Cap. 6: Blurry
I can feel the stares across the side of the room, but
I'm trying not to imagine what is happening with you
Oh-woah, I don't wanna know
Why does everything seem so blurry?
I got lost in a silence out of my head
All the kids shout, "Hey, don't worry"
But what's the point of a love when it comes to an end?
I don't wanna play, I don't wanna play this
I don't wanna play the game, oh-oh-oh
Why does everything seem so blurry?
I got lost in a silence out of my head!
(“Blurry” – Alice Merton)
Il Quartier Generale dello SHAEF si era
trasferito già da metà settembre al Trianon Palace Hotel, proprio nel luogo in
cui, durante l’occupazione tedesca in Francia, Hermann Goering aveva stabilito
lo staff della Luftwaffe. Si trattava di un hotel di lusso che affacciava
proprio sui Giardini di Versailles anche se, con ogni probabilità, i Generali
Eisenhower, Patton, Montgomery e gli altri non lo avevano scelto per ammirare
il panorama o passeggiare nei giardini cari alla Regina decapitata Maria
Antonietta! Comunque, in un primo tempo era stato deciso che gli accampamenti
dei soldati, che fossero truppe di riserva o feriti in attesa di essere
rimandati a casa (e tra loro c’era anche la Compagnia Charlie, come ormai ben
sappiamo), restassero a Granville, che era stata anche la prima cittadina
francese a ospitare il Quartier Generale dello SHAEF. Questo era avvenuto
perché proprio da metà settembre gli Alleati avevano intrapreso una nuova
offensiva contro l’esercito tedesco, erano entrati in Belgio e avevano occupato
i boschi delle Ardenne e l’idea era quella di sconfiggere le truppe hitleriane
e penetrare in Germania prima dell’inizio del vero e proprio inverno: visto che
le cose, almeno all’inizio, erano andate bene, i Generali Alleati erano
convinti che le armate sarebbero potute entrare in Germania in un mese o poco
più. Invece l’autunno aveva portato cattive notizie: le forze armate
statunitensi che si erano stanziate nei boschi delle Ardenne non riuscivano ad
avanzare, anzi si trovavano in sempre maggiori difficoltà, sia a causa della
scarsità dei rifornimenti di uomini e mezzi e dei grandi problemi logistici,
sia a causa delle incursioni di piccoli commando
tedeschi che seminavano panico e morte tra i soldati. Appariva ormai chiaro che
la situazione era in stallo e che occorreva pensare a qualche piano alternativo
per evitare una possibile offensiva delle armate tedesche e alla perdita di
quanto ottenuto fino ad allora. In un simile clima di tensione e insicurezza il
ritorno in patria del soldato Ryan e della Compagnia che lo aveva salvato non
era più una priorità, anche perché un eventuale attacco tedesco avrebbe potuto
perfino vanificare gli sforzi fatti per la salvezza del giovane. Gli
accampamenti a Granville, che dovevano rappresentare solo una base temporanea
per una breve attesa prima del rimpatrio, sembravano ora una sede forzata in
cui i soldati sarebbero rimasti bloccati per mesi, in condizioni sempre più
scomode e mettendo in difficoltà anche la ricostruzione della cittadina e il
rientro degli sfollati. Per tutti questi motivi, tra la fine di settembre e i
primi di ottobre gli accampamenti di Granville vennero smantellati e la
cittadina restituita ai suoi abitanti; il Trianon Palace Hotel di Versailles
divenne così anche la nuova base dei soldati americani. Ovviamente le stanze
lussuose e i grandi saloni erano riservati ai Generali e alle riunioni dei piani alti, tuttavia un’intera ala del
palazzo, meno rinomata, venne riservata per i soldati e vi furono allestite
un’infermeria per i feriti, una sala mensa e le camerate per gli uomini. *
Wade era contento semplicemente del fatto che
la nuova infermeria era dotata di maggiori comodità e disponibilità di
medicinali per i feriti di cui si occupava, ma per Mellish, Jackson, Ryan e gli
altri ragazzi trovarsi in quella specie di reggia
fu qualcosa di straordinario. Nessuno di loro veniva da una famiglia ricca
e, anzi, la maggior parte di quei ragazzi aveva vissuto in vecchie fattorie in
mezzo alle pianure dell’Iowa o del Tennessee, come Ryan e Jackson, e per loro fu
come essere trasferiti nel palazzo reale!
“Ragazzi, se anche decidessero di non
rimpatriarci, a me non importa più un bel niente, sappiatelo” disse subito
Reiben non appena entrò nella nuova camerata che condivideva con altri undici
soldati. “Basta che mi lascino abitare qui per il resto dei miei giorni!”
Sì, è vero che si trovava comunque in stanza
con altri soldati, ma lì almeno ognuno aveva un comodo letto al posto delle
solite brande e c’era addirittura un vero bagno che, sebbene fosse in comune
con gli altri compagni, per chi era abituato a fare la doccia e tutto il resto
sotto una tenda umida e fredda era un lusso mai neanche immaginato.
Era stata prevista una sistemazione diversa,
invece, per Upham e Mellish che, come già era avvenuto negli accampamenti di
Granville, avrebbero avuto una stanza tutta loro da condividere con il
prigioniero tedesco che avevano in
custodia.
“Immagino che tutto ciò significhi che non
torneremo in America così presto come pensavamo” commentò Upham, entrando nella
sua nuova camera e guardandosi intorno. “A questo punto probabilmente non ci
faranno partire fino alla prossima primavera. Comunque guardiamo il lato
positivo: qui staremo sicuramente bene e, oltre tutto, avrò più tempo per
insegnare l’inglese a Josef.”
“Direi proprio di sì e, visto che non sta
facendo grandi progressi, penso anche che sarà un bene” replicò laconico
Mellish. Dopo la discussione che aveva avuto col tedesco una decina di giorni
prima, sembrava aver cancellato dalla mente tutto quello che c’era stato tra di
loro e adesso si comportava come se Josef Saltzmann fosse una responsabilità
che gli toccava giocoforza.
Saltzmann, dal canto suo, non aveva aperto
bocca e pareva incantato dalla bellezza di tutto ciò che lo circondava. Chissà,
forse gli sembrava davvero di vivere nella villa di un divo di Hollywood o
chissà quale altra fantasia si era fatto sull’America… di certo era chiaro che
anche lui non veniva dai quartieri alti! A differenza di quanto ostentato da
Mellish, tuttavia, per lui la discussione con il giovane era una fonte di
disagio e sofferenza e avrebbe voluto riconciliarsi, anche se non sapeva bene
come poiché il divario linguistico non aiutava. Magari, però, vivere in un
luogo così bello gli avrebbe anche permesso di trovare un modo per chiarirsi
con Stan, forse passeggiando lungo quei bei giardini che si vedevano fuori o
qualcosa del genere…
“In effetti è vero, penso anch’io che
dovresti impegnarti di più e sfruttare bene questo tempo che ci è concesso”
disse Upham a Saltzmann, parlandogli in tedesco. “Ti fai capire bene, questo
sì, ma per trovare lavoro in America dovrai conoscere molti più termini e
parlare con maggior disinvoltura e, se poi pensi davvero di chiedere la
cittadinanza americana, avrai ancora più cose da studiare e molte di esse
useranno termini tecnici e complessi.”
“Prometto che mi impegnerò di più, io voglio
veramente costruire una nuova vita in America, ma tu devi aiutarmi anche a
riconciliarmi con Stan” rispose l’uomo. “Ormai sono giorni che praticamente non
ci parliamo neanche…”
Mellish li fissò, prima l’uno e poi l’altro,
infine li apostrofò entrambi con fare irritato.
“Lo sapete che è molto maleducato parlare in
un’altra lingua quando io non posso capirvi? Potreste almeno avere la decenza
di chiacchierare dei fatti vostri mentre io non sono presente, no?” disse.
“Hai perfettamente ragione” sorrise Upham,
alzandosi dal letto sul quale era seduto e avviandosi verso la porta. “È molto
meglio che voi due restiate qui da soli a spiegarvi per potervi riappacificare,
questa storia è andata avanti anche troppo e io, comunque, devo dare
un’occhiata alla stanza dove mi troverò a lavorare con gli altri interpreti e
cartografi nei prossimi giorni.”
Soddisfatto, Upham uscì dalla stanza,
lasciando Saltzmann felice di poter finalmente parlare a tu per tu con Stan e
Mellish, al contrario, molto a disagio. Spontaneo e semplice come sempre, il
tedesco si sedette sul letto accanto al ragazzo.
“Upham dire bene, noi parlare e spiegare”
disse.
“Non mi sembra ci sia molto da spiegare”
replicò brusco Mellish. “Io ti avevo semplicemente parlato di come la mia
famiglia potrebbe anche accoglierti con ostilità e tu sei partito come se
avessi offeso i tuoi antenati fino alla quinta generazione! Non mi hai lasciato
chiarire meglio e alla fine mi hai anche detto una cosa orribile… che non
avresti dovuto salvarmi… eppure sai cosa significhi per me quel ricordo. Ho
avuto incubi orrendi e ora devo farmi prescrivere dei sedativi da Wade per
riuscire a riposare. Cos’altro c’è da spiegare?”
Saltzmann era rimasto molto male nel sentire
queste cose da parte del giovane americano. Certo, aveva notato che era triste,
che non gli voleva più parlare e che sembrava riprendersi solo quando aveva a
che fare con gli altri suoi compagni, ma le altre cose… incubi? Sedativi per
dormire? Stan rischiava forse di farsi del male alla salute?
“Tu prendi medicine per dormire? Non è bene,
tu solo ventuno anni…” iniziò a dire.
“Non venirmi a fare la predica proprio tu,
sai?” reagì il ragazzo. “Adesso non posso farne a meno, per questo Wade ha
accettato di prescrivermeli, così almeno la notte dormo e il giorno dopo non
sono uno zombie. Devo tirare avanti
così finché non andremo in America e poi, come ho promesso anche al nostro
dottore, magari mi farò curare, ma qui di sicuro non ci sono terapeuti. Vuoi
fare lo strizzacervelli tu, per caso?”
Naturalmente il pover’uomo non aveva capito
molto delle parole di Mellish, però il fatto che Wade lo seguisse era
tranquillizzante e poi in America si sarebbe fatto… curare? Sembrava che l’idea
fosse quella.
“Io preoccupo per tua salute, io amo te,
Stan, voglio stare con te e…”
“Ah, ricominci con questa storia? Non credo
tu sia tanto preoccupato per la mia salute visto che hai detto che avresti
preferito non salvarmi, che avresti voluto che fossi morto!” esclamò Mellish.
“Io mai detto questo, mai voglio te morto, io
voglio fare te felice!” replicò inorridito Saltzmann. “Detto brutte parole
perché… io arrabbiato, ma non penso quello.”
“Sì, sì, è il solito discorso, ci si difende
dicendo che da arrabbiati non si dice quello che si pensa veramente, ma chissà,
invece a volte è proprio quando siamo infuriati che ci scappa detto quello che
pensiamo davvero” commentò il giovane americano, “ma alla fine non mi importa.”
“A me importa, a me piace stare con te, a me
piaci tu e voglio fare pace con te, chiedo scusa, non basta?” insisté il
tedesco.
“Okay, mi hai chiesto scusa, non pensavi
quello che hai detto, facciamo che ti ho scusato e finiamola” tagliò corto
Mellish. In effetti non era più veramente arrabbiato con Saltzmann e poteva
anche credere che gli avesse detto quelle parole senza pensarci, ciò di cui si
rendeva conto era che aveva rovinato tutto. Loro due si erano avvicinati molto
(forse anche troppo, pensava a volte il ragazzo…) e quella discussione assurda
li aveva riportati a una distanza siderale che, a questo punto, Mellish non
intendeva più colmare, non voleva più essere deluso.
Al contrario, quello che il tedesco voleva
era proprio colmare quella distanza
e, possibilmente, avvicinarsi ancora di più a Mellish, baciarlo di nuovo,
arrivare ad essere una sorta di coppia con lui, per quanto la cosa dovesse
rimanere nascosta ai più. Ma a lui non interessava farsi pubblicità, lui voleva
stare con Stan, anche fingendo di
essere solo amici!
“Ma noi stare insieme lo stesso? A me piaci
tu, io ti amo, Stan, voglio stare insieme con te qui e in America” chiarì
Saltzmann, come se non si fosse capito.
“Beh, io non so più cosa voglio” lo gelò il
giovane americano. “Ho ventun anni, non so cosa farò della mia vita quando
tornerò a casa. Alcuni, come Wade o Upham, sanno già cosa vogliono dalla vita,
Wade farà il medico, magari si specializzerà, Upham vuole fare lo scrittore ma
io… io non lo so. E di certo per me è troppo tardi per andare al college, posto
che volessi andarci. Insomma, non so cosa farò e devo pensarci, non posso
mettermi anche a risolvere i tuoi, di problemi.”
“Va bene per me, tu decidi tua vita, solo che
io sono con te, resto accanto a te. Trovo lavoro che capita, non importa, basta
che sto con te” ripeté Saltzmann. “Quando io a casa, io ero… mechanischer Arbeiter, come dire voi,
operaio meccanico? Io posso fare in America e lavoro per te.”
Mellish scrollava il capo sospirando:
quell’uomo proprio non voleva capire, e lì non c’entrava la diversità della
lingua!
“Bene, almeno sai già che lavoro potrai
cercare in America” replicò, laconico, mentre Saltzmann pareva entusiasta di
aver trovato qualcosa che gli avrebbe permesso di mantenersi in America e di
vivere con il suo Stan!
“A me va bene lavoro per mantenere me e te,
non importa tanti soldi” disse soddisfatto il tedesco. “Come in mio Paese, io
lavoro normale e poi vita normale, per me questo bene. Poi… poi dovuto andare a
guerra e perso tutto…”
Le ultime parole erano state pronunciate in
un tono più amaro che colpì Mellish, fino a quel momento piuttosto indifferente
a ciò che Saltzmann diceva; si fece più attento e guardò l’uomo dritto negli occhi.
“Stai dicendo che tu non volevi andare in
guerra?” domandò, stupito. Per lui era qualcosa di assurdo, innanzitutto perché
credeva veramente che tutti i tedeschi o quasi fossero ben felici di combattere
per Hitler e poi per esperienza personale, perché lui e i suoi compagni e tutti
i soldati che conosceva si erano arruolati volontari.
“Nein”
rispose il tedesco, tanto per ribadire il concetto anche nella sua lingua
madre. “Avevo già trentadue anni, io no ragazzo, avevo lavoro e sposato da poco
Ilse, volevo vita normale e famiglia, no guerra. Io costretto a partire, o
guerra o prigione, così è in mio Paese.”
Il giovane americano si sentì franare la
terra sotto i piedi e, tutto ad un tratto, si vergognò moltissimo. Saltzmann
aveva avuto ragione ad arrabbiarsi con lui, aveva davvero dei pregiudizi,
pensava veramente che tutti i tedeschi fossero dei fanatici pazzi e
guerrafondai, non aveva mai preso in considerazione neanche alla lontana il
fatto che, magari, qualcuno di loro come Josef Saltzmann potesse essere stato
mandato in guerra per forza, contro la sua volontà.
“Ho fatto mio dovere di soldato perché
speravo che finire tutto presto e io tornare a casa, ma ora… mia casa non
essere più e io non più dovere di soldato. Per me guerra finita. Io venire in
America con te, Stan” ribadì l’uomo.
Mellish si sentiva il più schifoso verme
sulla faccia della terra. Timidamente, posò una mano sul braccio di Saltzmann.
“Senti, io… mi dispiace, mi dispiace tanto,
sul serio” mormorò, volendo sprofondare. “Avevi ragione tu ad arrabbiarti, io
ho avuto davvero pregiudizi su voi tedeschi, non avrei mai pensato che tu non
volessi arruolarti, che fossi stato costretto e addirittura minacciato di
arresto, da noi non è così… ** ma
non è una scusante, sono stato un vero stronzo e pure razzista, figurati,
razzista io!”
L’uomo gli passò un braccio attorno alle
spalle e lo strinse a sé.
“Tu no preoccupare di questo, ora per me
finito, e io non arrabbiato con te, tu bravo ragazzo, io lo so” gli disse con
dolcezza.
“No, no, non sono bravo affatto, sono proprio
uno stronzo, mi dispiace davvero…”
“Tu bravo ragazzo, Stan, buono e gentile. A
me piaci tanto, io ti amo, non arrabbiato con te, io stare sempre con te”
mormorò ancora Saltzmann, poi si distese sul letto stringendo Mellish tra le braccia
e lo baciò teneramente e lungamente… gli era tanto mancato baciarlo! Lo baciò
dapprima quasi timidamente, forse temendo che il ragazzo potesse respingerlo, poi
sempre più profondamente, cingendolo con un braccio e affondando l’altra mano
tra i suoi capelli. Una mano era premuta sulla sua nuca per spingerlo sempre
più contro di lui, respirando il suo respiro, mentre con l’altra mano
accarezzava il suo corpo liscio e morbido sotto la maglietta e lo sfiorava
dappertutto, per non perdersi nemmeno un centimetro della sua pelle di cui
aveva sentito così tanto la mancanza. E Mellish? Il giovane americano si
rendeva conto solo in quel momento che dentro di sé aveva atteso per giorni
qualcosa del genere, che anche a lui erano mancati quei baci e quegli abbracci
insieme teneri e appassionati ed ora era totalmente in balìa del tedesco, ma
non gli importava più di mostrarsi debole e indifeso, ciò che aveva scoperto su
Saltzmann lo aveva colpito davvero al cuore e si sentiva vicino a lui come mai
prima di allora. Era come se, in un certo senso, pensasse di ripagarlo in
questo modo per i pensieri cattivi che aveva avuto su di lui e così lasciò
andare qualunque tentativo di controllo e si perse totalmente nel suo bacio e
nelle sue carezze, desiderando che non finisse mai e chiedendosi allo stesso
tempo come fosse possibile che lui, proprio lui, provasse simili desideri! Ad
un certo punto, però, si rese conto di dov’erano e di come sarebbe potuta
finire quella faccenda e così cercò di concludere quel momento che avrebbe
potuto portarli chissà dove.
“Aspetta… siamo in camera… Upham potrebbe
rientrare all’improvviso, o qualcun altro dei miei compagni” mormorò.
“Questo è cosa vera” concordò Saltzmann,
rialzandosi dal letto e tirando su anche Mellish per tenerlo ancora un po’ tra
le braccia. Si avvertiva distintamente la violenza che l’uomo aveva fatto a se
stesso per imporsi di staccarsi da lui, dalla sua bocca tenera e da quel corpo
così tiepido e morbido.
“Posso io venire in tuo letto stanotte?
Dormire con te? Io proteggo te da incubi, meglio di medicine di tuo dottore. Posso?”
gli chiese, sempre tenendolo abbracciato.
Mellish si rese conto benissimo del fatto
che, se Saltzmann avesse dormito con lui quella notte e anche altre, non si
sarebbe certo fermato a rassicurarlo dagli incubi… soprattutto perché lui
stesso, assurdamente, non intendeva fermarlo e sembrava che si sarebbe lasciato
fare qualsiasi cosa, oltre tutto mezzo stordito dal sedativo.
“Può darsi, ora non lo so, chiedimelo ancora
stanotte e magari ci penso” rispose, profondamente turbato ma anche pieno di un
calore che gli scorreva nelle vene e gli riempiva la pancia. “Se Upham se ne
accorgesse chissà cosa potrebbe pensare?”
“Non preoccupare di Upham. Lui già sa tutto”
replicò tranquillo il tedesco.
Mellish trasecolò. Che voleva dire con quella
frase? Per caso Saltzmann aveva detto a Upham di voler andare a letto con Stan e Upham era stato d’accordo?
Avevano forse parlato tra loro
di cose del genere invece di studiare l’inglese?
Poi pensò che, in realtà, non voleva affatto saperlo…
Fine capitolo sesto
* La
vicenda dello spostamento del Quartier Generale dello SHAEF da Granville a
Versailles è vera e anche l’offensiva nelle Ardenne che prima sembrò andare
liscia e poi si bloccò; ovviamente io ci ho aggiunto anche tutta la parte degli
accampamenti dei soldati che in realtà non c’erano, perché appunto nella mia
storia ci sono anche tutti quelli a cui è stato promesso il rimpatrio.
** In
Germania ci fu il reclutamento obbligatorio fin dal 1935 e gli obiettori di
coscienza finivano nei campi di concentramento proprio come i nemici politici,
gli ebrei, gli omosessuali, i disabili ecc…; negli USA vigeva il reclutamento
volontario, anche se dal 1940 al 1947 esso fu affiancato da una coscrizione
obbligatoria per la sempre maggiore necessità di soldati. L’esperienza di
Mellish e dei suoi compagni è comunque quella di volontari e nella maggior
parte dei casi era così.