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Autore: Exentia_dream2    25/05/2023    0 recensioni
Questa storia partecipa alla Challenge "Tanti piccoli semi per far fiorire nuove storie" indetta dal gruppo facebook L'angolo di Madama Rosmerta.
Dal testo:
Si narra che anemoni rossi nacquero dalle gocce di sangue cadute ai piedi della croce di Gesù Cristo, ma le uniche lacrime scarlatte che vede sono quelle che rinunciano all'alloggio delle vene del loro possidente e si posano sulle gote morbide di Hermione.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Draco Malfoy, Hermione Granger | Coppie: Draco/Hermione, Ron/Hermione
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7, Dopo la II guerra magica/Pace
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 Pelle e vestiti sono imbrattati del sangue dei morti, amici e nemici, e l’odore pungente le riempie le narici senza che lei possa far niente: potrebbe trattenere il respiro, ma a cosa servirebbe se nello spazio tra le dita scorre lento il fiume rosso che lascerà macchia del proprio passaggio anche dopo essere stato lavato via?
Hermione avanza ancora, la schiena poggiata alla pietra fredda di un corridoio buio, la bacchetta stretta in una presa decisa e tremolante allo stesso momento; non sarebbe capace di dire in quale ala del castello si trovi esattamente: ha la mente offuscata dalla confusione in cui si rincorrono senza sosta, sovrapponendosi l’uno all’altro, il ricordo del bacio con Ron e quello del corpo senza vita di Lavanda Brown ­― l’ha toccata, Hermione, e poi se l’è stretta al petto per imprimersi addosso l’orrore di una notte che s’è rivelata infinita.
Tutt’intorno è urla e disperazione, eppure ogni suono le arriva ovattato, lontanissimo: è lo scudo che s’è creata a difesa del dolore ― non ascoltare, non farsi trascinare nello sconforto, evitare azioni non studiate per salvarsi la pelle e dare a se stessa la possibilità di salvare qualcun altro ―; barriera che le ostacola l’irruenza dell’animo e la violenza del desiderio di porre fino a tutto e subito: basta dolore, si dice, ma sa bene che il peso di quel pensiero non vale niente rispetto alla realtà che fuori dall’alcova in cui si è rifugiata esplode in lampi d’incantesimi letali, che si erige a giudice divino per la vita e la morte di chi si è messo in prima linea in posizione di difesa a sostegno degli ideali su cui ha costruito la propria esistenza, giusti o sbagliati che siano.
E lì, accovacciata all’ombra di una statua che non riesce a riconoscere, si chiede quanto valga un’ideologia piuttosto che un’altra, e perché l’una debba esistere a discapito dell’altra. Perché, nel mezzo tra le due, la guerra sia l’unica soluzione valida.
Quando svolta l’angolo, lo svolazzo di un mantello nero le blocca i passi e una mano sulla bocca le fa ingoiare la paura: ora, sulla lingua, non c’è più il sapore dolce delle labbra di Ron, ma il gusto erboso e umido del terreno battuto e, a tenerla al riparo dal Mangiamorte di passaggio, ci sono le braccia di Draco Malfoy.
"Non urlare" le ordina e Hermione infonde più rabbia nella morsa dei denti sulla pelle candida delle dita che le opprimono il respiro. Stringe la bacchetta e, nonostante non abbia lo spazio necessario per i movimenti, gliela punta al centro del petto: lasciami andare o giuro che t’ammazzo.
Malfoy, però, annulla la distanza residua e le fa cenno di restare in silenzio, portandosi l’indice alla punta del naso.
Se sapesse farlo, adesso, allenterebbe le viti del proprio orgoglio e gli chiederebbe perché se l’è tirata addosso invece di mettere fine ai suoi giorni, ma non sa farlo e allora gli imprime tracce rosse sullo sterno e lo allontana ―  incancellabile sulle mani, ora imbratta una stoffa troppo pregiata, il sangue dei morti, amici e nemici, e chissà quanti di questi hanno visto proprio lui e il suo viso prima di chiudere gli occhi per sempre.
“C’è l’inferno dietro quell’angolo” le dice ancora, la voce bassa di chi ha avuto troppo timore di varcare i confini labili di un territorio conosciuto solo attraverso racconti tramandati dai libri di storia, ma Hermione non si volta ad ascoltare le sue parole e quello che trova, oltre il buio di quel corridoio, è molto peggio di quello che le è stato appena raccontato.

 

In sanguine

 

Passiamo accanto a storie  e persone 
che avrebbero potuto cambiarci la vita…

 

 É impresso nella memoria delle mura, il sacrificio di chi ha dato la propria vita in cambio della pace di cui sta godendo chi è riuscito a sopravvivere ― meritevole o meno, la superficie quieta su cui cammina è fatta della terra che ha seppellito i morti di una guerra ― ; in ogni pietra su cui i nomi dei caduti sono stati incisi con la magia affinché nessuna delle vittime innocenti venga dimenticata.
Hermione spesso sfiora quei solchi, in religioso silenzio: grazie, pensa, ma non lo dice mai. Non ha motivo di parlare con chi non può ascoltarla e, allora, tace: è il miglior modo di rispettare i morti, vivere per loro e benedire ogni sole che sorge.
É tornata a Hogwarts da eroina che non vuole meriti, ha calato il capo sui libri e rinchiuso tra le pagine di ognuno un fiore che ha fatto seccare tra le parole. E, quando le capita di trovarlo, lo accarezza con riverenza: c’è Fred nelle pieghe di quei petali, e Dora e Remus nella curva dello stelo, e tutti gli altri negli intagli delle foglie spezzate.
Le dita disegnano lente i nomi cari che ormai sono epitaffi eterni e, come ogni volta, Hermione avverte tutta la responsabilità dell’ essere ancora in piedi, capace di respirare e, purtroppo, condividere la fortuna di poterlo fare con chi non meriterebbe affatto tale privilegio: a posteriori, lo sa, non avrebbe barattato la sua vita con quella di qualcun altro e sarebbe ingiusto esporre il pensiero bugiardo del sarebbe stato meglio se fossi morta al posto di. Però, quando asciuga le lacrime mute di Ginny, si fa forte in lei il pensiero che avrebbe potuto fare meglio, fare di più e, magari, non condannare nessuno al trapasso.
Ci pensa, a volte, e si guarda le mani per ricordare a se stessa il colore del sangue che le ha macchiato la pelle ― c’è ancora la scia densa sui polpastrelli, e l’odore forte della sofferenza, della dipartita.
Quella notte, Hermione è sopravvissuta, ma una parte di lei è deceduta insieme a ogni compagno caduto e la rabbia per ogni perdita subita s’accende come fuoco ogni volta che, tra i corridoi in cui aleggiano i ricordi dei corpi senza vita delle persone che ha amato, incrocia lo sguardo inespressivo di Draco Malfoy: le aveva detto che c’era l’inferno, oltre l’angolo che lei aveva scelto di svoltare, eppure, le fiamme che le ardono in corpo quando gli occhi le si riempiono della sua immagine, bruciano come la peggiore delle sconfitte: non avrebbe dovuto essere lì, nella sua insolenza, a marciare passo dopo passo in una vita che non merita di trascorrere fuori dalle pareti di Azkaban. É stata lei stessa a testimoniare a suo favore ― il suo errore più grande, compiuto per affetto nei confronti di chi ha anteposto se stesso alla salvezza degli esseri umani, a esclusione di nessuno ― e ogni singola parola di quel processo, ora, la condanna giorno per giorno al pentimento.
Lo guarda mentre cammina a testa basta ed è questo l’unico modo che ha per espiare le proprie colpe: non alzare gli occhi, non guardare mai la lista dei caduti ― non ne ha il diritto, non è all’altezza di osservare il bene che lui stesso ha contribuito a spegnere.
Non parla quasi mai, Draco, e quando sorride le labbra disegnano una curva accennata e lei si chiede perché prova quell’urgenza cocente di fissarlo e augurargli ogni male: non è da lei, eppure. Si domanda da dove provenga la forza con cui l’odia e si rispondeva sempre che è stata colpa sua se i Mangiamorte sono riusciti a entrare a Hogwarts, è stato lui a commettere peccato, a uccidere, anche se indirettamente. Non si è mai eletta giudice supremo, ma di fronte a lui, sì: colpevole sempre, innocente mai. Dice a se stessa che potrebbe convertire quel sentimento in qualcosa di costruttivo, ma Hermione Granger ha imparato ad ammettere i propri limiti e, quando proprio non riesce a superarli, volta la testa dall’altra parte e finge che il problema non esiste ― è contro la sua natura, ma preferisce questo al pensiero di annullarsi. Solo che.
L’ombra di Malfoy è ingombrante e il silenzio che s’è cucito addosso pesa come un macigno: quando lo incrocia lo urta di proposito, durante le lezioni in comune prova a sabotare ogni suo compito, ma lui non risponde mai.
Forse è questo che le fa provare rabbia: il fatto di non avere l’opportunità di rinfacciargli il male che ha fatto al Mondo Magico, di non potergli mettere davanti agli occhi le conseguenze della ferita che ha inferto a quelli come lei.
S’è presa la briga di giudicare il dopo di una guerra di cui tutti loro portano ancora gli strascichi nelle ombre che li avvolgono, quando un rumore più forte spinge le mani sotto ai mantelli per impugnare le bacchette e mettersi in posizione di difesa e capisce chiaramente che nessuno è più lo stesso. Nemmeno lui.

 

 ~•~

 

 

Hermione è cresciuta con le favole della buonanotte che papà raccontava prima di rimboccarle le coperte, poi una mattina s’è svegliata e ha conosciuto il sapore amaro del disincanto: ogni cosa nasce e cresce e muta, lo sa bene, ma ci sono forme nuove che non riesce ad apprezzare ― ha impiegato un tempo indefinito a scendere a patti con se stessa e ammettere che quel sentimento che la agitava dentro ogni volta che guardava Ron non avesse niente a che fare con l’affetto autentico che provava quando, invece, i suoi occhi si posavano sulla figura magra di Harry.
Adesso, però, con le gambe incrociate sul letto, si chiede quanto tempo ci vorrà per accettare che il palpitare del cuore di Ron non ha lo stesso ritmo del proprio: giorni o mesi? O, forse, non sarà mai in grado di accettare che l’affetto può essere fraintendibile, può sembrare amore, certo, ma non esserlo davvero.
Ti voglio bene, le ha detto Ron e nel suo sguardo ha saputo leggere che il non andare oltre non è dipeso affatto dalla timidezza, ma piuttosto dal fatto che non ci fosse un oltre.
Non si è appoggiata alla spalla di nessuno per piangere: s’è rimboccata le maniche e ha guardato in faccia una realtà che l’ha prima illusa di poter essere e poi, a muso duro, le ha urlato di no. Hermione è rimasta a fissare le mani, vuote di ogni cosa, con la paura di poter perdere in tutti i sensi ― l’amore, l’amicizia, la fratellanza ― ed è stata così convinta di essere arrivata a quel punto che, quando Ginny le ha strette, quelle mani, s’è lasciata andare come un naufrago arrivato alla deriva senza più speranze e fiato.
Erano sedute l’una di fronte all’altra, il paesaggio fuori dai finestrini dell’Espresso suggeriva che l’arrivo a Hogwart fosse prossimo e, nei giorni a seguire, non c’erano stati inciampi da parte di Hermione né falle da dover coprire.
É la solitudine che avverte nel giorno del suo compleanno che la fa tremare di speranza: attende con ansia l'arrivo di Leotordo, un biglietto in cui, bianco su nero, magari troverà le parole che Ron non ha saputo pronunciare, il ripensamento sulla decisione di rimanere amici, la voglia di cominciare davvero una storia appena accennata con quel bacio nella Camera dei Segreti.
Quando, però, nella lettera che riceve ci sono vergati gli auguri collettivi di Harry e Ron e i componenti della famiglia Weasley, Hermione accartoccia la pergamena e la guarda come se, con il solo potere della mente, potesse darle fuoco: la delusione di non essere abbastanza, di non valere tanto da meritare qualcosa in un più di un biglietto scritto da Molly e firmato da tutti, le fa stringere i denti e trattenere le lacrime che non versa da quando il suo viso era sporco di terra e sangue e il suo corpo martoriato dalla fatica e dagli attacchi ricevuti.
“Sta diventando una malattia e non deve essere così: ne vale davvero la pena? L’amore che provi per lui è più forte di quello che provi per te stessa?  Non lasciare che questa situazione ti schiacci, il tempo che dedichi a penare non vale affatto quanto quello che potresti impiegare per reagire” le dice Ginny, in ginocchio davanti al suo letto, le mani giunte e gli occhi che vogliono scavare da qualche parte dentro l’amica.
Lei non risponde. É il silenzio dei colpevoli e il suo reato è stato aver forzato qualcosa che semplicemente non aveva modo di esistere: sono state le conseguenze di non aver fallito ed essere ancora vivi che hanno spinto lei e Ron a carezzarsi le labbra, a stringersi per sentire ancora il cuore battere. Ha le dita tra i capelli, temporeggia nel parlare fingendo di sciogliere un nodo che non esiste: per la prima volta, dopo la guerra, le sue ciocche sono ordinate ― Ginny è rimasta in silenzio mentre le toccava i capelli e provava a sistemarli, ma adesso ha bisogno di una risposta che Hermione non è in grado di dare: quanto è forte il sentimento che prova per Ron? E come capire, se davvero è divenuto malattia, quali sono i sintomi della guarigione?
Le parole le vorticano nella mente e alcune raggiungono persino le labbra, ma sono pigolii indefiniti e, a quel punto, la strega più brillante della sua età vorrebbe soltanto nascondere la testa in uno dei suoi amati libri e chiudere il mondo fuori (dimenticare l'esistenza di chiunque, addirittura la propria), ma i tomi sono lontani da lei e Ginny continua a fissarla con l’aria di chi li capisce, lo smarrimento e il senso di inadeguatezza che si prova quando si ama per due e comunque non sembra essere abbastanza. Si siede accanto a lei, unisce le proprie dita alle sue e le sorride dolcemente.
"Vieni con me a Hogsmead questo sabato. Ci saranno anche Luna e Hanna, ci divertiremo tutte insieme. E sì, puoi pensarci un po’ su, però, per favore, ricordati che oltre le mura che stai costruendo, c’è una vita che hai l’obbligo di onorare: per te e per chi adesso non c’è più."
Lo sa, è un pensiero ricorrente, eppure. Vorrebbe che il suo dolore non fosse sempre sminuito, che il fatto che lei respirasse ancora non fosse costantemente paragonato a un debito di vita con i morti che hanno combattuto accanto a lei (non era l’unica a essere sopravvissuta) : essere Hermione Granger non era mai stato facile ― non deludere le aspettative altrui, non mostrare le proprie fragilità, non essere egoista, non inciampare. Mai.
Quando si guarda allo specchio e parla con se stessa, si ripete che è stata brava, che ha tentato il possibile e l’impossibile per salvare più di una vita, che ha superato il peggio e anche di più (dire addio senza parole a mamma e papà, vagabondare per la foresta di Dean, subire il taglio di una lama che l’ha marchiata come una bestia da macello), ma questa no, non riesce proprio a superarla.
Forse, si dice, è perché ha raddrizzato troppe volte la schiena per reggere il peso di quella vita che l’ha privata di parte dell’infanzia e dell’adolescenza, s’è ritrovata ad avere quasi diciott'anni e a non ricordare più le ultime candeline su cui ha soffiato e allora… il fardello che ha sopportato finora si è sgretolato e le è piombato sulle spalle, scaraventandola direttamente a faccia in giù sul pavimento ― l’ultima crepa prima che il cristallo esplodesse, l’ultima goccia prima che il vaso traboccasse.
Annuisce finalmente, rivolgendo lo sguardo a Ginny: ci penserò, le promette e lo farà davvero, ma ora, ha bisogno della solitudine che riesce a gestire solo se circondata da tante persone. Si congeda con un saluto accennato, poi s’incammina verso la Sala Comune di Grifondoro.
Ancora, attraversare i corridoi le provoca emozioni contrastanti: da un lato è grata di poter battere i piedi sulla pietra, ma, dall’altro, si perde a osservare i volti degli studenti e si chiede cosa si celi dietro ogni sorriso, se anche loro, di tanto in tanto, provino la voglia forte di voler sparire. Quando Hogwarts ha riaperto i cancelli, Hermione si era proposta di approfondire conoscenze che finora si erano basate su un saluto accennato, un sorriso frettoloso, ma, quando la vita scolastica ha preso pieno ritmo, ha scordato i propositi con cui ha inaugurato il primo giorno di settembre: è stato il timore a bloccarla, poiché chiunque avrebbe potuto rinfacciarle che, quella guerra, era scoppiata per proteggere quelli come lei: sarebbe stato meglio se i Sanguesporco si fossero estinti, estirpati dalla terra come erbaccia secca, ha sentito mormorare un giorno. 
Sa bene che, nonostante la sconfitta di Voldemort, gli ideali della sua setta non sono morti con lui, ma non può fare a meno di guardare gli altri e chiedersi su quali ideologie si sia basata la forza delle schiere in cui ha combattuto anche lei: molti, di quelli che bisbigliano adesso, erano al suo fianco durante la battaglia, hanno approfittato dei suoi Protego per salvarsi la pelle, ma a cosa è servito mettere a rischio se stessa e i suoi amici, se nel cuore di chi studia con lei o frequenta le sue stesse lezioni continua a guardarla come feccia.
A volte, pensa che sarebbe stato meglio seguire Harry e Ron. Forse, lui avrebbe imparato ad amarla. Forse, non avrebbe la perenne sensazione di essere fuori luogo nell'unico posto che da tempo definisce casa — prova a essere una brava padrona, ad avere premura dei suoi ospiti, ma non serve a niente se la macchia invisibile del suo sangue continua a pesarle come una spada di Damocle tra capo e collo. 
Nel bel mezzo di uno di questi pensieri, qualcuno le spezza il cammino e la lascia con una spalla appoggiata al muro: si porta una mano al petto e poi solleva gli occhi per incontrare la schiena di Draco Malfoy che si allontana di corsa: ha uno squarcio sporco di sangue sulla parte posteriore della camicia e la stoffa dei pantaloni ha lasciato totalmente scoperta la gamba destra, su cui, di nuovo, ci sono graffi Non l'ha mai visto così trafelato, né tanto scomposto. Nemmeno la notte del due maggio dell'anno precedente.
Le torna alla mente un giorno di qualche anno prima, quando Malfoy si pavoneggiava durante una lezione di Cura delle Creature Magiche e giusto qualche minuto più tardi veniva trasportato in Infermeria come un morto. Da ragazzino, minacciava spesso di riportare a suo padre quello che succedeva, descrivendo con generosa precisione le punizioni a cui sarebbe stato sottoposto chi l'aveva offeso. Però,  a differenza di moglie e figlio, Lucius Malfoy era stato condannato a scontare il resto dei suoi giorni nella prigione di massima sicurezza di Azkaban ― anche se non c’erano più i Dissennatori ad animare l’immobilità di giorni sempre uguali, a dare ai prigionieri la possibilità di fuggire dalla realtà e rifugiarsi nella pazzia: poteva essere quasi un soggiorno di piacere per i servitori del Signore Oscuro: meglio quello che la latitanza, secondo Hermione ― e adesso, Draco non ha nessuna ombra dietro cui nascondersi. Hermione conosce a memoria gli orari di ogni Casa e allora non da peso al camminare claudicante e alle ferite del Serpeverde: è sicura che, per quanto sembri cambiato, Malfoy abbia sempre una certa repulsione nei confronti degli Ippogrifi e di chi non è come lui.
Quando finalmente raggiunge l’aula di Trasfigurazione tira un sospiro di sollievo. Fare quello, impegnarsi nello studio, al momento e più del solito, è l’unica cosa che riesce a distrarla da tutto ciò che le capita intorno. Srotola la pergamena, impugna la piuma e trascrive fedelmente ogni parola pronunciata dalla professoressa McGranitt; Hermione la osserva spesso, si chiede come mai non abbia lasciato la cattedra una volta divenuta Preside, eppure, proprio il fatto che quella donna sia ancora lì le dà una sorta di lieve felicità: il mondo ha cambiato il proprio assetto quando Voldemort è stato sconfitto, perciò, ritrovare qualcosa che sia rimasto uguale al prima le imprime sicurezza, le conserva dentro il pensiero che tutto è mutabile, sì, ma alcune cose hanno il potere di restare sempre uguali.
La professoressa, per lei, è un punto di riferimento e perderla come insegnante avrebbe significato far impazzire l’ago della bussola che le ha sempre indicato quale fosse la strada giusta da percorrere, scoprire che il viaggio della sua vita deviasse senza nessuna possibilità di tornare a quello che aveva stabilito dal primo giorno in cui aveva varcato le porte della scuola. Certo, mai nulla era andato secondo i suoi piani e, forse, proprio per questo, trovare ancora quel volto familiare le fa pensare che tornare lì non è stata per forza una scelta sbagliata.
Alza la mano, come sempre quando viene posta una domanda all’intera classe, risponde senza esitazione e sorride appena, soddisfatta di sé e del modo con cui sta affrontando la fine della storia d’amore che non è mai sbocciata tra lei e Ron: ha pianto il giusto, ha raccontato poco dei motivi che li hanno portato ad allontanarsi e, soprattutto, non ha smesso di studiare e ha continuato a dare importanza alla preparazione del proprio futuro. China nuovamente il capo sulla pergamena e, un attimo dopo, il buio assoluto l’avvolge nel manto spesso della perdita dei sensi.

 

~•~

 

La luce che bagna le lenzuola le rende difficile aprire gli occhi. Strano, pensa, che le tende del baldacchino non siano chiuse. Quando, però, riesce a socchiudere le palpebre, capisce immediatamente di non trovarsi nel dormitorio di Grifondoro e non impiega troppo tempo a comprendere di trovarsi in Infermeria. Si chiede come mai sia lì se non ha alcun sintomo, e perché le sembra di aver dormito per giorni interi: ha i muscoli avvizziti e un mal di testa prepotente, ma a parte questo, si sente bene. Si guarda ancora un po’ intorno, distende le gambe e fa un colpo di tosse per attirare l’attenzione di Madama Chips che, però, è impegnata con qualcun altro ― la voce arriva ovattata, mentre tiene su un piccolo battibecco con chi c’è dietro le tende che separano il suo letto e quello dell’altro paziente: stia fermo, per favore, agitarsi tanto non l’aiuterà a guarire prima.
Hermione, che non ha mai fatto della pazienza il suo punto di forza, comincia a sbuffare come quando era bambina. Se potesse, batterebbe i piedi a terra e urlebbe a gran voce che le siano date le attenzioni che merita; tuttavia, resta in silenzio e volge lo sguardo altrove: ognuno ha bisogno della propria privacy e guardare ostinatamente le ombre che si muovono dietro il pannello candido che funge da divisorio le sembra una gran mancanza di rispetto.
Sul comodino alla sua sinistra, ci sono un bicchiere d’acqua e un libro. Hermione prende prima l’uno e poi l’altro e si accorge dell’arsura solo dopo aver bevuto, poi, lentamente prende a sfogliare delicatamente quel volume di cui non conosce il titolo; le pagine ingiallite e vecchie sembrano creparsi sotto il suo tocco, anche se restano integre ― è una sensazione che non sa spiegare, che ha provato ogni volta che accarezzava i lembi di pelle che le dolevano (come la cicatrice che adesso ostenta con orgoglio, tirando su le maniche della camicia) ― e si ferma a pagina ventotto, dove un anemone appassito fa da segnalibro. Lo sfiora come fosse di vetro, impaurita dalla possibilità di romperlo o di ferirsi e, a ogni tocco, sente una strana energia che le attraversa le braccia e passa attraverso le vene, scende fin nelle ossa. Lo osserva ancora, seguendo il segno che ha lasciato sulla carta: le sembra strano che sia proprio lì, a metà di un discorso che continua nella pagina successiva. Si pone mille domande e non sa rispondere a nessuna di esse. Si sente quasi smarrita in quella posizione d’ignoranza: vorrebbe capire, scoprire i significati che si celano dietro tutto quello che davanti agli occhi, poi, la sua attenzione si posa su Madama Chips che s’avvicina a passo lento.
"Signorina Granger, come si sente?"
"Un po’… indolenzita" dice e non sa spiegare meglio la stanchezza che avverte in ogni singola parte del corpo.
"É rimasta incosciente per quasi dieci ore, è normale."
Dieci ore. Tutta quella situazione comincia a darle alla testa: troppi numeri, troppe informazioni e un’anamnesi che le instilla più dubbi che chiarezze.
"Un accumulo di stress. Prenda questa mattina e sera e vedrà che andrà meglio. Ah, per un po' fermeremo le sue visite abituali in Infermeria e al San Mungo."
"Chi c’è dall’altra parte?" chiede, allora, Hermione, quando Madama Chips posa accanto al bicchiere vuoto un’ampolla contenente la pozione prescritta.
"Non posso dirglielo, lo sa bene. Si riposi, signorina. La terrò sotto controllo ancora una notte e, una volta che l’avrò dimessa, si doni qualche giorno di riposo" la congeda la donna che va via così com’è venuta.
Hermione stringe i pugni e posa di nuovo lo sguardo sul libro che ha lasciato aperto: vorrebbe sfogliarlo, eppure non riesce a far altro che guardare il cadavere rinsecchito di quello stelo.
C’è qualcosa, oltre il telo divisorio che separa il suo letto da quello dell’altro paziente, in quella pagina che non riesce a voltare, in quel fiore… qualcosa che pare inchiodarla al materasso ― mani,piedi, tutta ― e, ancora una volta, non sa di cosa si tratti.
Chiude gli occhi, la frustrazione appesa al filo delle ciglia e, tutto d’un tratto, avverte il calore di una mano sulla bocca e le manca l’aria, vorrebbe urlare fino a graffiarsi la gola, vorrebbe agitarsi, fare in modo che chiunque sia a tenerla ferma la liberi. Però, quando riesce a comandare le palpebre, si rende conto di essere sola. Che quella sensazione è stata solo illusoria: nessuno l’ha toccata, nessuno. Quindi, torna a posare la testa sul cuscino e rincorrere pensieri che non riesce ad afferrare ― vicini, ma mai abbastanza da poterli toccare.
Trascorre un'altra notte nel letto dell'infermeria — infinita, buia — a domandarsi come sarebbe stato se Harry o Ron fossero stati avvisati del suo malessere: non avrebbero approvato le sue scelte di volontariato né il fatto che avesse ripreso a frequentare il San Mungo (o in caso di impossibilità, a farsi dissanguare da Madama Chips) anche a guerra terminata.
Harry la trova una continuazione ormai inutile: la guerra è finita, le ha detto, non ci sono più pericoli o persone da salvare; Ron non ha proferito una parola a riguardo, ma i suoi occhi non sono stati clementi come il suo sorriso di circostanza. Ora, il riverbero di quello stesso, si affaccia ai ricordi della Grifondoro e Hermione si domanda se non fosse stato quello il momento in cui il ragazzo aveva capito quale fosse la portata dei sentimenti per lei. Ci pensa spesso, alla fossetta sulla guancia, lo sguardo fuggevole, le mani che partivano per stringerla e si ritiravano con piccoli scatti: erano alla Tana, quel giorno, e avevano appena fatto colazione tutti insieme e nessuno escluso aveva lasciato un pensiero sul posto vuoto di Fred e, un attimo dopo, una muta pietà travestita sulla curva delle labbra indirizzata a George.
Ci sono buchi che non potranno mai essere riempiti se non con la presenza di chi li ha creati, ma Fred non può tornare — anche se il suo viso non è mai sparito dal quadrante dell'orologio sul camino  —, perché ha sacrificato se stesso per un bene più grande, per una pace che, forse, avrebbe di tanto in tanto disturbato con uno dei suoi scherzi, ma ha lasciato alla famiglia Weasley l'esatta metà di ciò che è stato in vita: George ha impiegato mesi a stemperare il senso di colpa, a comprendere che non avrebbe potuto fare niente per salvare il gemello, però, continua a pensare che, se non avesse rivolto le spalle alla balaustra, Fred sarebbe ancora vivo.
Molly non risponde mai: ha imparato a proprie spese, sulla propria pelle invecchiata di cent'anni da quando il figlio è morto, che il destino è ineluttabile e la vendetta che ha perpetrato uccidendo Bellatrix Lestrange non è stata che un sollievo momentaneo. Quanto è durata la soddisfazione di veder il suo corpo giacere sulle macerie di Hogwarts? Un soffio di vento, che le ha riportato alla memoria le spoglie del figlio perduto.
Il rumore dei passi di Madama Chips la distrae da propri pensieri e, quando questa scosta la tenda che separa i due letti, Hermione riesce a scorgere una mano di porcellana afflosciata oltre il bordo del materasso: ha le dita sottili e le vene ben in vista sul polso e, finalmente, la sua ipotesi che dall'altra parte ci fosse un ragazzo viene confermata, eppure, non sa cosa farsene di questa piccola vittoria. A cosa le serve davvero sapere che dall'altra parte ci sia qualcuno del sesso opposto se non di chi si tratta?
Azzarda un'occhiata ancora, ma il telo è già chiuso e lei ha perso la possibilità di vedere in viso il suo vicino di letto — se mai l'avesse avuta.
Quando la maginfermiera della scuola le dedica il suo tempo, Hermione non ha abbastanza curiosità da chiederle chi fosse l'altro occupante: la testa ha ripreso a girare e la pozione Rimpolpasangue, nonostante fosse a pochi centimetri dalla bocca, le sembra lontana miglia e miglia. La ingoia, tutta d'un fiato, ma questa fa fatica a portarle beneficio, allora chiude gli occhi e si addormenta.
Non sa quanto tempo sia passato, ma, quando alle sue spalle si apre una porta, sobbalza e si porta una mano al petto. È un posto strano, quello in cui è finita: solo pietra nuda e invecchiata intorno, nulla a spezzare quella monotonia grigia se non quella fessura da cui arriva una lama di luce. Dovrebbero esserci edere a divorare la roccia, qualche calcinaccio qui e lì che non ha resistito al tempo e, invece, a dispetto dell'antichità che quel posto trasmette, tutto sembra perfetto e giovane.
È abbastanza cosciente da realizzare di essere in un sogno, però, qualcosa nella voce inconscia che ci accompagna quando dormiamo, le suggerisce che quello è molto di più. Con cautela si avvicina alla piccola porta aperta e, con una sbirciata veloce, vede se stessa sdraiata su un letto d'ospedale con un ago in vena: le pareti sono azzurre, l'odore del disinfettante è forte — tutt'altro ambiente, tutt'altri profumi rispetto al posto in cui è ancora parte del suo corpo; capisce immediatamente di non essere più in Infermeria. È un sogno che Hermione ha fatto spesso da quando era una bambina e ha sempre associato all'episodio in cui, dopo un malore, i suoi genitori l'avevano portata di corsa al pronto soccorso per capire da cosa provenissero i malesseri che la scuotevano. Lo ricorda fin troppo bene, ma questa volta, c'è qualcosa di diverso: oltre al luogo in cui è comparsa, affianco al suo giaciglio, ce n'è un altro visibile a malapena, da cui riesce a scorgere solo l'ombra di una mano pallida; l'indice, attraversato da un rivolo di sangue che cola goccia a goccia sul pavimento sottostante, è scosso da un tremito forte. 
"Lo stiamo perdendo, non sopravvivrà" sente dire da una voce che non ha provenienza e vorrebbe urlare, chiedere di prendere il proprio sangue, ma non ha voce e non ha forze per lasciare il posto che sta occupando; avverte il bisogno spossante di entrare o alzarsi e avvicinarsi al letto del malcapitato, prendergli quella mano che trema e infondergli un po' del coraggio che anche lei, però, sta perdendo assistendo a quella scena — e succede a tutt' e due le Hermione, sia quella nella stanza sia quella fuori.
Le sembra di non avere più potere sul proprio corpo e di non avere più nemmeno quello, in realtà: è una statua di sale, pietrificata come quando ha guardato il Basilisco qualche anno prima (è presente a se stessa, sì, ma è immobile). È la paura o la staticità del sonno a renderla tale? O, forse, è quell'egoismo insito in ogni essere umano grazie a cui, spesso e volentieri, si preferisce la propria salvezza alla vita di qualcun altro? È scritto nella storia, lo ha visto con i propri occhi che, di fronte alla possibilità di morire, c'è stato chi ha abbandonato il fronte, chi ha preferito attaccare alle spalle e ferire, uccidere colui o colei che minacciava di morte il soggetto che s'è fatto assassino, e non è stata proprio lei a martoriare, indirizzare incantesimi per sfregiare chi le puntava contro una bacchetta la cui punta era già accesa del lampo verde dell'Avada Kedavra? Non è stata proprio lei a condannare Fenrir Greyback con l'Anatema che uccide?
E, subito dopo, ha avvertito il peso della Maledizione Senza Perdono attraversare il polso e arrivare al cuore, da cui si è dipanata con velocità inaudita la prima crepa della sua anima. Non ha avuto scelta e lo ripete come un mantra: il Lupo Mannaro le aveva conficcato le unghie sulla cicatrice che le aveva inflitto la primogenita della famiglia Black e, come un dejavú, aveva provato la stessa repulsione di quando Greyback l'aveva catturata nella foresta di Dean e l'aveva annusata, premendo le dita da bestia sulla pelle nuda del collo e lei… 
Tornando alla realtà, si era accorta che, di nuovo, il Lupo Mannaro aveva puntato alla gola e si era sentita sporca, violata. Era stato facile pronunciare l'incantesimo che avrebbe costretto il suo nemico all'oblio della morte, così facile che se ne sentì spaventata e distrutta e colpevole.
Sei d'acciaio, le avevano detto, quando aveva raccontato ciò che era accaduto e di come avrebbe potuto evitarlo se soltanto avesse ascoltato il consiglio di Draco Malfoy di non svoltare l'angolo, di non varcare la soglia dell'inferno. Aveva sollevato il viso, quella notte, eppure si era sentita cartapesta tutt'accartocciata, maltrattata, oltraggiata da dita che non avevano saputo toccarla.
Ora, però, nonostante quella fosse l'unica scelta possibile, Hermione non sa provare compassione per la strega omicida che è stata nell'oscurità del due maggio millenovecentonovantuno e, lo sa con certezza, anche lei è stata egoista di fronte all'evenienza di non vivere più.
Quando si risveglia, le perle di sudore sulla fronte scendono lente ad accarezzare le curve dolci di un viso tormentato da emozioni impossibili da distinguere realmente: terrore, sgomento, senso di colpa, gratitudine per l'incubo appena terminato. Si guarda intorno: è ancora nell'Infermeria, la sensazione di avere realmente il materasso sotto la schiena le fa tirare un sospiro di sollievo. L'ambiente è silenzioso, a parte il fruscio di lenzuola che proviene dall'altro lato del divisorio.
"Ehi" dice, la voce poco più di un respiro e pensa sia probabile che nessuno l'avesse sentita, quindi ci riprova, una tonalità più alta a lasciare le corde vocali. 
Ma, ancora, l'unica cosa con cui si rapporta è il muro del silenzio e la tenda che separa gli unici due letti occupati nell'Infermeria sembra una barriera eretta in altezza e spessore piuttosto che un pannello di stoffa plastificata. Delusa da quel mutismo e ancora appesantita dai residui del sogno da poco concluso, Hermione si gira in modo da dare le spalle all'ombra del ragazzo che, a quanto pare, preferisce la solitudine assoluta a due chiacchiere scambiate per tenersi compagnia. 

 

~•~

 

"Da quanto?" le chiede Ginny, non appena rimette piede nella Sala Comune. È pomeriggio inoltrato e a Hermione non sembra vero di poter tornare a vedere altri colori oltre al candore dell'Infermeria: sono stati due giorni senza fine, in cui il suo cervello ha lavorato ed elaborato teorie e conclusioni su alcuni aspetti che, dopo la guerra, hanno continuato a sfuggirle.
Ora, però, davanti agli occhi dell'amica, tutto sembra creparsi come cumuli di sabbia battuti dalle onde.
"Non ho mai smesso" risponde. Ha compreso i sottintesi di quella domanda, non c'è bisogno che nessuna delle due vada fino in fondo né che si dicano altro: Hermione ha imparato che i quesiti posti dalla piccola Weasley non portano con sé richiami; Ginny sa per certo che l'altra non abbandonerà mai i propri propositi, neppure se è lei stessa a rischiare.
"E non ho intenzione di farlo" infatti, aggiunge per chiarire le proprie intenzioni e mettere un punto a quel discorso: anche Ginevra Weasley è contro, le ha detto più di una volta che fare più del necessario, a volte, può essere nocivo, ma poi, davanti alla cocciutaggine e all'orgoglio di Hermione che ha continuato a stendere il braccio e farsi bucare le vene e donare il proprio sangue, si è arresa. In tutta la scuola e anche oltre i confini magici è ormai risaputo che Hermione Granger non ascolta consigli, agisce spesso a proprio discapito e mai per un interesse personale. Sono queste le parole con cui la Grifondoro ha imposto a tutti l'obbligo morale di non giudicare le scelte compiute.
Forse, pensa, è a causa di quei sogni che anche in Infermeria l'hanno tormentata: è sempre sulla soglia, non riesce mai a vedere chi ci sia dall'altra parte, ma ogni notte, alla scena che ormai conosce a memoria, si aggiungono particolari che la invogliano a non svegliarsi. Succede però, sempre quando è pronta a muovere un passo e a entrare nella sala dove un corpo che non conosce giace quasi senza vita. Per ora, dello sconosciuto sa che ha la pelle bianca, l'indice macchiato di sangue ed è sul punto di morire — lo dicono i medici (maghi o no) che non sopravvivrà — e, come ogni volta, Hermione si sente sconfitta dalla propria voce che viene meno, dall'indolenzimento dei muscoli.
"Ci ho pensato in questi giorni e credo tu abbia ragione: mi farà bene uscire per qualche ora" dice, senza però incontrare gli occhi dell'amica: non sa se vi troverà giudizio o muta compassione e non ha bisogno né dell'una né dell'altra.
Si accomoda sulla poltrona al lato destro del camino spento. I venti che soffiano nei giardini di Hogwarts sono freschi, ma ancora piacevoli, il sole si nasconde spesso dietro la coltre di nubi che ha da sempre caratterizzato il clima  di quei luoghi, ma i suoi raggi riescono ancora a donare un poco di tepore e l'inverno non è poi così vicino. Non ancora. Tuttavia, Hermione avverte nelle ossa un freddo che non sa spiegare: non riesce a capire se è stata l'inerzia di quei giorni o se è la debolezza a cui la costringono le scelte che ha compiuto nel corso dei mesi successivi alla guerra, però, adesso, vorrebbe che il fuoco nel camino crepitasse e la scaldasse, diffondendo l'odore piacevole del legno che brucia.
Durante la ricerca degli Horcrux, lei e Harry e Ron, hanno patito il freddo, gli stenti, la fame ed è questa consapevolezza che le fa suggerire a se stessa che la sensazione di gelo che prova ora passerà, prima o poi — con un abbraccio, forse. Lambita da questa riflessione, finalmente si volta a guardare verso la sua interlocutrice che, da un bel po', ha smesso di mettere parole l'una dietro l'altra.
"Ginny" la chiama, la voce dolce di chi è stanca di lottare contro qualsiasi cosa le si agiti dentro. "Tu sai com'è, vero?"
L'amica annuisce e anche questa volta non serve scendere a fondo nelle frasi: i sottintesi sono invisibili solo a chi non ha mai provato la contrizione di un sentimento reciso quand'è ancora in boccio.
"Quanto può far male ancora?" domanda ancora, Hermione, deviando il percorso di una lacrima verso l'attaccatura dei capelli.
Vorrebbe piangere, a volte. Anzi, dovrebbe farlo e liberarsi da quel continuo soffocare. Ma di lasciarsi andare no, non se ne parla; è spesso sul punto di cedere, ma torna sembra a smuovere anima e cuore per rafforzare l'idea che ha sempre avuto di se stessa e che gli altri hanno di lei — sei d'acciaio — il dolore, però, è talmente forte e pressante che le sembra impossibile respirare. 
Secondo i dizionari del mondo il dolore può avere un duplice aspetto: uno positivo, adattativo, che segnala pericoli e danni, e uno negativo, non adattativo, che persiste con i suoi connotati di sofferenza fisica e psichica anche in assenza di lesioni.
Ginny resta in silenzio poiché non ci sono spiegazioni logiche all'angoscia e allo smarrimento che infligge la la perdita di quell'amore che sembra l'unico possibile e in grado di portare pace, non lo si può descrivere sciorinando citazioni e sorrisi di circostanza.
Non serve e lo sanno entrambe e, nella comprensione muta, Hermione ricomincia a districare i capelli come quando l'amica le ha chiesto di unirsi a lei per il fine settimana. Non è stata propriamente la sua presenza o quella di Hannah a farle accettare l'invito, ma quella di Luna: la compagnia di Ginny soltanto avrebbe portato irrimediabilmente il discorso alla guerra, a Fred, a Ron; la Tassorosso, forse l'avrebbe guardata con compassione, senza comprendere davvero le ragioni di determinate azioni, anche perché, sentimentalmente, aveva trovato la strada spianata: Neville la desiderava da tempo e se non s'era fatto avanti in quegli anni era solo a causa della sua timidezza che si è trasformata in dolce sicurezze perché anche lui, finalmente, ha saputo trovare il suo posto nel mondo quando ha impugnato la spada di Godric; ma Luna… Luna è sempre stata leggerezza, per Hermione, quella spensieratezza in grado di portare un sorriso anche dove non c'è spazio che per le lacrime. E Hermione ha estremo bisogno di sentirsi estranea al dolore, almeno per qualche ora.
I
l sabato arriva in punta di piedi, con i raggi accennati di un'alba dolcissima. Hermione apre gli occhi e distende i muscoli intorpiditi dalla notte, si avvolge ancora un po' nelle lenzuola e rimugina sul sogno appena fatto: sempre lo stesso, ma questa volta, la sua voce e la sua richiesta di essere d'aiuto sono state un sussurro un poco più alto rispetto a quello dei sogni precedenti — ha visto non solo la mano e il braccio sanguinante del malcapitato in fin di vita, ma uno squarcio lungo e profondo sulla gamba.
Il villaggio di Hogsmeade è fiorente, i locali accolgono con un occhio di riguardo e un sorriso caloroso i propri avventori, ringraziandoli con maggiore enfasi rispetto al passato: c'è stata la desolazione, la paura di non riuscire mai più ad avere un'attività propria e di cadere in miseria, ma, finalmente, la vita è ricominciata a scorrere con serenità e ogni cliente è ora una benedizione, un dono ancora più gradito se si pensa al fatto che molti tra essi avrebbe potuto non varcare mai più quell'entrata — molti locandieri hanno abbandonato i modi svelti e bizzosi, persino Aberforth Silente sembra aver addolcito il suo benvenuto, forse perché ha subito lo smacco della morte del fratello e ne sente la manca la mancanza atroce quando ha sempre creduto che, oltre a quella di Ariana, di mancanze, non ne avrebbe avvertite più.
I lavori di riparazione edilizia sono stati veloci: solo chi vi ha partecipato, tra qualche anno, riuscirà a ricordare le macerie e le crepe di quel luogo, i cadaveri trovati tra i vicoli, le battaglie che si sono tenute proprio lì, le fughe e poi i nascondigli improvvisati, e ancora il rimbombo degli incantesimi, dei passi in avvicinamento che avevano l'inevitabile conseguenza della vita o della morte. Ai posteri verrà raccontata la guerra, certo, ma nessuno di loro saprà mai cosa significhi davvero. E menomale, pensa Hermione mentre osserva con un palpito morbido del cuore la vetrina intatta della caffetteria di Madama Piediburro, lo stesso vale per il via vai di studenti che aspetta in una fila più o meno ordinata di poter entrare nel mondo dolcissimo di Mielanda. Persino la Stazione era stata ridotta a nient'altro che ferraglia piegata e briciole. Ricordava quel paesino ormai come un cumulo di vetri e pietra e rottami mescolato dalla Magia Nera che ne aveva intaccato la bellezza — come capita con le persone con cui si è vissuto e, poi, d'un tratto, lasciano un posto vuoto nel mondo: più il tempo passa e meno si ha memoria dei loro volti, fino a quando non c'è qualcosa che li disegna nuovamente nelle menti di chi è rimasto.
Sono tutte d'accordo per il programma della giornata: trascorreranno le ore lì, scoprendo nuovi gusti di Burrobirra. Nessuna di loro ha proposto di raggiungere Diagon Alley, perché, seppure anche questa sia stata ricostruita a dovere, sarebbe di dovere fare un salto nel negozio di scherzi dei fratelli Weasley — l'obbligo porta con sé anche quello di ricordare che Fred non c'è più, che George non ha più l'anima e resterà la metà di un qualcosa che non potrà mai più esistere — , e, Hermione, soprattutto, ha il presentimento che Ron sia lí, ad aiutare il fratello e impegnare il tempo per non pensare di avere ormai una famiglia monca. Glielo aveva confessato un'ora dopo la fine del funerale di Fred, quando a casa non c'erano più gli ospiti accorsi a dare il proprio cordoglio e un alito di sostegno, seppur breve: c'era stato un via vai di gente che non aveva fatto altro che confondere i portatori di un lutto troppo complesso per poter essere urlato con abiti neri e nessun gioiello d'abbellimento. La Tana regnava nel silenzio del pomeriggio inoltrato e Ron aveva la testa poggiata sulle gambe di Hermione — quando ancora c'era speranza di un futuro per loro —  e,mentre le dita di lei gli scivolavano tra i capelli, lui aveva cominciato a parlare: "Ho sempre creduto che la famiglia fosse un corpo: la mamma il cuore, papà la testa, Harry le spalle e noi figli gli arti. E ora Fred non c'è più e la mia famiglia è monca. Lo so, lo so bene, che si può vivere senza un braccio o una mano, un piede, ma il dolore dell'arto fantasma non passa mai."
Non l'aveva nominata, nemmeno per paragonarla a un unghia, quando a lei sarebbe bastato anche essere solo quello, e quindi non aveva risposto, ma, in quel preciso istante, aveva capito che gli argini della stabilità effimera raggiunta con un bacio erano saltati, esplosi, distrutti senza suono e loro due insieme sarebbero finiti velocemente a fondo, senza alcuna boa a cui aggrapparsi né una scialuppa su cui mettere in salvo entrambi: era stato l'inizio della loro fine. E i silenzi, la distanza, le lettere mancate o gli sguardi negati sono stati solo una conseguenza della piena verso cui si stavano dirigendo e che li avrebbe divisi prima del previsto.
Allora, vedeva tutto con il lucore delle lacrime versate per i morti; ora, la limpidezza del tutto, visto da ogni angolazione possibile, la rende cieca per punizione.
Solleva per un secondo lo sguardo dal boccale e incontra per caso il capo chino di Malfoy, ma distoglie gli occhi e ogni pensiero indirizzato a lui nei giorni successivi a quell'incontro sfuggevole nei corridoi: lo ha visto ferito, sanguinante e, per un attimo brevissimo, si è sentita in debito con lui e ha allungato una mano in direzione della sua schiena — perché ha finto di non conoscerla, al Manor, anche se non le ha evitato la tortura; perché, durante la guerra, l'ha elusa dal faccia a faccia con il suo stesso padre e le ha donato altro tempo da vivere —, poi l'ha ritratta, colpita da una confusione che non sa spiegare, come ora rifugge le iridi che il Serpeverde le posa addosso: Hermione non ha voglia di indagare le nuvole né Draco ha bisogno di essere deriso per quelle caducità in cui inciampa, di tanto in tanto, troppo spesso e da fin troppo tempo: il gioco del rimpiattino, lo fanno da quand'erano bambini, e sono diventati così bravi da essere incapaci persino di scovare se stessi ( e chissà se non bastasse a entrambi voltarsi, cercarsi nelle trincee che hanno eretto a mò di difesa, allungare una mano e dichiarare casa: chi è, dei due, a tenere la conta, chi a nascondersi e ad avere la possibilità di liberare tutti?).

 

~•~

…senza vederle a causa di un malinteso, 
di una copertina, di un riassunto sbagliato, 
di un atteggiamento prevenuto.

 

 Draco Malfoy adesso è reietto in un mondo che le sue stesse mani hanno contribuito a creare — Hermione non sa dimenticare come quelle dita abbiano armeggiato affinché l'Armadio Svanitore fosse riparato —, emarginato dai più, per lui, vili esseri umani: quelli con il sangue sporco lo additano come mostro, traditore, Mangiamorte venduto; quelli che hanno perso i propri cari lo chiamano assassino.
Eppure, Hermione Granger, a vederlo ridotto in quello stato, prova una pietà che le vibra alla punta del cuore. Gli si avvicina cauta, controlla le ferite e il polso: il battito c'è ancora, ma le lacerazioni sul petto sono profonde, lo vede a occhio nudo. Ha la tentazione di lasciarlo lì a marcire, far imputridire il suo corpo come quelli di tutte le persone che, di vivere, lo meritavano davvero e magari aggravare il male che lo ha ridotto in quello stato.
È solo un attimo di smarrimento, poi la lealtà che ha giurato alla vita stessa decide per lei e, subito dopo, si ritrova nell'atrio del San Mungo. 
"Per favore, aiutatemi."
Ha le chiazze melmose del suo sangue sulle mani — purissimo sì, ma dello stesso colore del proprio: è per questo che hanno lottato e sono morti e sono sopravvissuti? Per una macchia di sangue che esiste solo metaforicamente nelle vene di chi non è come Draco Malfoy? E se pure ci fosse stata davvero, cosa sarebbe cambiato: cosa c'era in lei che valesse meno rispetto a quello che poteva valere di più nei corpi purosangue? E perché nessuno di loro poteva essere accomodante e aperto di mente come i componenti della famiglia Weasley? A quel pensiero — quello di Ron, nello specifico — le si stringe un po' il cuore, però non ha tempo di rimuginare sui propri problemi sentimentali, perché il ragazzo che ha tra appoggiato su una spalla diventa d'un tratto più pesante e sembra sul punto di accasciarsi al suolo e trascinare giù anche lei.
"Resta sveglio, stupido furetto" gli dice e in cambio riceve in risposta un lamento carico di sofferenza.
Un paio di maginfermieri corrono in suo soccorso e adagiano Malfoy su una barella, mentre lei continua a tenere gli occhi fissi sulla ferita che dal petto arriva fin dietro la schiena, lacerando pure la carne della spalla destra.
"Cosa è successo?" le chiedono, ma lei scuote il capo in segno di totale estraneità alla situazione e, per di più, qualcosa le impedisce di formulare ipotesi che potrebbero risultare errate: quegli sfregi le ricordano qualcosa, ma piuttosto che ripercorrere ancora i ricordi macabri del prima e del durante della guerra, Hermione preferisce preoccuparsi del corpo martoriato del biondo, del respiro debole che gli ha mosso il torace finché lo ha tenuto tra le braccia. 
Si chiede se anche quella volta che l'ha visto correre nei corridoi fosse stato vittima dell'attacco di qualcuno pronto a cancellare il suo viso dalla faccia della Terra, se quello fosse un episodio isolato o ne sono preceduti degli altri. Si domanda se ora capisca quanto abbia pesato l'onta dell'odio che le ha riversato addosso nei primi anni di Hogwarts, quando a ferirla bastavano poche parole e lei non era ancora brava come adesso a dissimulare la collera: ognuna di quelle ferite urla livore, rivalsa, castigo. Condanna.
Soprattutto, però, si interroga sul cosa accadrà dopo — quando Malfoy si risveglierà, semmai dovesse accadere, e se avrà il buon cuore di ringraziarla per avergli salvato la vita — , se il suo gesto verrà preso come un debito da estinguere (e quanti ne ha, da pagare ancora?) o solo come una sorta di vendetta per rendergli ogni giorno peggio del precedente: il Serpeverde non ha reagito all'attacco, poiché aveva ancora la bacchetta nelle pieghe del mantello, e allora cos'è quell'apatia che lo distingue da ciò che è stato in passato? Voglia di chiudere i conti con quest'ultimo o con la vita in generale? Oppure, ha semplicemente deciso di arrendersi all'evidenza di essere il più debole tra le parti, senza più Lucius a fargli da scudo? Nella mente della Grifondoro, si forma man mano un'idea di cosa è potuto accadere in quel vicolo dimenticato di Hogsmeade: Malfoy era uscito da "I tre manici di scopa", ma era stato spinto a forza nell'angustiante viuzza laterale ed era facilmente comprensibile perché era rivolto di spalle rispetto al muro che ne imponeva la fine, e il suo assalitore — o più di uno — era stato fin troppo lesto a sfoderare la bacchetta e a ridurlo in quello stato. Oppure, era stato trascinato lì dopo l'aggressione, affinché qualcuno lo trovasse e lo salvasse, perché, forse, era proprio quella la condanna peggiore a cui sottoporre il Serpeverde: essere sempre sul punto di morire, ma non superarlo mai davvero. 
E, per la prima volta da quando lo conosce, lo vede al pari di se stessa: una persona fatta di carne e ossa, marchiata per l'eternità; un essere umano che ora, proprio come lei all'epoca, non sa quale sia il suo posto nel mondo (Malfoy ha perso lo scettro del potere e il lustro del suo cognome, Hermione ha ripulito il proprio) e conosce, finalmente, l'emarginazione perpetrata dai propri simili a discapito anche di chi non ha alcuna colpa.
Di colpe, il Serpeverde, ne ha: è stato solo per mancanza di coraggio che Albus Silente non sia morto per mano sua, ma… se avesse avuto polso fermo, forse, Draco Malfoy adesso sarebbe assassino non solo per vie indirette.
Prende posto su una sedia nella sala d'attesa. C'è qualcosa che le impedisce di abbandonare il ragazzo e lasciarlo solo durante la cura, anche se non ne prende parte direttamente; una preoccupazione per lo stato pietoso in cui lo ha trovato e, forse, l'avara voglia di renderlo consapevole del fatto che sia stata proprio lei a soccorrerlo — una rivincita, contro i pregiudizi che lui ha sempre avuto, una promessa da mantenere, fatta quando s'è guardata allo specchio e ha deciso che nessuno merita davvero di morire (Voldemort escluso).
Ogni volta, prima di fare un passo, la mente di Hermione lavora frenetica per soppesare le situazioni che si trova ad affrontare, vaglia velocemente i pro e i contro, decide se, quella che sta compiendo, sia la scelta giusta o sbagliata e come questa possa influenzare il suo futuro e quello dei propri cari: sono attimi della durata di qualche secondo, eppure, c'è tutta l'anima in ogni decisione, in ogni gesto compiuto e in ogni parola taciuta. Tra queste, rientrano quelle che non ha detto a Ron durante la ricerca degli Horcrux, quando non aveva senso mettere a repentaglio un equilibrio già abbastanza precario; quelle che aveva ingoiato quando lui poi era tornato, dopo essere andato via a causa del Medaglione di Salazar Serpeverde: lì, in quel momento, sarebbe stato facile, sarebbe stato bello, ammettere che, mentre il Deluminatore, riconduceva Ron da loro, lei chiamava il suo nome nel proprio cuore. Invece, aveva battuto ritirata sotto lo sguardo carezzevole dell'amico e quello impacciato di Harry, ma se uno dei due fosse stato capace di leggere tra le righe dei suoi occhi, allora, sarebbe stato facile capire il significato di ciò che non aveva detto. Le sembra un tempo così lontano, adesso — un'altra vita, un altro Ron, un'altra Hermione.
Deve essersi assopita, pensa, quando avverte il calore di una mano che le si posa sulla spalla. Guarda fuori dalla finestra, il tramonto ha quasi del tutto baciato il terreno e manca davvero poco affinché il giorno diventi inevitabilmente sera.
"Signorina Granger, giusto?"
Sì, risponde e ascolta attentamente il resoconto di ogni cura eseguita su Malfoy perchè non morisse.
"Come sta, adesso?" domanda e non sa se le importa davvero, ma quando le viene detto che, nonostante la grossa perdita di sangue, il ragazzo non è più in pericolo, accenna un sorriso e un ringraziamento sospirato.
Poi, però, si blocca a labbra socchiuse quando capisce ciò che realmente ha detto il Medimago che ha di fronte: Malfoy ha avuto bisogno di trasfusioni.
Hermione ricorda bene cosa è successo subito dopo la caduta di Voldemort, le sembra ancora di sentire l'ago in vena e vedere la sacca riempirsi del sangue dei volontari che hanno donato la propria linfa vitale per garantire la sopravvivenza a chi aveva riportato ferite più gravi— lei personalmente si era recata in ospedale ogni due giorni per aiutare, per mettere ancora la sua lealtà al servizio del Mondo Magico e perché, per pura vanità, probabilmente, avrebbe potuto dire di aver salvato più di un'esistenza e non solo con la magia.
"Di chi?" domanda, temendo la risposta.
"Questo non le è dato saperlo, signorina Granger. Devo mantenere il massimo riserbo: è una questione strettamente personale di cui il signor Malfoy verrà informato. Posso dirle, però, che lei stasera ha salvato la vita di quel ragazzo" il tono dolce, carezzevole con cui l'uomo le si rivolge sembra essere un congedo e, difatti, Hermione cala il capo e lascia la sala d'attesa del San Mungo.
Chissà come reagirà quando scoprirà che nelle sue vene scorre il sangue di qualcun altro.  

 

~•~

 

Sono trascorsi quindici giorni da quando Hermione ha soccorso Draco Malfoy e sa che il ragazzo è stato dimesso più di quarantotto ore prima con la raccomandazione di annullare del tutto gli allenamenti di Quidditch per almeno i due mesi successivi, ma di lui nemmeno l'ombra: sembra essere scomparso dalla faccia della Terra, eppure lei sa che c'è. 
Probabilmente, rintanato nell'umidità sotterranea dei dormitori di Serpeverde, sta pensando a come ripulire il proprio sangue, contaminato ormai irrimediabilmente da quello di chissà chi: Hermione lo immagina camminare frenetico per tutto il perimetro della Sala Comune e tra il letto e la porta del bagno, mentre si danna perché la stirpe dei Malfoy non sarà mai più pura e linda com'è stata per secoli. Prova un'ilarità infantile a quel pensiero, però, quando alla bambinetta che è stata offesa si sovrappone la ragazza che ha lottato affinché anche lei venisse accettata senza beneficio del dubbio nel Mondo Magico, Hermione riesce ad avvertire la pietà farsi spazio nell'animo: quanto peso ha la consapevolezza di essere l'anello debole, la macchia indelebile su un arazzo dal quale, forse, il suo viso verrà cancellato? Non lo condanna, ora, per le scelte che ha compiuto in passato, perché ognuno ha la parte della ragione nella propria idea di giusto e cos'era giusto, per Draco Malfoy, se non seguire l'unica strada che gli è stata indicata da percorrere? Hermione non ha dimenticato e di certo non ha perdonato, ma ha imparato a confrontarsi con idee diverse dalle sue e ad accettare se queste non recano danno a nessuno, ma con il Serpeverde non ne è mai stata davvero capace: Draco non ha conosciuto altro che ciò che ha visto fiorire tra le mura del Manor — non la tolleranza, ma l'odio; non il bene, ma il male.
Eppure, nonostante questo, una parte di lei continua a covare quell'astio primordiale. E si sente crepata nel mezzo di se stessa, divisa tra la sua metà razionale che sa provare ancora compassione e quella che è cresciuta negli accampamenti con Harry che non ha dubbi sull'iniquità di un determinato tipo di persona.
Ma che persona è davvero, Draco Malfoy? Si interroga spesso su questo interrogativo e si dice di conoscerlo fin troppo bene, ma in realtà, di lui, sa solo che è stato un bambino viziato ed è diventato un ragazzo con un brutto marchio sull'avambraccio. È stato un bambino, a differenza di Harry, che non ha sofferto d'abbandoni precoci imposti dal più grande Mago Oscuro di tutti i tempi, non è mai stato privato degli affetti e non ha portato mai la responsabilità della salvezza dell'intero pianeta sulle spalle né vivere con il sibilo di un mostro nella testa; non ha perso nessuno dei propri cari durante l'infanzia, non ha dovuto subire la derisione dei compagni e non ha dovuto soccorrere uno di questi, portarlo senza vita al cospetto di una padre che s'è curvato di dolore e dell'intero pubblico che ha assistito al Torneo Tremaghi e, soprattutto, non si è mai rapportato con il senso di colpa che invece ha accompagnato il Bambino Sopravvissuto. A differenza anche di lei e di Ron e Ginny che, volontariamente e consapevoli dei rischi, hanno appoggiato la causa del bene.
Ha sempre creduto, Hermione, che le espressioni di Malfoy fossero il frutto di una tale beatitudine, intervallata di tanto in tanto dagli screzi con i Grifondoro, e allora, cosa ne sa, lui, di quanto può essere forte il tremolio di una mano che cancella ricordi? O di un cuore guidato dalla luce di un Deluminatore?
Non può, non conosce altro che non sia la sua vita già designata, così come lei non conosce le paure, le incertezze, gli equilibri scomposti che lo rendono ciò che appare, nascondendo ciò che è.
Tutto questo, però, poi viene scaraventato chissà dove dall'immagine dello stesso ragazzo che prima l'ha ferita e poi non ha trovato parole per ringraziarla di una libertà ottenuta anche grazie alla testimonianza di colei che, per lui, è sempre stata macchia infamante nel disegno perfetto della magia. A diciassette anni, vivendo sempre fra i propri simili, crescendo nell'agio e nel vizio, avrebbe potuto continuare a comportarsi come durante i primi anni a Hogwarts, ma è successo qualcosa — e non il Marchio Nero, non la commissione per permettere l'ingresso ai Mangiamorte o per l'omicidio di Albus Silente— che lo ha cambiato, che in qualche modo lo ha reso più umano. Hermione ha la sensazione che anche per lui non sia stato facile, che non può comprendere ciò che è accaduto nella campagna dello Wiltshire quando è diventata il quartier generale di Voldemort, ma di qualsiasi cosa si trattasse, ha fatto in modo che il fiume che era stato a undici anni battesse ritirata, rientrasse negli argini per diventare lago cheto.
Se n'è accorta durante il processo: Draco Malfoy s'è spento.
È stata Ginny, un giorno, a dirle che sarebbe stato inutile cercare al tavolo dei Serpeverde.
"Si dice che non cacci nemmeno la testa fuori dalle lenzuola. Forse per vergogna o, forse, perché il trauma che gli ha provocato la guerra è tornato prepotente."
La più piccola dei Weasley ha disimparato la diffidenza da quando ha scoperto che la facciata esterna non è mai uguale a quello che si cela dentro. Grimmauld Place è stato l'esempio con cui ha raccontato questa lezione: nessuno riesce a vederla e, agli occhi di chi sa scoprirla, appare fatiscente, logora e lo era anche all'interno, è vero, ma con la buona volontà di ognuno di noi ha svelato tutto il suo potenziale, anche se inizialmente ci ha respinto, le ha spiegato. E ora, con quelle frasi a vorticarle nella testa, Hermione comprende che, proprio come l'appartamento ereditato da Harry, Draco Malfoy ha bisogno di essere illuminato da chi è provvisto di buona volontà. E come potrebbe essere altrimenti, se per metà discende dalla famiglia Black e, proprio come quelle stanze, di sicuro rifuggirà all'ombra del buio che è costanza nei suoi giorni. 
Per un motivo che non capisce, la Grifondoro pensa di dover essere lei la luce necessaria, la serenità che, in realtà, non ha mai visto in quel grigio d'occhi, la funambola che fa da contrappeso e lo incita a non guardare giù da quel filo troppo sottile e sul punto di spezzarsi — ma a quale scopo? A beneficio di chi? E, soprattutto, a che prezzo?

 

 ~•~

Il cerchio di pietra in cui si ritrova ogni notte ha il sapore e l'odore familiare di un luogo conosciuto a memoria. Hermione s'avvicina spedita alla porta dietro cui sa esserci qualcuno in pericolo di vita, si prepara a provare la sensazione d'immobilità che caratterizza quel sogno: è consapevole del fatto che proverà a muovere un passo per andare oltre, che proverà a offrirsi volontaria per la salvezza di un essere umano che non conosce. Questa volta, però, la resistenza che la stanza attigua oppone è blanda come un velo di vapore. Basta bucarlo con le dita.
C'è qualcosa che non va e lei se ne accorge subito: il corpo che sempre visto disteso, toccato dalle mani di un'equipe medica, adesso è seduto, i piedi poggiano sul pavimento, l'indice è ancora macchiato di sangue e lo squarcio sulla gamba tuttora disgiunto, forse infetto, ma oltre a questo, la Grifondoro non scorge altro. Si accosta un po': la porta d'entrata aperta alle sue spalle e la fessura esterna da cui filtra la lama di luce che ormai ha imparato a riconoscere le aprono gli occhi su labbra dritte e sottili, nasconde lo sguardo nel buio, ma quello che era sul punto di perdere la vita, ozia come se non avesse mai corso nessun rischio.
È un alone spezzato, un fantasma morto di cause ignote, mancante di parti del corpo fondamentali per riconoscerlo. Quando Hermione sposta il piede destro in avanti, gli angoli di quella bocca sconosciuta si sollevano un po': sorride, ma la fossetta sulla guancia non affonda nella pelle, non la buca come quando ride perché è felice davvero. Si chiede da cosa deduca che su quella pelle debba esserci la lacuna di carne che ha visto solo su un viso sempre troppo lontano da lei, ma l'inconscio le suggerisce che è così, e non serve porsi alcuna domanda: conosce la persona che ha di fronte, anche se non riesce a congiungere altro che spezzoni di volti. Tuttavia, questa consapevolezza la scalda dentro e, se potesse, pensa… se solo potesse essere lei, quella piccola imperfezione nella carne, allora farebbe di tutto per rimanere eterna — sorridi, fallo per me.
Quel corpo non ha nome, ma, quando allunga una mano in direzione della Grifondoro, lei la stringe e, un attimo dopo, gli poggia quell'intreccio di dita sul petto. C'è un cuore che batte oltre la pelle e le ossa e un anemone essiccato al centro esatto dello sterno: ritorna in Infermeria, al libro che una mattina ha trovato sul comodino affianco al suo letto, le parole scritte sulle pagine a spiegare il significato nascosto di quei petali: abbandono, speranza, attesa.
Si narra che anemoni rossi nacquero dalle gocce di sangue cadute ai piedi della croce di Gesù Cristo, ma le uniche lacrime scarlatte che vede sono quelle che rinunciano all'alloggio delle vene del loro possidente e si posano sulle gote morbide di Hermione.
Il tocco della bocca che non ha volto è fugace — la delicatezza con cui chiede permesso, la paura di subire un rifiuto —, così come le carezze che le imbrattano la pelle: fuggevoli, peccaminose, sporche di indecenza, eppure la strega più brillante della sua età non si è mai sentita più trasparente. Sembra quasi un sogno nel sogno: semplice, lasciarsi andare a un piacere che, al di fuori di quella muta, è solo reminiscenza, nulla di concreto, irreale.

Sfiora un cono d'ombra sotto cui trova la curva del collo, risale il profilo deciso della mandibola e ancora più su, fino a sentire sotto i polpastrelli la finezza dei capelli — lisci come seta, sembrano antidoto contro ogni veleno.
Avverte una stretta alla base della schiena, qualcosa che la incita ad avvicinarsi, a diventare il prolungamento di quel peccato sul nascere del compimento: segue la sensazione di dissolutezza come fosse l'unico punto cardinale segnato dalla bussola della coscienza, l'unico luogo raggiungibile.
Il calore dei suoi occhi sembra bruciare ogni cosa intorno e dove prima c'era ombra, ora va dipingendosi il nitore che precede il risveglio; Hermione s'agita, prova a tenere saldo il corpo seduto sul letto ormai quasi del tutto illuminato, ma, quando solleva le iridi oltre le sue spalle, il sogno scompare.

 

~•~

 

I corridoi sono silenziosi, quella sera, e sembra che nessuno studente abbia avuto voglia di uscire dal proprio dormitorio e contravvenire alle regole della scuola: è strana, davvero, la solitudine degli inizi di ottobre, quando il fresco comincia a essere leggermente più pungente e la possibilità di rannicchiarsi sotto le coperte è più piacevole di quella di uscire e rischiare di far perdere punti alla propria Casa, di ricevere un richiamo o, peggio, di essere espulsi se trovati in situazioni poco consone al comportamento da tenere a Hogwarts. D'altro canto, anche a Hermione pesa fare il giro del castello, pensa di aver sbagliato a declassarsi Prefetto per quella sera: il ricordo delle notti trascorse tra i corridoi prima della guerra fa male, perché porta con sé le reminiscenze di visi familiari che adesso giacciono sotto terra, le risate e le offese leggere seguite dopo un richiamo fanno eco sulle pareti (un'eco talmente forte da fare venire voglia di coprirsi le orecchie).
Il ruolo di Caposcuola è diverso, non le dà adito di andarsene in giro in luoghi in cui sa che non rivedrà più le stesse persone: non ci saranno più George e Fred a studiare il prossimo scherzo, né Lavanda Brown a baciare qualcuno o Pansy Parkinson a venirle incontro con la sua aria di superiorità — è andata via, ha lasciato tutto in sospeso: "non ci riesco" ha detto "a sopportare il peso delle mie colpe."
Le si stringe la gola se ripensa a come i confini siano labili e come sia facile confonderli, mescolarli, perché lo sa: niente è assoluto. Glielo hanno insegnato le circostanze e tutto ciò per cui prima della guerra provava repulsione adesso è diventato un mezzo per raggiungere un fine: stringere la bacchetta e ferire, odiare fino a desidere il trapasso di qualcuno, provare ribrezzo per le azioni compiute, restare immobile e senza parole dinanzi alla sofferenza.
Il peso del dolo le schiaccia i polmoni, cerca ossigeno e lo trova quando sopra la sua testa si stende il cielo, con gli astri a farle da guida.
Hermione trova nella volta celeste una confidente capace di ascoltare i silenzi, i sospiri di rassegnazione, che sa distinguerli da quelli stanchi: una voluta scura che abbatte ogni difesa, senza che lei opponga resistenza, e il cui impatto non causa dolore.
A volte, le sembra di essere seduta con la schiena contro un albero a perdersi — a guardare lo stesso cielo, senza saperlo leggere — , incapace di trovare una strada per tornare a casa, una soluzione che valga la vittoria del Bambino Sopravvissuto; le pare di avere un peso immenso legato al collo che la spinge sempre più a fondo, nelle spire della disperazione e della paura, di avvertire il sibilare sinistro di una voce volta a demolire i capi saldi della vita di chiunque indossi il Medaglione di Salazar Serpeverde. Harry è qui da qualche parte, pensa, e si muove nei dintorni in cerca di un perdono che non ha bisogno di chiedere: conta i suoi passi, riesce a sentire il fruscio nell'erba, il gracchiare disturbato degli animali in lontananza (o forse, è la vecchia radio nella tenda?). E poi, 
Si stringe un po' nel mantello, chiude con un nodo leggero gli alamari sotto il mento: il venti di novembre è un alito freddo che la riporta alla realtà.
C'è qualcosa poco distante da lei, una sagoma curvilinea che la incuriosisce tanto da farla avvicinare in pochi attimi. Se fosse stata ancora la ragazza con cui ha condiviso lo spirito nel ricordo di poco prima, adesso, non si chinirebbe a guardare meglio né a muovere le mani verso il profilo di quella che sembra essere la carcassa di un animale.
Un gufo reale, scopre, quando questo spalanca un'ala e si mostra in tutta la sua maestosità; l'ala sinistra è inerte lungo il corpo piumato: è spezzata, lo capisce quando prova a sollevarla e schiva, solo grazie alla prontezza dei riflessi, una beccata.
La rabbia è un’emozione di base, universale che appartiene all’esperienza umana comune e condivisa a prescindere dall’età, dalla cultura e dall’etnia di appartenenza. Ci permette di difenderci e sopravvivere al dolore fisico ed emotivo; ci aiuta a ristabilire il senso di giustizia dopo un torto subito; promuove il rispetto della propria persona e dei propri diritti, di quelli altrui quando è necessario.
Hermione ha imparato sulla propria pelle il significato di quell'emozione: ha digrignato i denti, ha soffocato il pianto o lo ha lasciato esplodere, ha tremato e ha urlato. Tuttavia, è sconosciuta quella che prova a tenere tra le mani le ossa fracassate di un essere vivente che può difendersi solo con la morsicatura del becco. Non ha senso, pensa, in questo caso il fine non giustifica i mezzi: ferire il gufo era una sorta di avvertimento per il proprietario dell'animale. Tutto torna, però, quando, lisciandone le piume, nota la medaglietta legata a una sorta di collare: una lettera incisa nell'oro. Superba, viziata, indimenticabile: la emme dei Malfoy.
Come se la cicatrice sul braccio avesse ricominciato a bruciare, Hermione ritrae velocemente le mani, dimenticando il diletto con cui finora ha accarezzato il gufo; è tentata di lasciarlo lì a marcire, come avrebbe dovuto fare con il ragazzo a cui appartiene, ma, alla fine, il rispetto per la vita altrui si sovrappone al passato in cui Hermione Granger e Draco Malfoy hanno imparato a farsi a pezzi: slaccia gli alamari del mantello, avvolge il volatile nella stoffa e si avvia in silenzio verso la Torre di Grifondoro.

 

~•~

 

Per fortuna certe volte la vita insiste.

 

La premura con cui Hermione si prende cura del gufo di Malfoy è argomento di vaniloqui e di — non pochi — dissidi con Ginevra Weasley: devi portarlo fuori di qui, e subito. 
"Non te ne accorgi," le dice una sera. "ma stai riversando su questa bestia l'amore che provi per qualcun altro."
"Non è  il ripiego di nessuna falda: 'ho adottato. Temporaneamente" risponde con pacatezza.
Forse, Ginny ha ragione, ma come domandarle, senza cadere nella ridicolaggine, quanto ardore si può provare per l'ombra di un sogno — lui non ha smesso di toccarla, lei non ha perso la voglia di essere l'imperfezione eterna sulla sua guancia.
Quando ci pensa e arrossisce all'improvviso, è lei stessa a deridere l'apprensione con cui attende il calare della sera: costringe ogni sua cellula a trascorrere le ore di sole senza inciampare nel desiderio di una carezza sanguigna, serra le labbra quando un sospiro di vento le sfiora con la delicatezza che le riserva lui, ma si danna costantemente perché ama un corpo senza viso; quando le tenebre calano su Hogwarts, però, Hermione trova la pace che anela dal primo istante in cui il sonno svanisce e si sveglia con le mani vuote e la bocca turgida.
L'ala del gufo è guarita, ormai, e spesso lo vede planare oltre i confini della Foresta Proibita, scendere giù, a ridosso del Lago, ma del suo proprietario nemmeno l'ombra.
Nel castello gira voce che Draco Malfoy sia morto — sarebbe dovuto accadere prima, sostiene qualcuno; l'assassino è perito come meritava: solo, dissanguato in una pozza di immondizia — o che, nelle migliori ipotesi, abbia deciso di confinare se stesso nelle barriere del Manor: lì, nel buio sicuro che ancora pesa della popolarità del braccio destro del Signore Oscuro, nessuno si azzarda a fargli del male.
Tra tutte, però, la supposizione che più si avvicina alla realtà è quella che lo descrive vivo di muscoli e nervi, ma non d'anima: il Serpeverde si agita nei sotterranei, pentendosi di ogni passo compiuto, concependo l'idea di non essere meritevole della grazia ricevuta: da quand'è nato, Malfoy s'è creduto meritevole di ogni bene, legittimato in ogni sua azione per la purezza del suo sangue. S'è trovato, poi, in un mondo che non l'accettato e l'ha etichettato sia per ciò che non è mai divenuto sia per ciò che è stato e che è  — assassino, figlio di Mangiamorte, Mangiamorte.
Non ha mai negato il proprio essere, gli ideali in cui ha creduto, né è stato obbligato a portare il Marchio Nero: quando s'è prostrato ai piedi di Voldemort, aveva gli occhi lucidi per l'emozione, credeva che il sangue puro fosse un dono che non tutti erano degni di ricevere. Ma lui cos'è, adesso — l'anello debole, la macchia indelebile su un arazzo dal quale, forse, il suo viso verrà cancellato — se non lo spettro sbiadito di un passato che, ormai, non gli appartiene più?
Tanto che, quando compare tra i corridoi, è così bravo a fingersi invisibile che Hermione Granger, nonostante lo abbia di fronte, non lo vede.

 

~•~

 

"Hai qualcosa che mi appartiene, Granger"
"Anche tu" risponde. Il viso di Malfoy diventa marmo (liscio, bianchissimo, duro) e Hermione non comprende la forza con cui stringe la mascella e nasconde gli occhi.
"Ridammelo, allora" gli ordina e, questa volta, lui curva le spalle e scuote il capo.
"I-io non posso" sussurra: c'è sconfitta, nel suo tono, ma a lei sembra avvertire nient'altro che derisione e sopruso: è a causa della sua bocca leggermente stirata in sorriso di disfatta che la Grifondoro non riesce a interpretare. La presunzione dell'orgoglio è padrona dello sguardo scuro e fiero — orbo di fronte a lui, e sordo e muto: non vedono, non sentono e non parlano, le iridi che gli fa colare addosso come cera bollente di candele dimenticate.
Ancora, Hermione Granger crede di essere andata oltre, si nomina giudice supremo e lo condanna — colpevole sempre, mai innocente fino a prova contraria.
"Non si ruba, Malfoy" dice ancora e, in risposta, riceve il suono di una risata triste, fiacca, dolcissima.
"Non ho rubato nulla: quello che ho di tuo mi è stato donato."
Le illusioni del sogno che le tiene compagnia da notti intere, mesi, da quello che ne sa, le si presentano prepotenti dietro la pelle sensibile delle palpebre calate: le ciglia tremano contro la consapevolezza di ciò che si è palesato nell'animo coraggioso: il battito del cuore è un'orda di fantasmi che le batte contro la gabbia toracica al pensiero di un corpo inerme steso su una barella, in una stanza in cui non hai mai avuto accesso davvero; le pareti grigie da cui si ritrova circondata appena chiude gli occhi sono esattamente dello stesso colore e della stessa durezza di quelli che adesso le scivolano addosso. Hermione ha compreso i sottintesi di ogni frase che le è stata appena rivolta, eppure, non può fare a meno di scuotere il capo — i capelli, nel movimento lento della negazione, le ricadono sulle spalle e lei vorrebbe tanto portarseli al viso, nascondersi e non farsi trovare mai.
"Ti aspetti cosa, Granger? Che io ti ringrazi per avermi soccorso? Lo avrebbe fatto chiunque" dice, eppure nessuna bugia più grande è mai uscita dalla sua bocca: Draco Malfoy lo sa che, se non ci fosse stata lei, lui sarebbe morto in quel vicolo putrido di umidità e sporco degli scarti dei locali.
Lei, adesso, è statua di sale e non ricorda nemmeno come si respiri: di tutto ciò che si aspettava da quell'incontro, questo non l'ha proprio previsto; Malfoy, invece, sostiene il suo sguardo perso guardandola dall'alto verso il basso, come ha sempre fatto, ma con un'emozione negli occhi che non comprende appieno e che, forse, non comprenderà mai.
"Se me l'avessero domandato, credo avrei risposto che avrei preferito morire." riprende. "Però, quando me l'hanno detto, mi sono sentito come se non avessi commesso mai nessun peccato."
Il silenzio della Grifondoro sembra fango che gli insozza le scarpe, sabbie mobili in cui, inevitabilmente, sprofonda: e cos'è meglio, alla fine, tra il soffocare in quella muta meraviglia e morire d'una morte atroce?
"Mi sei entrata nel sangue, senza neanche volerlo. Senza che io lo volessi."
Ancora, lei si ritrae dietro la fortezza delle labbra serrate — inespugnabile, dolcissima.
"Ho sentito la tua voce ogni notte. Prima un sussurro e, poi, sempre più forte: sei stata tu a offrirti volontaria, perché il tuo senso del dovere è prepotente anche quando non sei cosciente. E poi, tutto il resto. Ogni cosa. Tu non dormi mai, Granger."
L'indice, attraversato da un rivolo di sangue che cola goccia a goccia sul pavimento sottostante, è scosso da un tremito forte, lo stesso con cui una notte le ha ordinato di non fiatare e le ha salvato la vita; Hermione vede solo adesso il sussulto delle mani di chi le sta di fronte: una conferma all'arcano pensiero che fosse davvero lui a rischiare di morire — lo ha salvato, anche nel narcoma notturno. Lo guarda e lo vede per ciò che è: un ragazzo che dai primi è sceso tra gli ultimi, scendendo a patti con se stesso conoscendo tutti i termini di quel contratto che non comprende alcun espediente: nessuno esce vivo dalla condanna della propria coscienza. Nemmeno lui.
Spezzato in più punti, grondante di sangue (mescolato alla feccia che ha sempre odiato), Draco Malfoy è umano. 
Un passo indietro, le braccia spalancate e gli occhi fissi in un lago sporco di paura.
La realtà dei fatti, la vita vera e non quella idealizzata, desiderata dalla fine della guerra: s'è immaginata come una persona qualsiasi, con un nome facile da dimenticare e non da accostare a quello del Salvatore del Mondo Magico e non. Adesso, invece, è inchiodata dallo sguardo del ragazzo che è stato il suo primo nemico, colui che, attraverso i sogni, le ha insegnato un sentimento che credeva di non poter provare più: era lui a baciarla nell'evanescenza buia, inconsistente presenza nell'abbandono della notte, a stringerla, per rendere invisibili le crepe di un abbraccio che non avrebbe dovuto avere ragione di esistere. Eppure.
Resta lí nelle pieghe di un piacere che riverbera in ogni ricordo, la carezza delicata della sua lingua, l'alone delle sue mani che riverbera in ogni muscolo e il suo profumo a sfumare intorno; l'indecente pudicizia con cui ha accolto nelle mani e nella bocca il suo sapore, mescolandolo con il proprio; gli ansiti d'affanno quando s'è allontanata giusto il tempo necessario a riprendere fiato.
È un sogno, continua a ripetere a voce bassa, un sogno e basta. Un'illusione, fantasia incontrollata e inconsapevole.
Draco Malfoy è nato pensiero. E si è insinuato piano tra gli spazi che Hermione non si è accorta di avere lasciato vuoti — tra i punti interrogativi, come risposta celata — , in quegli angoli di mente dove lei credeva di essere al sicuro e invece adesso c'è lui — ovunque.
È nato pensiero e s'è fatto sogno nelle notti senza fine: la sua voce tormento a ogni sussurro, un'imperfezione a storpiare il quadro perfetto della beatitudine del sonno profondo. Ma ora.
Ogni carezza, ogni bacio, tutto il resto ha la consistenza del peccato consumato senza pentimento. La carne è fin troppo reale.
La repulsione che prova è una stangata dietro le ginocchia che la fa cadere, la calpesta ripetutamente fino a che di lei non restano altro che le spoglie: ha l'anima nello stomaco e il cuore sotto le suole delle scarpe.
Draco si cala sulle ginocchia e le solleva il mento. Cos'hanno ancora da nascondere, se tutto ciò che sarebbe dovuto rimanere celato agli occhi dell'altro è stato scoperto, come nel gioco del rimpiattino, e nessuno dei due dichiara casa, custodi di segreti che non possono essere svelati senza conseguenze: che lei sogna di lui da quando ha versato la prima goccia di sangue in onore di un bene superiore e che, da sempre, lui é concreto nell'utopia dell'incoscienza.
Hermione lo guarda con l'orgoglio ferito, un tumulto che le fa tremare le palpebre, la bocca e le ossa. Ogni singolo muscolo, ogni nervo scoperto. Le certezze su cui lei ha costruito una vita intera e che adesso crollano come castelli di sabbia battuti dalle onde — il tallone d'Achille in cui lui, sapientemente, conficca una freccia intrisa di veleno.
La Grifondoro scuote il capo, rinnega ogni cosa: la verità è che Malfoy ha peccato di superbia — e di lussuria quand'era nascosto nell'ombra di un sogno — e non ha mai chiesto perdono: la clemenza di cui lei dispone non è abbastanza profonda da permettergli l'assoluzione.
Ma scesa dal piedistallo dei giusti, quando credeva che fosse per sua volontà e non per una caduta sospinta da altri, adagiata sul trono dell'errore c'è Hermione Granger: sul capo la corona di spine, nella mano sinistra lo scettro ormai sporco di peccato, ai suoi piedi, in ginocchio e con gli occhi al suolo, Draco Malfoy. Il re abdicante. 
Sovrana di un regno che non sa governare, non può far altro che posare la spada sulla spalla del ragazzo genuflesso a causa del peso del ruolo che lei soltanto può ricoprire: gli chiede aiuto — e perdono — quando la lama finalmente tocca la carne e l'osso senza squarciare.
La superficie su cui batte piede è neutrale, la chiamano Terra di Nessuno perché non ha mai avuto padroni: campo di guerra, sì, per egoistico senso di proprietà, ma a chi appartiene davvero il suolo del silenzio se non alla medesima cosa? E, chiunque osa varcarne i confini, finisce muto e prostrato.
Hermione lo sa, Draco lo sa. Quindi s'arrendono alzando bandiera bianca all'ombra delle ciglia, ché hanno bisbigliato e urlato frasi per trafiggere e squarciare le carni e, a risanarle, non sono bastati gli anni e non sarà sufficiente una vita intera: se lei ha fatto un vanto delle ferite che ha addosso e le mostra a destra e a manca come un trofeo, Malfoy, delle proprie, ne ha fatto feritoie da cui lasciar entrare per scorgere ed estirpare i tentennamenti come erba secca.
Agli eserciti stanchi, con troppe lesioni e poca forza, serve riposo e ammenda per i crimini commessi e distinguere quelli compiuti da soldato semplice da quelli, invece, ultimati con il grado di generale. È lui il primo ad abbandonare il campo, ritirandosi oltre lo steccato — nella Terra di Nessuno. Giunge così la tregua, infine, che di contro gli impone di ingoiare le parole che vorrebbe dire a lei: non lo volevo, ora non voglio altro.

 

Angolo Autrice: 

 

È da tempo che non scrivo (l'ultima storia risale al settembre del 2022), e ne avvertivo così tanto il bisogno: è trascorso quasi un anno — un anno difficile, impegnativo, bellissimo. Forse, mi serviva solo un po' di coraggio per riprendere in mano questa mia passione, o l'ispirazione giusta ed è arrivata.
Spero di essere stata all'altezza di chi mi ha aspettata e mi è rimasta fedele, spero di esserlo anche per chi, per la prima volta, si affaccia a una mia storia.


Questa storia partecipa alla challenge “Tanti piccoli semi per far fiorire nuove storie” indetto dal gruppo facebook L’Angolo di Madama Rosmerta.

Il pacchetto scelto conteneva questo:
~Prompt: Adottare un cucciolo 

~Citazione: “Passiamo accanto a storie e persone che avrebbero potuto cambiarci la vita senza vederle a causa di un malinteso, di una copertina, di un riassunto sbagliato, di un atteggiamento prevenuto. Per fortuna certe volte la vita insiste.”  Valerie Perrin 
~Situazione: A si rende conto che B è particolarmente giù di morale dopo aver rotto con il partner; quindi, organizza un weekend con il loro gruppo di amici.
~Bonus: Fiori appassiti tra i libri.

 

Il titolo, In sanguine, vuol dire letteralmente nel sangue (latino-italiano).
 

Fenrir Greyback, in  Harry Potter e i doni della morte - parte 2, viene molto probabilmente ucciso da Hermione Granger in quanto quest'ultima lo colpisce con uno Schiantesimo facendolo precipitare nel dirupo; nei libri, invece,  il Lupo Mannaro sopravvive alla battaglia e, forse, viene incarcerato ad Azkaban.







 

 

   
 
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