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Autore: An13Uta    28/05/2023    0 recensioni
Studio su come Oitesch percepisce la propria umanità, o la mancanza di tale.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Link, Nuovo Personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'occhi d'ambra'
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Anatomia psicologica di una bambola.




Oitesch si era reso conto molto, molto lentamente, di non essere una persona.

Di non avere una personalità, né sentimenti, né pensieri.

Toccava piano il suo sterno, le sue costole, imponendo le mani in modi diversi come se così fosse in grado di rinvenire da qualche parte nel macabro scrigno di sabbia e ossa che era la sua gabbia toracica la sua anima, o quello che ne era rimasto, in modo da osservarla, analizzarla, capirla, realizzare se davvero era tanto vuota quanto la percepiva.


Il viso era la prova più lampante della sua mancanza.


Sorrideva in un modo meschino, strafottente, di chi sa sempre più degli altri, perché era un artista di strada e quel tipo di sorriso gli si confaceva: il ghigno di qualcuno con cui ci si può intrattenere, ma non fidare. Anche il sorriso più dolce sul suo viso era una pantomima, rovinata dagli occhi troppo stretti, dal taglio che gli spaccava il labbro, dal buco nero del suo dente perso per sempre, dal modo in cui il volto gli si deformava attorno come una maschera di teatro. Comparato a quelli di Malon e Link aveva un che di innaturale.

Cambiava volto con la dimestichezza con cui sfilava e infilava costumi per interpretare un insieme impossibile di personaggi tutti assieme. Sapeva come far passare i polsi ossuti attraverso maniche e monili in una singola piroetta, come avvolgere stoffe attorno alle gambe in modi diversi per simulare gonne o braghe o lunghe vesti in un secondo, come far sparire il viso di un personaggio dalla sua testa per scambiarlo con quello di un altro grazie ad un movimento appena accennato del braccio, come passare da una voce all'altra in mere frazioni di secondi, mutando aspetto prima ancora che lo spettatore potesse percepire la trasformazione.

Uno spettacolo. La sua esistenza, come si era imposto dal giorno in cui si era incoronato del ruolo di giullare di un re che aveva spogliato anche delle ossa, era uno spettacolo preparato nei minimi particolari; lui, Oitesch, ultimo erede di un regno strano e lontano, incomprensibile mistero dal penetrante sguardo mezzo cieco e un'aria di terribile segretezza celata in sorrisi ferini e movimenti secchi, scattanti, danzatore e saltimbanco – lui ne era semplicemente il personaggio principale.


Quando era solo non aveva espressione. Quando era solo non pensava.

Quando era solo fissava i volti senza emozioni delle sue bambole come fosse stato davanti ad uno specchio.

Quando era solo poneva attentamente le dita sulla propria mascella, sulla curva del cranio, e spostando delicatamente la testa sotto i polpastrelli coperti di cicatrici la misurava, ne tracciava le forme, prendendone atto come se non gli appartenesse.

Un guscio vuoto di legno levigato ad arte.

Una conchiglia dall'interno liscio, raschiato tale da lunghissimi tentacoli dentati che avevano minuziosamente consumato il suo cervello come una dura caramella al miele di rosa, da succhiare fino a che non si dissolve in bocca, e lui era rimasto solo cadavere con pelle cucita addosso, mosso da fili passati di mano in mano fino a tornare tra le sue inesperte dita di marionetta.


Se lo avesse aperto, forse avrebbe provato l'assenza di umanità nell'interno cavo del suo corpo di bambola a grandezza naturale.

Mimò l'incidere di una lunga ferita nel mezzo della calotta cranica con le unghie mangiate fino all'osso, divise i capelli lungo quella lunghezza, e ricordò.


Com'era stato, centinaia di anni fa, quando ancora viveva per Majora?

Quando il sole di Ikana, strappato con una fatica da far sputar sangue dalla dura roccia ad ogni alba, lo aveva seguito impotente mentre lunghe unghie nelle sue vene lo avevano mosso come un burattino?

Com'era stato prima?


Ikana era il sotto di un letto in una casa da cui scappare, nella sua memoria: polvere e lividi e urla lontane. Graffi sulle piante dei piedi, graffi sui vestiti sdrucidi, graffi sulle dita tagliate da rocce su cui arrampicarsi nella fuga. Un silenzio rumoroso zeppo di pericoli conosciuti se non direttamente domestici. Ombre lunghe di porte aperte in cui non era il benvenuto.

Ricordava fame e odio e paura.


Poi, Majora; e con Majora quello che aveva confuso per amore, l'ossessione dello schiavo che ama il padrone per il miele soporifero con cui lo nutre dopo estenuanti vampirici salassi, per succhiarne il midollo e mantenersi giovane per sempre con una risata sommessa, graziosa, sprezzante.

E fame, e odio, e paura.


Con Tael e Tatl aveva sperimentato la curiosità, prontamente corrotta nella ricerca disperata di un nuovo dio che banchettasse col suo encefalo, e qualcosa come la gioia, deturpata in una tremante mania senza obbiettivo.

E fame, e odio, e paura.


Non aveva provato amore. No, non ancora, non aveva potuto, non avrebbe potuto, finché la bestia immonda che ancora tratteneva la sua mente in una morsa di ferro soltanto un poco allentata non fosse stata completamente estirpata dal suo teschio come un'ortica. Il suo unico esempio era stata quella relazione mostruosamente impari di servaggio senza ricompensa, e l'unica immagine di divinità che aveva avuto erano stati occhi unici al mondo: non c'era da stupirsi per la devozione ossessionata con cui si era prostrato ai piedi del primo bambino dalle iridi azzurre che avesse mai visto.

E fame, e odio, e paura.

E smania irrefrenabile, dopo il primo sorriso di labbra rosa, di meritarsi ancora anche solo l'ombra di quella gentilezza, di quell'affetto.


Quando i fili che lo legavano a Majora erano stati recisi alla radice, quando finalmente la maschera era rimasta legno riccamente colorato senza traccia alcuna degli artifici demoniaci al suo interno, lo aveva abbandonato al vuoto.

Non era rimasto più nulla, dentro di sé.

Neanche fame, o odio, o paura.

Neanche la cieca devozione a occhi blu.


Non ricordava pensieri che lo avessero attraversato, in quel periodo di vuoto. Non ricordava di aver imparato sentimenti.

Aveva amato, piano, lentamente. Quello sì. Ma non riusciva a ricordare alcun pensiero d'amore, o alcuna reazione mossa da qualcosa di simile.

Poi si erano separati.

L'aveva visto sparire oltre il fogliame e aveva sentito lontano, lontano, in una parte recondita della sua cassa toracica, un dolore atroce.


A Ikana c'era stato odio.

Solo odio.

E una lunga lancia che gli aveva colpito a tradimento lo sterno, quando le lanterne della sua nuova vita si erano spente a poca distanza l'una dall'altra.


Aveva costretto i suoi occhi a riconoscere un alfabeto che nessuno sapeva più usare per fagocitare quanto più gli fosse possibile di quello che gli spettava – storie, canovacci, documenti, annali, miti e tragedie e commedie e canti o odi o lamenti o elegie – senza riuscire a trovare nulla di quello che bramava, un senso di appartenenza a qualcosa, ad una gente di cui era stato parte, di cui era stato il carnefice manovrato dall'alto, di cui era stato comunque estraneo perché piccolo ladro senza diritto di avere altro che la sabbia e la polvere che gli incrostavano i piedi.


Poi se n'era andato da quella conca di morte, svuotata di ogni cosa.

Forse lo aveva accompagnato un macabro sollievo.

Ma Ikana era solo una carcassa finemente spolpata dai suoi denti aguzzati sulla corteccia degli alberi, l'orrendo originale da cui era stata prodotta la brutta copia che era lui stesso: ovviamente, lasciandola in quello stato, altro non aveva fatto se non strappare gli ultimi brandelli di organi dal suo corpo fino a lasciarlo nuovamente vacuo.


Marionetta giullare senza volere né viso, nascosta dietro a mille maschere da cui cantare in una lingua morta per il variegato ed incuriosito pubblico delle verdi lande di Hyrule, vagò a zonzo senza meta né ossessione per giorni prima che il cuore gli saltasse fuori dal petto alla vista della sua seconda divinità.

Forse era stata gioia.

Vera gioia.

E poi l'odio per chi aveva rubato l'amore degli occhi blu in sua assenza, e poi la paura senza forma con cui la consapevolezza di ciò lo aveva attanagliato.


E poi.


La calma.


L'ultima cosa che ricordava era la calma.

Quella del fuso e dell'arcolaio. Dei muggiti fuori dalla finestra. Della segatura sul pavimento. Dell'ombra della fattoria. Delle lenzuola al sole.


Poi, basta.


Poi, era diventato un feticcio senz'anima.

Un sarcofago vuoto.

Raschiò il fondo del suo petto per cercare ancora un ultimo misero rimasuglio di umanità.


Mani gentili si avvinghiarono alle sue spalle ancora così magre all'improvviso, distogliendolo dalle sue riflessioni con un sobbalzo: le sue dita si contorsero diventando per un per un secondo, uno solo, artigli ferini, prima di riconoscere la testa dietro di sé dal modo in cui affondò nel sole ambrato dei suoi ricci per baciargli la nuca.

Link riuscì a staccarsi da lui appena in tempo per vederlo voltarsi di scatto verso il viso tanto amato con un sorriso storto, a tratti lacerato, vero, gioioso; dolcissimo.

Il sorriso del piccolo ladro dalle gambe storte che gli aveva regalato un pezzo di cuore, che lo marchiato sulla guancia con la promessa di rivedersi, che aveva amato tanto, tanto, che aveva preso dalle sue mani la maschera lunare per votarsi eternamente a lui senza esitazione.


A differenza sua, Oitesch non si rese mai conto, neanche quando baciò con la foga di un bambino la bocca di suo marito, che era una persona vera.

   
 
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