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Autore: Aaeru    13/04/2023    9 recensioni
Su suggerimento dell'amica Chiara, ho provato a dare un seguito alla narrazione di "La sola cosa da fare": qui si entra nel territorio impervio del "What if" ma spero comunque di non aver tradito lo spirito dei personaggi originali. Mi saprete dire...
Un ringraziamento particolare a Xwaterice per la consulenza medica! ;-)
Genere: Drammatico, Fluff, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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E così ci è andata da sola al ballo: una comparsata che sarebbe arduo definire di cortesia. Si è mostrata per quello che è: una donna in divisa finalmente padrona del proprio destino.
Non ha voluto che André la accompagnasse perché fosse chiaro che quel gesto apparteneva solo a lei e a nessun altro: la marionetta ora cammina senza guida, ha strappato i fili che la tenevano avvinta al suo burattinaio.

Lo ha intuito pure Victor, che non ha resistito a prendere parte a quell’inutile farsa unicamente per vederla splendere di luce propria.
E si è sentito stranamente deluso, quando volgendo lo sguardo attraverso l’enorme vetrata del salone di Palazzo Bouillé, non ha scorto quell’altro in beffarda attesa, briglie in mano e ghigno compiaciuto.
Allora ha cercato conferma dall’uomo che avrebbe desiderato per suocero ma ha trovato solo laconica rassegnazione.

 

Li ha visti tornare insieme nella promettente mattina di un tiepido inizio di maggio, mentre stava per smontare dal turno di guardia notturno.
I raggi del sole erano ancora morbidi della sfumatura rosata dell’alba, così ha pensato di stare sognando, perché non esiste motivo al mondo per avere tanta fretta di rientrare in quel mondezzaio che è la caserma della Guardia Metropolitana.
Hanno cavalcato affiancati fino quasi all’ingresso, poi il cavallo nero della recluta Grandier ha rallentato per ristabilire l’ordine naturale delle cose.
Alain è sceso di corsa per andare incontro almeno all’amico, poiché l’altra aveva già riparato nel suo ufficio. E s’è fatto bastare quell’aria beata di chi non ha più nulla da chiedere alla vita dipinta sfacciatamente sul volto di André, perché ci vuole cautela con le persone felici.  

Resta che, pur conservando intatto il suo contegno freddo e distaccato, il colonnello ora si porta Grandier ovunque e, ironia della sorte, a lui tocca fare da reggimoccolo.
Ma nemmeno da questa posizione grottescamente privilegiata la sua frustrata curiosità trova soddisfazione.  Poi succede di andare in missione per scortare dei nobili spagnoli e allora, finalmente, li vede. comprende

È tutto lì, in quegli attimi sospesi nel boato di un’esplosione che li scaraventa in tre sugli argini di un fiume: la fredda determinazione con cui André attira Oscar a sé per farle da scudo con il proprio corpo e la docilità fidente con cui lei si abbandona all’abbraccio parlano di una fisiologica consuetudine.

Si dà del cretino per non esserci arrivato prima: non è testarda illusione quella di André, bensì piena cognizione di sé e dell’altra. Il cuore burbero di Alain esulta di cameratesca soddisfazione vedendo la mano del compagno stringere saldamente il polso del comandante nell’oblio dell’incoscienza.

Poi il mondo prende a vorticare e gli amici diventano nemici, ogni certezza appena acquisita vacilla: si sospetta che il comandante abbia denunciato quel tordo di Lassalle per essersi venduto il fucile e a de Soissons non resta che difendere l’onore suo e del resto della Compagnia B. Mentre Grandier torna a essere  lo stolto senza speranza ammaliato da una virago.

Dura poco, fortunatamente, anzi è la suddetta virago a smuovere montagne per salvare la recluta sprovveduta, così gli stanzoni ammuffiti della caserma risplendono del nitore inedito della fiducia.

Mancherebbe solo un bel matrimonio a completare il grazioso quadretto, si sorprende a pensare Alain in un momento di ozio in branda, ma bisogna osservare prudenza con i desideri.  Perciò gli manca poco a schiattare nel momento in cui la sua dolce sorellina gli annuncia di essere in procinto di maritarsi.

Un sentore di cattivo presagio lo prende quando gli dicono che quei due sono andati a Parigi, di sera, per rendere grazie al tal generale che ha interceduto per Lassalle. Ovviamente il comandante ha scelto André quale rappresentante della brigata, ché loro altri non si sanno comportare in società ed è meglio evitare ulteriori figuracce. Ma non sono né la gelosia né l’invidia a pungere il cuore di Alain bensì una schietta inquietudine: l’assalto ai cocchi aristocratici sta diventando un passatempo popolare, in tutte le accezioni possibili dell’aggettivo e del termine, e qualcosa gli dice che finirà male. 

 

La carrozza di casa de Jarjayes ha appena imboccato l’ingresso del faubourg Saint-Antoine quando l’aria si fa pesante. 
Non è per quella cappa di umidità che precede i temporali estivi, né una questione di odori, comunque non particolarmente sgradevoli in questo angolo di città votato all’ebanisteria, quanto di vibrazioni, percepite dai cavalli prima che dagli uomini.
Nel vano tentativo di scongiurare il pericolo gli animali rallentano il passo fino ad arrestarsi, scuotono le teste e nitriscono nervosi, sferzati inutilmente dal vetturino Pierre che, distratto dall´anomalo comportamento, non fa caso all’attimo in cui il buio, malamente rischiarato dai pochi lampioni ad olio, si accende del fuoco delle fiaccole di decine di convenuti.

È l’ora dello sfogo serale, di quel rito che richiama, senza bisogno di annunci, chi è avido di giustizia brutale. Accecato dalle fiamme e dal terrore, Pierre non ha modo di distinguere volti e corpi, confusi e amalgamati dalla fame e dalla rabbia.
Ma può sentire l’ansito opprimente dei petti, i passi inesorabili, i latrati furiosi, lo stridore degli attrezzi impugnati goffamente come armi. E, infine, lo schianto del proprio corpo sbalzato dalla pedana un secondo prima di perdere i sensi. 

Ai passeggeri non va molto meglio: André è il primo a essere trascinato fuori dal finestrino, agguantato per il bavero della giacca, i  piedi non toccano nemmeno terra mentre viene sballottato dalla marea umana che lo trascina nella direzione opposta a quella in cui vede sparire Oscar, inghiottita da flutti di carne e di rancore.

Si chiamano, implorano pietà non per sé ma per l’altro, ciascuno prega di essere la sola vittima del massacro, perché sopravvivere altrimenti non sarebbe fortuna ma punizione. 

Ma i minuti scorrono lenti, inesorabili e André non riesce a intravedere spiragli di fuga, men che meno quando si ritrova schiacciato in un cantone sotto una gragnola di colpi. Sta per aggrapparsi all’esangue consolazione di non dover assistere alla morte dell’amata, quando nei suoi orecchi esplode un grido che ferma il tempo e attutisce il dolore. La voce di una madre del popolo, la voce di Thérèse Lassalle. È grigia e macilenta, ma nei suoi occhi si scorge fiera indignazione.

L’angolo in cui hanno intrappolato il soldato è attiguo all’ingresso di quel tugurio che lei e i suoi figli chiamano casa e Thérèse non ha potuto restare indifferente riconoscendo nella vittima designata un commilitone del suo primogenito. Ci si è buttata addosso come se si fosse trattato del suo Gérard, senza esitazione alcuna, malgrado non ne conosca nemmeno il nome.

Così quelle belve si sono fermate e lei adesso glielo può dire cosa pensa delle loro iniziative, che un conto comunque è prendersela con i nobili, un altro con quei poveri giovani che si arruolano per un tozzo di pane. E che magari quel tozzo neanche lo tengono per sé ma devono lasciarlo ai genitori, ai fratelli e alle sorelle. Grida che la fame è fame e c’è mica da far tanto gli schizzinosi, o gli idealisti, quando si deve sopravvivere.

Non che il discorso suoni particolarmente convincente, ma l’inopportuna interruzione ha guastato la gioiosa atmosfera di rappresaglia e la sete di sangue andrà placata altrove.

Come un solo uomo gli aguzzini della recluta Grandier si voltano per riunirsi all’altra metà della spedizione punitiva. Il sollievo di André viene spazzato via dalla forza della disperazione che lo rimette in piedi per cercare una scorciatoia che gli permetta di raggiungere Oscar prima di loro. Li ha sentiti inneggiare all’impiccagione e c’è un solo posto, nelle vicinanze, dove certe aspirazioni possano essere realizzate in maniera plateale.
Thérèse Lassalle gli indica la direzione, il resto lo fanno le sue gambe galvanizzate dall’adrenalina e i ricordi dei loro sopralluoghi, delle loro serate balorde nel ventre della città.

Sbuca arrancando di fronte al sagrato dell’abbazia di Saint-Antoine-des-Champs proprio mentre il drappello dei Dragoni di Svezia irrompe per disperdere i riottosi. Lo sguardo si perde nel bailamme dei corpi, allora grida il nome di lei nella vana speranza di ottenere un’eco in mezzo al fragore degli spari. Appoggia le spalle al muro e si risolve ad attendere, sopraffatto dalla propria impotenza. 

Quando gli ultimi rivoli di violenza defluiscono dalla piazza, finalmente, li vede.

 

Ogni fibra del suo corpo è impastata di dolore, ma la bocca di Oscar riesce ancora ad articolare un’unica frase di senso compiuto, la denuncia dell’assurdo scambio di identità che condanna André. Queste le sue ultime parole mentre sente dita robuste ghermire la gola per ficcarle la testa dentro il cappio lasso.

Se bastasse questo a salvarlo morirebbe volentieri, ma sa bene che non è così. Allora si dimena in un ultimo guizzo d’orgoglio e di vita, cogliendo di sorpresa i suoi carnefici che mollano la presa, ma scivola all’indietro. 

Rinviene per terra, con le spalle mollemente appoggiate a un cassone di legno che avrebbe dovuto fungere da patibolo improvvisato. La sua coscienza si lascia guidare dalla calda voce baritonale che scandisce le sillabe del suo nome con sconcertante apprensione.

Lo sguardo nebuloso trova le iridi grigie del conte di Fersen: il compimento di un sogno che appartiene ormai a un’altra vita, a una donna che  lei non è più. O che forse non è mai stata davvero. Allora delusione e sgomento rimescolano il sangue, i muscoli sfranti si tendono per mettersi alla ricerca di colui che le appartiene. Ed è colui a cui sente di appartenere.
Lo realizza nel momento esatto in cui sancisce tale proprietà con la banalità di un aggettivo possessivo accostato al nome di André, invocato con forza.

“Va bene, Oscar, non preoccupatevi: penserò io a salvare il vostro amico”, la rassicura Fersen, un poco sorpreso, forse, ma non così stupito. 

“OSCAR!”, richiamo insperato che rende il tempo della ricerca breve: André compare alle spalle del conte, piegato ma non spezzato dalle busse. Una sola immagine riflessa nella luce smeraldina dell’occhio scoperto. Si accovaccia cauto sulle gambe stremate e tende una mano per stringere quella di lei, che lo fissa incredula e stravolta. 

“Il mio André, devo trovarlo…”, balbetta l’altra un’ultima volta.

“Sono qui. È tutto finito, Oscar. Sono qui. Torno sempre da te, lo sai”, sussurra lui attirandola piano a sé. Lei si accoccola contro la sua spalla, rinfrancata dal profumo della pelle salva e abbassa le palpebre, mentre il comandante dei Dragoni manda a chiamare una vettura senza stemmi per ricondurli a casa. 

C’è qualcosa di solenne  nel corteo militare che scorta l’umile carrozza fuori dalle porte della città.  Giunti all’altezza di quella radura dove, tanti anni prima, si è congedato sperando di riuscire finalmente a proteggere la donna amata,  il conte di Fersen fa arrestare la marcia e si avvicina all’abitacolo per un ultimo saluto:

“André, non ho motivo di raccomandarvi di prendervi cura della nostra Oscar: l’avete sempre fatto e nessuno saprebbe farlo meglio di voi. Ma c’è una cosa che tengo a dirvi, per quel che può valere di questi tempi: non esiste al mondo un uomo più degno di lei”. Pronuncia queste parole con ansiosa convinzione, quasi temendo che l’altro possa non credergli.

“Vi ringrazio, conte di Fersen, grazie di tutto”, risponde André, orgoglioso ma anche un po’ commosso: avrebbe potuto odiare l’uomo che ha tenuto il cuore della sua Oscar lontano per tanto tempo, ma sarebbe stato un errore.  Ora, più che mai, ne ha la conferma. Del resto, è facile essere magnanimi quando stringi tra le braccia l’amore della tua vita nella fulgida aurora di un futuro che non è più solo da immaginare.

   
 
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