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Autore: drisinil    18/05/2023    7 recensioni
[KageHina]
«Hai mai fatto una partita sotto la neve?» chiede Shoyo, senza smettere di fissare il cielo. I fiocchi gli colpiscono gli zigomi, la fronte, le labbra e si sciolgono a contatto col suo calore, lasciando tracce umide, che rifletttono la luce.
Tobio chiude gli occhi. «Ma quanto sei stupido? No! Ti pare possibile giocare a pallavolo in esterno con la neve?»
«Facciamolo!» esclama Shoyo, per tutta risposta, rosso in viso, eccitato.
Le fiamme gli danzano negli occhi, tutto in lui è sorriso.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Shouyou Hinata, Tobio Kageyama
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Ha risposto "okay". Anzi no, ha detto: "okay, certo."

Okay, certo. Che significa?

Tobio ci pensa mentre fissa il navigatore sullo schermo del telefono: praia da reserva. Non che ci sia granché da guardare: è un puntino azzurro su una strada tutta dritta. Una lunghissima spiaggia che corre a sinistra e dall'altra parte una specie di parco, o di bosco, con lucidi bagliori lacustri, pozzi di luce misteriosi disegnati dai lampioni.

Il mare, invece, non si vede affatto: il buio l'ha inghiottito, ma non è riuscito a zittirlo: una risacca languida continua a sussurrare se stessa, sfrigolando di schiuma sulla battigia.

I passi cadenzati di Tobio battono al bordo della pista ciclabile parallela alla carreggiata; è quasi il ritmo di una corsa leggera. Quasi ma non ancora.

Così si sente, sospeso nel punto dove le definizioni perdono di senso e la forma delle cose si fa ambigua e incerta: la camminata non si distingue dalla corsa, l'urgenza dall'indugio, la paura dal desiderio.

Il desiderio lo capisce, e infatti ha le mani leggermente sudate e la testa leggera, la paura meno. La conosce bene, è la compagna fidata di qualsiasi atleta professionista, un ingrediente necessario alla ricetta della vittoria, imparare a tenerla a bada fa parte del lavoro. Ma non ci sono stadi gremiti, adesso, né cronisti insolenti, non ci sono avversari, non ci sono Mikasa colorate da far girare sulla punta delle dita, né una rete a segnare i confini della zona di conforto.

Tobio attraversa la pista ciclabile con una singola falcata e si toglie le scarpe, affondando i piedi nella sabbia ancora tiepida.

Merda, non c'è neppure un vero pavimento.

Eppure la paura è ancora lì. Un disagio strisciante, che qualche ora prima si è arrampicato lungo i tralicci dei ripetitori e gli si è intrufolato sottopelle passando per le orecchie, nello spazio di un breve, assordante silenzio.

Okay, certo, ha detto boke. E poi è stato zitto, e lì, nel vuoto delle sue labbra cucite, si sono intrufolati i rumori scomposti della strada, mischiandosi al respiro un po' pesante, al cigolio dei freni, al brusio delle folate di vento caldo amplificate dal microfono.

Tobio ha chiuso gli occhi e dietro le palpebre si è dipinto il quadro della bici accostata al bordo di una strada trafficata, sotto quel sole sfiancante, del piede sul pedale, dei capelli sudati, appiccicati alle tempie, così rossi da incendiare il cemento.

Forse boke era solo stanco. Anzi, lo era di sicuro.

E comunque, ha detto okay. L'ha detto subito, con convinzione, le parole gli sono rotolate fuori dalla bocca come se non ci fosse alcuna altra risposta, il che in effetti è vero: non c'è e non può esserci altra risposta.

C'è Shoyou, invece, poco più avanti. Che è già arrivato; a quanto pare il Brasile lo ha reso puntuale e sembra gli abbia anche insegnato a vestirsi un po' meno da cretino.

E' rivolto verso la riva, sotto una falce di luna velata e poche stelle ostinate, seduto su un quadratino di asciugamano, con le gambe incrociate e lo sguardo perso nella massa liquida e scura dell'oceano, come se lo tenesse insieme lui con la forza immane della sua presenza. Emette luce.

Tobio si ferma e cattura quell'immagine di acqua, di cielo e di calore, ne scatta una foto mentale e la sistema in un album che ha scoperto di avere in testa, pieno di istantanee assurde, un po' sfocate e non sempre significative, ma felicemente monotematiche.

E' un bel momento, denso di un'aspettativa elettrica che si sente fremere addosso, lungo tutto il corpo, come se dovesse battere un servizio in un istante cruciale. E forse è proprio un istante cruciale.

Tra poco boke si volterà, lo sentirà arrivare, la prossimità fra loro farà scattare un allarme interno e stringerà il laccio che si portano dentro e che mesi di silenzi e distanza hanno teso e sfibrato, ma non possono spezzare. E tutto riprenderà esattamente da dove si è fermato.

Non succede.

Shoyou non si accorge di nulla, beatamente ignaro di chi gli sta arrivando alle spalle.

«Boke?»

Solo allora si volta. E si alza, sorride e si fa avanti un paio di passi.

E' lui e non è lui, e anche Tobio ha il dubbio di non essere del tutto se stesso.

«Ciao Boke.»

«Kageyama!» E' un tono basso e allegro, che non conserva nessuna traccia della voce bianca di un tempo.

Kageyama. Pronunciato da lui, tutto intero, sembra un nome lunghissimo. Tobio si sente instabile in mezzo a tutte quelle sillabe, barcolla nella sabbia, la sente viscida e fredda sotto la pianta dei piedi.

Della mano allungata verso di lui, non sa cosa farsene. La guarda con sospetto e non gli viene in mente di stringerla.

E' Shoyou ad afferrare la sua, e a tirarlo verso di sé in un abbraccio goffo.

Per una manciata di secondi, il contatto restituisce a entrambi la misura tattile dei cambiamenti che il tempo e la pallavolo hanno operato sull'altro. C'è molto più di prima da abbracciare, e anche molto di meno.

E c'è qualcosa di nuovo e di strano in come i loro corpi si incontrano, senza riuscire a riconoscersi. E un vuoto in mezzo, anche dove la pelle si sfiora.

«Sei cresciuto» dice Tobio, con una vibrazione che somiglia al rammarico.

Mi sei mancato, boke. Mi sei mancato come l'aria.

«Certo che sono cresciuto! Baka! Ho vent'anni, no? Sono maggiorenne, io, porta rispetto!»

Tobio schiva la manata sulla schiena, fulminea e allo stesso tempo prevedibile. Uguale a prima ma anche diversa, come tutto in Shoyou è uguale e diverso, in un modo indecifrabile e pericoloso. Si difende guardandolo dall'alto in basso, fingendo di misurare con la mano il notevole scarto d'altezza fra loro. 

«Non sei cambiato neanche un po' boke» mente, «sempre stupido e nano.»

«E tu sempre... » 

L'insulto resta impigliato alle labbra di Shoyou, che ridacchia anziché finire la frase, fa spallucce, mette le mani sui fianchi e si stira il collo con un paio di torsioni.

Tobio realizza che non l'ha mai visto sottrarsi così a un confronto. Non sa dire se sia un punto a suo favore, se stia vincendo o perdendo.

«Allora Kags, beviamo qualcosa?»

«Io non... »

«Tu non hai scuse, qui danno da bere anche ai mocciosi!»

«Hinata boke! Non è per l'età... »

E' per la partita, naturalmente, la partita di domani. I quarti di finale, contro la Polonia, non può non saperlo.

Shoyou sta per rispondere, ma di nuovo frena le parole e invece afferra il manubrio della bici. «Vieni, andiamo,  sto morendo di fame. Se non puoi bere puoi almeno mangiare. Lì c'è un chioschetto di coxinha che ti cambia la vita.»

La vita di Tobio è già stata cambiata, diversi anni fa, da un boke di quindici anni, che dev'essere ancora lì, da qualche parte, nascosto sotto tutti quei muscoli, quella spavalderia, quel collo largo, quel timbro scuro di voce, quell'accento un po' straniero.

«Dammela!» ordina il Re, allungando le mani sulla bicicletta, con un breve strattone.

E' uno dei vecchi riti: Shoyou dovrà opporre un minimo di resistenza e poi mollare, biasciare un grazie stentato e incamminarsi mezzo passo avanti, meglio se con le mani in tasca e voltandosi ogni due secondi, per dire qualcosa di scemo e ridere ed essere se stesso, disgustosamente colorato, chiassoso e splendente.

Le mani di Hinata, invece, restano saldamente ancorate al manubrio, il fianco sbatte contro le due grosse borse termiche sul portapacchi e lo zaino rigonfio incastrato sopra. 

«Lascia stare: pesa.»

Il Re ha ordinato, ma Hinata non obbedisce più, i suoi sorrisi tolgono ancora il fiato ma sono densi di ombre.

 

*** 

 

«Allora, ti piace?»

«Caffo se fcotta» Tobio inala aria mentre mastica, per raffreddare il boccone «Ma come fai? Hai la bocca d'amianto?»

«Sono abituato.»

E' abituato. A portarsi la bici da solo, a camminare sulla sabbia, a parlare portoghese, a bere birra dalla bottiglia di vetro, come se fosse la cosa più normale del mondo. A stare in mezzo alla sabbia, e a chissà che altro.

«Sembra kaarage» riflette Tobio, soffiando forte sul pollo fritto.

«Dici?»

«Mn. Ma il kaarage è meglio.»

«Sai che non me lo ricordo più?»

Quello che ferma le mandibole di Tobio non è la frase in sé, perché boke ha sempre avuto la memoria di una gallina, ma la mancanza di emozione: nemmeno un'ombra di tristezza, neppure un po' di nostalgia.

Cos'altro hai dimenticato, boke?

Shoyou divora allegramente i bocconcini, lanciandoseli in bocca e innaffiandoli di birra ghiacciata; qualsiasi preparatore atletico vorrebbe spaccargli la faccia. In quel momento, anche Tobio vorrebbe, mentre cattura con gli occhi il riflesso delle goccioline d'acqua che gli scivolano sul mento.

Stende le gambe, sotto l'orlo dei pantaloncini scuri i quadricipiti guizzano, si appoggia all'indietro sulle braccia tese, i palmi affondano, lui guarda verso l'alto, come se ci fossero cose importanti scritte fra le stelle. «Allora Kags, come ci si sente a fare il professionista? Come va la vita? Racconta!» 

Tobio invece guarda in basso, dove le caviglie spariscono fra la rena ruvida.

Va bene. Ma anche male. Senza di te si vive di merda. Torna, Boke.

«Normale. Un sacco di pallavolo, come sempre. Un sacco di gente che ti dice cosa devi fare, cosa devi mangiare, quanto devi allenarti. E seccature, tipo giornali, sponsor, roba così.»

«Come sempre» gli rifà il verso Shoyou, tenendosi con le mani i capelli appiccicati alla fronte e aggrottando le sopracciglia. «Gli Adlers, la nazionale - la nazionale, baka, ti rendi conto? -, perfino le Olimpiadi, e anche un mucchio di soldi, e per te è come sempre, un sacco di pallavolo. Non cambi proprio mai. Ho ancora voglia di picchiarti come quella volta al liceo dopo il ritiro della giovanile, mi fai ancora incazzare di brutto quando fai così. Anzi, sai che ti dico? Ora mi tiro su le maniche e ti picchio sul serio.»

Tobio lo spintona per finta. «Provaci. Ti gonfio. A proposito, domani ci sono i quarti.»

«Lo so!»

«E quindi, boke? Ci vieni?»

A quella domanda rispondono la voce dell'oceano, l'eco di un motore lontano, il rumore della carta dei coxinha accartocciata.

Il cuore di Kageyama Tobio si incrina e lui serra le labbra e stritola granelli di sabbia fra le dita dei piedi, scoprendosi privo del lessico minimo per gridare i sentimenti. Vorrebbe schiacciargli in faccia, quello sì saprebbe farlo.

Inclina il viso e lo sprofonda nel collo di Hinata, quel luogo tiepido e pulito che ha sempre considerato di sua esclusiva proprietà, dove si disperde la stanchezza, si sciolgono le tensioni, si acquieta l'ansia di vivere e di crescere e di afferrare più cose possibili e provare a dar loro dei nomi. Cerca il battito del cuore con le labbra e aspira forte l'odore: sole e zucchero, ma anche sabbia e sale, e una vaga scia alcolica che promette amarezza.

«Baka, che fai?»

«Ti annuso. Lo sapevo, maledizione!»

«Eh?»

«Non hai lo stesso odore di prima. Non ce l'hai più.»

«Ho pedalato sotto il sole tutto il giorno e poi un baka mi ha dato appuntamento all'improvviso, prima che potessi tornare a casa a farmi una doccia.»

«In effetti un po' puzzi.»

Shoyou si annusa preoccupato, arricciando il naso. «E allora tu stai lontano!»

«Non voglio.»

Ecco una verità senza filtri, ostinata e contraria al moto delle mani di Shoyou, che lo spingono via. «Voglio io. Hai appena detto che puzzo.»

«Chissenefrega.»

«Frega a me!»

«E da quando?»

«Da quando non ho più sedici anni? Da quando ho un minimo di amor proprio. Eddai Kags, siamo cresciuti!»

Tobio non si sente cresciuto. Si sente tradito, ingannato. E spaesato, talmente tanto che ha smarrito persino la bussola dei suoi desideri.

E allora afferra Shoyou alla nuca e lo bacia senza tanti complimenti, perché è esattamente quello che vuole fare, perché ne ha il sacrosanto diritto, perché è maledettamente giusto così.

Gli invade la bocca, gli succhia le labbra e la lingua, cercando di ritrovare il retrogusto di tutti i baci del passato e anche il sapore condensato di tutti quelli che ha perduto, svaniti nell'abisso dei ventimila chilometri fra due continenti agli antipodi.

Baciare Shoyou è salvezza, sollievo, lampi di colore dietro gli occhi chiusi, indigestione di sole.

Si sfiorano le mani, si modellano a vicenda il viso e il collo con i polpastrelli, e si baciano. E questa volta non è casuale, né ingenuo, né tenero. E' umido, caldo, erotico e potente, come una pipe dalla seconda linea, schiacciata con tutte le forze.

Shoyou ha imparato a baciare come gioca, senza esitazioni, con una prepotenza che supera la logica, un'avidità che è l'essenza della sua natura. Un bacio che pretende, incatena, occupa, risveglia i sensi. Un bacio che non ha nulla a che vedere con quelli di un tempo.

Chissenefrega di un tempo, ansima Tobio nei pensieri, mentre prende fiato e apre gli occhi, stupito e affamato.

Shoyou sorride deliziato del proprio potere e poi è lui ad afferrarlo alla nuca, fronte contro fronte, per parlargli sulle labbra. «Che dici, baka? Niente male, vero? Te l'ho detto che sono cresciuto. Puoi chiamarmi senpai

«Hinata boke!» sussurra Tobio, con il fiato corto e le pupille dilatate. Guardarlo da così vicino lo ubriaca di luce in un attimo. «Dimmelo: vuoi ancora che alzi per te?»

Gli occhi di Shoyou si allargano, le fiamme che hanno dentro divampano, il mondo di Tobio s'incendia.

Solo per un attimo. Solo finché Shoyou batte le palpebre, soffia via il respiro dolcemente, allenta la presa della mano, si allontana qualche centimetro.

Sorride il suo nuovo sorriso, adulto e provocatorio, che mette in risalto la linea dura della mascella. «Vorresti alzare per me? Intendi qui? Adesso?»

Ovunque. Comunque. Anche se la palla fosse di marmo.

Proprio non ci arriva, Tobio vuole credere che sia così, che certe metafore intime e sottili, Hinata non le colga mai, perché in fondo è rimasto il solito boke. E forse è proprio sul campo che deve insegnargli di nuovo la forma giusta del mondo. Forse è giocando insieme che possono trovarsi di nuovo e i fili possono essere riannodati più stretti che mai.

«Adesso. Qui. Se non hai appresso una palla sei il peggiore del mondo.»

«Certo che ce l'ho, la palla.»

«Allora?»

Ancora una. Chiedimelo. Ancora una.

Tobio si sta allacciando le scarpe, ha l'espressione di chi ha già chiuso fuori a doppia mandata tutto l'universo, tranne le uniche due cose che contano: la pallavolo e Hinata Shoyou, non importa in quale ordine.

Shoyou però resta seduto, ride e gli assesta un pugno contro il fianco. «Ma sei serio? Baka! Non possiamo: le tue articolazioni sono tesoro nazionale.»

«Eh?»

«Sei un professionista, no? Che gli raccontiamo a Japan se ti sfasci una caviglia per fare l'idiota con me in spiaggia?»

Le spalle di Tobio si piegano sotto il peso di quella saggezza scagliata a piene mani contro di lui. Shoyou può essere tardo nel capire le cose, e inutile quando si tratta di comunicare, ma non lo aveva mai visto tirarsi indietro da una sfida.

Fino a ora.

Alza per me. Giuro che le colpirò tutte. Eppure aveva giurato.

«Boke, quando torni?» C'è una sfumatura di stanchezza nella voce.

«In Giappone?»

«A casa.» Da me.

«Chi lo sa. Quando sarò pronto. Fra un anno, un anno e qualcosa, magari un paio. Ho appena iniziato a ingranare, qui.»

Due anni, non un giorno di più. Giuro. Anche questo, aveva giurato.

«A me questa storia del beach volley sembra ancora una stronzata.» La voce gli esce dalla gola scheggiata come vetri rotti.

«Ma se non hai mai provato! Il beach è forte, Kags. Difficile, anche. E' una cosa... ah non so come dire, diversa. Ma...muito legal

Tobio scopre di odiare tutto del Brasile, a partire da quella lingua come una cantilena odiosa.

«Di' la verità: vuoi mollare?»

«Cosa?»

Me. Noi. Il nostro patto. «La pallavolo vera

«Sei pazzo? No! Neanche per sogno! Ma... la sto prendendo da un lato diverso. La sto imparando di nuovo. Non so se riesco a spiegartelo a parole.»

«Lascia perdere. A parole fai pena.»

«Senti chi parla!»

«Io non ti capisco. Dico sul serio. Ci ho provato, ma non ci riesco per niente e ora che ci sono venuto posso dirlo con certezza: questo posto umido e appiccicoso è una merda. Una merda per giocare e una merda per viverci. Qualsiasi cosa tu stia facendo qui, puoi farla meglio a casa.»

Shoyou si prende un paio di secondi per riflettere, frugando il buio con occhi seri e dolci, mentre le dita rovistano nella sabbia. «No, non credo. Credo che stare qui mi faccia bene, che mi serva. E poi ora mi piace: il mare, la gente.... All'inizio ho fatto fatica, sai. Ma ora sto ingranando sul serio e sto... capendo delle cose.»

«Questa sì che è una novità, boke, tu che capisci delle cose.»

«Baka! Sto davvero capendo delle cose. E non solo di pallavolo. In generale. Anche sulle persone e su me stesso. E' più facile conoscere gente, qui, e più conosci gente, più ti si apre il cervello.»

«Tanto nel tuo ci trovi la segatura. Stai dicendo un mare di cazzate, molte più del solito.»

Il sorriso di Shoyou è triste, ma anche indulgente, fastidiosamente saggio. «Forse per te sono cazzate, ma tu non hai bisogno di guardarti per forza intorno, ti basta camminare dritto per la tua strada, e arrivi sempre dove vuoi.»

Tobio sospira così forte che la saliva gli si incastra in gola. «Che cazzo significa?»

«Che anche se personalmente non te ne frega niente, il mondo è grande, Kags, ed è pieno di persone, di storie, di cose nuove da provare. Quando eravamo a Osaki non l'avevo mai capito. Pensavo mi fregasse solo della pallavolo, che ci fosse un solo percorso per arrivare da qualsiasi parte, che bastasse restare in campo. E invece non è così. Invece mi sbagliavo. Con la pallavolo faccio sempre sul serio, okay, e sta in cima alla lista, e voglio sempre vincere. Ma esistono anche altre cose nella vita, un sacco di altre sfide, di altri tipi di vittoria, di altri modi per sentirsi bene.»

Lo sguardo di Tobio è sconcertato.

Shoyou fa spallucce e gli lancia un sorrisetto da schiaffi. «Mi sa che sono un tipo curioso. E qui ti puoi levare tutte le curiosità che vuoi e divertirti un sacco. Puoi fare esperienze. Qui le persone sono... amichevoli. Disponibili, voglio dire, sia i ragazzi che le ragazze. E' molto facile vivere tutto con leggerezza... »

«Tutto cosa? In che senso?»

«In che senso, Kags? Ti devo fare un disegnino? Sei negli Adlers, e pure in nazionale, ma che vuoi di più? Hai tutto. Sei un maledetto campione, avrai la fila di gente che vuole venire a letto con te davanti alla porta, o no?»

La porta di Kageyama è sempre stata chiusa e lui non ha la minima idea di quanto lunga sia la fila che c'è dietro. Non gli interessa. Non gli interessa nessuno, in quel senso. Non gli è mai interessato nessuno, perché dovrebbe?

E lì, forse per la prima volta, Kageyama Tobio se lo domanda: perché?

Perché lo stupido Hinata conta così tanto, con i suoi capelli arancioni da alieno e le mille cazzate che dice ogni momento, mentre il resto del mondo neanche esiste?

«Mi stai dicendo che te ne vai in giro a scopare con chiunque?»

Shoyou guarda l'oceano e l'oceano, liquido e scuro, gli si infiltra negli occhi. «Detta così è squallida. Volevo dire che esco, faccio amicizia, mi godo gli anni che ho e cerco di fare esperienze nuove, allargo il mio orizzonte. E se capita un po' di sesso, perché no? Non c'è niente di male. Sono adulto, sono libero e sono anche molto figo» ridacchia ammiccante, schioccando le labbra e passandosi la mano fra i capelli.

Sono libero.

I fili rossi penzolano dalle dita di Tobio, come rivoli di sangue da articolazioni spezzate.

«E quindi? Devi dare per forza via il culo solo perché hai messo su un po' di carne sopra quelle quattro ossa e hai compiuto gli anni?»

«Baka! Non do via il culo. Mi diverto. E poi, mica per forza devo darlo via, anzi, ho scoperto che sono bravino anche a stare sopra... magari vuoi provare... »

«Piantala. Non c'è un cazzo da ridere.»

«A me sembra proprio di sì. Guarda che faccia che fai! »

Sul viso di Tobio è scolpita l'espressione incredula e ferita della vittima di una truffa crudele, di un brutale, umiliante tradimento. Gli cade la testa fra le mani, serra gli occhi e li copre con le dita. Se sapesse come fare piangerebbe. «Con chi hai scopato? Quando? Quante volte? Perché?»

«Cosa? Ma sei mia madre? Cioè, nemmeno lei farebbe domande come queste. Con un po' di gente, tutte le volte che mi va. Mica le conto! Perché? Ma c'è bisogno di un motivo? Perché ho vent'anni, perché scoppio di vita, perché l'adrenalina mi consuma, perché una bella sessione di sesso scarica i nervi, è divertente, abbassa la tensione. Non lo dicevi sempre tu che abbassa la tensione e aumenta le prestazioni?»

Tobio non ha una risposta. Lo stomaco ridotto a un nido di vespe, il cuore spaccato in mille pezzi. Non lo sa più cosa andava dicendo a diciott'anni, per giustificare con se stesso l'unica ossessione della sua vita che avesse un senso anche fuori dal campo.

Sapere cosa si vuole e volerlo con forza sovrumana è quello che fanno i re. E Kageyama Tobio vuole vincere su qualsiasi campo del mondo e vuole Hinata per sé. Vuole Shoyou esattamente quanto lo voleva prima. Lo vuole ancora, lo rivuole indietro. Anche se altri gli hanno messo le mani addosso, se l'incavo del suo collo è stato profanato, se hanno bevuto la sua luce, se gli hanno dormito addosso.

Può cancellare quelle tracce, può scriverne di nuove sul suo corpo.

Kageyama Tobio è un re senza corona e senza regno, con le mani vuote e le vene dei polsi che battono un ritmo scomposto.

«Kags. Mi senti? Ehi, Kags, non fare così. Va tutto bene.» Le dita di Shoyou gli sfiorano la guancia, con una dolcezza che brucia sulle ferite aperte. «Stiamo solo diventando grandi. Funziona così.»

Invece non funziona, e che lui non lo capisca è insopportabile.

Qualcosa trema negli occhi di Tobio e attraverso la vista liquida e offuscata si rende conto a un tratto che questa nuova versione di Hinata Shoyou è piena di crepe.

Lunghe crepe voraci che attraversano il solido cemento di cui era fatto e lasciano affiorare, al di sotto, un'instabile, mutevole massa sabbiosa. Dev'essere da lì che viene questo Hinata Shoyou, con le sue bugiarde pose da adulto e il culo dato via senza motivo. Una sagoma di sabbia che cambia forma e consistenza ogni momento, inaffidabile, pronta a sgretolarsi, una terribile impostura.

Eppure non riesce a staccare gli occhi da lui, a pensare di portarselo via e di aprirgli quella testaccia dura e scavare, scavare via con un cucchiaio tutte le idee marce e le cattive abitudini che ci sono finite dentro.

«Vieni a vedermi, domani?»

Shoyou esita, gratta con le dita sulla stoffa dei calzoni.

«Rispondimi! Ci vieni o no?»

«Domani devo... »

«Sì o no. Verrai alla partita?»

Tobio conta fino a cinque, senza battere le palpebre, aspettando una risposta che le labbra di Shoyou non lasciano uscire.

Lo spintone arriva a tradimento e Hinata ruzzola nella sabbia.

Tobio si alza e se ne va, a passo di marcia e con i pugni serrati, come fa quando vorrebbe scappare ma non riesce a mettersi a correre, perché gli pesa troppo il cuore.

 

Shoyou resta impalato a guardarlo mentre va via, scavando una trincea fra il prima e il dopo, un solco buono per seminare sensi di colpa e nuovi sbagli.

La schiena ampia, le gambe dritte e solide come colonne, la testa incassata fra le spalle, Tobio si sta portando via tutte le cose più dolci del passato, che non torneranno, perché Shoyou non se le merita.

E' l'adolescenza che lo abbandona, delusa dal suo ostinarsi a cambiare, come se l'avesse tradita e spinta via, per andare oltre. E forse è proprio quello che ha fatto, quello che doveva fare.

Fa un gran male, ma non c'è rimedio: sono i dolori della crescita, quando non solo le ossa e i muscoli si mettono a bruciare all'improvviso, ma pulsa e duole anche tutto quello che c'è intorno.

Dolori inesorabili, perché nessuno ha il potere, o il diritto, di restare ancorato al passato, tenendo in scacco se stesso, e anche gli altri. Tutti hanno, al contrario, il dovere di muovere il culo, spingere sui pedali, saltare sulla sabbia, strapparsi di dosso la vecchia pelle e combinare qualcosa.

Kags sta combinando qualcosa. Che sia qualcosa di buono è ovvio a chiunque tranne che a lui stesso, ma questo solo perché è un baka fortunato, col talento che gli esce dagli occhi. Prima o poi si accorgerà che sul tetto del mondo c'è già arrivato e guarderà di sotto e tutti gli sembreranno piccoli come formiche.

Questo destino da formica, Shoyou non lo accetta. Non lo vuole accettare, anche se significa scavarsi solchi nella carne e incrostarsi le mani di sabbia, di fatica, di sconfitte e spegnere la nostalgia nei marosi della caipirinha, soffocarla sulle labbra di qualcuno, schiacciarla sotto il peso delle borse termiche delle consegne, piene fino a scoppiare. Pedalando, pedalando, correndo, saltando sotto rete. Cambiare. Evolversi. Coltivarsi, allungando le radici nella sabbia, come i gigli di mare che fioriscono in spiaggia.

 

La schiena di Tobio è già lontana, sempre più piccola, bianca della felpa olimpica, con le spalle rosse, bruciate dal sole del Giappone.

Gli si affianca un pullman che corre sull'asfalto, si sente l'eco della musica allegra sparata a tutto volume all'interno; sulla fiancata campeggia il logo colorato dei cinque anelli e la scritta gigante Rio 2016. Il Brasile ha vinto l'oro per il calcio solo un paio di ore prima, la città è in festa.

I finestrini si abbassano e su Kageyama Tobio e la sua tuta da atleta olimpico nevicano risate, giubilo e lustrini colorati, come fiocchi di metallo, delicati e rigidi, che gli fluttuano intorno e gli si appiccicano addosso.

L'ultima cosa che Shoyou vede di lui sono riflessi rossi e dorati che scintillano sotto le suole delle scarpe, mentre comincia a correre.

La sabbia è fredda, la birra molto amara.

Quando sposta il peso per alzarsi si sente vacillare; cosa si prova a stare al sicuro sul cemento non se lo ricorda più.


****

Chiedo scusa con il capo cosparso di cenere a chiunque abbia aspettato invano per mesi la continuazione di questa storia. E' stato difficile sbloccarmi, non me la sentivo di arrivare a questo punto della storia, a questa rottura inevitabile, ma ugualmente dolorosa. Naturalmente la storia continua, perché per me kagehina è e resta, alla fine dei conti, una fated pair.
Per avermi sbloccato il cervello ringrazio di cuore il gruppo facebook "Non solo Sherlock" e in particolare la challenge "MayIwrite" per la quale questo capitolo è stato scritto.
   
 
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