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Autore: ElenoraBumBum    08/05/2023    0 recensioni
Completamente esasperato da tutto, sospiro: «Prima o poi me ne andrò da qui». Ne sono certo, mi lascerò questa vita assurda alle spalle e troverò qualcosa di meglio. Una casa migliore, un lavoro migliore, magari pure qualcuno con cui condividere la mia nuova vita. Qualcuno che scelga di stare con me, non che venga obbligato. Qualcuno che io possa veramente considerare famiglia.
«E perché?»
«Ma come perché? Dammi un solo buon motivo per restare». E ce l’avrei pure, ce l’ho davanti e occupa tutto il mio campo visivo visto che è gigante quanto il massiccio del Monte Bianco, ma ogni giorno che passa diventa sempre più difficile gestirlo e a volte la spina va staccata. Anche se non sembra, ce l’ho ancora un po’ di amor proprio.
Neanche mi avesse letto nel pensiero, sorride e sussurra: «Dalle altre parti non ci sono io».
Genere: Generale, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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7 – Essere tristi per le trote

«Cosa vuoi fare appena arriviamo?» mi chiede Jaco, entrando in tangenziale. Me la aspettavo più piena. Certo, non è vuota, ma si riesce a procedere a una velocità decente.
«Mangiare, visto che mi hai impedito di cenare in autogrill» rispondo, prontamente.
«Perché spendere venti euro a testa quando possiamo mangiare a casa?»
«Perché ho lo stomaco che si sta rigirando su sé stesso.»
«Dai, venti minuti e siamo a casa» mi dice, facendomi “pat, pat” sulla testa. Grugnisco, indisposto e piuttosto affamato. Sono abbastanza incuriosito da questo weekend. Certo, non era propriamente pianificato, è stato più “sto fine settimana vado a Milano”, “uh, che invidia” e “dai, vieni anche tu”. Ho messo due cazzate in uno zaino, mi sono fatto venire a prendere dopo lavoro tre ore fa ed eccoci qua, nella tangenziale non troppo piena di Milano.
«Ci sono pure i tuoi?»
«No, sono usciti. Poi arriveranno, ma non so a che ora»
«Uff, menomale. La psicanalisi come contorno mi appesantisce…». Sbuffa una risata e scuote la testa. Credo abbia finalmente capito che rispetto e non ho assolutamente nulla contro sua madre come persona. Odio semplicemente il suo lavoro in quanto tale. 
Prende l’uscita della tangenziale, che dà sbocco su un viale gigante. Ok, qui è più abitato della tangenziale. C’è un sacco di gente, sui marciapiedi, per strada. Vedo pure un ragazzino dietro a suo padre su uno scooter con un caschetto da bici. Ok, quello credo sia piuttosto illegale. Dopo dieci semafori e cinquanta clacsonate di gente piuttosto impaziente, svoltiamo in una vietta quasi fantasma, solo palazzi e un minimarket. 
«Che palle, com’è possibile che non ci sia mai un solo parcheggio…?»
«Non avete un garage?»
«Per la macchina di mio padre…» brontola, infilandosi in una traversa. Trova un posticino piccino e ci si butta dentro in mezza manovra.
«Sei bravo a parcheggiare»
«Si chiama istinto di sopravvivenza: parcheggiare in fretta e capire quando diventano verdi i semafori, così non fai venire una crisi ai clacsonatori ossessivi»
«Non fa una grinza.» osservo, prendendo il mio zaino dal bagagliaio. Fa lo stesso, chiude la macchina e inizia a incamminarsi verso la via di prima. Lo seguo fin sotto un palazzo grigio e bianco, a fianco al portoncino svetta una targa di uno studio di una psicanalista. «È tua madre?»
«Sì, ha lo studio sotto casa nostra. A volte, se è distratta, esce di casa in pigiama…»
«Dai, carino…»
«Non particolarmente per la mia privacy.»
«Ma per piacere, fai silenzio, va, che mia madre è casalinga, mai saputo cos’è la privacy…» ribatto. Ridacchia, già dentro l’androne e mi fa segno di venire dentro, poi chiama l’ascensore e si mette ad aspettare lì davanti. Saliamo al terzo piano, apre una delle tre porte sul pianerottolo ed entra in casa sua. La prima cosa che vedo è bianco, poi un gatto ciccione tutto nero che si struscia sulle gambe di Jaco. 
«Ciao!» mugola, prendendolo in braccio e dandogli un bacio sulla testa. «Ecco Camilla!» esclama, mostrandomi la gatta. 
«Perché il tuo gatto ha un nome da persona?» domando, allungando una mano verso l’animale. Forse non mi prende bene, perché mi soffia e prova a mordermi. «Benissimo, il tuo gatto mi odia»
«Non ti odia, è solo che non ti conosce ancora» mi dice, continuando a farle dei grattini sotto il mento. «E il nome l’ha deciso mia madre. Non chiedermi chi sia Camilla, non ne ho idea e sto bene così»
«È cicciona»
«Dai, scemo, poi ti chiedi perché ti odia…» mi sgrida, poi abbassa il viso verso la micia. «No, che non sei cicciona, ma che cose brutte ti dice Gian…» uggiola, accarezzandola e strusciando una guancia contro la sua testolina. Ridacchio. Che tenero, sembra proprio un gattaro. 
A una certa, la rimette a terra con delicatezza, la accarezza ancora una volta, poi si scrolla le mani e si sbottona la camicia. Strabuzzo gli occhi. Ok, non me l’aspettavo. 
«Non pensavo fosse una di quelle vacanze» esalo. Mi fa un terzo dito e mi lancia la camicia sulla faccia. Sospiro, inspirando il suo profumo, poi me la tolgo di dosso e vedo Jaco andare verso un disimpegno, la schiena tesa dallo stiracchiamento, le gambe ancora fasciate dai pantaloni. Jacopo non mi piace, ma gli occhi ce li ho pure io. E vedono obbiettivamente un bell’uomo. Alto, muscoloso il giusto, curato. Un bel culo, senza ombra di dubbio. Ok, stop. Ma che mi metto a pensare? Sembro un maniaco. Lasciamo stare, va. 
Lo seguo, cercando di non uccidere la gatta che si è buttata lì in corridoio e lo trovo in quella che penso sia camera sua, girato di spalle, in mutande e vabbè. Io non ci posso fare proprio niente. 
«Ripeto, non pensavo fosse una di quelle vacanze»
«Se vuoi ti scopo sul serio…» asserisce, serissimo, poi in due falcate, è davanti a me, mi prende per un braccio e mi butta prono sul letto, tenendomi fermo con una mano in mezzo alla schiena e salendo a cavalcioni sulla mia vita, rimane due secondi così e, infine, scoppia a ridere. Oh, santo Iddio. Ma che cazzo!? Non sta bene per niente. Gesù Cristo. Non ce la posso proprio fare. Miseria ladra.
«Tu sei proprio un coglione!» sbotto, nel cuscino, ancora il cuore che batte come un forsennato e il sangue che mi ribolle nelle vene. «Mi hai fatto venire un colpo! Pensavo mi stessi per stuprare, brutto… non farmi parlare!»
«Davvero mi pensi uno in grado di violentare una persona?»
«Razionalmente no, ma in questo frangente, ho avuto un mini infarto…!» brontolo, ignorando il fatto che tra il mio culo e il suo cazzo ci siano meno di due centimetri di stoffa. Giuro, se mi viene un’erezione perché sto cretino struscia il suo attrezzo su di me, mi uccido. 
«Che esagerazione» esala, poi si corica per intero su di me e rimane così per una decina di secondi. Quando finalmente decide di alzarsi e di lasciarmi respirare correttamente –ma quanto pesa? Sembra un bisonte– mi metto supino, guardandolo ridacchiare contento. Io giuro, non lo capisco. I miei riferimenti maschili sono sempre stati un disastro, lo ammetto candidamente, ma lui è proprio tutto un altro pianeta. Mai avrei immaginato un ragazzo scherzare così facilmente con me sul sesso tra maschi, o abbracciarmi, o cose così. Forse nei posti in cui ha vissuto è una cosa più sdoganata. Probabile, voglio dire, sono stato qui a Milano per mezz’ora e ho visto il doppio degli abitanti del nostro paese.
Sospiro, poi guardo dove sono e do un’occhiata in giro. «Siccome vedo un solo letto singolo e non vorrei vedermi costretto a mettere un tappo in culo stanotte, dove dormo io?» domando, facendo un sorrisetto ansiogeno. Ride ancora, maledetto, poi scuote la testa e mi lancia un’occhiatina.
«Su quello…» risponde, indicando una poltrona. «Diventa un materasso. Non è male per dormirci una notte» continua, io lo guardo, noto una roba strana e aguzzo la vista per confermare. 
«Cos’è quella roba?» chiedo, ormai abbastanza sicuro di quello a cui sto assistendo.
«Cosa?» risponde, voltandosi confuso verso di me quando scoppio a ridere. 
«Quella roba sulle costole» mugugno, sventolandomi una mano sotto gli occhi.
«Ah, questo dici?» propone, indicando con un dito il “LOST BOY” tatuato con un font da incisione con coltellino su un tronco. Mi metto una mano sulla bocca per fermare una risata e annuisco. «Lasciamo perdere…» brontola. Rido di nuovo, lui mi lancia un’occhiata storta.
«No, avanti, parla» gli intimo.
«Un errore di gioventù»
«Non mi basta»
«Il fratello di un amico doveva allenarsi con la macchinetta, una sera eravamo ubriachi e il me sedicenne ha ritenuto che fosse una buona idea quella di stendersi mezzo nudo sul tavolo di una cucina e fare da foglio di brutta a un losco ventenne che si era appena sparato cinque canne.» spiega, con un’espressione scocciata.
«L’hai scelta tu la scritta?». Annuisce, sconfitto, con le spalle incurvate. «È davvero molto bello» sussurro, sarcastico, prima di ridere ancora.
«Fa schifo. Me ne sono pentito il giorno dopo. Non nominarlo mai con i miei genitori presenti, lo odiano» sibila. Leggermente sotto al capezzolo destro così il braccio a riposo non può coprirlo, ma al contempo è abbastanza a lato da non permettere di nasconderlo nemmeno ai peli del torace, font veramente molto dubbio, scritta… particolare. Bimbo sperduto. Come Peter Pan. È tutto così perfetto. Mi tocca di nuovo bloccare una risata con la mano, mentre lui raccoglie le braccia al petto con stizza. «Non prendermi in giro» rantola.
«Ti senti veramente nella posizione di biasimarmi, Lost Boy?» chiedo, retorico. Lui ci pensa un po’, poi abbassa lo sguardo e scuote la testa, sconsolato. Ridacchio ancora, lui decide finalmente di vestirsi, infilandosi prima una maglietta bianca, poi un paio di pantaloncini blu della tuta. Perdo del tutto interesse alla sua persona e osservo meglio la stanza. Muri di un grigio sobrio, mobili in legno chiaro, la scrivania piena di fogli e scartoffie, una stampa di Keith Harris appesa al muro, le mensole piene di libri. Che camera da quindicenne. Probabilmente è rimasta così da quando si sono trasferiti.
«Su, non volevi mangiare?»
«Uhh, sì…» sospiro, alzandomi in piedi. Mi porta in cucina e mi dà in mano una tovaglia beige, aprendo in contemporanea uno dei cassetti tortora. Metto la tovaglia sul tavolo e lui apparecchia piatti e posate. 
«Cosa vuoi mangiare?» mi chiede, con la testa dentro il frigo.
«Cosa mi offri?»
«Mh… pasta al sugo… delle fettine di carne con l’insalata… del salmone…» mormora. Lo vedo in difficoltà. Tipo un pesce che si dimena fuori dall’acqua.
«Va bene la pasta» dico, secco, per sollevarlo dal suo delirio. «Vuoi una mano?»
«No, no, sei un ospite, stai lì seduto.» risponde, prendendo una bottiglia di salsa e appoggiandola sul bancone. Mentre taglia la cipolla, il gatto gli si struscia tra le gambe, miagolando. «Ma che vuoi…? Mica te la puoi mangiare, la cipolla…» le spiega, come se a Camilla fregasse qualcosa.
«Parli spesso col tuo gatto?» domando, incuriosito. 
«Tutto il tempo»
«Sei strano…» osservo. «E detto da me non è per niente un complimento»
«Beh, tu mica sei strano, scusa…»
«Sono la persona più strana che conosco, Jaco, ma ci vedi?»
«Ma che dici…» brontola, poi si gira verso di me con una faccia scocciata. «In cosa saresti “strano”?»
«Tipo… tutto?»
«Bah. Tu sei tu, e allora? Vorresti essere… che ne so, identico a tuo padre? Che noia. Ce n’è già uno nel mondo. Invece, sei originale e sei… bello così come sei. Non si capisce mai con cosa te ne esci, fai ridere e lasci la gente sulle spine. Allora, meglio così, no? Meglio un unico, strano Gianluca che una prevedibile fotocopia di qualcun altro…». Non dico niente, mi limito a fare un sorrisino spiazzato, ignorando alla grande la mia frequenza cardiaca schizzata alle stelle, mentre butta le cipolle tagliate nella padella con l’olio. È sembrata più una descrizione di sé stesso che di me. Non capisco mai con cosa se ne potrebbe uscire, non so mai come reagire a quello che fa, o a quello che dice. Soprattutto a questa. Nessuno mi aveva mai detto che vado bene così come sono, ogni qual volta che si parla di me, è un lungo elenco di cose che dovrei cambiare per sembrare come gli altri, più normale, più “tutti gli altri aggettivi che dovrebbero essere una mia priorità”. E logicamente, mica posso dare loro la soddisfazione di avere ragione, mica posso mostrare l’enorme disagio che provo a non avere nessuno di vagamente simile a me, a sentirmi… essenzialmente un po’ solo. Faccio finta di non ascoltarli, mi agito un po’, o mostro tutto il mio disappunto con il linguaggio del corpo, ma, poi, ci rimugino su, rifletto sul fatto che ci sia rimasto male e mi incazzo con me stesso, perché me la sono presa e perché forse hanno ragione. E razionalmente so che hanno torto, che posso fare il cazzo che mi pare e che non devo render conto a nessuno, però, sul momento, non è semplicissimo usare il raziocinio. «Che, ti ho mandato in crisi?» mi chiede, con un sorrisetto scemo. Ridacchio e appoggio la guancia sulla mano. Certo che mi manda in crisi. Cosa pensa di fare? Che cavolo.
«Un goccio». Mi lancia un’occhiatina divertita, poi accarezza il gatto e butta la pasta. 
«E non farti mandare…»
«La fa facile, lui!» sbotto, corrucciato, facendolo scoppiare a ridere. «Non decido io cosa mi manda in crisi…»
«E cosa ti manda in crisi, sentiamo?»
«Non lo so con precisione… tante cose… questa è una di quelle…» borbotto, pensieroso. «…i funghi, sicuramente. Odio i funghi…»
«Ma dai…»
«Che schifo. Specie quelli in umido, sono viscidini e mi fanno venire i brividi»
«E scusa, in insalata non li mangi?»
«In insalata li sopporto di più, ma se non ci sono, sono più contento» rispondo, scrollando le spalle. 
«E sulla pizza?»
«Assolutamente no. La pizza mi piace in un modo soltanto: margherita. Come si fa a mangiare… tipo la quattro stagioni? Un accrocchio di roba, prendi un boccone e non sai cosa ti è entrato in bocca…»
«Ecco, su questo sei strano…»
«Oh, sul cibo un sacco…» confermo. «La carne non la mangio e se proprio ne devo mangiare, pochissima e tipo solo… cose talmente processate che non sembrano nemmeno venire da una bestia, non farmi nemmeno iniziare sul pesce, aborro i funghi e l’avocado mi dà da pensare…»
«L’avocado? Sei serio?»
«È strano… la consistenza soprattutto…»
«Non potresti mai abitare a Milano, allora, almeno una volta a settimana ci si fa l’avocado toast…»
«Ecco. Che cazzo fanno gli americani a mettere l’uovo insieme alla frutta…?»
«Beh, l’avocado non è proprio frutta frutta, è tipo salato…»
«Ah, no. Cresce su un albero? Allora è frutta. Anche il pomodoro è un frutto.»
«E infatti ci metti olio e sale…» brontola. Scrollo le spalle, non lo capisco perfettamente neanch’io, ma lascio gli avocado sui loro alberi in Sud America e mi mangio i pomodori. «A me piace tutto… non riesco a pensare a una cosa che proprio non riesco a mangiare…» 
«Ma come…?»
«Eh, ma come, mi piace tutto… forse solo… tipo le budella, gli organi degli animali…»
«Oh, che schifo, Jaco, la base proprio…» sbotto, schifato. «È come dire “non mi piace mangiare la sabbia”…»
«Lo so, ma c’è un sacco di gente che si mangia ste cose… anzi, tu che vivi in campagna dovresti saperlo meglio degli altri»
«Io non approvo molti comportamenti campagnoli, tranquillo.» ribatto. «Fare il bagno nel fiume? No, grazie. È sporco e schifoso… Giocare a carte? Mi annoia. Andare a caccia o a pesca, o allevare animali per la carne? Mi dispiace per loro. Mio padre va a pesca, fino ai dodici anni andavo con lui, poi mi sono messo a piangere per la trota e lui non me l’ha più chiesto» 
«Hai pianto per la trota?»
«Eh, sì. Non so se sei mai andato a pesca, ma appena tiri su il pesce, non gli togli nemmeno l’amo dalla bocca, che gli pianti il coltello nel cervello, così muore subito…»
«Almeno non soffre»
«Però muore lo stesso…»
«È una trota, Gian, è fatta per essere mangiata»
«La trota è fatta per fare la trota, mica per essere mangiata. È fatta per sguazzare nel suo fiumiciattolo, deporre le uova e fare tante piccole trotine, la sua aspirazione della vita mica è essere catturata e uccisa da mio padre» brontolo. Ancora i brividi a pensarci. Almeno papà è relativamente bravo ed evita di lapidare quei poveri pesci come fanno altre persone. Spendono centinaia di euro per l’attrezzatura tra canne, lenze, ami ed esche, poi non vogliono cacciare due spicci per comprarsi un coltellino e ammazzare velocemente la loro preda.
«È per questo che sei mezzo vegetariano?» chiede.
«Fai pure al novanta per cento… comunque, sì. Mio nonno e le sue galline hanno rovinato tanti pranzi natalizi. Fare un qualsiasi altro piatto oltre il pollo arrosto sembrava una fatica insormontabile…» rispondo. Me lo sogno di notte il silenzio tombale scandito solo dai colpi di mannaia sul ceppo di fianco al pollaio.
«Io non ho mai visto un animale venire macellato…»
«Se vuoi continuare a mangiare carne e pesce, non ti conviene. E ti consiglio di stare alla larga anche dalle battute di caccia e di pesca. Che sport del piffero sono? E la maggior parte della gente non è nemmeno capace a praticarle decentemente. Specie la caccia. “Eh, basta sparare”. No. Col cavolo proprio. Se non hai una buona mira, vai al poligono, ti alleni e solo poi vai a cacciare. E se becchi il capriolo nella zampa, poi lo uccidi e te lo mangi, non lo lasci zoppo ad agonizzare dissanguandosi.»
«Su questo sono d’accordo…» mi dice. «Comunque, non credo che ne sarei in grado… appunto, di ammazzare un animale…»
«Mai fatto e mai lo farò.» concludo, secco. Porta sul tavolo i due piatti con la pasta e la bottiglia d’acqua, poi si siede davanti a me con un sorriso. 
«La cena è servita!» esclama, fiero della sua pasta al pomodoro. Alla seconda forchettata, il gatto gli salta sulle gambe, gli dà una zampettata sulla faccia e si siede lì, appollaiata sulle sue cosce, mentre Jaco le dà un bacio sulla testa, poi continua a mangiare. Finora non l’avevo mai visto in un contesto così “domestico”. È entrato in casa, ha salutato il suo micio, si è messo dei vestiti a caso, ha cucinato e ora mangia col gatto in braccio, in comportamenti che trasudano quotidianità da tutti i pori. E appare ai miei occhi meno… extraterrestre arrivato sul pianeta Terra l’altro ieri. Ora è “solo” un ventottenne laureato in informatica, che si mangia qualsiasi schifezza si trovi nel suo piatto, che adora il suo gatto alla follia e che ha una stampa di Keith Richards attaccata al muro della sua stanza a casa dei suoi. Insomma, una persona vera. «Dopo vuoi uscire…?» mi chiede, pulendosi la bocca. Quante seghe mentali inutili, Gianluca. Grazie al cazzo che è una persona vera. 
«Come preferisci…» rispondo.
«Allora, io non ne ho particolarmente voglia, però se vuoi uscire, usciamo. Io pensavo di fare un giro in centro domani pomeriggio e, poi, andare a bere qualcosa la sera… se ti va»
«Certo, certo, va benissimo». Sorride, poi fa scendere il gatto dalle gambe e sparecchia la tavola, dando una pulita abbastanza grossolana alla cucina e impedendomi di aiutarlo. 
«Non rompere, Gian, vai sul divano» borbotta, concentrato a passare uno straccio sul piano cottura. 
«Che testa…» ribatto, andandomene in salotto e sedendomi sul sofà. Questo posto sa di pace mentale. Soprattutto i colori chiari che non stringono l’ambiente. O forse che danno un’atmosfera da oltretomba, chi lo sa. 
«Che testa io, Gian, stai fermo, non toccare nulla, che non devi fare niente…» sbraita, buttandosi di fianco a me e spingendomi sui cuscini.
«Volevo solo aiutare, ingrato che non sei altro…»
«Vai a guidare un’ambulanza se vuoi aiutare la gente…»
«Abuserei della sirena, sarei un pessimo autista» controbatto, con un sorriso ironico, per poi raggelare alla vista di “Uomini e Donne”. L’apoteosi dell’indecenza all’italiana. Cambia canale corrucciato e già mi sento meglio, mentre lui cerca qualcosa di sopportabile da guardare. Poi apre scocciato Prime Video e scorre nella home.
«Hai preferenze?» mi chiede.
«Non roba smielata»
«Vuoi il sangue?» ammicca, ridacchiando. Gli strappo il telecomando di mano, ricevendo in risposta un “hey” oltraggiato e inizio a leggere i titoli della galleria.
«Hai perso i diritti sul telecomando» lo informo, bloccandolo quando cerca di ribellarsi e di riprendersi il telecomando.
«Cattivo» mugugna, offeso. «Guardiamoci il film sulla pesca!» esclama, poi, indicando “Destinazione Pesca”. Non so che roba sia e, nel dubbio, lo lascio lì.
«Antipatico…» brontolo, leggendo la trama di un film su Le Mans.
«No, niente cose su macchine e moto, ti prego…»
«Noioso…»
«No, i film sulle macchine e sulle moto sono noiosi…» ribatte, sospirando e abbracciando un cuscino. «Guardiamoci “I Segreti di Brokeback Mountain”, non l’ho mai visto»
«La mia autobiografia, praticamente…» esalo, facendolo partire. A parte il fatto che mi sposerò con una donna. Però spunta un sacco di caselle: abitare in un posticino sperduto, vivere la propria sessualità in un ambiente relativamente ostile, temere per la propria incolumità. Certo, non ho ancora trovato il mio Jack, o il mio Ennis, per quello i lavori sono ancora in corso. In alto mare, più che altro.
Lui si alza per spegnere la luce, poi si rimette di fianco a me, coprendo le nostre gambe con un plaid stile nonno di Heidi, io stiracchio le gambe e punto gli occhi sullo schermo. Appena si muove per mettersi comodo, gli lancio un’occhiatina e lo noto molto vicino a me, completamente assorto dal film. C’è da dire, però, che da quando è entrato lui nella mia vita, la situazione si è fatta un po’ meno “I Segreti di Brokeback Mountain”. Un po’ più “non ho paura di dirgli che piango per le trote”.
   
 
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