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Autore: time_wings    16/04/2023    0 recensioni
[AtsuHina]
In una città schiacciata dal silenzio e dal suo grigio, basta una sola nota per accendere un colore. Casualità e forza di volontà si scontrano e forse, se si presta attenzione, si riescono a udire le crepe nel muro.
Una storia in cui, alla fine, il silenzio conta tanto quanto la musica.
Nel mezzo si incontrano frigoriferi quasi-parlanti, errori di numerazione, consegne noiosissime, fotografie, cactus, muraglie cinesi, saggi in incognito, soglie da spazzare e spuma di mare.
Hinata suona il violino e Atsumu fotografa solo quello che gli piace.
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Osamu Miya, Shouyou Hinata, Yachi Hitoka
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Fase 4 - depressione



Shouyou Hinata era fiero di proclamarsi nuovamente membro della muraglia cinese umana. Una marmaglia cinese.
Il giorno prima aveva dato un esame parecchio difficile e aveva esaurito tutte le sue scorte di cibo. Era dunque di nuovo in fila al conbini e non aveva alcuna ragione al mondo per essere impaziente, eppure lo era. Diede le spalle al negozio e si trovò davanti un uomo grosso e barbuto, alto mille metri più di lui. Deglutì a disagio, incontrando lo sguardo austero dell’uomo.
Poi il signore gli sorrise e Hinata se ne accorse perché era un sorriso così grande, ma così grande, che strabordò dalla mascherina, gonfiandogli le guance e facendogli praticamente sparire gli occhi.
Hinata ricambiò il sorriso e sperò che l’uomo lo vedesse.
“Senta,” iniziò lui e Shouyou non invase il suo spazio personale, ma si inclinò nella sua direzione, dando alla conversazione una certa aria cospiratoria, “lo vede quel chiosco laggiù?”
Shouyou seguì il pollice grande tre metri del signore, poi annuì varie volte di fila.
“Qualunque sia la cosa che la turba, un fiore è sempre una buona risposta.”
Hinata sgranò gli occhi e fissò lo sguardo sul chiosco di fiori. Ad essere del tutto onesti, non era neanche sicuro che un chiosco del genere fosse legale, ma quell’interruttore che rendeva Shouyou una persona a cui succedevano le cose era suscettibile a quel tipo di casualità.
“Le tengo il posto.”
Non ci pensò due volte. Ringraziò mille volte il signore e si diresse senza attendere un attimo di più al chiosco di fiori.
“Salve!” lo salutò una donna. Doveva avere due milioni di anni e spuntò dal basso come se l’arrivo di Hinata l’avesse evocata. “Cerchi qualcosa?”
La risposta giusta era no. Non cercava nulla, ma Hinata non diede alla donna la risposta giusta. Le diede una risposta vera, indicando un ripiano pieno di cactus.
La donna inarcò un sopracciglio e lo studiò attentamente, come se Hinata avesse detto qualcosa di inaspettato.
“Un cactus? Vuoi quello col fiore o senza?”
Shouyou aggrottò la fronte, confuso, poi si strinse nelle spalle e con leggerezza rispose: “Quello col fiore, grazie.”
“Oh, il mio lavoro qui è già finito!” La signora infilò una mano ossuta e sottile tra gli aghi di cactus e raccolse il vasetto che aveva scelto per impacchettarlo. “Per altri fiori, vienimi a trovare nella città in cui non brilla mai il sole.”
“Okay?”
Con un sorriso e un gesto sbrigativo della mano, la signora lo invitò ad andare e Shouyou tornò in fila con un cactus stretto tra le mani e solo un’adolescente tra lui e la commessa del conbini.
In quattro e quattr’otto fece la spesa e si diresse a casa con un cactus e una busta piena di viveri.
Jackpot.
Ci sono due cose di cui Shouyou non venne mai a conoscenza sulle interazioni che aveva avuto quel giorno. La prima era che, quando ebbe finito di fare la spesa, il chiosco di fiori non c’era più. La seconda era che, quando giunse il turno del gigante buono, questo chiese alla commessa se vendevano zebre da corsa. La donna scosse la testa desolata e gli consigliò di rivolgersi a qualcun altro. “Oh, sarà per la prossima volta” disse lui, concedendole uno dei suoi sorrisi, poi si rivolse al resto della marmaglia cinese, “mi raccomando, diffidate dai tapioccoli aviatori”.
 
***
 
“Scordatelo.”
Prima che Osamu potesse alzare gli occhi al cielo e impartire di nuovo l’ordine, Atsumu si buttò a terra e cominciò a fare le flessioni.
“Che stai facendo?” gli domandò esasperato.
“Attività da coronavirus, credo sia una delle più gettonate, tra l’altro.”
“Già, tra chi sta tutto il giorno chiuso in casa e non va al lavoro.”
“Ma è proprio questo il punto, io non lavoro, ‘Samu. Mi sono appena licenziato.”
Osamu depositò l’ultimo pacchetto nella borsa termica e chiuse la zip per evitare danni. “A Kyoryuchi.”
“Mi hai sentito?” domandò Atsumu, ormai seduto a terra, con i gomiti poggiati sulle ginocchia.
“Purtroppo sì. A Kyoryuchi, non fare deviazioni, puoi percorrere la strada una sola volta, dopo la consegna non andare in giro.”
Atsumu si rialzò e allargò le braccia, sconcertato. “Credi che sia un codardo?”
Osamu fece spallucce e gli porse la borsa con aria impaziente. “Non pensare neanche lontanamente di aprire una vaschetta e sputarci dentro.”
Atsumu si portò una mano al petto, offeso. “Davvero? Credi…”
“Ci avevi pensato, vero?”
Distolse lo sguardo. “Un pochino,” ammise, afferrando la borsa per il manico e raggiungendo la porta a grandi falcate.
Prima che questa si richiudesse e Atsumu fosse libero di scorrazzare e manomettere tutte le vaschette che voleva, Osamu gridò dall’interno: “Ti serve il numero dell’appartamento?”
La porta si richiuse, Atsumu si voltò in tempo per cogliere il ghigno provocatorio di suo fratello oltre il vetro, poi sollevò il dito medio.
 

Atsumu Miya aveva trentaquattro tic nervosi e ventisei piani di fuga in testa, in quel momento.
Faccio come col vicino, pensò con il dito a un passo dal campanello. Potreste pensare che fosse appena arrivato, ma il dito era lì da tre minuti. Busso e scappo, però prima ci sputo dentro.
“Ragazzo, devi pigiare, altrimenti non suona mica” gli gridò una donna sui trentamila anni, che spazzava il lato esterno della soglia di casa sua. Non erano molti, i metri che li separavano, semplicemente il suo udito doveva essere stato intaccato dai versi dei dinosauri.
Atsumu ‘pigiò’ e pensò che aveva dieci secondi per sputare negli onigiri. No, erano nove. Otto, sette, sei. Poteva lasciare le vaschette alla signora! Cinque, quattro. Okay, devo sputare adesso. Tre, due...
“Omi!” salutò, quando l’uscio si schiuse e la versione migliore di Sakusa gli si parò davanti. Ovviamente ci aveva dovuto mettere nove secondi. Ovviamente non poteva rendergli la preparazione psicologica più facile.
Se il volto di Sakusa era capace di esprimere sorpresa, quella doveva essere la configurazione che i suoi lineamenti assumevano quando la provava. “Ciao, non sapevo lavorassi per tuo fratello.”
Atsumu schioccò le dita della mano libera e gli puntò contro una pistola metaforica. “Che intendi? Io sono Osamu.”
Sakusa assottigliò gli occhi e inclinò il viso su un lato. Atsumu desiderò di chiedergli se casa sua fosse fornita di una pratica botola che lo aiutasse a sotterrarsi a Tokyo e venir fuori nell’inferno più nero.
“Sto scherzando, non sono Osamu. Lui vorrebbe, ma non ha…” l’inadeguatezza di Atsumu si scontrò ancora con il sopracciglio di Sakusa, ma non riuscì a fermarsi in tempo “il mio fascino” inspirò tra i denti con la stessa sofferenza con cui in genere si guardava qualcuno rendersi ridicolo. Atsumu era spuma di mare con tutti, ma non con lui. Non aveva mai saputo come prenderlo.
“Prendo i soldi” lo informò Sakusa, sparendo qualche attimo dopo in una stanza che Atsumu non poteva vedere. Sbirciò nel corridoio e negli indizi di spazi che riusciva a sfiorare con lo sguardo. Era un appartamento che sembrava aver scritto ‘pratico’ su ogni superficie. Ogni cosa in quel corridoio era lì perché era utile e non perché era stata dimenticata, procrastinata, ignorata. Se esisteva l’opposto del suo ex comodino fatto di libri e della sua scrivania fatta di caos era quel corridoio.
“Non sapevo che mangiassi da mio fratello,” disse Atsumu, quando sentì i passi di Sakusa avvicinarsi.
Entrò nel suo campo visivo e fece spallucce. “È uno molto pulito.”
Atsumu annuì. Voleva morire. Voleva morire spiaccicato, invece si avvicinò per passargli le vaschette – chiuse, sigillate, insputate – e disse: “Ti trovo bene.”
“No, no!” Sakusa mosse le mani come quando il gamberetto si era trasferito nel suo condominio e aveva comunicato con il traslocatore in stile stella marina. “Non ti puoi avvicinare.”
“E…” Atsumu inspirò e si grattò la testa, come se davanti a lui avesse avuto un enigma e non il suo ex, “e io come te lo passo, il cibo? Te lo lancio?”
“No, me lo passi, ma senza avvicinarti.”
C’era quest’idea, una specie di opinione comune, secondo la quale Sakusa Kiyoomi era ‘quello normale’. Okay, aveva qualche problema con la pulizia, ma tutto sommato era una persona comune. Ecco, questa gente non aveva idea di quanto quel ragazzo fosse fuori come un balcone. Non è che più si fa silenzio meno si è pazzi, eh.
Comunque Atsumu si allontanò e tese il braccio, accontentandolo. Sakusa però mosse le dita della mano sinistra indietro, e Atsumu, sospiri fatti e sopraccigli alzati, indietreggiò ancora fino a porgergli le vaschette come se tra loro ci fosse stato un bancone intero di un bar.
Lui lo osservò come se non sapesse decidersi.
“Non puoi fare sul serio, Omi, perché non prendiamo in prestito un carretto?” Atsumu si rimise dritto e ripose le vaschette nel borsone.
Con tutta la calma del mondo, Sakusa ebbe prima la faccia tosta di sbuffare, poi si abbassò e poggiò i soldi a terra, in una zona che poteva essere definita neutra. Atsumu rimase strabiliato dalla sua capacità di non sfiorare nessuna superficie contaminata con le ginocchia o con le nocche, quando abbandonò le banconote. Un istinto infantile e stupido gli fece venire voglia di dargli un colpetto e farlo cadere.
Anzi, gli venne una voglia matta di abbassare la mascherina e pronunciare una pioggia di p e t. Scambiò un’occhiata con la signora che spazzava le soglie delle porte e lei ricambiò con un’alzata di spalle e gli occhi sgranati, come se convenisse con Atsumu sulla follia del ragazzo accovacciato davanti a lui.
Con un sospiro, Atsumu abbandonò la borsa (e non le vaschette, per carità) accanto ai soldi e lasciò che Sakusa si appropriasse da solo del suo ordine.
“Io no, comunque” disse poi, mentre si alzava.
“Tu no cosa?”
“Io non ti trovo bene.”
Ah, giusto, la sua sincerità.
Atsumu si chinò a prendere i soldi con un sospiro e li infilò in una tasca, sul retro della borsa. Poi lo guardò. Lo trovava davvero bene. Non il tipo di bene che avrebbe baciato, più quello che avrebbe fotografato. Sakusa era un tipo da campo di segale o da alta quota, vedeva il vento infilarsi tra le spighe e tra i suoi capelli e muovere tutto come onde di un mare intransigente, tempestoso solo nella sua calma. Da quando la pandemia era scoppiata si era chiesto spesso come se la stesse passando, al punto che a volte era stato solo a una auto-strigliata di distanza dal chiamarlo, ma ora che lo sapeva non aveva la sensazione di aver conquistato alcuna risposta cruciale. Pareva solo che fosse una cosa familiare che era cresciuta e che l’unico indizio di quella familiarità fosse non tanto in Sakusa quanto in lui che ci interagiva. Un po’ come rivedere un bullo e scoprirsi di nuovo indifesi.
“Omi?” lo chiamò, mentre lui già era sul punto di chiudere la porta. “Ho montato il comodino.”
Atsumu vide la porta vacillare nell’indecisione di chi la spingeva. Il volto di Sakusa era stato creato apposta per esprimere scetticismo e anche quella volta gli venne benissimo. “Davvero?”
“Sì.”
Omi annuì e ricominciò a chiudere la porta. “Hai fatto bene,” disse nella fessura d’aria che era rimasta.
Atsumu sorrise, poi si voltò e se ne andò.
E, proprio così, fu libero.
 

Adesso starete pensando che la narrazione è incompleta e fallace, che sono state usate parole chiave come ‘ex’ e ‘comodino’ e non sono state fornite spiegazioni sufficienti alla comprensione dello spago di rapporti interrotti che lega queste persone.
Ma il fatto è che non c’è storia più prevedibile di questa.
Atsumu si mise in sella alla sua motocicletta e, poiché gli era stato detto di filare senza deviazioni al ristorante, lui non filò senza deviazioni al ristorante, ma prese una strada che avrebbe quasi raddoppiato i tempi.
Era uno stronzo, eh, amava fare i dispetti al fratello, ma aveva anche ragioni più nobili per allungare di tanto il tragitto.
Prese la prima a destra e pensò che un pochino Osamu se lo meritasse.
Il fatto era questo: Omi l’aveva lasciato. Incredibile, vero? A chi verrebbe in mente di farsi scappare uno come Atsumu? Però lui ve l’aveva detto che era un pazzo in incognito.
Comunque l’aveva lasciato perché aveva detto che erano incompatibili (anche questo era oltraggioso, Atsumu era perfetto per tutti perché lui era perfetto punto). Aveva detto che erano incompatibili perché si trascinavano in basso a vicenda senza neanche rendersene conto.
Atsumu era un indoratore di pillole, per fare un esempio, le tingeva di sette strati d’oro pure se erano pillole buone, perché l’adulazione era una cosa innata, per lui, se credeva che ne valesse la pena. Allo stesso tempo Atsumu era antipatico. Se non capite come le due cose possano coesistere nella stessa entità, non avete mai conosciuto un approfittatore. Kiyoomi, invece, era solo brutalmente onesto.
Atsumu era uno che parlava per metafore. Era capace di dire al suo peggior nemico che era un coglione stronzo di merda usando solo aggettivi positivi ed era capace di farlo non perché volesse un posto nelle sue grazie, ma per il gusto di prenderlo in giro. Era una tecnica che aveva imparato, tra l’altro, e che da piccolo gli era mancata completamente. Kiyoomi, invece, faceva una serie di domande chiave, inquadrava la situazione e agiva di conseguenza, riducendo le interazioni al minimo. Era nato così e non era mai cambiato.
Atsumu faceva una montagna di cazzate, gesti inconsulti che lo rendevano simpatico alle feste e una calamità goffa in qualsiasi altra situazione. Kiyoomi rigava dritto perché voleva.
Atsumu era un campione di prime volte, ma non aveva mai finito neanche un cruciverba. Kiyoomi non tentava: faceva e portava a termine.
Atsumu aveva quel tipo di carisma per cui nella vita si diventava dei ricchi coglioni o solo dei coglioni. Kiyoomi era uno affidabile.
Il fatto era che Sakusa puntava in alto, Atsumu puntava alla cima dell’universo o semplicemente non puntava.
Quando lui gli aveva detto che erano incompatibili, dunque, Atsumu gli aveva chiesto di fargli un esempio, ma Sakusa, in fede alla sua essenzialità, gli aveva solo risposto che aveva tenuto chiuso in una scatola quel comodino per un anno e mezzo e non aveva ancora trovato le palle di portare a termine una cosa così semplice come quella.
“L’inconcludente sarei io perché non assemblo un mobile di merda? Tu mi stai lasciando, Omi,” gli aveva detto Atsumu, che sapeva di essere più bravo a parole, ma sapeva anche di avere torto.
Sakusa gli aveva detto che, al contrario, se una cosa andava male preferiva non trascinarla, e che aveva fatto un piacere a entrambi.
Da quel momento in poi, Atsumu Miya aveva iniziato a essere il fiore che leggevate precedentemente. Quindi faceva sesso con chiunque fosse disposto a mostrargli un briciolo di compatibilità, per dimostrare a Sakusa (a se stesso, ma anche qua siamo magnanimi abbastanza da soprassedere) che qualcuno per lui esisteva, che ne esistevano centinaia, di qualcuno, che poteva incastrarsi, che non era vero che era rotto e che le sue insicurezze avevano fondamento (questo Sakusa non l’aveva mai detto e non l’aveva mai nemmeno sottinteso). Qualcuno pronto a dimostrargli che era migliore di tutti e che il mondo era una mela che poteva mordere a suo piacimento e a sua discrezione.
La ricetta dei fiori.
Meno sostava nel silenzio delle sue quattro mura, meglio stava. E quindi, se non aveva processato il dolore subito dopo la rottura, quel dolore gli si era catapultato in faccia, e amplificato, quando nelle sue quattro mura si era ritrovato rinchiuso.
Atsumu frenò davanti a un ferramenta e si avvicinò al banchetto all’entrata per fare una cosa stupida. Non era un problema, perché quelle per lui erano all’ordine del giorno, dopotutto.
Quello che non aveva capito allora, Atsumu lo capì mentre chiedeva a un ragazzo di vendergli tre barattoli piccoli di colori primari: magari gli opposti si attraevano o i simili si cercavano, ma forse non bisognava mettersi a contare le cose in comune e quelle agli antipodi. Forse la compatibilità non si annidava nei grafici degli interessi condivisi, ma nella completa indipendenza dalle categorie. Magari il segreto degli incastri non era da qualche parte sulla linea che collegava uguale e opposto, forse era semplicemente altro.
“Grazie,” mormorò al ragazzo che lavorava lì, prima di scappare sulla moto e tornare al ristorante per evitare che Osamu lo uccidesse.
“Hai deviato,” gli disse infatti una manciata di minuti dopo, poi abbassò lo sguardo sulla busta che suo fratello stava reggendo. “Non voglio neanche chiedere.”
“Per una volta non hai detto una cazzata, ‘Samu.”
 
***
 
Quella sera, quando Atsumu tornò a casa, rischiò di morire.
Si avvicinò alla porta con due buste: una in cui teneva i barattoli di pittura, una con la cena che gli era stata nuovamente offerta perché – sulla carta – Osamu era un fratello divorato dai sensi di colpa. In realtà Atsumu si era lamentato e Osamu era stato così sfinito che gli aveva sbattuto una manciata di onigiri in una vaschetta e arrivederci.
Comunque torniamo alla vera tragedia: Atsumu aveva rischiato di morire!
Questo perché sullo zerbino della sua porta non c’erano cene romantiche, bigliettini con numeri di telefono dimenticati o petali di rosa, no, c’era un cactus ed era stato a tanto così dal calpestarlo e finire in ospedale col piede attraversato dagli aghi.
Se volete la verità, il cactus era piccolo e magro ed era altamente probabile che, se Atsumu l’avesse calpestato, sarebbe morto. Il cactus, però, non Atsumu. 
Comunque il nostro eroe lo raccolse dallo zerbino e lo ispezionò. Si lasciò scivolare il manico di una delle buste sul polso e affondò una mano nella tasca del giubbino, per recuperare le chiavi.
Il cactus aveva un solo grande fiore rosa in cima, notò, infilando distrattamente le chiavi nella toppa e togliendosi le scarpe con i piedi. Non c’era nessun biglietto, né un indizio su chi potesse essere il mittente di quel regalo molto stupido.
“Merda,” sussurrò tra sé, abbandonando cena e tempere all’ingresso per mettere al sicuro il cactus su una mensola sospesa sopra la scrivania. Incrociò le braccia al petto e considerò la pianta come se, da un momento all’altro, si fosse potuta mettere a rotolare via di lì indispettita. “Lo sai che devi cavartela da sola, vero? Perché io ti faccio morire. Non può finire in altro modo.”
Atsumu la fissò per qualche altro secondo. Non sappiamo se stesse aspettando una risposta, ma nel caso non la ricevette.
“Chi ti ha portato qui? Scommetto che è qualcuno che ti odia.”
Il cactus non rispose. A proposito di cactus, ovvero le piante più facili da curare al mondo, non è che Atsumu non avesse fiducia in se stesso (stiamo parlando di Atsumu Miya), è che era veramente un incapace, quando si trattava di piante o in generale di qualsiasi cosa che avesse bisogno di lui per sopravvivere.
“Sai che c’è? Non rispondere.”
Atsumu fissò ancora il cactus, poi una lampadina si accese nella sua testa. Stai parlando a un cactus, tu hai perso la testa.
L’ultima onda si infranse sul bagnasciuga, la spuma di mare cominciò a seccarsi in bolle sempre più effervescenti, poi morì in una scia che era solo un aroma di bianco.
Era di nuovo quell’assenza di sfrontatezza che potevano vedere solo lui e la musica del vicino. Era di nuovo solo e uno sguardo al suo comodino confermò che montare un mobile non l’aveva reso una persona diversa. Non era neanche sicuro di voler essere una persona diversa. Cambiare a causa di qualcuno e cambiare per qualcuno erano due cose che di simile avevano solo la costruzione della frase.
Tornò all’ingresso per recuperare le buste lasciate indietro. Quando si chinò per chiudere per sempre in un cassetto l’idea di usare quella pittura, il vicino cominciò a suonare.
E quella volta non bucò il silenzio, non lo squarciò neanche. Lo prese a pugni e lo finì in una maniera che fece venire voglia ad Atsumu di buttare giù la porta di casa sua e pregarlo di fargli tornare di nuovo fame.
Invece chiuse gli occhi, accolse per la prima volta in vita sua quel sovraccarico di verde e rosso e trovò qualcosa di accattivante nello schizzo di blu che si insinuò sotto le palpebre, quando il violinista prese una nota sola e la lanciò in alto come a scacciarla.
“Se Osamu fosse qui mi ammazzerebbe” considerò tra sé, poi spostò il letto dalla parete che condivideva con il vicino e si affidò a un istinto che aveva sempre saputo condurlo, quando lui non lo fraintendeva deliberatamente.
Dovrebbe esservi chiaro a questo punto che Atsumu tendeva ad avere questi schizzi di follia che finivano malissimo o in un buco nell’acqua e questo era uno di questi. O un’attività da coronavirus un po’ estrema.
Aprì le finestre, recuperò un piatto di carta da terra e delle vecchie buste della spesa da disporre alla base del muro, poi, con un coltellino svizzero, dispose i tre colori primari che aveva comprato sul piatto e ne mischiò un po’ nel mezzo. A quel punto sollevò un dito fluttuante sulle tempere. Il violinista fece stridere secco l’archetto su una corda bassa, Atsumu vide una macchia viola e affondò il dito nel viola – in mancanza di pennelli si fa alla vecchia maniera, gente. Strisciò il dito sporco sul muro che li separava e cominciò a disegnare la musica del violinista.
Ora, questo vi sembrerà un momento febbrile e rivoluzionario, fatto di occhi sgranati e sguardi da pazzi in piena d’ispirazione.
Non era così. Infatti Atsumu pensò, ecco qua, ho fatto la cazzata.
Però. Però però però, era abbastanza tranquillo, aveva solo paura di non riuscire a stargli dietro. Infatti, se volete saperla tutta, era come su una tavola da surf, nel ricciolo dell’onda, nel tunnel che si rigenerava di metro in metro: la spuma di mare a destra, l’abisso a sinistra, in equilibrio tra i due.
Ora, Atsumu non sapeva surfare neanche per il cazzo. Mettetelo su una tavola da surf e state certi che cade. Sulla sabbia. Ancor prima di pensare di mettere la tavola in mare.
Però il paragone regge. Era solo, ma non era schiacciato. Stava zitto, ma se avesse parlato sarebbe stato stranamente in grado di dar luce a una battuta cretina. Era fermo davanti a un muro, ma il muro era stato abbattuto.
Dopo un tempo che oscillava tra i tre secondi e le tre ore, il violino tacque. Atsumu concluse un concetto colorato con un ultimo tocco giallo e poi alzò la mano. Sorrise, perché pensò che sembrava il gesto affaccendato e stupido con cui i concorrenti dei concorsi culinari in TV smettevano di spolverare prezzemolo al suono ‘STOOOOOOP’.
Fece un passo indietro, inciampò nelle buste, riuscì a non cadere per miracolo e diede un’occhiata complessiva al suo capolavoro.
È difficile trovare un termine per spiegare con esattezza che aspetto avesse, ma spremendo il cervello si può giungere a una parola che per lo meno riassuma: schifo.
Faceva proprio schifo, era un’accozzaglia di colori senza senso che svolazzavano da destra a sinistra su un muro di un appartamento in affitto ed erano cacofonici. Cacocromici. Caco.
Per uno come Atsumu, però, avevano senso ed erano lo spartito di una canzone per incompresi.
Guardando il muro, gli venne fame.
Afferrò la macchina fotografica e scattò.
L’errore era essere abituati a pensare che la tristezza fosse un telo grigio, una coperta stesa sul mondo fatta della sostanza primitiva della rabbia e resa della stessa consistenza della gomma. Ma era l’esatto opposto, fatta dello stesso colore di un’esplosione o un’esplosione di colori. E uno lo vedeva solo quando se ne liberava.
Eccola qua, in tutto il suo splendore. Quel muro caleidoscopio era la sua tristezza. 
Abbandonò la macchina fotografica sul letto e questa per poco non rotolò giù. Infarto sfiorato, Atsumu corse in bagno, si passò una mano nei capelli, strizzò l’occhio al suo riflesso e strizzò anche la strizza.
Era uno schianto. Veramente, era l’essere umano più attraente che avesse mai messo piede sul pianeta Terra e, se avesse calpestato suolo marziano, avrebbe allargato il primato. Era un tipo distrattamente affascinante, pigramente incantevole…
Era un disastro e avrebbe mandato a puttane la magia.
Però aveva fame e se Atsumu era arrivato ad avere anche solo un involucro, un’armatura di autostima, era perché quando aveva fame semplicemente non perdeva.
Mai.
Aprì la porta e in un attimo si trovò a fronteggiare quella del vicino. Sollevò una mano per bussare e…
Evidentemente quello era un giorno difficile per lui, sul fronte porte.
“Ehi!” fu interrotto infatti da una voce femminile, che si portò alle sue spalle in un baleno.
Atsumu vide azzurro e aggrottò la fronte, nell’anticamera della realizzazione, poi incontrò gli occhi di Yachi.
“Sei qui per salutare Shouyou? Lo senti spesso, eh?” esitò, poi sgranò gli occhi e si mosse una mano rapida davanti alla faccia, “non ti dà fastidio, vero? Non ne capisco niente, ma so che è bravo.”
A questo punto Atsumu fece la cosa che a tutti voi verrebbe in mente di fare in una situazione simile. “No, stavo…” accarezzò la porta, “stavo controllando che non ci fossero spifferi.”
Wooow! pensò, ebbe la decenza di farlo con la voce di Osamu e un tono sarcastico, coglione idiota terribile testa di cazzo.
“Tutto pulito,” dichiarò poi, interrompendo con la forza il principio di domanda scomoda che di lì a poco gli avrebbe fatto Yachi.
Si guardarono per qualche secondo nel silenzio interdetto di entrambi.
Poi il cervello di Atsumu formò una parola: fuuuuga.
Filò in casa e sbatté la porta come ad accalappiare tutto il vento che aveva portato con sé. Dopodiché fece la seconda cosa che a tutti voi verrebbe naturale fare a questo punto.
Recuperò il cellulare dalla piastra della cucina – non fate domande – e si chiuse in bagno – fate domande. Le risposte sono: era la stanza più lontana dalla casa del violinista. Di Shouyou. Del gamberetto. Tra tutte le persone rintanate come topi negli appartamenti, il violinista doveva essere Shouyou! Si arrampicò nella vasca e tirò la tenda. Ora, questo è un gesto insensato.
“‘Samu.” Udite udite, Atsumu sussurrò.
“Ti prego, dimmi che finalmente ti hanno rapito.”
“Se mi avessero rapito non potrei chiamarti.”
“Per il riscatto che non pagherei. Anche se sei così fastidioso che si cercherebbero un altro da rapire.”
“Hai finito?” Atsumu scosse un po’ la tenda della doccia. Per renderla più insonorizzata, ovviamente. “Sto vivendo un sincero dramma personale.”
“Se ha di nuovo a che fare con Vin Diesel non voglio saperlo.”
“‘Samu, la sua voce è bordeaux…”
“Sto riagganciando.”
“No, no!” Atsumu quasi cadde nella vasca da bagno, poi abbassò la voce e tornò a sussurrare: “Vin Diesel non c’entra niente. In pratica il mio nuovo vicino suona il violino come un angelo, solo che non sapevo che è anche il vicino che mi sta antipatico. Quindi sono innamorato.”
Dall’altra parte del telefono, Osamu rimase in silenzio per qualche secondo. “Non ho capito.”
“Stavo pensando di imparare a suonare il piffero per impressionarlo. Secondo te il violino e il piffero stanno bene?”
La linea tacque.
“‘Samu.”
tu-tu-tu.






NotEl: :) davvero non so che dire :)
Ebbene dopo un anno e mezzo sono tornata e sono tornata a finire, non ad abbandonare di nuovo, perché ho anche concluso l'ultimo capitolo. Per quanto sia stato antipatico, da parte mia, non cambierei nulla di questo processo strano. Questa storia è stata un inferno in ogni sua fase e, vedrete con il prossimo e ultimo capitolo, sarebbe stato impossibile darle il finale che ha avuto un anno e mezzo fa e si dà il caso che sia 100 volte migliore del finale migliore che avevo pensato allora. COMUNQUEEEE la questione del carretto di fiori scomparso potremmo definirla una presuntuosissima autocitazione di un'altra storia che ho scritto che si chiama "gocce di fiori", ambientata in una città in cui non c'è mai il sole e che ha un po' di questa mmmmmh fuggevolezza. Grazie per essere tornati se siete tornati e per essere qui se siete nuovi <3 Tra qualche giorno ASSICUROOOO ultimo capitolo.

El.

 
   
 
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