vašu ti baro nebo
avi ker.

kon ovla so mutavla
kon ovla
ovla kon aščovi
me ğava palan ladi
me ğava
palan bura ot croiuti.[1]

 
Tratto da Khorakhané (a Forza di Essere Vento),
Fabrizio De André
 
 
Mostar, Bosnia.
Maggio 1914
 
 
Nel momento in cui scese dall’auto, Zora fu travolta da emozioni contrastanti.
Sotto un luminoso cielo primaverile, la campagna passava con naturalezza dal verde all’oro, con macchie rosso intenso laddove crescevano i papaveri, lungo il letto della Neretva; la cittadina si affacciava, con le casupole di pietra calcarea, le moschee e gli alti minareti, sulle sponde dirupate del fiume, collegate tra loro dal Ponte Vecchio. Quel paesaggio fiabesco la riportava all’infanzia, ad anni in cui il mondo non sembrava un posto troppo cattivo, e in cui persino rubare somigliava più a un gioco innocente che a una necessità.
Amir si era offerto di accompagnarla fino a destinazione, ma Zora aveva scelto di proposito di farlo parcheggiare a distanza dal campo: non avrebbe sopportato i commenti di Aisha sul fatto che adesso avesse addirittura un autista personale. “Sei così altolocata che ormai non posi un piede per terra senza che ti stendano un tappeto?” Cose del genere, insomma.
Camminò sotto il sole attraverso un sentiero che si snodava tra i campi, cuocendo nel cappotto color vinaccia che aveva indossato in fretta e furia quando aveva lasciato Sarajevo la notte prima, mollando sulla soglia di casa Krsta che continuava a darle della matta. Gli stivaletti col tacco erano inadatti a quel terreno accidentato e le stavano torturando i piedi, ma Zora resistette finché non giunse all’ansa della Neretva, dove sorgeva il ghetto: un piazzale polveroso, delimitato da baracche di legno, tende e carrozzoni sparsi qua e là, tra cui erano stati appesi panni ad asciugare.
Non è cambiato niente pensò, incerta se la cosa le facesse piacere o meno. Ragazzini chiassosi giocavano in cortili invasi dalle erbacce e donne col capo coperto sedevano sulle soglie di casa intrecciando ceste di vimini. Quanto agli uomini, c’era chi riparava la ruota di un carro, chi raggruppava greggi di pecore e chi, semplicemente, bighellonava appoggiato allo stipite di una porta, fumando la pipa e guardando storto qualunque volto nuovo si presentasse.
Come c’era da aspettarsi, il suo arrivo non passò inosservato; alcuni, nel riconoscerla, le rivolsero sorrisi e cenni di saluto, ma molti  – molte donne, soprattutto  – le riservarono sguardi diffidenti e pieni di freddezza.
«Ma guarda un po’ se non è la Piccola Zora Combinaguai!» tuonò una voce allegra e Zora vide venirle incontro un uomo sorridente, con un gran pancione rotondo e folti baffi neri, che conduceva per le briglie uno splendido baio di montagna.
La donna ricambiò all’istante il sorriso. «Zlatan, che piacere rivederti!»
Il vecchio allevatore di cavalli allargò le braccia per cingerla in una delle energiche strette che Zora ricordava bene, ma dopo aver lanciato un’occhiata al cappotto costoso di lei ci ripensò. «Perdonami, dimentico sempre che sei una gran dama adesso!»
Zora scosse la testa e lo abbracciò senza esitazione. «Sta’ un po’ zitto!»
Dopodiché accarezzò il muso del cavallo, felice di constatare anche lui si ricordasse di lei. «Vedo che Darko è in forma. É ancora goloso di lamponi come lo ricordo?»
«L’ho messo a dieta, inizia a prendere peso!» rispose Zlatan, battendogli una pacca affettuosa all’altezza del garrese. «Stiamo invecchiando entrambi, mi sa.»
«A me sembrate sempre due ragazzini.»
Il sorriso di lui perse un po’ di vivacità. «L’hai…l’hai già incontrata?»
Zora smise di sorridere. «No. Sii onesto con me: è tanto grave?»
Zlatan sospirò. «Faresti meglio a vederlo coi tuoi occhi, piccola. Chiede sempre di te, sai? Da giorni non dice altro che il tuo nome.»
Zora sentì la pelle d’oca danzarle lungo la schiena, ma si sforzò di mostrarsi calma. «Aisha è con lei?»
«Sempre. Non la lascia un attimo, sia di giorno e che di notte. Tua sorella è davvero una ragazza d’oro.»
Già. Pensò Zora tra sé, con una punta di amarezza. Aisha la santa.
Era sempre stata la preferita, da quando erano bambine: Aisha la figlia perfetta, ubbidiente e silenziosa, e adesso anche la moglie e la madre perfetta, che vive secondo le tradizioni del suo popolo e si prende cura della propria famiglia. Non come quell’altra, che ha disonorato le sue radici e se l’è svignata col primo sconosciuto senza essere neanche essere sposata…
Zora si impose di scacciare via quei pensieri infantili. Non era il momento di mettersi in competizione con sua sorella.
Lasciò che Zlatan l’accompagnasse alla capanna in cui lei e Aisha avevano trascorso l’infanzia. Le si strinse il cuore quando passarono davanti al carrozzone di suo padre, che lui stesso aveva dipinto e intagliato con amore, sognando di usarlo un giorno per portare la sua famiglia di fiera in fiera, di paese in paese.
“Noi siamo come il vento, Zora” le aveva detto una volta, mentre lo aiutava a verniciare gli elaborati decori a forma di fiori e piccoli uccelli. “Siamo nati liberi. Nessuno ha il diritto di tarparci le ali e tenerci incatenati a terra.”
Ormai, il carrozzone giaceva abbandonato in un angolo del cortile, sbiadito dal trascorrere degli anni e dalle intemperie. Nessuno aveva osato mettervi mano dal giorno della morte di Kosta Sejdić: portava sfortuna, dicevano gli anziani, proseguire il lavoro cominciato da un defunto.
Zora entrò in casa, buia, spoglia, piena di spifferi e cigolii. Notò una gallina che chiocciava impertinente sul tavolo della cucina e la scacciò all’istante con un grido.
«Sciò! Il tuo posto non è qui!»
«Non credevo saresti tornata sul serio.»
Zora si volse di scatto, e nella penombra scorse la folta chioma castana e il profilo adunco di Aisha, che la scrutava con le braccia incrociate.
Zora prese tra le mani la gallina starnazzante e la posò a terra. «Ehm, ciao.»
«Ciao a te, sorellina» replicò Aisha, e anche nella scarsa luce, Zora riconobbe il suo cipiglio da rimprovero.  «Ti sei fatta attendere come al solito.»
«Sono venuta prima che ho potuto» replicò Zora, facendo fatica a trovare le parole adatte. Non voleva ammettere che era colpa di quell’idiota di Krsta se non aveva letto prima il suo messaggio. «Ho avuto modo di leggere la posta solo ieri sera, sono rientrata da San Pietroburgo pochi giorni fa e…»
«Giusto. Dimenticavo che ormai hai un’agenda fitta di impegni.»
Zora strinse i pugni, ma incassò il colpo a testa alta. «Be’, ora sono qui, no?»
Aisha non commentò, ma il suo sguardo la percorse da cima a fondo. «Se vuoi darmi il cappotto, te lo metto in un posto dove non prende polvere.»
«Lo tengo addosso, grazie.»
Lei fece spallucce ed entrò in una stanza. «Vieni, vuole vederti.»
Zora la seguì, sentendo lo stomaco sprofondare.
In una piccola camera disadorna, Naditza Sejdić, giaceva a letto sotto una coperta di lana formata da tanti quadrati colorati cuciti assieme; su un tavolino vi erano una brocca e una scodella di minestra, e dentro un secchio pieno d’acqua erano state lasciate in ammollo delle bende.
«Stavo provando a farla mangiare» spiegò Aisha. «Ma è un’impresa: la febbre non vuole saperne di scendere.»
Zora si avvicinò al capezzale della madre, osservò il suo volto pallido e magro, coi capelli scuri e sudati incollati attorno alla fronte. «Mamma, mi senti? Sono io, Zora.»
Le palpebre della donna fremettero e subito dopo si schiusero. «Zora…»
«Sì!» Zora si inginocchiò e prese le mani di lei fra le sue. «Sono qui, sono tornata!»
Naditza emise un sospiro rauco. «Pensavo non ti avrei più vista.»
Zora sentì le lacrime invaderle gli occhi e strinse le mani della donna. Le sembravano così fragili. «Mama.»
Aisha borbottò: «D’accordo, io…vi lascio un momento da sole. Falla mangiare un po’, se riesci.»
E lasciò la stanza, ma non prima di essersi lanciata un’occhiata titubante alle spalle.
Zora prese ciotola e cucchiaio. «Che ne dici di provare a mandare giù un boccone, eh mamma? Così faremo contenta Aisha e le toglieremo quella brutta smorfia dalla faccia.»
Avvicinò alle labbra della donna il cucchiaio, ma lei lo allontanò con un gesto deciso. «Non adesso: ho bisogno di parlarti, Zora. Avrei voluto farlo prima, ma tu te ne sei andata…»
«Mi dispiace.» Zora si morse l’interno della guancia, sperando di riuscire a mandar giù il nodo alla gola. «Non volevo lasciarvi, ma io…io dovevo fare un tentativo, mamma! Dovevo provare a costruirmi una vita diversa da questa, non potevo più restare qui!»
Si aspettò che sua madre la accusasse di essere una figlia degenere, di essere una vergogna per la loro famiglia. E invece, le labbra screpolate di Naditza si distesero in un sorriso.
«Lo so, piccola mia» le disse con dolcezza. «Tu sei diversa da Aisha: hai sempre avuto un animo inquieto, come lo aveva tuo padre. Dimmi, hai ancora con te le carte di Baba[2] Khadija?»
Zora affondò la mano nella tasca del cappotto finché non trovò il sacchetto di velluto nero. «Non me ne separo mai.»
«E ti parlano ancora?»
Zora prese un momento prima di rispondere. «Non quanto vorrei.»
«Forse sei tu che hai smesso di ascoltarle.»
«O forse, Baba si sbagliava su di me» replicò Zora, con ironia. «Non sono come lei, non possiedo la Vista.»
«Non è la Vista ciò che conta» ribatté sua madre, guardandola negli occhi. «Ma la Volontà! È lì che risiede il Vero Potere...»
Tossì forte e Zora la aiutò a bere un sorso d’acqua. «D’accordo, d’accordo, vorrà dire che proverò a crederci di più.»
«Non è di questo che sto parlando, Zora.»
«E allora di cosa stiamo parlando, esattamente? Non so nemmeno perché hai voluto tirare in ballo i tarocchi proprio adesso…»
«C’è una cosa che Baba e io avremmo dovuto dirti da tempo» la interruppe Naditza, respirando con difficoltà. «Un segreto che riguarda la nostra famiglia.»
«Di quale segreto parli?»
«Guarda sotto il letto.»
Zora aggrottò la fronte, perplessa, ma fece come sua madre aveva chiesto: si chinò e sollevò le coperte. «C’è una specie di scatola.»
«Tirala fuori.»
Zora ubbidì. Era più pesante di quanto sembrasse, interamente rivestita di legno intagliato. «L’ha fatta papà» commentò, riconoscendo la sua mano nelle delicate decorazioni incise.
«Sì. Per favore, aprila.»
Zora sollevò il coperchio, ma rimase un po’ delusa: dopo tanta teatralità, tutto si sarebbe aspettata di trovare all’interno tranne che un libro, tra l’altro vecchio e malridotto, rivestito da logora pelle nera.
«Sai che cos’è?» chiese Naditza.
«Niente che valga la pena tenere nascosto, questo è sicuro.»
«É un grimorio, Zora.»
Lei incrociò il suo sguardo, le sopracciglia inarcate. «E sarebbe?»
«La più preziosa reliquia della nostra famiglia» spiegò Naditza. Ebbe un altro violento attacco di tosse e Zora, allarmata, le disse che non avrebbe dovuto sforzarsi. Ma non appena riuscì a trovare il fiato, sua madre continuò imperterrita: «Tramandata di generazione in generazione, di madre in figlia. Baba me lo donò al compimento dei miei sedici anni, ed era suo volere che al momento giusto io lo consegnassi a te.»
«A me?» ripeté Zora, stupita. «Non capisco, perché non ad Aisha? È lei la maggiore.»
«Aisha è una donna piena di qualità» mormorò Naditza. «Ma Baba riteneva che il potere non abbia mai messo radici in lei quanto in te
Zora rabbrividì a quelle parole. «Mamma, credo che ti si sia alzata la febbre. Stai delirando…»
«Non essere sciocca, Zora. Ora taci e ascoltami.»
«Ah, io sarei la sciocca? Sei tu che blateri storie assurde su streghe e libri di magia! Mi sembra di sentire Baba!»
«Baba non mentiva» ribatté Naditza con forza. «Le storie che vi raccontava da piccole erano vere! Discendiamo da un’antica stirpe di maghe, di veggenti e guaritrici: nel Vecchio Mondo, viaggiavamo di villaggio in villaggio con il nostro bagaglio di segreti. Le persone ci chiamavano Madri ed eravamo benvolute ovunque andassimo. Fino al giorno in cui gli Arcistregoni di Arcanta ci hanno derubate, rendendoci delle Decadute.»
Zora avvertì una bruca fitta allo stomaco. Era sciocco, lo sapeva benissimo, come lo era aver paura del buio. Ma la parola “Arcistregone” era associata a tutte le storie più spaventose che avesse sentito da bambina…
“Sono demoni” l’aveva avvertita più volte Baba, mentre lei e Aisha tremavano come conigli sotto le coperte, alla luce fioca di una lucerna. “Ladri e bugiardi, corrotti dal potere. Ovunque vadano portano miseria e dolore, ed è solo colpa loro se la magia sta abbandonando il nostro mondo!”
Magia…sua madre le stava seriamente parlando di questo?
Zora si era sempre ritenuta una donna sveglia e dotata di cervello. Un buon cervello, o almeno, così le aveva sempre detto Krsta. Di sicuro sapeva di essere abbastanza intelligente da discernere una fiaba dai fatti concreti, e sapeva anche bene che Baba era una donna anziana e superstiziosa, con una strana percezione di cosa fosse reale e cosa no…
Aveva messo su un’intera carriera basandosi su quanto suggestionabili potessero essere le persone, se portate al raggiungimento di un determinato stato emotivo. Aveva seguito seminari, letto libri scritti da uomini di scienza, affinché l’aiutassero a comprendere meglio il funzionamento delle menti umane. Eppure…eppure continuavano a esserci così tante cose che ancora non comprendeva. Come quei misteriosi incidenti che, in preda alla rabbia e alla paura, faceva accadere intorno a sé, e che le provocavano quegli strani sanguinamenti dal naso, per esempio…
«Poche di noi sono riuscite a conservare una minima parte di quell’antico potere, a costo di grandi sacrifici» concluse Naditza, faticosamente. «Baba è stata una di quelle maghe, e ora spetta a te, figlia mia, custodire il suo lascito!»
Zora guardò ancora una volta il libro che stringeva in mano, stordita da tutte quelle informazioni. «E cosa vuoi che ne faccia?»
«Leggi, studia, impara. È la tua eredità, Zora, il bene più prezioso che posso lasciarti. E forse, una volta che avrai scoperto quanto potenziale hai dentro di te, capirai che non hai bisogno di altro per essere libera.»
«Ma non so neanche da che parte iniziare!»
«Troverai il modo» gracchiò Naditza. «Non smettere mai di ascoltare le carte, loro ti guideranno. Il Tutto è in tumulto, Baba lo sapeva. Lei poteva ancora sentirlo scorrere intorno a noi: parlava di un cambiamento, del ritorno della Grande Magia nel mondo. Quando il momento arriverà, credeva che la nostra famiglia avrebbe avuto un ruolo importante da svolgere.»
Zora scosse la testa. Le sembrava tutto così assurdo. «Io non capisco! Quale ruolo? Di cosa stai…?»
Pochi istanti dopo, perse il controllo di quel che stava accadendo.
Il corpo di Naditza si irrigidì, i suoi occhi si rovesciarono all’indietro, le braccia e le gambe furono scosse da tremiti. Zora aveva urlato. Aveva afferrato le spalle di sua madre, aveva chiamato aiuto. Aisha era apparsa immediatamente al suo fianco, seguita a ruota dal marito Nazim e dai vicini.
Alcune anziane si coprirono la testa con pesanti veli neri, accesero delle candele e presero a recitare preghiere, mentre Zlatan teneva a distanza i figli di Aisha e gli altri bambini e cercava di distrarli da quel che stava succedendo in casa.
Zora ebbe l’impressione che tutto si stesse svolgendo troppo velocemente, che il tempo le sfuggisse dalle mani, come se stesse guardando la scena attraverso gli occhi di qualcun altro. Rimase pietrificata in un angolo della stanza, smarrita e impotente come un animale in trappola, mentre la crisi di sua madre raggiungeva il culmine e pochi istanti dopo il suo corpo si afflosciava inerte tra le braccia di Aisha e il silenzio piombava come un sudario su ogni cosa.
 
 
I funerali si svolsero il giorno seguente, secondo il rito musulmano.
Come da tradizione, un gruppo di donne si occupò della vestizione della defunta; Aisha fece indossare a Naditza il suo vestito preferito e provvide lei stessa a lavarle e acconciarle i capelli.
Zora preferì dedicarsi all’organizzazione della pomana[3], aiutata da Nazim, Zlatan e dai suoi cugini. Non era previsto che si trattenesse lì così a lungo, e appena le fu possibile, raggiunse Amir in città, dove aveva trovato alloggio, per avvisarlo di aspettare qualche altro giorno prima di riaccompagnarla Sarajevo.
Ne approfittò anche per telefonare a Krsta: percepì il suo sforzo nel dimostrarsi comprensivo della situazione, ma non mancò di ricordarle che a causa sua aveva dovuto annullare tutta una serie di appuntamenti importanti e di occasioni che probabilmente non si sarebbero mai più presentate. Zora richiese a se stessa un enorme autocontrollo per non sbattergli la cornetta in faccia.
Trascorse due giornate intere insieme alle sue zie, parlando poco e cucinando molto, preparando focacce e torte per il banchetto, osservando poi parenti e amici di famiglia che bevevano e brindavano, e infine stringendo mani e ricambiando abbracci. Ma dentro di sé si sentiva svuotata, un involucro che agiva soltanto perché mosso da basilari riflessi meccanici, costretta a rivivere ancora una volta l’incubo di quando era morto suo padre...
«Devo tornare a Sarajevo, Aisha.»
Aveva deciso di darle la notizia due giorni dopo il funerale, approfittando di un momento in cui erano sole in casa, a pulire e sistemare dopo che gli ultimi ospiti erano andati via.
Sua sorella non aveva risposto subito, concentrata com’era nel passare la scopa di saggina su ogni centimetro del pavimento.
«Aisha» riprovò Zora, senza più neanche la forza di alzare la voce. «Non posso restare, lo sai.»
«Potresti almeno permettere ai tuoi nipotini di riprendersi dalla morte della nonna» borbottò a quel punto Aisha, stizzita. «Prima di annunciare che dovranno dire addio per sempre anche alla zia.»
«Non sarà un addio…»
«Sì che lo sarà!» Aisha si voltò a guardarla, gli occhi accesi di furore. «A te non importa niente della famiglia, sei venuta fin qui solo per stare a posto con la coscienza!»
«Questo non è vero» ribatté Zora, ferita. «Sono venuta per aiutare! So quanto è stato difficile per te occuparti di tutto.»
«Difficile? Era mia madre! Ho fatto quel che andava fatto perché l’amavo! Ma cosa ne vuoi saperne tu del senso del dovere? Appena le cose si complicano sparisci, lo facevi anche quando eravamo piccole! Hai sempre cercato una scappatoia!»
«Quindi costruirmi una carriera per te sarebbe “cercare una scappatoia”?» chiese Zora, sentendo turbinare dentro di sé la collera. Sapeva già dove le avrebbe portate quel discorso. «Solo perché tu hai scelto di accontentarti non significa che debba farlo per forza anche io!»
«Carriera» ripeté Aisha, con una smorfia. «Non credere che non sappia cosa fai: inganni le persone, ti approfitti di loro per denaro. Tu e quello squallido individuo!»
«Be’, mi dispiace se non apprezzi la vita che conduco» sbottò Zora. «Ma è grazie ai soldi che vi spedisco ogni mese se i tuoi figli hanno tutti i giorni cibo in tavola.»
Aisha la fulminò con lo sguardo. «Se abbiamo di che vivere è solo perché Nazim lavora sodo. Non sappiamo che farcene della tua carità!»
«Già, lo stesso Nazim che rubava carbone dai treni merci per rivenderlo?»
«Non le fa più quelle cose» ribatté Aisha, arrossendo leggermente. «Lavora come carpentiere, adesso. Insieme a Zarif, che tu hai rifiutato!»
«Zarif aveva paura di fare il bagno!»
«Anche lui è diventato un uomo rispettabile, che si guadagna da vivere in modo onesto!» scattò Aisha. «Certo, non ha così tanti soldi da potersi permettere palazzi e automobili e vestiti costosi. Ma almeno non truffa gli altri spacciandosi per qualcuno che non è!»
Zora sollevò le mani. Ne aveva abbastanza. «Non sono venuta qui per litigare, Aisha, ma per condividere un momento doloroso con mia sorella. Ma a questo punto forse è meglio se continuiamo a scriverci.»
Aisha serrò la mascella, gli occhi velati di lacrime. «Bene.»
Sentendo un orribile macigno sul petto, Zora raccolse soprabito e borsa e si apprestò a lasciare la casa.
«Ti ha dato il grimorio alla fine, vero?»
Lei si fermò sulla soglia e tornò lentamente a voltarsi. «Tu…lo sapevi?»
«Certo che lo sapevo» replicò Aisha, con voce dura. «Lo ha custodito gelosamente per anni, sperando che un giorno sarebbe riuscita a dartelo. Lei e Baba hanno sempre riposto una fiducia cieca in te, così come papà: promettimi solo che almeno in questo non li deluderai.»
Zora sentì le lacrime premere in fondo alla gola e preferì non dire niente. Le dedicò solo un breve cenno del capo e poi uscì, stringendo al petto la borsa con dentro l’ultimo dono di sua madre.



 
 

[1] “Poserò la testa sulla tua spalla e farò un sogno di mare, e domani un fuoco di legna. Perché l'aria azzurra
diventi casa, chi sarà a raccontare chi sarà. Sarà chi rimane. Io seguirò questo migrare. Seguirò questa corrente di ali”
[2] “Nonna”
[3] Veglia funebre della tradizione Rom Khorakhané
  
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