Anime & Manga > Haikyu!!
Ricorda la storia  |      
Autore: Shichan    01/06/2023    1 recensioni
Se il mondo avesse dovuto scommettere sul secondo genere di Oikawa, non una sola persona avrebbe scelto qualcosa di diverso da "alfa". E mentre lo guardavano vincere ed essere la colonna portante di una squadra, tutti vedevano anche lui - Hajime, un beta - e gli associavano la figura dell'ago della bilancia immaginaria che manteneva l'equilibrio di Tooru.
[IwaOi, side pair: AtsuHina | omegaverse | note e avvertimenti estesi a inizio storia]
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Omegaverse | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Atsumu Miya, Hajime Iwaizumi, Shouyou Hinata, Tooru Oikawa
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Note: in genere non lancio 17k e spiccioli di fic senza dividerla in capitoli. Tuttavia questa perdeva un po’ sia di senso che d’impatto, se tranciata a metà, quindi ho preferito così pur sapendo che può essere più faticoso da leggere.
Ha rischiato di diventare un regalo di Natale (?) ma: auguri Sidra <3

Warnings: menzione di droghe, implicitissimo accenno al suicidio, masturbazione (non eccessivamente esplicita). Ci tengo a precisare che in questa fanfiction si parla in modo più o meno esteso di: terapie (fisiche e psicologiche), abuso di farmaci, sedute dallo psicologo ma che io non sono un medico né uno psicologo. Non ho alcuna pretesa di tracciare in maniera precisa alcun protocollo medico e, anzi, sono sicura di aver forzato leggermente alcuni eventi/situazioni in virtù della narrazione. Perdonate, quindi, eventuali inesattezze.

 

I've got thick skin and an elastic heart
But your blade, it might be too sharp
I'm like a rubber band until you pull too hard
I may snap and I move fast
But you won't see me fall apart
'Cause I've got an elastic heart

Elastic Heart, Sia ft. The Weeknd and Diplo


«Scusa in che senso sei in aeroporto a vedere se c'è posto all'ultimo secondo su un volo per New York?» sente chiedere dall'altro capo del telefono, la voce di Hanamaki sconvolta. Iwaizumi non crede di potergli dare torto. Si mantengono in contatto per lo più via messaggio, lui, Hanamaki e Matsukawa; da quando la vita li ha portati su strade diverse è stata l'unica scelta possibile. Una volta avevano una chat di gruppo, poi Oikawa è sparito e hanno smesso di usarla. Hanamaki e Matsukawa hanno avuto la maturità e il buon senso di abbandonare il gruppo, dopo mesi di inattività. Lui è ancora dentro, mentre la chat è finita - inesorabile - in fondo all'elenco di conversazioni attive.

Per un attimo Hajime pensa di dare una risposta, poi si rende conto che sarebbe del tutto inutile. Se c'è qualcuno che ha chiamato prima del posto di lavoro per chiedere dei giorni di permesso, quelli sono stati gli unici altri due che avrebbero potuto avere informazioni su quell'imbecille. Se nemmeno Hanamaki ha idea di cosa stia parlando quando gli sente nominare New York, non ha nemmeno senso aspettarsi che sappia di Oikawa più di quanto sappia Iwaizumi stesso - nulla. Da dieci merdosi anni.

«Mi hanno chiamato, ne so quanto te.» commenta con una nota rabbiosa che per un istante sembra farli tornare agli anni del liceo, in cui Oikawa lo faceva incazzare un giorno sì e l'altro pure. Se non altro, all'epoca, Hajime sapeva sempre dov'era: «Senti, mi affaccio al desk della compagnia. Vi scrivo appena ci capisco qualcosa.» afferma, non per tagliare corto ma è già un miracolo quello che sta cercando di compiere senza rimettere tutto lo stipendio in biglietto aereo, farlo con una mano occupata dal cellulare non è utile.

Sente Hanamaki sospirare rassegnato dall'altra parte e vorrebbe fare lo stesso.

«Va bene, ma almeno scrivi anche quando stai partendo e quando atterri, okay? Numero di volo, anche. Non sparire nel nulla anche tu, per favore. A Mattsun prende un infarto sul serio, stavolta.» pronuncia Hanamaki, facendogli se non altro abbozzare un sorriso non visto.

*

Iwaizumi deve ringraziare il suo lavoro per averlo portato a dover approfondire l'inglese per studio prima e per mansione poi, perché altrimenti atterrare su suolo americano e passare i controlli sarebbe stato un inferno peggiore di quello che si è comunque rivelato - problema principale: non aver chiuso occhio per quasi tutte e dodici le fottute ore di volo. O quante sono state, a un certo punto lo schermo sul corridoio tra una fila di posti e l'altra continuava a dire "state sorvolando l'oceano" e Hajime ha seriamente pensato di essere finito in un loop spazio-temporale.

Una volta ritirato il bagaglio gli ci è voluto un po' per focalizzare in quale direzione guardare alla ricerca dell'uomo con cui ha parlato e che si è proposto di andare a recuperarlo in aeroporto. Digita un messaggio veloce per Hanamaki, certo che lo girerà direttamente a Matsukawa; nel rialzare lo sguardo, intravede un foglio con il proprio cognome tenuto in mano da un uomo che non avrà più di una cinquantina d'anni. Quello lo adocchia e, quando Hajime si sta ormai dirigendo inequivocabilmente verso di lui, si vede rivolgere un sorriso cortese e un cenno della mano.

«Hajime Iwaizumi?» domanda, con quell'abitudine straniera di dire prima il suo nome e poi il cognome, a cui Hajime dubita si abituerà mai. Annuisce comunque, rivolgendogli un inchino prima di poterci riflettere e tornando dritto quando ormai è fatta, per offrirgli la mano da stringere. L'altro non sembra toccato da quel saluto di certo per nulla usato in America e non perde tempo in convenevoli. Gli si presenta come Raymond Evans, lo stesso che lo ha contattato telefonicamente facendogli perdere più anni di vita di quanti Hajime fosse disposto a lasciar andare così presto. Evans lo guida verso l'uscita dell'aeroporto con qualche domanda classica e chiacchiera di poco conto - com'è andato il viaggio? Deve essere stanco. Una macchina privata li aspetta fuori. È tutto già sistemato per il suo soggiorno, vista la difficoltà della situazione.

La situazione, come l'ha definita anche al telefono, innervosisce Hajime in un modo indescrivibile. Nonostante questo, lo segue fino a salire sull'auto, anche se la sua schiena implora pietà e vorrebbe che stesse in piedi per almeno mezz'ora anziché prendere la forma dell'ennesimo sedile.

A giudicare dal fatto che Evans non specifichi a chi guida la direzione da prendere, Hajime suppone si tratti di qualcuno che lavora con lui. Per quanto lui vorrebbe essere più gentile possibile, né la stanchezza né la preoccupazione del poco che è riuscito a evincere dalla loro telefonata glielo permette. Gli toccherà essere la vergogna della propria patria per i prossimi due minuti.

«La chiamata che mi ha fatto,» prende quindi il discorso, senza girarci così tanto intorno «ha detto di avermi chiamato perché ero il numero di emergenza di...?»
«Tooru Oikawa.» risponde prontamente l'uomo «Sono sicuro la cosa l'abbia sconvolta abbastanza.» aggiunge, anche se Hajime vorrebbe dirgli che non ne ha la minima idea. Il numero su cui Evans lo ha contattato - l'uomo non può saperlo - è rimasto attivo solo perché lui è un idiota sentimentale. Risale agli anni del liceo, cambiato dopo l'università quando si è reso necessario averne uno per il lavoro. Solo che alla fine il telefono su cui lo hanno contattato i suoi colleghi e i suoi capi è diventato quello tenuto sempre acceso, sempre sotto carica, e per evitarsi il tedio di doversi preoccupare di due cellulari, Hajime ha semplicemente unito l'utile al dilettevole girando il nuovo numero a tutti. Tooru compreso.

Lo stronzo, però, era già sparito e non ha mai risposto né mandato un messaggio. Così Hajime ha dato per scontato che volesse comunque uscire del tutto dal loro giro - o dalle loro vite. Dopo l'ultimo anno di università senza sentirlo, per non parlare dei primi due dopo aver trovato un lavoro e quando persino la madre di Tooru non è stata più in grado di dire a Hajime dove fosse finito suo figlio... si è arreso. Che altro avrebbe dovuto fare?

La storia che si racconta Hajime sul non aver disattivato il vecchio numero è che non avrebbe dato problemi a nessuno seppure fosse rimasto attivo. Forse ha solo lasciato una inutile scappatoia ai silenzi di Oikawa, ritrovandosi invece dieci anni dopo con una chiamata dall'altra parte del mondo a dirgli che è un numero di emergenza. Non i genitori di Tooru, non qualche amico o collega con cui se non altro parla. Nessuno, tranne Iwaizumi.

«Mi dica, signor Iwaizumi,» Evans lo distrae da quei pensieri, portandolo a sbattere un paio di volte le palpebre per metterlo a fuoco «lei cosa sa della compagnia Cleyster?» si sente domandare a bruciapelo. Deve fare un immenso sforzo mentale per non cedere a tutta la stanchezza che ora, nel tepore della macchina mentre vanno spediti lungo la prima strada non troppo trafficata da quando sono partiti, minaccia di crollargli addosso tutta insieme.

«Ricordo che di recente è stata oggetto di uno scandalo piuttosto grande.» ammette, perché è stato un titolo su qualsiasi sito di notizie flash così come in qualche giornale più specializzato sugli avvenimenti internazionali anziché solo su quelli del suolo nipponico: «È una ditta farmaceutica?»
«Non proprio.» lo corregge Evans «Diciamo un centro di ricerca.»
«Immagino lei non lavori per loro e che non sia lì che stiamo andando... dovrebbe aver chiuso, giusto?» 
«Corretto.» replica Evans con un accento così americano che Iwaizumi ogni tanto deve ricordarsi di mantenere il massimo della concentrazione per distinguere tutte le parole - anche se sospetta l'uomo non stia parlando al massimo della velocità che forse manterrebbe con un madrelingua americano. Lo vede lanciargli un'occhiata di sottecchi, per accertarsi di avere ancora la sua attenzione prima di continuare a parlare: «Vorrei entrare nel dettaglio di come questo si colleghi nello specifico al signor Oikawa, ma credo sia una conversazione complessa che non possiamo avere adesso, quando lei ha più di dieci ore di volo alle spalle e una stanchezza visibile. Intanto le dico che il signor Oikawa è in cura con noi, supervisionato da una equipe specializzata e non è in pericolo di vita.» gli dà le informazioni che qualsiasi parente pretenderebbe prima ancora di voler sentir parlare di riposo o di vedersi rimandare al giorno dopo per le spiegazioni più dettagliate.

Hajime fa per parlare, ma alla fine Evans stesso lo anticipa: «Facciamo in questo modo: ora la stiamo accompagnando all'hotel dove alloggerà per questa notte. Domani mattina verrò io stesso a prenderla, dal momento che la sede in cui lavoro è fuori città e non arriveremmo prima di notte, quando l'orario di visita è già passato. Durante il viaggio le darò tutti i dettagli e risponderò a tutte le sue domande. Crede si possa fare?» lo chiede con il fare conciliante che a Iwaizumi ricorda i medici esperti, quelli che hanno dovuto affrontare le famiglie dei propri pazienti troppe volte e quasi mai con buone notizie per non sapere come trattarli affinché non diano di matto o facciano richieste ingestibili. E capisce, quasi subito, che se anche si impuntasse non ne tirerebbe fuori molto di più. Senza contare quanto si senta davvero incapace di capire un discorso più complicato di un paio di indicazioni stradali, al momento. Così non gli resta altro da fare se non accettare, sospirare buttando fuori tutta l'aria che non si era accorto di star trattenendo e annuire.

«La ringrazio per la comprensione.» si limita a dire Evans, mentre la macchina - allo scatto del semaforo verde - svolta a destra immettendosi su un'altra strada piuttosto larga di cui Iwaizumi nemmeno si spreca a guardare il nome sul cartello che superano quasi subito.

*

Evans mantiene la sua promessa: alle dieci del mattino sono già nella hall dell'albergo, Iwaizumi ha già fatto colazione ed è pronto a muoversi. Su indicazione dell'uomo non porta granché con sé e partono senza troppi indugi. Sono in macchina da dieci minuti e una telefonata di sì e no trenta secondi quando Evans comincia a spiegargli nel dettaglio di cosa si occupa e come questo, insieme alla chiusura della Cleyster, sia collegato a Tooru - e, per riflesso, al suo essere partito col primo volo disponibile per New York.

La Cleyster, spiega Evans, ha sviluppato un farmaco sperimentale e diverse persone si sono affidate a loro per offrirsi come volontari, qualcosa che alle orecchie di Hajime ha più il suono di cavie sebbene non lo faccia presente. Come ogni farmaco di quel genere gli effetti collaterali non sono pochi ma, secondo una serie di termini medici che Hajime non crede di riuscire a capire appieno, non è qualcosa di cui i piani alti della Cleyster si sono preoccupati. Non fin quando qualcuno non li ha denunciati - «il partner di una ragazza che si era affidata a loro.» gli rivela Evans senza dettagli sulle loro identità - e la polizia se ne è occupata da vicino al punto da portare a galla quanti rischi abbiano corso i pazienti.

La clinica dove Evans lavora, la St. Micheal, è stata assemblata con i maggiori esperti in campo medico per controllare, curare e gestire gli effetti collaterali in questione. Oikawa è loro paziente da meno di due mesi.

«Quello che adesso le voglio dire, signor Iwaizumi, è la parte più complicata. Cerchiamo di spiegare alle persone vicine ai pazienti la situazione in modo più trasparente possibile, ma tanti - se non quasi tutti - non sono al corrente di... molti aspetti, diciamo pure così.» Evans spiega con la calma che si potrebbe avere con un bambino troppo spaventato, irrazionale e ignorante per capire parole difficili e concetti complessi. Hajime è quasi irritato, sottopelle, fin quando Evans non gli chiede in modo molto più diretto: «Lei sapeva che il secondo genere del signor Oikawa è quello di omega?»

Per un istante, Hajime si rivede da ragazzino quando hanno fatto i test. Si rivede a casa di Oikawa un pomeriggio sì e l'altro pure, si vede negli spogliatoi a scuola, sul campo di pallavolo - e a ognuno di questi momenti accosta quello che altri non hanno mai né saputo né visto: Tooru piangere il giorno in cui hanno ricevuto il risultato del primo esame sul secondo genere, dicendo che non avrebbe avuto più amici adesso che era un omega; Tooru a scuola, imbottito di inibitori fin quando Hajime non ha scoperto la sua piccola scorta assunta prima di entrare in classe, perché sua madre non sapesse che ne prendeva di più pur di non fare assenza quando in calore. Per non insospettire gli altri.

Tooru, negli spogliatoi dopo una partita in cui l'adrenalina lo aveva spinto al limite e il suo corpo l'aveva appena tradito nel peggior modo possibile: non permettendogli di stare al passo con la sua mente, con il suo desiderio di vincere, con il suo orgoglio di giocatore.

Certo che Iwaizumi lo sa. Lo ha sempre saputo e per quanto fosse contrario a tenerlo nascosto, per quanto credesse che non nasconderlo sarebbe stato molto più salutare, alla fine ha sempre rispettato il volere di Tooru. Forse, si dice mentre sfrecciano lungo l’asfalto verso l'uscita della superstrada, avrebbe dovuto insistere fino allo sfinimento e fino a convincerlo. 

Si tiene comunque quei pensieri per sé e annuisce, mentre riporta lo sguardo su Evans. È difficile leggere quell'uomo e le sue espressioni, ma Hajime immagina che saltare quell'ulteriore spiegazione non gli dispiaccia troppo. Lo vede guardare fuori dal finestrino, quasi a sincerarsi che la direzione presa dall'auto sia corretta. Dopodiché allunga una mano verso un fascicolo tenuto sulle gambe fino a quel momento: per un attimo, Hajime si aspetta un riassunto della situazione clinica di Oikawa. Invece, quando apre la cartellina anonima, capisce quasi subito che non lo è.

Prima che possa fare domande, Evans lo precede: «In parole semplici e senza avventurarsi in tecnicismi farmaceutici, signor Iwaizumi, questo è ciò che la Cleyster ha proposto: uno studio su un farmaco la cui somministrazione avviene in due fasi con diverso dosaggio.» comincia a spiegargli mentre gli occhi di Hajime provano a scorrere sui fogli, saltando le percentuali e i nomi medici di cui capirebbe ben poco ma cercando un riscontro con quello che l'americano gli sta dicendo.

«Nella prima fase c'è un massiccio utilizzo di quello che è, a conti fatti, un mix di sostanze presenti nella maggior parte degli inibitori attualmente sul mercato.» prosegue «La seconda fase è una stabilizzazione. Non ci sono mai arrivati.»

Hajime alza lo sguardo in quel momento, inarcando un sopracciglio: «Non è una buona cosa?» domanda confuso. Evans, nel ricambiare la sua occhiata, ha un'espressione indecifrabile.

«Nella misura in cui un altro farmaco poco sicuro non è stato somministrato, forse.» replica con una sfumatura di scetticismo di chi non si accontenta di un "meno peggio" solo perché non può avere il "meglio": «Ma per il resto la prima fase di questo "studio", se così lo vogliamo definire, era quella peggiore per l'organismo dei pazienti. Il dosaggio massiccio e quasi per nulla differenziato in base ai parametri del singolo hanno causato ben più di un tipo di squilibrio ormonale e di dipendenza. Senza considerare il danno psicologico. Lei è un beta, giusto?»

Talmente non si aspetta di essere interpellato che, quando l'uomo lo fa, Hajime deve sforzarsi per annuire: «Ha mai desiderato qualcosa di diverso? Di essere un alfa, per esempio.» lo incalza Evans.
«A dire il vero no.»
«Allora è molto fortunato.» replica l'americano «Tuttavia ogni paziente che si è affidato alla Cleyster è un omega a cui è stata promessa una vita diversa: niente più pregiudizi di una società dalla mentalità ancora troppo chiusa, niente permessi quando sono in calore, niente più ormoni a pilotare la loro vita. Molti li biasimano o non lo capiscono, ma è la fortuna dei privilegiati, se posso dire la mia.» si espone, forse per la prima volta. Hajime quasi lo preferisce all'uomo che finora gli ha parlato con la stessa inflessione emotiva con cui si potrebbe parlare di vini anziché di persone.

«L'unica cosa che hanno ottenuto, invece,» riprende mantenendo lo sguardo fuori dal finestrino «è di dover restare tutti chiusi dentro una clinica, senza sapere se e quando ne usciranno. O in quali condizioni.»

*

Quando sono ormai a meno di mezz'ora dalla clinica, gli torna in mente come uno di quei ricordi che si è convinti di aver dimenticato finché non si ripresentano con la stessa potenza di quelli più freschi. Tra mille giorni tutti uguali durante gli anni scolastici, Hajime si ricorda all'improvviso di quella volta in cui in classe stavano parlando durante la pausa pranzo - i test medici erano stati consegnati da tempo, ormai, e anche se nessuno lo sapeva Oikawa era già a conoscenza di cosa fosse. Nella loro classe una sola ragazza era risultata omega e lo aveva detto fin dall'inizio, senza nasconderlo in nessun modo.

Era raro avere commenti sgradevoli, ma ogni tanto capitava; Hajime aveva preso l'abitudine di troncarli sul nascere, che la loro compagna fosse presente o meno, e laddove tutti avevano preso a considerarlo un bravo ragazzo lui si sentiva un impostore, perché quando metteva a tacere quei commenti cretini era nel timore che da un momento all'altro Oikawa entrasse in classe e li sentisse, finendo per assimilarli come qualcosa che riguardava anche lui.

Hajime, però, era solo un adolescente come tutti. E solo ora, a distanza di più di dieci anni, si ritrova in una macchina fuori New York City, a pensare a quando Oikawa entrò nella stanza e sentì ridere qualcuno mentre diceva: «Se fossi un maschio e un omega morirei di vergogna!»

La cosa terribile è che Hajime si ricorda tutto - lo spintone dato all'idiota che aveva parlato, le esatte parole sbraitate per coprire troppo tardi quelle dette con tanta leggerezza, il vociare intorno a lui dopo la sua reazione, il vago senso di imbarazzo di chi realizza la stupidità e la cattiveria gratuita detta quando ormai non può più ritrattare.

Si ricorda tutto, tranne l'espressione di Oikawa in quel momento.

*

Evans lo guida fino alla sala d'attesa, poco oltre la reception all'ingresso. È una stanza piuttosto grande, illuminata praticamente a giorno da enormi finestre che occupano in fila quasi un'intera parete. Al posto di sterili sedie da ospedale ci sono poltroncine e divanetti, con bassi tavolini in legno tra due o più sedute; prima di congedarsi, Evans gli ha indicato dove trovare la caffetteria interna qualora volesse prendere un caffè nell'attesa, assicurandogli di chiamarlo non appena Oikawa avrà finito la seduta di non ha capito bene cosa. Sempre ammesso che quell'idiota accetti di incontrarlo oggi, così a sorpresa.

Per essere una clinica, Hajime ammette che ha visto di peggio. Dà molto più l'idea di una casa di cura di quelle che simulano l'ambiente accogliente di una casa qualsiasi con una famiglia qualunque, salvo poi essere quello che sono se ridotte ai minimi termini. Se non altro, non ci sono sbarre né nulla che faccia pensare a una prigione; a quello ci aveva già pensato il modo di esprimersi di Evans nel dirgli che non tutti i pazienti è detto riescano a essere dimessi. Questo, se accostato all'immagine di un Oikawa molto più giovane - come se lo ricorda lui per forza degli eventi, d'altronde -, gli causa un'agitazione sotto la pelle che Hajime non è sicuro di poter gestire.

Così come è convinto di non poter gestire un incontro amichevole con Oikawa quando sente chiamare da una voce femminile: «Signor Iwaizumi?» e si ritrova davanti una ragazza giovane, gli abiti a tradirne la mansione di infermiera. Lei gli comunica che Evans e Oikawa lo stanno aspettando nello studio del primo e lo accompagna fino a lì, bussa alla porta socchiusa e fa cenno a lui di entrare. Hajime è abbastanza certo di rivolgerle un sorriso storto in risposta a quello caloroso di lei, ma è già oltre la soglia quando quel pensiero raggiunge il cervello.

Lo studio di Evans è uno studio. Questo è il massimo della considerazione che riesce a dargli quando i suoi occhi inquadrano la figura di Tooru e qualcosa gli si spezza dentro - sollievo, preoccupazione, euforia, rabbia. Paura.

Oikawa sta seduto sulla sedia con le gambe accavallate, come se questa fosse un'intervista dell'ennesimo giornalista sportivo dopo un match di pallavolo dove lui ha fatto la differenza, e neanche avesse addosso un capo firmato e un'assistente di una troupe si fosse assicurata che i suoi capelli siano perfetti e che il trucco sul viso il più naturale possibile, pur mascherando qualsiasi eventuale imperfezione. Invece il Tooru davanti a lui indossa una tuta di quelle con cui si sta in casa quando non si aspettano visite; i capelli sono appena più lunghi di come Hajime se li ricorda, ma meno brillanti di quando quell'idiota se ne occupava quasi dovessero avere vita propria; il viso ha le ombre di un mancato sonno e di una salute tutt'altro che ottimale. Il sorriso che una volta Hajime avrebbe minacciato di prendere a pugni a vista è tirato, ombra di una maschera un tempo impossibile da distinguere dal vero Oikawa Tooru se non per pochi eletti.

Si gira a guardarlo e gli rivolge un incurvarsi di labbra così falso da tradire come lui non si impegni a nascondere un pensiero che risuona, come urla, nel silenzio della stanza: preferirei essere ovunque tranne dove sei anche tu.

«Si accomodi, signor Iwaizumi.» lo incalza Evans, sbloccando la situazione di stallo tra di loro. Con la stessa cautela che userebbe entrando nella gabbia di un animale selvaggio, Hajime si chiude la porta alle spalle e azzera la distanza fino a prendere posto sulla sedia accanto a quella di Tooru, entrambi di fronte a Evans comodamente seduto dietro la sua scrivania.

All'inizio Hajime si aspetta una qualche comunicazione, un input di qualsiasi genere da parte dell'americano. Quando questo non arriva, sposta lo sguardo su Oikawa che sembra del tutto a suo agio anche nel loro completo, imbarazzante silenzio.

«Non-» comincia ma, neanche Tooru stesse aspettando di sentire la sua voce, lo anticipa quasi bruscamente: «Non saresti dovuto venire, Iwa-chan.»

Incredibile come, a distanza di così tanto tempo e quando ormai si pensa una persona non possa più scatenare in nessuna maniera un'emozione, ci si ritrovi a incazzarsi come quando avevano entrambi sedici anni. Immediato, quasi Tooru avesse appena lanciato un fiammifero su una tanica piena di benzina. Hajime trattiene il respiro, stringe i pugni sui braccioli; vorrebbe farlo lontano da sguardi indiscreti, però scende subito a patti con il fatto che non sia possibile. Forse la cosa peggiore è vedere la totale assenza di reazione sul viso di Oikawa - lo sa, che il bastardo ha calcolato ogni singola parola di proposito. Altrimenti, considerato come siano entrambi oltre quella che per tutti e due è stata l'amicizia che pensavano sarebbe durata tutta la vita, non avrebbe avuto nessun motivo di chiamarlo Iwa-chan.

«Potevi non mettermi come numero di emergenza, allora.» ribatte secco, non riuscendo a impedire a se stesso una risposta istintiva. Spera che Evans non lo abbia invitato con la speranza di mettere un adulto responsabile di fianco a Oikawa Tooru, perché prima di quello Hajime ha tutta l'intenzione di fargli mangiare ogni singolo giorno in cui non si è nemmeno degnato si alzare il telefono per poi rifilargli questa sorpresa.

Invece sia lui che l'americano si ritrovano a guardare Oikawa scoppiare a ridere, il ritratto di un ragazzino spensierato a cui hanno appena fatto la battuta più divertente del mondo. Così si stende in parte sulla sedia, contro lo schienale, butta la testa indietro e si mette persino una mano all'altezza dello stomaco. C'è una millimetrica precisione in ogni suo gesto, la stessa di un attore navigato che ha imparato a memoria persino i movimenti da associare alle sue battute per una resa migliore di fronte al suo pubblico.

«Hai ragione, hai ragione!» dice, sventolando la mano libera in un blando e assolutamente non sentito gesto di scuse «Mi sono dimenticato, okay? Lo avrò registrato più di dieci anni fa! Sono quelle cose che fai quando tua mamma insiste per stare tranquilla, ma chi se lo ricordava! Se avessi saputo che volevano chiamare il numero registrato gli avrei detto che non era più lo stesso e avrei fatto chiamare direttamente a casa, insomma.» spiega, fin troppo allegro per uno che - a sentire le spiegazioni di Evans - dovrebbe essere alla stregua di un drogato in piena crisi di rigetto e senza alcuna certezza di riuscire a essere riabilitato.

Hajime non sa se gli faccia più rabbia o più paura, vedere che a dispetto della prontezza delle sue battute, non sembra esserci la lucidità di una volta nello sguardo di Oikawa.

«Ora però tutto risolto, giusto? Niente più malintesi!» quasi trilla con quella voce fastidiosa che nella testa di Hajime sarà sempre di un Tooru che, guardando quello seduto al suo fianco adesso, non sa se tornerà mai: «Puoi tornare a casa e alla tua vita, Iwa-chan. Sono sicuro tu abbia di meglio da fare che perdere tempo qui, no?» lo sente aggiungere e lo vede di nuovo, quel sorriso.

Si alza prima ancora di accorgersene, registrando con un istante di ritardo il grattare delle gambe della sedia contro il pavimento in parquet. Tooru lo segue con lo sguardo, senza scomporsi minimamente - e forse anche Evans sta osservando, alla ricerca di cosa di preciso Hajime non ne ha idea.

«Come se uno sparito per dieci anni sapesse un cazzo, della mia vita.» gli sputa in faccia, prima di uscire dallo studio.

*

A dispetto del primo istinto di Hajime di andarsene e lasciare l'idiota a cui è stato dietro fin dall'infanzia, è ancora lì la sera quando Evans gli propone una sistemazione momentanea in clinica per evitare l'inutile avanti e indietro dall’hotel. Ed è ancora lì quando, la mattina dopo, nella caffetteria interna trova molti più visi di quanti abbia visto il giorno precedente. La maggior parte di loro, nota mentre una tazza di caffè americano cerca di affogare ogni sua discutibile scelta di vita, non sono nemmeno vestiti in un modo che ricordi vagamente i pazienti di una clinica.

Deve aspettare un'ora e l'incontro concordato con Evans, stavolta da solo, per scoprire che è perché una parte di loro in effetti non lo è. L'americano lo guida in un corridoio su cui si affacciano non solo il suo studio, ma molti altri: porte in legno ognuna recante una targhetta metallica con il nome di un diverso medico… o almeno Hajime immagina siano tutti dottori. Prima di fermarsi e considerando entrambi i lati, Hajime ne conta sei.

Quella alla quale Evans bussa, reca la scritta "Wayne". Il suo studio non è così diverso da quello in cui l'ha accolto l'uomo il giorno prima: una scrivania sulla parte sinistra, dietro la quale Hajime riconosce qualche titolo sugli ampi scaffali di libreria come qualcosa di medico, comode sedie di fronte. Il lato destro è tutto dedicato a un divano a due posti, un tavolinetto basso e un paio di poltroncine. La parete di fronte alla porta è per buona parte impegnata da finestre che illuminano a giorno la stanza. Qua e là qualche pianta cerca, con molta probabilità, di dare un approccio meno serio alla stanza. Dietro la scrivania è una donna ad accoglierlo con uno sguardo breve, prima di tornare a scrivere qualcosa di veloce sul primo di una pila di fogli sistemata davanti a lei, come chi non vuole perdere il filo di quello che stava appuntando. Solo un paio di secondi dopo poggia la penna e dedica loro tutta la sua attenzione.

«Il signor Iwaizumi, suppongo.» pronuncia, il tono cordiale mentre gli occhi azzurri lo scrutano senza tante cerimonie. Hajime annuisce, vedendola spostare lo sguardo su Evans: «Grazie, Raymond.» lo congeda con un piccolo sorriso, mentre l'altro si limita a un annuire accennato prima di chiudere la porta alle spalle di Hajime. Quasi nello stesso momento, la dottoressa gli fa segno di accomodarsi verso le poltroncine, così lui devia appena sulla destra e vi si sistema. Lei lo raggiunge in una manciata di passi, ma senza sedersi subito.

«Caffè?»
«No, grazie.» replica «Ho già bevuto una tazza nella caffetteria.» confessa, vedendo solo ora la parte di stanza nascosta dalla porta aperta in precedenza - un lungo mobile con sopra diversi oggetti tra cui una classica macchina per il caffè veloce. La brocca è già mezza piena e la dottoressa si limita a versarsene una generosa quantità nella tazza prima di raggiungerlo e prendere posto sulla poltroncina libera. Hajime sospetta non sia molto più grande di lui, anche se i capelli scuri legati in uno chignon la fanno sembrare forse più austera e, di riflesso, con qualche anno in più sulle spalle. La mano libera aggiusta il camice perché non tiri, ma non sembra preoccuparsi di lasciar vedere il completo scuro ma non troppo formale che indossa sotto.

«Io sono Marian Wayne,» si presenta, allungando la mano verso di lui «sono una degli psicologi di questa clinica. Tra i vari pazienti di cui mi occupo, c'è anche Tooru.» spiega, usando il nome senza troppe cerimonie. Hajime immagina, mentre le stringe la mano, che se lei e Oikawa parlano debbano essere arrivati a un punto in cui le formalità sono venute meno.

«Ho saputo da Evans che ieri il vostro primo approccio non è andato benissimo.»
«La sorprende?»
«Francamente no.» replica lei senza mezzi termini, né un sorriso a far pensare che voglia essere simpatica. Questo lascia intendere a Iwaizumi che è solo brutalmente schietta: «Tooru non è il tipo felice di ricevere aiuto quando non lo chiede.» aggiunge, prendendosi un sorso di caffè. Hajime la osserva, cercando di carpire non sa nemmeno lui cosa - magari il motivo per cui è stato chiamato a dodici ore di volo da casa sua se nessuno si aspetta possa fare qualcosa.

La dottoressa sembra intuirlo, o magari è solo un dubbio lecito che avrebbe chiunque: «Raymond le ha detto a grandi linee il problema per cui i pazienti arrivano qui, ma immagino non ci sia stato il tempo né di dirle tutto nel dettaglio, né di spiegarle i metodi nello specifico o di fare riferimento a chi sta qui in clinica pur non essendo un paziente.» prosegue lei, neanche Hajime avesse ogni singola domanda scritta in faccia. Si limita ad annuire, per adesso, rimpiangendo di non aver accettato altro caffè con cui tenersi occupato mentre se ne sta lì a farsi riempire da quelle che minacciano essere una sequela di informazioni infinite e complicate.

«Trattiamo i pazienti sotto l'aspetto fisico in due modi.» riprende lei «Il primo è disintossicandoli. Non ci girerò intorno, signor Iwaizumi: nessuno di loro al momento può gestire un periodo in calore fuori di qui. Ognuno aveva raggiunto un grado di cura con il farmaco sperimentale diverso ed è inutile dire che più a lungo sono stati sotto somministrazione, peggiore è la situazione adesso. Ce la fa a sentirmi andare nel dettaglio?» domanda, occhieggiandolo. È un medico strano, la donna davanti a lui: il tono con cui parla è conciliante, ma non sta indorando la pillola in alcun modo. È una psicologa, o così ha compreso Hajime, eppure sembra del tutto priva di tatto ed empatia. Anche chiedergli se senta di poter gestire quel carico di informazioni ora suona più una prassi che una sua reale preoccupazione.

Annuisce comunque, perché cos'altro potrebbe fare?

Lei sembra piuttosto colpita da qualcosa, ma di cosa si tratti lui non ne ha la minima idea.

«Il farmaco in questione prometteva di rendere gli omega dei beta. Alla base, la differenza tra questi due generi è solo una: andare o meno in calore, poter o meno concepire un bambino. Il farmaco, quindi, aveva uno scopo principale, ossia azzerare gli ormoni così da far venire meno una serie di caratteristiche peculiari. Ovviamente, non potendo certo far sparire gli organi interni che permettono la gestazione anche agli omega uomini, l'unica cosa su cui era concretamente possibile agire erano gli ormoni. Ora» continua, adocchiandolo di tanto in tanto, forse per rendersi conto se la stia seguendo o meno «gli inibitori ormonali sono soggetti ad attenta prescrizione per un motivo. Bombardare un corpo con un mix di tutti quelli sul mercato potrà anche portare il paziente a non andare più in calore a lungo andare, ma di certo non lo mantiene in salute. Non si finisce in modo così diverso da qualcuno che per tanto tempo assume una droga. Solo che la dipendenza non è data dall'assumerla o meno in sé, in questo caso, ma dalla reazione quando il periodo di calore torna.» continua, prendendosi un altro sorso di caffè, seppure breve.

Hajime si sente già la testa scoppiare e sospetta che il discorso non sia nemmeno lontanamente vicino alla fine. La dottoressa Wayne, di suo, non sembra avere fretta di arrivarci: «Quando un omega che ha seguito un simile trattamento va di nuovo in calore, quello è il momento di crisi più grande. A volte è fisica, e cercano gli inibitori come si cercherebbe l'eroina.» elenca lei «Altre si rendono conto di non avere più controllo sul loro corpo, che gli ormoni adesso sono di nuovo liberi di alterare le loro percezioni, peggio di quando la natura di omega si affaccia per la prima volta. E poiché qui ogni medico, infermiere e inserviente è un beta e di certo non può avere rapporti sessuali con un proprio paziente, soffrono come un contraccolpo dello stesso periodo di calore che in condizioni normali era difficile ma non ingestibile. In casi estremi, sfociano nella depressione e nell'istinto di autodistruggersi non riconoscendo più il corpo che pensavano di aver cambiato.» conclude con crudezza, eppure solo ora a Iwaizumi sembra di sentire una sfumatura più morbida nella sua voce. Come se nemmeno lei riuscisse a mantenere l'asettica professionalità di fronte a questo - Hajime si chiede se abbia visto pazienti non superare affatto quelle crisi. Quanti ne abbia visti.

Non è sicuro se il silenzio in cui la donna si chiude sia per dargli tempo o per decifrare quanto sia ancora in grado di sopportare. Hajime si accorge solo in un secondo momento di come la propria mano stia stringendo così tanto il bracciolo della poltroncina ma tenere in tensione tutto il braccio.

«...Tooru dov'è? Intendo, in quale fase è?» domanda, sentendosi la bocca secca. La dottoressa non sospira rassegnata, il che è un buon segno immagina.

«Tooru è come ogni persona che sperava di cambiare la parte di sé che odia, quindi disperato. Per sua fortuna, è anche troppo orgoglioso per distruggersi al cento per cento, il che ci dà margine per lavorare, ma...» la vede fermarsi, aggrottare appena le sopracciglia: «ma i percorsi psicologici sono complessi, signor Iwaizumi. Per questo permettiamo ai compagni dei pazienti, quando li hanno, di soggiornare qui per affiancarli nel percorso di riabilitazione.»

Hajime non fa in tempo a sospirare di sollievo, nel sentire che almeno la situazione non è irrecuperabile, che qualcosa nelle parole della donna stride. I compagni. Ah.

«Io e Oikawa non siamo compagni.» corregge il malinteso. Lo sguardo che la donna gli rifila non sembra quello di una persona convinta di quanto appena sentito, ma immagina sia tipico di uno psicologo non negare né affermare qualcosa al cento per cento prima che il paziente lo faccia per primo. Tralasciando come Hajime non sia affatto un paziente.

«Però è il suo numero di emergenza.»
«Perché si è dimenticato di cambiarlo, apparentemente.» commenta seccato e, per la prima volta da quando è entrato, la sente sbuffare l'accenno di una risata. Quando riporta lo sguardo su di lei, la dottoressa Wayne sta accavallando di nuovo le gambe e ha le labbra incurvate in un sorriso. Quello di chi ha appena visto un bambino con la faccia sporca di cioccolato negare di averne presa un po' di nascosto dal barattolo.

«Se c'è qualcosa che nelle mie sessioni con Tooru ho capito con molta facilità, signor Iwaizumi, è che le persone come lui non dimenticano una cosa del genere. E sa perché?» gli domanda, aspettando con pazienza di vedere Hajime scuotere la testa.

«Perché quelli come Tooru le persone o le cancellano del tutto, o non le cancellano mai.»

*

«Quindi Oikawa è in ospedale.» pronuncia la voce di Hanamaki al telefono, ma Hajime può tranquillamente vedere sia lui che Matsukawa nello schermo dello smartphone grazie alla videochiamata: «In America— beh questo comunque è la cosa che mi sorprende di meno.» ammette in aggiunta, mentre l'espressione di Matsukawa rimane indecifrabile anche quando si accoda all'altro domandando «Non ti hanno detto i dettagli?»

«Non molti.» Hajime detesta mentire, specie a loro due. Tanto quanto lui sono stati preoccupati dalla sparizione di quell'imbecille di Tooru e Hajime sospetta che Matsukawa, più di tutti, si sia incolpato della cosa per parecchio tempo essendo l'unico alfa del loro gruppo del liceo. Nonostante questo, Hajime è anche abbastanza sicuro che essere lui a dirgli del farmaco o il perché Oikawa si sia affidato a una cosa sottobanco, non sia la scelta più giusta. Hanamaki e Matsukawa meritano entrambi che sia Tooru a dirglielo e, per quanto le mani di Hajime prudano ancora al pensiero, non farebbe mai davvero il torto al suo... amico d'infanzia, se così può definirlo dopo così tanti anni.

Difficile capire se gli altri due ci credano, ma è grato del loro non indagare oltre. Oltre il proprio telefono, invece, inquadra la stessa infermiera che ieri lo ha guidato verso lo studio della dottoressa Wayne; lei gli fa un cenno e lui annuisce.

«Devo andare, comincia l'orario di visita.»
«Aggiornaci, okay?» rimbrotta Hanamaki, chiudendo la chiamata solo dopo l'annuire di Hajime. Si alza, a quel punto, mettendo il telefono nella tasca posteriore dei jeans e raggiungendo l'infermiera.

Orario di visita è un modo carino per evitare di dire vado a fare un'imboscata a quel coglione di Oikawa convinto di andare a fare la sua ora di terapia. Non ne è stato molto convinto quando la dottoressa lo ha proposto - un passo che dovrebbe portare a presenziare alle sedute con lei e, se e quando Tooru glielo permetterà, sostenerlo durante la riabilitazione fisica - ma andarsene non gli sembra una soluzione alternativa migliore.

Capisce quanto pessima sia l'idea quando, un quarto d'ora dopo, Tooru apre la porta dello studio della dottoressa e posa lo sguardo prima su di lei, poi su di lui; Hajime si stupisce di non vederlo girare i tacchi e andarsene, a essere onesto, ma non gli sfugge come si lasci scivolare sul divano accanto a lui spazientito o come incroci le braccia al petto, sbuffando neanche avesse cinque anni.

Segue le indicazioni della dottoressa, rimanendo silenzioso spettatore per buona parte dei primi dieci minuti di una seduta inaspettata - immagina che, di fronte alla testardaggine di Tooru nel fingere di essere lì per un incontro e non per parlare con lui, la donna si stia limitano a fare il suo. Durante quel lasso di tempo una serie di domande di rito su condizioni odierne rispetto al loro ultimo incontro gli dicono tutto e nulla, non avendo idea di cosa si possano essere raccontati in precedenza. Tooru risponde con la saccenza di chi ci tiene, a far notare quanto sia offeso dalle condizioni in cui è costretto a portare avanti l'incontro; la dottoressa Wayne, invece, sembra adattarsi a lui con professionalità e naturalezza. Lo stuzzica in alcuni momenti, gli parla conciliante in altri, attende pazientemente in silenzio quando Tooru sembra non essere intenzionato a rispondere.

«Signor Iwaizumi,» lo richiama a tradimento «posso avere la sua collaborazione?» domanda, osservandolo. Preso alla sprovvista annuisce prima di rendersene conto, ma non ha tempo di ritrattare prima che arrivi una vera e propria domanda: «Mi dica, com'era Tooru a scuola?»

Hajime non è mai andato da uno psicologo in vita sua, se si esclude una singola chiacchierata fatta con uno esterno venuto il giorno dei risultati del primo test sul loro secondo genere e quello, qualche anno dopo, presente al test definitivo. Non ha idea di come dovrebbe rispondere: sincero? Più pacato per evitare reazioni inaspettate in Oikawa? Esiste, poi, una risposta giusta che metta d'accordo tutti?

«Non serve pensarci così tanto.» lo incalza lei, ma non in modo brusco «Basta anche solo il primo aggettivo che le viene in mente.»

Insopportabile. Sbruffone. Arrogante. Con più dedizione verso la pallavolo di chiunque altro. Una forza della natura. Piagnucolone. Forte. Fragile.

«Testardo.»
«Ah!» esclama subito Oikawa, stringendosi ancora di più nelle spalle «Non sono io a essere rimasto in una clinica dove non ho nulla da fare.» commenta, occhieggiandolo quasi per sfidarlo a ribattere.

«Perché di queste cose ne parlano gli adulti, i bambini non hanno voce in capitolo.»
«Iwa-chan sei insopportabile anche da vecchio!»
«Almeno il mio cervello è cresciuto!»
«Il tuo—»
«Per quanto questo scambio sia quasi affascinante,» comincia la dottoressa e non sembra per nulla ironica «non credo sia un dialogo funzionale. Tooru, perché pensi che non dovrebbe restare?» domanda a bruciapelo, del tutto in contrasto con la voce pacata e l'espressione imperturbabile che offre.

Lui sposta lo sguardo su Oikawa nello stesso momento in cui Tooru lo devia sulla dottoressa. Lo vede osservarla come se dovesse trovare la soluzione prima di cadere inesorabilmente nella trappola e sciogliere appena l'intreccio delle braccia contro il petto, rilassando le spalle. Quando apre bocca, l'espressione è stanca, seria e rassegnata insieme.

«Perché non ne ho bisogno.»
«Del suo aiuto o che veda la tua situazione?» lo incalza la donna, facendolo irrigidire di nuovo. Agli occhi di Hajime è come un tira e molla che non crede Oikawa possa in alcun modo vincere e per uno abituato a non perdere, non deve essere la situazione ideale per aprirsi. O forse la dottoressa ha capito prima di altri che la chiave di lettura di Oikawa Tooru non è certo lasciarlo crogiolare nella convinzione di farcela sempre e comunque.

Inaspettatamente, Tooru si gira a guardare lui, però; quando gli sorride con la stessa arroganza dell'adolescenza ma senza che quel sorriso raggiunga gli occhi, Hajime sa che non può in alcun modo essere un buon segno: «Lo so cosa ti hanno detto.» comincia «Di quanto sia difficile quando vado in calore. Invece non lo è così tanto. Certo, l'ideale sarebbe avere un alfa ma cosa credi, in una clinica piena di omega pensi non si faccia niente oltre ad aspettare un partner che non arriverebbe comunque? Facciamo tra noi.» butta lì quasi fosse una questione di poco conto, qualcosa da cui non potrebbe mai essere nemmeno sfiorato.

«Perciò la vita qui non è la prigione che ti avranno raccontato. I dottori la fanno così tragica! Invece, davvero, non c'è bisogno tu rimanga anche perché... voglio dire. Iwa-chan, tu sei solo un beta. Sei in assoluto quello che potrebbe aiutarmi di meno con il sesso! Quindi—»
«Quindi ti sta bene l'idea di restare per sempre in clinica con tutti gli altri, come dei drogati, senza mai essere riabilitato?» lo interrompe bruscamente, cercandone con insistenza lo sguardo «E gli altri omega cosa ne pensano? Tutti qui dentro a raccontarvi cosa, di essere in vacanza? A fare un sesso che non sono nemmeno sicuro ti ricorderesti comunque?»

Lo schiaffo che gli arriva gli fa girare la testa leggermente di lato, ma non gli impedisce di vedere Tooru uscire come una furia dallo studio. Quando prova a occhieggiare la dottoressa Wayne, per capire se sia il peggior risultato possibile, lei posa la cartelletta con una calma quasi irreale e alzandosi dalla poltroncina si limita a dirgli: «Caffè?»

*

Il giorno dopo è Evans a suggerirgli di approfittare del weekend per svagarsi, offrendosi di indirizzarlo verso i registri di uscita e le opzioni di spostamento a disposizione di chi, essendo ospite come lui lì alla clinica, può ovviamente andare a New York City se vuole e tornare in giornata per dormire lì dove hanno una propria stanza a disposizione. Hajime si fa spiegare l'iter, ma passa buona parte del venerdì e del sabato a vagare per gli spazi comuni della clinica, oltre che per l'ampio giardino.

Vede Oikawa una sola volta, senza essere notato. A osservarlo da lontano, seduto su una panchina con un ragazzo di qualche anno più giovane a ridere rilassato, sembra più di vedere due amici al parco, non due pazienti.

Hajime non ci dà più peso del necessario finché quello stesso ragazzo non lo approccia in caffetteria, con un amichevole: «Aspetti Tooru? Posso sedermi?» che lo sorprende più che altro perché arriva in un perfetto giapponese. Alza lo sguardo su di lui, trovandolo tutto sorridente; gli fa cenno di sedersi, vedendolo poggiare sul tavolo un piatto con un paio di sandwich al formaggio. Hajime non deve aspettare poi molto per sapere con chi sta parlando, data la naturalezza con cui il ragazzo pronuncia un «Sei Iwaizumi-san, giusto? Hinata Shouyo!» e, a dispetto del giapponese utilizzato, è comunque una stretta di mano che gli offre d'istinto. Tradisce il fatto che, probabilmente, è in America da abbastanza perché gli venga più naturale di un classico inchino. Hajime spera che quella lunga permanenza su suolo straniero non sia stata tutta in clinica.

«Tooru mi ha parlato di te!» riprende subito lui, senza dargli il tempo di decidere come approcciarlo «Cioè, siccome anche io giocavo a pallavolo ne abbiamo parlato e poi mi ha descritto un po' la sua squadra al liceo e mi ha detto di te.» chiarisce, con una parlantina invidiabile e un'energia che Hajime definirebbe caotica in modo ben diverso dal Tooru dei suoi ricordi adolescenziali. Hinata, comunque, non sembra preoccupato dal suo silenzio stordito, considerato come continui a parlare senza problemi: «Poi ieri era arrabbiato e quando sta così girato meglio se lo lascio stare qualche ora. O tutto il giorno.» si corregge con il sorrisetto furbo di chi ha già provato a fare diversamente e ha capito sulla propria pelle quale sia, invece, la strategia migliore. È strano, per Hajime, perché da una parte riconosce l'amico d'infanzia di cui è stato l'ombra per anni ma, allo stesso tempo, è come ascoltare di un gap a cui non ha assistito e che non pensa potrà recuperare mai davvero. Specie se non riescono a dialogare.

«Quindi giocavi a pallavolo.» decide di approcciare l'argomento più semplice, ritrovandosi a guardare l'espressione di Hinata mutare in un broncio infantile: «Non stai per dirmi che sono troppo basso, vero?»

Hajime lo guarda, confuso per una manciata di secondi e poi ride. Di norma sarebbe molto scortese, lo sa, ma qualcosa nel ragazzo di fronte a lui rende difficile pensare al modo giusto di interagire con uno sconosciuto. D'altronde è già surreale pensare di essere in una clinica a non sa nemmeno quante miglia di distanza da casa, dopo aver preso un volo all'improvviso solo perché contattato e venuto a conoscenza che Tooru fosse in ospedale. Cosa importa se non segue l'etichetta, per una volta.

«Non ci stavo pensando, davvero.»
«Oh, ecco. Altrimenti avrei dovuto— oh, Tsumu-san!» Hinata si sporge appena di lato, iniziando a sbracciarsi in un saluto verso qualcuno alle sue spalle. Ci vuole poco perché nel campo visivo di Iwaizumi rientri un uomo alto, biondo e dall'aria di un classico attore americano. Peccato che chiunque abbia seguito un po' di pallavolo professionistica, come ha fatto lui, conosca Miya Atsumu. Un alzatore dalla tecnica e dall'estro incredibili, oltre che con l'abitudine di giocate azzardate a cui molti del suo stesso ruolo nemmeno penserebbero. Per diverso tempo Hajime ne ha seguito ogni partita universitaria, oltre che post laurea quando Miya ha prevedibilmente continuato come giocatore professionista. Un vero peccato si sia poi ritirato quando—

«Oh.» si fa scappare mentre Miya Atsumu si piega in avanti, circonda le spalle di Hinata in un mezzo abbraccio e gli lascia un bacio sulla tempia come se Hajime non fosse neanche lì. O come se, più scontato, all'ex giocatore non interessasse tanto quanto dimostrare affetto al ragazzo seduto. Hinata ridacchia divertito, la mano a dare un paio di colpetti leggeri sul braccio altrui; Hajime distoglie lo sguardo, sentendosi in dovere di lasciargli la loro privacy nonostante non sia colpa sua se non ne hanno di partenza.

«Tsumu-san, Tsumu-san» Hinata lo richiama come se fosse un bambino in cerca dell'attenzione dell'adulto di turno «guarda! È Iwaizumi-san, Tooru ne ha parlato un sacco di volte!» sposta l'attenzione proprio su Hajime che, a quel punto, non può fare altro se non tornare a guardarli entrambi. Miya non sembra particolarmente convinto - o forse solo molto poco interessato - ma occhieggia comunque Hajime come se dovesse vagliare la possibilità di essere infastidito. Gli basta questo per capire di avere un alfa davanti, oltre al fatto che è diventato di dominio pubblico quando Miya ha sfondato nella prima squadra giapponese, e questo lo confonde rispetto alle parole di Tooru durante la seduta con Wayne.

Miya si limita infine a un cenno del capo; sembrerebbe tutto d'un pezzo e il campione a cui Hajime è abituato dalle interviste in tv se non perdesse di credibilità nel momento in cui si lamenta come un ragazzino di dover andare per lavorare. In effetti, il trasferimento in America che ha tanto fatto scalpore quasi un anno fa...

È quando se ne va, non senza un altro bacio - stavolta sulle labbra - e una serie di smancerie che Hajime preferisce non guardare che Hinata ride.

«Tutto bene, Iwaizumi-san?» lo prende un po' in giro e Hajime sospira, non volendo nemmeno immaginare come debba essere avere Hinata e Oikawa entrambi di buon umore e nella stessa stanza. Gli viene mal di testa solo a pensarci: «Sì, sì, tutto bene...» si limita a commentare lui con un gesto veloce della mano. Hinata invece addenta finalmente uno dei suoi sandwich, lasciandoli nel silenzio finché non è proprio Hajime a romperlo chiedendo nel modo più discreto possibile: «Credevo gli alfa non potessero entrare.» che fa alzare lo sguardo a Hinata. L'espressione confusa che gli vede assumere è già una risposta quasi sufficiente.

«In che senso?»
«Così ha lasciato intendere Oikawa alla seduta con la dottoressa Wayne.» pronuncia Hajime con una vaga alzata di spalle, non potendo né volendo scendere nel dettaglio di cosa l'altro abbia detto in quella che dovrebbe essere una seduta privata. Per quanto lui sia stato ammesso a presenziare dalla psicologa e benché sia quasi certo Tooru gli abbia rifilato una bugia.

«Mmmh» mugugna Hinata, grattandosi il naso mentre ci pensa su: «beh, non entrano al piano delle camere.» decreta infine «Ma certo che entrano. Seguono i compagni durante le sedute dagli psicologi, oppure alcuni dei test fisici. E quando ci sono le crisi, per un omega che ha formato un legame... come potrebbe senza alfa? Non si farebbe comunque toccare da nessuno.» osserva infine con uno sbuffetto leggero. Non è che Hajime non ci avesse pensato... ma l'irritazione alle parole e alle insinuazioni di Oikawa è stata talmente forte da averlo reso irrazionale. A rifletterci bene era una bugia così ovvia che quasi si vergogna ad aver perso la pazienza in meno di un minuto. Se fosse solo affonderebbe la faccia nel cuscino e ci urlerebbe dentro.

Riporta lo sguardo su Hinata solo quando vede il suo indice entrare nel proprio campo visivo, mentre picchietta sul tavolo dove lui può vederlo così da attirarne l'attenzione. Quello che Iwaizumi si ritrova a vedere è un sorrisetto divertito: «Tooru non ti ha parlato di me, giusto?» lo incalza e Hajime evita di dirgli che Tooru non gli parla, punto. Non lo ha fatto per dieci anni, improbabile lo faccia dopo dieci minuti dall'essersi rivisti. Hinata sembra intuirlo senza bisogno che lui lo dica ad alta voce e questo rende molto più semplice la loro conversazione.

«In pratica ci ha fatti conoscere Wayne-sensei.» comincia a raccontare «Perché sono un recessivo.»

Hajime ne ha sentito parlare, per lo più quando erano a scuola e le lezioni di educazione sessuale sul secondo genere li menzionavano brevemente, ma sa anche quanto sia incredibilmente raro che la condizione si presenti. Così raro da rendere molto difficile sentir dire a qualcuno di aver incontrato una persona con quel gene - uno che ha portato una persona da un secondo genere assodato e ottenuto come risposta ai test standard a uno completamente diverso, in età avanzata. Il ragazzo seduto di fronte a lui, per quanto ne sa dai pochi articoli sull'argomento che ha avuto modo di leggere in passato, potrebbe aver vissuto come un beta fino all'anno scorso ed essere ora in una clinica come omega.

«Sono l'unico qui non per il medicinale ma perché, insomma, è un casino quando non ti sei abituato a tutte quelle cose a cui adesso devi fare attenzione.» ammette con uno sbuffo leggero. Eppure è proprio quella leggerezza a sembrare strana agli occhi di Hajime, chiedendosi cosa mai possa essere uscito fuori dalla prima seduta in cui la dottoressa Wayne ha presentato Hinata e Oikawa. Quanto si può ottenere dal mettere a confronto un ragazzo che dovrebbe essere molto più turbato dal ritrovarsi omega all'improvviso, ma sembra invece averla già superata, con uno che è stato omega per tutta la sua vita e altrettanto a lungo ha cercato un modo per smettere di esserlo?

Se si parlasse dell'Oikawa che conosce, Hajime non esiterebbe a dire che deve essere stata catastrofica: se al Tooru dei suoi ricordi avessero messo davanti qualcuno che aveva ottenuto, senza apparente sforzo né turbamento, qualcosa che lui desiderava fortemente e che non riusciva ad avere nemmeno con tutto l'impegno del mondo, Oikawa l'avrebbe detestato con tutto il cuore. Non ci avrebbe di certo fatto conversazione su una panchina in giardino.

«Mi sorprende abbastanza siate diventati amici.» commenta, deciso ad alzarsi per recuperare qualcosa da mangiare o, forse, solo per sottrarsi a una conversazione che comincia a credere non dovrebbe avere. In un posto in cui, a dire il vero, non sarebbe dovuto venire.

«Beh, a me non tanto in realtà.» ammette Hinata, sorprendendolo di nuovo in poco tempo. Quando lo guarda, Hajime lo vede scrollare le spalle: «Tooru una volta mi ha chiesto: non maledici mai quello che sei adesso? Credo sia una cosa molto triste da dire. E ho capito che forse possiamo essere amici proprio perché agli occhi di Tooru io ho perso quello che lui voleva e mi sono ritrovato con quello che ha sempre avuto. Non sono granché con i ragionamenti complicati eh, ma magari se sono io a dirgli che si può sopravvivere pure a questo, ci crede di più. Magari Wayne-sensei ha pensato di vedere se riuscivo a farglielo capire.» conclude Hinata, per poi dare un morso al suo sandwich.

Hajime, mentre lo guarda esterrefatto, avverte un pensiero intrusivo disturbarlo con un brivido inaspettato lungo la schiena - Tooru vuole che qualcuno lo salvi o vuole che qualcuno lo condanni?

*

Non saprebbe dire di preciso se ci arrivi per un filo di pensieri così intricato da farlo finire anni indietro ma, come un fulmine a ciel sereno, Hajime si ricorda dell'unica volta in cui ha toccato, guardato e trattato Oikawa non come si fa con un amico. In modo così diverso da come aveva sempre fatto dall'infanzia da venirne stordito.

Da quando gli aveva rivelato del proprio secondo genere, Hajime non si era mai dovuto preoccupare che Oikawa prendesse le sue medicine. Semmai, si era sempre dovuto assicurare che non esagerasse, pur essendosi reso complice del fatto che l'altro ne prendesse più di quanto prescritto. Mai delle quantità allarmanti, ma Hajime preferiva comunque tenerlo d'occhio. Se il mondo avesse dovuto scommettere sul secondo genere di Oikawa, non una sola persona avrebbe scelto qualcosa di diverso da "alfa". E mentre lo guardavano vincere ed essere la colonna portante di una squadra, tutti vedevano anche lui - Hajime, un beta - e gli associavano la figura dell'ago della bilancia immaginaria che manteneva l'equilibrio di Tooru.

Finché non era andato in calore. Finché lo spogliatoio, per fortuna ormai del tutto svuotato tranne che per loro, non si era riempito dell'odore dei ferormoni di Tooru al punto da averli non solo resi percepibili anche per Hajime, ma avergli fatto pensare per la prima volta quanto pericoloso sarebbe stato se al suo posto ci fosse stato Matsukawa. Se, in quel momento, fosse passato qualcuno.

Oikawa si era accasciato contro gli armadietti, facendo un rumore metallico all'urto del proprio corpo contro lo sportello, e aveva digrignato i denti e soffiato fuori un «Cazzo.» che Hajime non aveva saputo dire se fosse più sofferto, arrabbiato o eccitato. Eppure all'inizio aveva pensato di poterlo comunque gestire, perché si era preparato per questo da quando Tooru aveva pianto dicendogli di essere un omega - Hajime aveva studiato, aveva fatto qualche ricerca quando aveva potuto, sbirciato tomi medici troppo costosi e che non avrebbe comunque capito nella loro interezza nella biblioteca della città. Si era tenuto pronto, nascondendo un inibitore nella borsa anche se a lui in quanto beta non serviva. Aveva creduto sarebbe stato sufficiente e invece Oikawa si era mosso verso di lui e gli aveva afferrato un braccio, lo aveva tirato fino alle docce, lo aveva spinto dentro uno stallo.

Hajime aveva battuto la testa contro le mattonelle e aveva imprecato a mezza bocca, alzando lo sguardo verso Oikawa per dirgli «Che cazzo fai» e invece se lo era ritrovato vicino, troppo per come l'altro lo aveva abituato durante i periodi in cui andava in calore: pochissimo contatto, per lo più messaggi. Ogni tanto accettava che Hajime andasse a casa sua, salisse le scale e gli parlasse da dietro la porta. Ma erano occasioni rare. Di certo Oikawa non lo aveva mai voluto più vicino di quanto un muro tra loro gli permettesse; eppure, in quel momento, non c'era neanche un metro a dividerli.

«Ho un inibitore nella cartella.» aveva soffiato, non osando parlare più forte «No, anzi, possiamo andare all'infermeria e—»
«Dove vuoi che vada... così.» aveva sentito mormorare a Tooru mentre la sua mano prendeva quella di Hajime in un gesto poco amichevole e di certo per nulla romantico, la guidava verso un'eccitazione evidente sotto i pantaloncini d'allenamento. Aveva sentito Oikawa farsi sfuggire un mugolio di piacere e l'aveva poi visto mordersi a sangue l'interno della guancia, per punirsi.

Hajime vorrebbe poter dire di aver avuto la lucidità di spingerlo via per tutto il tempo in cui l'istinto aveva guidato Oikawa a cercare di avere da lui il sesso che Hajime non avrebbe mai sopportato dargli in quel modo, sapendo quanto Oikawa si sarebbe sentito male una volta passato il calore, senza più l'istinto e il bisogno ad avere la meglio sul suo cervello. La verità però è che alla fine lo aveva toccato - solo toccato -, l'aveva fatto venire come Oikawa aveva fatto con lui, la mano sul suo membro e i tocchi impacciati di chi era spezzato a metà tra un desiderio irrazionale e il volere che finisse prima possibile.

Tooru non glielo aveva mai rinfacciato. Semplicemente avevano entrambi raggiunto l'orgasmo, Oikawa si era accasciato sfibrato di ogni forza e Hajime aveva se non altro avuto il tempo di recuperare l'inibitore e portarglielo, aspettare che facesse effetto e poi sciacquarsi velocemente e aspettare che l'altro facesse lo stesso. Senza offrirsi di aiutarlo, consapevole più di chiunque quanto qualcosa che molti adolescenti facevano, a prescindere dal loro secondo genere, avesse sbriciolato un'altra parte dell'orgoglio di Oikawa e quanto avere un aiuto da Hajime avrebbe fatto il resto.

Così aveva aspettato nello spogliatoio. Per un'ora, prima di sentire l'acqua della doccia iniziare a scorrere e quasi due per vedere finalmente Oikawa ricomparire vestito con la divisa scolastica e un sorriso tirato sulle labbra. Gli aveva letto nello sguardo la muta preghiera di fingere che non fosse mai successo. E lui l'aveva accontentato.

Ripensandoci ora, mentre sdraiato sul letto fissa il soffitto di una stanza sconosciuta in una clinica in cui tutti i pazienti restano chiusi perché fuori non riuscirebbero ad avere una vita normale, si chiede: cos'avrebbe dovuto fare? Cosa avrebbe potuto fare, di diverso?

Hajime non è mai stato la persona dei "forse" o dei "se", eppure se non avesse permesso a Oikawa di dissimulare, se lo avesse affrontato con più forza quando aveva preso il vizio di prendere "solo qualche pastiglia in più", se gli avesse detto che poteva essere non qualsiasi cosa desiderasse ma quantomeno felice a prescindere dal risultato di un test... forse, adesso, non sarebbe lì a chiedersi se lo vedrà uscire mai da quella clinica. Forse Tooru avrebbe fatto scelte diverse e ora non sarebbero lì, lontani da casa, a cercare dopo dieci anni di ritrovare l’uno nell’altro l’unica cosa familiare che ricordano.

Forse ci sarebbe meno senso di colpa a inchiodarlo su un letto. Forse Tooru sarebbe lì, a dargli una cuscinata per farlo alzare perché ha deciso di voler andare da qualche parte proprio adesso, ridendo in quel modo insopportabile che però è uno dei ricordi migliori che Hajime ha di lui.

*

È solo domenica sera che Hajime intravede Oikawa negli spazi comuni e non ci vuole molto a capire che l’idiota stia ancora facendo l’offeso. Quando incrociano gli sguardi, infatti, Tooru non si impegna neanche a far sembrare casuale il suo voltarsi dall’altra parte. Così Hajime decide di far finta di non essersene accorto, perché di litigare nell’area comune davanti ad altri pazienti non ne ha voglia.

Per tutta la giornata di lunedì, però, è strano non incrociarlo neanche una volta. All’inizio dà per scontato siano le visite di controllo o le sedute con la dottoressa Wayne - di cui non è messo al corrente, e gli sembra il minimo visto il tentativo piuttosto fallimentare dell’altro giorno. A insospettire Hajime è il notare come, ormai a ridosso dell’ora di cena, gli sembri di vedere molte meno persone nelle aree comuni. Non soltanto meno pazienti, ma anche meno ospiti come Hajime stesso. Persino Hinata non si è visto per tutto il giorno. È come se alcuni pazienti fossero stati dimessi - se non fosse che, Hajime lo sa, questo non è possibile. Per questo non gli resta che chiedere a Evans… se solo lo trovasse dove si aspetta che sia, cioè nel suo studio; invece, quando si presenta a bussare alla sua porta tutto ciò che Hajime ottiene è la gentilezza di un’infermiera di passaggio e il suo: «Mr. Evans è occupato con alcuni pazienti, le conviene provare domani mattina.»

Hajime non ha molta scelta.

*

«…Come ha detto, scusi?»

Evans è fermo in piedi davanti a una porta oltre la quale, fino a pochi minuti fa, Hajime non aveva idea di cosa ci fosse. Forse avrebbe preferito non scoprirlo.

Quando l’uomo gli ha proposto di parlare delle condizioni di Oikawa negli ultimi giorni camminando, Hajime non ha avuto motivo di dirgli di no. Specie quando ha capito che Evans stava andando verso un’area della clinica in cui Oikawa è stato spostato all’insaputa di Hajime: «È un trasferimento periodico che interessa tutti i pazienti, ognuno in giorni specifici.» gli ha detto Evans e, adesso, Hajime si rende conto di quanto ovvio fosse il sottotesto: quando vanno in calore.

«Questa è l’area in cui spostiamo i pazienti durante il periodo in cui sono più soggetti a crisi.» ripete Evans, con quel fare impersonale che Hajime non capisce se sia un modo per mantenere il distacco di cui ha bisogno per lavorare così a stretto contatto con loro o se sia proprio il suo carattere: «Ognuno ha una stanza assegnata temporaneamente. Gli unici autorizzati a entrare sono il personale medico e i partner designati. Il pass che le è stato fornito» dice, accennando al badge ora al collo di Hajime «apre una sola porta. Per evitare incidenti. Al momento ci sono quattro omega spostati qui, compreso il signor Oikawa.» spiega. Hajime fissa la porta che li divide dall’area in questione. Oltre di essa, di visibile, c’è solo un asettico corridoio bianco su cui si affacciano delle porte. Tutte chiuse. Ad Hajime sembra una prigione. 

«Io non sono un partner designato.» fa notare, tornando con lo sguardo su Evans; l’uomo lo osserva, quasi si aspettasse di trovare qualcosa che Hajime non è neppure certo di avere da offrire. Se la trovi o meno non saprebbe dirlo, sa soltanto che lo sente dire «Ma è l’unico che il signor Oikawa potrebbe accettare.» e gli si gela il sangue nelle vene. Cosa gli sta chiedendo, l’uomo di fronte a lui? Uno di quelli a conoscenza della situazione di Tooru meglio di chiunque altro al mondo, gli sta dicendo in modo neanche troppo sottile che, in mancanza di altri, meglio lui di nessuno.

Hajime sente la rabbia arrivare con violenza, improvvisa; gli monta dentro a una tale velocità, facendogli tremare le mani, da spaventarlo. Serra la mascella e, per un attimo, ha di nuovo sedici anni e la voglia di urlare in faccia agli idioti della loro classe che fanno commenti stupidi, senza nemmeno accorgersi di quanto feriscano Oikawa. 

«Non entrerò nella stanza di Oikawa mentre è in calore per fare qualcosa che odierebbe, approfittando di uno stato fisico che non lo rende nemmeno del tutto consensuale solo perché sono l’opzione meno peggio che avete qui.» mette in chiaro, quasi sfidandolo a imporgli una cosa del genere. Si accorge subito del cambio di espressione - vede lo sguardo di Evans farsi gelido e la schiena raddrizzarsi a mostrargli di non essere affatto intimorito. Le labbra tirate in una linea sottile lo fanno sembrare ancora più austero di quanto Hajime non lo abbia considerato fin da quando lo ha conosciuto. È solo una settimana, eppure si sente come se fosse lì da mesi.

«Voglio essere chiaro, signor Iwaizumi, dal momento che lei sembra aver frainteso qualcosa di molto importante. E lo sarò in modo brutale, perché il fatto che io sappia illustrarle le routine mediche non fa di me un dottore. Questo mi risparmia l’obbligo morale di trattare lei con i guanti di velluto.» sembra voler chiarire prima di arrivare al punto: «Tooru Oikawa è qui perché ha preferito drogarsi fino a distruggere il suo organismo anziché accettare quello che è e farne ciò che di meglio poteva farne. Non dico sia facile, non sminuisco il disagio o lo stato psicologico che il rifiuto gli ha causato. Questa società è indietro, in Giappone come in tutto il mondo. Ed è perché la società falliscono che gente come quelli della Cleyster possono fare qualcosa di così ignobile.» gli vomita addosso parole e Hajime vorrebbe già fermarlo quando dà a Oikawa del drogato. O ancora prima, quando non si è definito un dottore, perché era convinto che lo fosse. Eppure nel modo quasi impersonale con cui Evans parla c’è l’attestazione di una serie di fatti e nessun intento offensivo.

Oltre a una mano che viene alzata, frapposta tra loro per bloccare sul nascere la risposta di Hajime.

«Non addolcirò il concetto fingendo che Tooru Oikawa o qualunque altro paziente sia stato troppo stupido per capire in cosa si stesse cacciando. Disperati, incoscienti, ingenui forse, ma non stupidi. Hanno fatto una scelta sbagliata, lo sapevano e ora hanno tra le mani esattamente quello che avevano prima, ma con un corpo che gliela fa pagare con gli interessi. Qui dentro nessuno è un santo, ma ogni medico o infermiere ha fatto un giuramento. Lei è qui da una settimana. Mi sembra eccessivo insinuare che chi sta aiutando il suo amico, compagno o qualunque cosa sia le stia chiedendo - mi perdonerà il termine forte - di entrare in una stanza e scoparlo per il tempo necessario.»

Hajime lo fissa, scioccato per così tanti motivi da non sapere neanche da quale iniziare l’elenco; ora più che mai avverte una differenza culturale evidente, sebbene sia convinto che il carattere di Evans giochi un ruolo non indifferente nel suo modo di parlare. 

«Quello che le viene chiesto è di aiutarlo. Non interessa a nessuno in quale modo, finché è ovviamente nei limiti di legalità, regole della clinica e consenso di entrambi. Può capire da sé che qui somministrare medicinali che regolino la loro condizione non è possibile: sarebbe come offrire droga a un tossico. Lo è, in effetti.» rimarca Evans, spostandosi per aprire la porta così da lasciare libero Hajime di oltrepassarne la soglia e immettersi nel corridoio, se vuole. 

Evans sembra studiarlo per qualche attimo, senza parlare. 

«Può rimanere fuori e dirgli semplicemente che è lì. Può entrare, se il signor Oikawa glielo permette e se lei lo vuole, oppure rifiutarsi. Potrebbe anche venire cacciato via. Gli faccia sapere che lei è una possibilità tra queste. Lo faccia rendere conto di poter scegliere. Ne ha bisogno.» conclude Evans mostrando un raro momento di umanità. Di fronte a quello Hajime sente di non poter più sfogare al cento per cento quello che prova su di lui.

Alla fine cos’altro può fare, se non entrare e provare? Voltare le spalle una seconda volta non può essere un’opzione.

*

Dal momento in cui Hajime raggiunge la porta indicatagli da Evans, sente di attraversare due fasi: la prima è il silenzio. Non soltanto quello che riempie il corridoio, dando la falsa impressione sia disabitato. Da nessuna porta, comprese quelle delle stanze che immagina siano occupate dagli altri pazienti a cui ha accennato Evans, esce un solo suono. Hajime immagina siano insonorizzate o qualcosa del genere, per concedere più privacy possibile. Il silenzio, però, continua anche dopo aver detto a Tooru di essere lì fuori, utilizzando l’interfono come da istruzioni di Evans. Poiché l’uomo gli ha assicurato che sia perfettamente funzionante, Hajime ne deduce che sia Tooru a non volerne sapere.

La seconda fase inizia quando Hajime si è ormai convinto a rimanere lì fuori impalato come un povero stronzo. A sorpresa sente gracchiare l’interfono, un attimo prima che la voce di Oikawa gli dica, senza tante cerimonie: «Vattene.» e lui per tutta risposta gli risponda «No.» e poi «Se ti dà tanto fastidio, ignorami.» che non è maturo e non è quello che Evans voleva facesse, probabilmente. Però Hajime pensa anche di conoscere Tooru meglio di altri - non più “meglio di tutti”, forse - e anche se sono passati anni in cui è stato come non esistere l’uno per l’altro, è convinto che il Tooru della sua infanzia e della sua adolescenza non possano essere scomparsi del tutto.

O magari è solo Hajime a non essere pronto a lasciarli andare.

Sposta lo sguardo di lato e nota che la luce dell’interfotono è ancora accesa; nel completo silenzio gli sembra di sentire, a tratti, il respiro dell’altro provenire da lì.

«Tooru» lo chiama, piano, consapevole di essere sentito «fammi entrare.»
«Se mi vuoi aiutare vattene.»
«Tooru–»
«Non ti voglio qui.»
«Allora perché ero il tuo numero di emergenza?»

Lo sente restare in silenzio per una manciata di secondi e non sa se sia per esitazione nel rispondergli o se per cercare di ignorare il modo in cui - Hajime se lo ricorda - andare in calore gli rende il solo pensare un processo lento e complicato.

«Perché mi sono dimenticato di–»
«Cristo, Tooru.» lo interrompe senza riuscire a mascherare del tutto il tono brusco: «Basta con queste stronzate. Lo sappiamo tutti e due che non hai mai dimenticato una sola volta di cancellare il numero di qualcuno con cui non volevi più avere a che fare, o addirittura bloccarlo. Figurarsi se ti saresti dimenticato con un numero di emergenza

Dall'altra parte dell'interfono tutto tace. Riesce a sentire, a intermittenza, solo qualche respiro. Almeno non lo ha ancora mandato al diavolo, sembra positivo. Se non osa adesso, Hajime immagina non potrà farlo più.  

«Non devi per forza aprire e farmi entrare. Lo so che… probabilmente vuoi stare da solo come lo volevi dieci anni fa.» ammette, senza entrare nello specifico più di così, rischiando di tirare la corda fin troppo: «Ma non mi chiedere di voltarti le spalle. Non me ne sono mai andato. Non farmelo fare questa volta, Tooru.»

Hajime non ha mai scommesso nella vita, non sulle cose importanti, perché gli anni dell'adolescenza gli hanno insegnato che le probabilità di perdere sono molto alte. Per questo si stupisce quando la porta si apre e la mano di Oikawa lo afferra e lo tira all'interno. Non sa perché si è immaginato una stanza da clinica uscita da un film distopico, ma è in una normalissima - però il tempo di soffermarsi sui dettagli non lo ha. I feromoni di Tooru hanno impregnato la stanza così tanto che persino Hajime, nonostante la sua natura di beta, ne è frastornato per diversi secondi. Gli stessi che lo intontiscono abbastanza da permettere a Tooru di spingerlo contro la stessa porta da cui è entrato, con più irruenza di quanto potrebbe aspettarsi da chi anziché prenderlo a pugni... gli si attacca addosso, come se fossero due pezzi a incastro che devono assolutamente combaciare. 

Per un lungo momento, Hajime resta immobile senza sapere cosa fare perché, è innegabile, è una situazione di merda. Da una parte il suo cervello è fermo a Tooru, diciassette anni e il rifiuto per se stesso, a loro due dentro uno spogliatoio a masturbarsi a vicenda e al dopo, che a volte Hajime pensa sia stato l'inizio della fine. Dall'altra c'è sempre Tooru, adulto e che forse odia ancora se stesso, con le mani sulle sue braccia a stringere come se volesse contemporaneamente trattenerlo e cacciarlo via. C'è la sua eccitazione contro la gamba di Hajime e solo i boxer a fare da barriera tra loro, c'è la sua bocca sul suo collo prima che registri davvero la cosa e poi c'è caldo, caldo, caldo e le mani di Hajime vagano solo per un secondo– 

« No, no, no, no, no–»

È come un pugno nello stomaco. Gli causa un'ondata di nausea così forte e violenta che in un attimo Hajime afferra le braccia di Tooru come lui ha fatto con le sue e se lo stacca di dosso. Gli basta uno sguardo per notare l'inequivocabile traccia di un orgasmo, mentre Tooru si accascia verso il pavimento, mortificato. Per la prima volta da quando si conoscono, Hajime ha persino paura di toccarlo - paura che farlo possa spingere Tooru verso un baratro che finora ha, miracolosamente, soltanto sfiorato. Uno da cui teme che nessun numero di emergenza potrebbe tirarlo fuori. 

«Sarai contento, ora.» lo sente sibilare e per un momento pensa che ce l’abbia con se stesso; quando Tooru alza lo sguardo su di lui, però, Hajime sospetta ce l’abbia con entrambi. La mano che aveva mosso d’istinto un istante prima resta ora ferma, senza osare nemmeno sfiorarlo, e Oikawa la guarda come se fosse una pistola che sta per fargli saltare il cervello e, allo stesso tempo, tutto ciò che ha sempre desiderato. Hajime deglutisce, quando si guardano dritto negli occhi.

«Cosa posso–»
«Te ne devi andare!» esclama Tooru, spostandosi bruscamente per mettere distanza tra loro; gli trema la voce e Hajime non saprebbe dire se sia per la rabbia o per paura che il suo corpo lo tradisca di nuovo. Lui stesso sta stupidamente cercando di respirare meno, illudendosi che basti a dimenticarsi di cosa sia quella stanza. Delle condizioni di Tooru. Vorrebbe poterlo far dimenticare anche a lui. 

Lo sente sbuffare un falso accenno di risata e quando abbandona quei pensieri e focalizza l’attenzione su di lui, Hajime capisce subito che non riuscirà a offrire a Tooru nessuna delle opzioni elencate da Evans. Gli occhi di Oikawa non sono quelli di chi cerca un appiglio o un conforto; sono quelli di chi colpisce per non essere colpito e Hajime sa - se lo ricorda - che da questo non può uscire nulla di buono. 

«Hai avuto il tuo momento da eroe, giusto?» lo apostrofa Oikawa « Ti hanno chiamato e tu, dopo dieci anni di silenzio, sei arrivato fino in America. Perché sei sempre il solito Iwa-chan, vero? Il tuo senso del dovere, alla fine, vince su qualsiasi cosa.» pronuncia, senza neanche provare a smorzare quella nota di derisione - anzi, Hajime è sicuro che l'altro si stia assicurando sia ben udibile. Lo sa, cosa sta succedendo, ma saperlo non significa automaticamente poter mantenere la calma. Oikawa sa bene dove colpirlo per ferire, ma lo stesso è vero anche a parti invertite. Sono stati lontani per dieci anni, ma prima di allora hanno vissuto insieme per diciassette. 

«Beh» dice Oikawa, allargando le braccia in un gesto quasi stizzito «non me ne faccio niente del tuo senso del dovere. Né di una scopata occasionale per ripulirti la coscienza. Quindi puoi–» 

C'è stato un tempo, durante gli anni del liceo, in cui Hajime ricorda di aver dovuto scrivere una lettera di scuse. Non la causa scatenante del suo litigio con un senpai dell'ultimo anno, solo di aver perso la pazienza per una manciata di secondi. Si tratta di un ricordo frammentato: un attimo prima quel ragazzo più grande sta dicendo qualcosa, quello dopo Hajime ha il suo bavero stretto tra le dita e gli sta urlando in faccia. Sufficiente per un richiamo, non abbastanza per una sospensione, per fortuna. Nei ricordi di Hajime è estate, l'aula è vuota e caldissima; Tooru gli poggia sul banco una lattina di chissà cosa, forse di semplice tè e ridendo gli dice sei un cretino, Iwa-chan.

Hajime lo guarda, ora: la schiena contro il muro, la frangia che in alcuni punti gli si attacca alla fronte sudata; il petto che si alza e si abbassa in un respiro più affannoso; le braccia, attorno alle quali le mani di Hajime si sono strette d'istinto prima di spingerlo contro il muro, sono bollenti. Hajime lo sente tremare e sa che non è paura, ma una ipersensibilità dovuta all'essere in calore. Eppure nello sguardo di Oikawa sembra trovare solo astio - verso la sua presenza lì, ma anche verso se stesso. 

Si sente così frustrato al pensiero che Oikawa, probabilmente, non riuscirà mai a perdonarsi per ciò che è e per essere lui stesso - Hajime - impotente di fronte a questo. A demoralizzarlo, invece, è che Tooru abbia bisogno di provare a ferirlo insinuando sia tipo da voler solo provare a scopare un omega.

«Non lo pensi davvero.» sibila, obbligandolo a un contatto visivo «Non puoi pensare davvero che io voglia questo da te.»
«È da quando ci conosciamo che sei troppo codardo per dirmi cosa vuoi.»
«Aiutarti!» 
«NON PUOI.» alza la voce, come se bastasse a zittirlo. L'unica cosa che ottiene è di suonare disperato e Hajime sente tutta la forza scivolargli via dal corpo, allentando la presa sulle sue braccia. Oikawa abbassa lo sguardo, come se non guardarlo lo aiutasse almeno a respirare. Arrivati a questo punto Hajime comincia davvero a credere di non poter fare nulla per lui - Tooru, è ormai evidente, non vuole essere salvato. Vuole essere annientato.

Questa consapevolezza lo lascia senza opzioni, se non accompagnare d’istinto il suo scivolare lungo la parete fino a sedersi a terra. Una volta che Tooru è lì, sul pavimento, Hajime azzera ogni contatto lasciandolo andare. Non sa se possa peggiorare ancora di più una situazione che gli sembra irrecuperabile… ma se deve voltarsi e uscire da quella porta, tornare in Giappone, abbandonare per sempre chi è stato parte di tutta la sua vita anche durante dieci anni di silenzio… Hajime vuole sapere perché. 

Forse Tooru ha ragione. Forse vuole solo lavarsi la coscienza e potersi dire, in futuro, che non c'era davvero niente da fare.

«Perchè ti sei fatto questo?» 

È come lo scoppio di un esplosivo, assordante e violento, capace solo di distruggere. Oikawa, a terra, non alza nemmeno la testa e il silenzio resta tra loro così a lungo - pesante e ingombrante - da spingerlo quasi ad arrendersi e rinunciare anche a una spiegazione. Non si aspetta più nulla quando la voce di Tooru arriva, in un mormorio stanco. 

«Perché finché sarò questo» dice, con un disgusto che torce le viscere di Hajime «in qualsiasi momento dovrò preoccuparmi che compaia un alfa dal nulla, uno per cui proverò desiderio solo perché saremo chimicamente compatibili. E non lo sopporto.»

Hajime lo fissa, lì a terra come un re scivolato via dal suo trono, a confessargli qualcosa di cui Hajime ha avuto il sospetto negli anni dell'adolescenza ma mai la certezza. È qualcosa che non potrà mai capire appieno, perché a lui non succederà mai; allo stesso tempo, però, conosce Tooru, il suo carattere nel bene e nel male. Se lo ricorda, quanto ha sacrificato per non essere sottovalutato, per proteggere il proprio orgoglio di persona e di atleta. Di quante cose si sia privato, di quanto abbia lavorato il doppio di molti altri. Hajime, però, ha conosciuto anche il lato di Tooru capace di affezionarsi e dare tutto se stesso - consapevolmente, però, non per una reazione ormonale fuori dal suo controllo.

«Tooru…» lo chiama senza avere davvero un discorso da fargli o un consiglio da dare; l’altro però scuote la testa come se, a prescindere, niente che Hajime possa dire gli farebbe cambiare idea né gli sarebbe di alcun conforto. Hajime lo vede tremare, più un fremito in effetti, e l’odore dei suoi feromoni diventa così forte da stordirlo per qualche secondo. Fa uno, due, tre passi indietro perché non vuole non fidarsi di se stesso. Non hanno più diciassette anni, non sono nello spogliatoio della scuola e se succedesse qualcosa non basterebbe assecondare Tooru e fare finta di nulla. 

Sente un accenno di risata, poco più di uno sbuffo. Abbassa lo sguardo su Tooru, vedendolo alzare la testa, ritrovandosi un inaspettato contatto visivo: negli occhi di Tooru c’è desiderio, ma c’è anche qualcosa di miserabile nel modo in cui - ora Hajime lo sa - quel desiderio lo fa sentire. 

«Lo so, cosa pensi.» mormora Tooru «Che sono ancora il ragazzino di quindici anni che non accetta l’idea di un alfa dominante.» pronuncia quasi con disprezzo. Hajime lo vede tirarsi su, il respiro ancora veloce e gli occhi lucidi; involontariamente nota anche che è eccitato, di nuovo. Deglutisce, senza quasi rendersene conto, facendo uno sforzo di volontà nell’ignorare la cosa e fissarlo in viso. 

Diventa una pessima scelta quando Tooru lo guarda in un modo che non si è mai concesso - come se Hajime fosse l’unico al mondo.

«Se fossi tu, lo accetterei.» lo sente ammettere con un filo di voce, eppure Hajime non ha alcun dubbio sulla veridicità delle sue parole, per quanto siano un fulmine a ciel sereno e qualcosa a cui non ha mai davvero pensato. Ha visto Oikawa mentire spesso, pronunciare bugie che pesavano in modo molto diverso tra loro: quelle innocenti da bambino, quelle dovute all’orgoglio, quelle per proteggersi dalle persone. Sarebbe in grado di riconoscere le sue verità in qualsiasi momento ed è per questo che ora, con una sola frase, Tooru ha appena sconvolto ogni pensiero formulato negli ultimi dieci anni. Stordito, Hajime non può fare altro che guardarlo incredulo: se Tooru lo ha davvero sempre desiderato a quel modo, come sono arrivati a questo?

Hajime ispira e fa un passo verso di lui; tanto basta a rompere l’incantesimo: Tooru si volta di lato, senza più guardarlo. È poco più di un sussurro, il suo «No.» ma per Hajime è un ordine insindacabile.

Ora come ora, può solo rispettarlo e uscire da quella stanza.

*

Tooru ci rimane chiuso per altri tre giorni, in cui Hajime non torna mai alla sua porta perché farlo dopo quello che si sono detti sarebbe solo una crudeltà gratuita. Si prende invece quello stesso tempo per pensare, perché sarebbe troppo facile dirgli che è stato quello che molti - tutti più romantici di loro - definiscono il primo amore e pensare che questo metta a posto ogni cosa e li guidi magicamente l’uno tra le braccia dell’altro. Sarebbe facile, ma sarebbe utopico.

La verità è che hanno quasi trent’anni, si portano dietro silenzi, esperienze diverse, lontananza. Forse anche qualche segreto e la rabbia - malcelata, a volte, e mal riposta altre. Hajime vorrebbe che fosse semplice. Vorrebbe dire a Tooru che andrà bene, prova lo stesso, lo ha provato per anni e questo vincerà ogni avversità. Invece Tooru odia essere un omega, odia che questo possa portarlo a desiderare qualcuno di diverso contro la sua volontà. Odia il pensiero di avere Hajime e continuare a volerlo mentre ogni calore gli ricorda che per il suo corpo non conta nulla. 

Hajime vorrebbe avere una risposta. Ma è un beta e l’unica che può dare a cuor leggero è che può amarlo, può desiderarlo, può stare con lui come farebbe un alfa. Però senza esserlo davvero.

Tooru vuole un per sempre assoluto che lui non può dargli.

*

«No, stanno facendo degli esami di routine in questi giorni.» pronuncia sentendosi abbastanza in colpa nei confronti di Hanamaki e Matsukawa che, dall’altra parte sia del telefono che dell’oceano, sono sinceramente preoccupati per Oikawa. D’altronde l’unica alternativa è una verità che non è suo diritto rivelare: «Ma non penso rimarrò ancora molto. Credo la situazione sia quasi stabile.»

Stabile è una parola curiosa: alle orecchie di Hanamaki suona positiva; Hajime sa che significa soltanto che ormai è improbabile ci sia ancora qualcosa che lui possa fare per Tooru. Sta per aggiungere qualcosa in risposta alle parole dell’altro quando nota la dottoressa Wayne fargli cenno con la mano dal punto che collega uno degli spazi comuni al corridoio su cui si affacciano gli studi dei vari specialisti.

«Okay, uno dei medici sta uscendo. Vi faccio sapere, d’accordo?» promette, lasciando solo il tempo di un saluto prima di chiudere la chiamata e coprire la distanza tra sé e la dottoressa con poche falcate. Lei gli fa solo segno di seguirlo verso il suo studio, senza anticipare nulla. Hajime non sa se considerarlo un buon segno oppure no ma, per sua fortuna, la donna ha dimostrato già una volta di non essere incline ai giri di parole. Il tempo di accomodarsi nel suo studio, seduti uno davanti all’altra, e la dottoressa non esita a prendere parola.

«Voglio essere molto diretta, signor Iwaizumi.» inizia «Tooru non risponde alle terapie mediche.»

Per un istante a Hajime sembra come se gli avessero appena scavato un buco nello stomaco. Forse sbianca, o magari fa una faccia che convince persino la Wayne a elaborare. Fatto sta che la dottoressa si sporge appena sopra la scrivania e allunga una mano, picchiettando con l’indice contro il bordo di legno. È un gesto minimo, eppure riesce ad ancorare Hajime alla realtà e a fargli portare di nuovo lo sguardo su di lei.

«Quello che intendo,» riprende lei, appoggiandosi di nuovo allo schienale della sua sedia «è che psicologicamente Tooru è deciso a non darsi modo di uscire da questa clinica. Segue regolarmente la sua routine per quanto riguarda il resto, ma se nella sua testa è pronto a tornare a usare mezzi pericolosi per ottenere quello che vuole una volta uscito da qui… io non posso farlo dimettere.» spiega lei con chiarezza e pochi fronzoli, come ha fatto fin dalla prima volta. Hajime ha solo la forza di annuire ed è grato che a lei sembri bastare.

«Tecnicamente una persona adulta può essere dimessa contro il parere del medico. Tuttavia esistono test psicologici per i quali, di fronte a un soggetto con il forte desiderio di autodistruzione, confinamento volontario e tutta una serie di altri aspetti tecnici che le risparmio… è considerabile incapace di prendere decisioni per se stesso e per gli altri.»

Hajime crede che la pausa offerta dal silenzio della donna sia per dargli il tempo di assimilare tutte le implicazioni. Alla luce di ciò che Oikawa gli ha detto e gli ha mostrato. Una dottoressa, che lo ha seguito fino a oggi e che - così sospetta lui, ormai - potrebbe aver proposto a Evans di chiamarlo, gli sta dicendo che le soluzioni rimaste sono due e che quella corretta e più sicura nell’interesse di Tooru e dal punto di vista medico… è chiuderlo lì, potenzialmente per tutta la sua vita, e assecondare quello che desidera in modo malsano: scappare anche dalla più remota possibilità di dover essere quello che è.

Se esiste un momento “giusto” per lasciarsi sopraffare dal panico, Hajime pensa che sia esattamente questo: «Perché me lo dice?» domanda, sentendosi mortificato come se fosse un ragazzino convocato dal preside «Ho fatto quello che potevo e non basta. L’unica cosa che può aiutarlo… è fuori da ogni mia possibilità. Cosa volete che faccia, ancora?»

«Glielo sto dicendo» pronuncia la donna con un tono più morbido di quello a cui Hajime è stato abituato in questo breve tempo «perché lei possa decidere se parlare con Tooru prima di, eventualmente, tornare a casa.»

Hajime alza lo sguardo su di lei, sentendosi confuso e colto alla sprovvista - eppure, pensandoci a mente fredda… non è forse scontato? È partito alla cieca, rispondendo a una chiamata improvvisa e prendendo i giorni di permesso necessari grazie a quelli accumulati in anni… ma non è mai partito per restare a lungo.

«Dovrei… avvisare i suoi genitori?» chiede stupidamente e vede la dottoressa incurvare le labbra in un sorriso leggero: «Se Tooru dà il suo consenso. Al momento vorrei ancora lavorare con lui. Io, signor Iwaizumi, sono il tipo che non si arrende facilmente e meno che mai con i miei pazienti. Anche quando sembra una situazione impossibile.» lo rassicura. Hajime non sente che solo per questo andrà tutto bene, ma sapere che Tooru non è soltanto un numero su una cartella clinica è già qualcosa. 

*

Sono nella stanza di Tooru da dieci minuti e nel completo silenzio. Hajime ha dovuto forzare la mano in un modo che non avrebbe mai voluto sfruttare: ha bussato una, due, tre volte e, quando ha sentito un rumore dall’altra parte a tradire la presenza di Tooru nella stanza, gli ha detto a bruciapelo «Dopodomani parto per tornare in Giappone. Possiamo parlare un’ultima volta?»

È stato quasi meschino, da parte sua, ma Tooru ha aperto la porta, lo ha guardato e si è fatto da parte per permettergli di entrare. Hajime non ha mai pensato al dopo e ora sono lì, con un pesante silenzio tra loro. Come comunicavano, prima? Hajime pur facendo uno sforzo di memoria ha la sensazione che l’aspetto chiave di anni di amicizia gli sfuggirà per sempre. Una volta avrebbe saputo come porre una domanda evitando i nervi scoperti dell’altro - o punzecchiandoli volutamente quando necessario. Adesso è solo un campo minato dove, se qualcosa esplode, lo fa indipendentemente dalle sue intenzioni. Se il risultato comunque non cambia, forse è inutile cercare di limitare un danno che ci sarà a prescindere. 

«Perché vuoi restare chiuso qui dentro tanto da non farti aiutare?» gli chiede a bruciapelo, fissandolo. Lo nota sobbalzare appena ed è consapevole di aver fatto la domanda più scomoda di tutte. Alla fine, però, sono arrivati a un punto in cui le loro strade potrebbero non incrociarsi mai più e Hajime non pensa di meritare - né che lo meriti Tooru - di passare tutta la vita con una questione così grande in sospeso. Pensa che entrambi debbano avere la possibilità di dirsi addio, se è questo che deve succedere, dopo essersi dati tutte le risposte di cui hanno bisogno. O almeno più risposte possibile.

Hajime non vuole vivere tutta la sua vita con al proprio fianco il fantasma di Tooru. Lo ha già fatto per dieci anni.

«Non lo capiresti.» Tooru lo taglia fuori, prevedibilmente. Di nuovo.
«Perché non sono un omega.»
«Perché non sei un alfa.» ribatte Tooru, come un’accusa - verso Hajime, verso se stesso, verso la natura, il destino e chiunque altro possa incolpare per sentirsi meno miserabile. Hajime lo guarda e alla fine… sospira. In quel modo tra il rassegnato e l’esasperato di quando erano adolescenti. Vede Tooru alzare gli occhi tra il sorpreso e l’indignato, ma lo anticipa prima che possa dirgli qualsiasi cosa.

«Chiedimi che lavoro faccio.»
«…come, scusa?»
«Chiedimi che lavoro faccio.» insiste Hajime, incrociando le braccia al petto: «Non ci siamo visti per dieci anni, sarai curioso di cosa ho fatto finora. E anche se non lo sei sforzati, perché sono giorni che parliamo di te e visto che non vuoi rispondere alle mie domande, allora fanne tu e a me.» insiste, limitandosi poi a guardarlo in attesa. Tooru sembra frastornato e impiega un po’ ad aprire bocca; quando lo fa, comincia pronunciando un «Senti, Iwa-chan, non sono–»

«Il preparatore atletico.» lo interrompe come se nulla fosse, come se Tooru gli avesse fatto esattamente quella domanda: «L’ideale è restare più a lungo possibile a seguire lo stesso team, è chiaro. Ma le proposte non mi mancano e il mercato sportivo cambia ogni stagione.» gli spiega, neanche fossero in un locale a recuperare il tempo perduto dopo essersi dati appuntamento per una rimpatriata. Legge sul viso di Tooru, dalla sua espressione, che non ha idea di dove quel discorso stia andando a parare.

«Sceglie me.»
«Tu non sei–»
«Un alfa, ho capito.» lo anticipa spazientito «E non vuoi uscire da qui, stare con me, costruirti una vita perché un giorno, forse potrebbe apparire un alfa che potrebbe far impazzire i tuoi ormoni. Il tuo partner predestinato. Giusto?» lo incalza, forse in modo un po’ brusco che nessuno psicologo approverebbe mai. Hajime, però, non è uno psicologo. Lui è solo un amico d’infanzia. Un potenziale partner. E se non sarà lui a scommettere, Tooru non lo farà di certo; ha solo un tipo di via d’uscita da offrirgli e poi starà all’altro decidere se per lui è sufficiente.

«Quindi» riprende «il problema non è niente sul genere di “eri la mia cotta infantile ma ora non lo sei più”, corretto? Né l’attrazione fisica. Solo la questione alfa o no?»
«Come sarebbe a dire solo?! Sei veramente uno stronzo–»
«Ma il punto» lo interrompe di nuovo, alzando la voce e avvicinandosi di un paio di passi «è che non cambierebbe nulla se io fossi un alfa. Se il tuo partner predestinato arrivasse, lo sentiresti comunque. Il tuo corpo reagirebbe, andresti nel panico. Non cambierebbe niente rispetto a ora! Certo, magari se ti marchiassi ti sentiresti più sicuro, ma poi? Quel tipo di legame ti basterebbe? Ne sei certo al cento per cento?»

«NO» sbotta Tooru e, per un istante, Hajime si sente orribile nel vederlo cadere a pezzi davanti ai suoi occhi. È consapevole di quanto lo stia spingendo verso un limite pericoloso, un confine oltre il quale cadere è tragicamente semplice. 

«Non ti posso promettere niente di quello che vorresti, Tooru.» riprende più piano, si avvicina, prova a sfiorare la sua mano - Tooru, è prevedibile, si ritrae di scatto e non glielo permette: «Tranne di portarti via. Se questo fantomatico alfa dovesse arrivare.»

Per un momento, Hajime ha di nuovo davanti il Tooru dell’infanzia - piagnucolone, innocente, incapace di nascondere la meraviglia del proprio sguardo di fronte all’inaspettato. Lo guarda come se Hajime gli avesse offerto il tesoro più grande al mondo e, allo stesso tempo, si stesse forzando a non credere a quella che deve suonare alle sue orecchie come la più grande delle bugie. Lo vede sorridere, di scherno, verso Hajime ma anche verso se stesso per averci creduto anche solo un istante. 

«E cosa vorresti fare, scappare appena lo incontro?»
«L’idea è quella.» confessa Hajime con un’alzata di spalle: «Hai paura che il tuo essere un omega reagisca al suo essere alfa. Questo succede solo quando si è fisicamente vicini, o saresti un radar su gambe. Per lo stesso principio ti stai chiudendo qui dentro. Se devi comunque scappare, perché non farlo fuori?»

Non sa se sia perché lo ha convinto o se sia troppo sbalordito da una proposta che non si aspettava, ma a Hajime sembra di vedere la tensione abbandonare almeno in parte le spalle di Tooru. Lo osserva aggrottare la fronte, confuso, picchiettare con le dita contro la gamba, come prima di ogni partita o durante un momento complicato del match, perché lo aiutava a trovare lucidità e a pensare. Nel riconoscere quei piccoli gesti, Hajime si chiede come possa non aver notato i campanelli d’allarme che forse gli avrebbero permesso di capire prima le intenzioni di Tooru. Sa che pensarci ora è inutile, ma immagina che quella punta di senso di colpa non se ne andrà mai. Eppure, quando prova di nuovo ad allungare la mano verso la sua… Tooru non si allontana, non lo rifiuta. Sobbalza in modo quasi impercettibile, sì, ma Hajime riesce a toccarlo finalmente, a intrecciare almeno in parte le dita con le sue. 

«…Questa cosa non ha senso. Potrei incontrarlo in qualsiasi momento.»
«O mai.»
«Cosa facciamo se succede durante la stagione sportiva, quando non puoi andartene e trasferirti da un’altra parte?»
«Esistono le ferie, Tooru. Come credi sia venuto qui in America senza preavviso?» gli fa notare, riuscendo finalmente a rivolgergli un sorriso per la prima volta da quando si sono rivisti. Tooru sbircia in sua direzione, poco convinto, poi abbassa lo sguardo sulla  mano di Hajime che tiene la sua.
«Se non funziona–»
«Funzionerà.» lo interrompe, più bruscamente di quanto vorrebbe. Gli stringe la mano, solo un po’, perché se non lo fa teme di vederselo scivolare tra le dita come sabbia. È difficile convincerlo, Hajime lo capisce: Tooru ha passato troppo tempo credendo che l’unica soluzione fosse quella più distruttiva. Hajime non è uno psicologo, ma non serve esserlo per capire che non sono sufficienti strette di mano, rassicurazioni a voce e promesse di fuga per cambiare una mente che cerca di sabotarsi da dieci anni. Questo, però, è tutto ciò che può fare: tenere le dita di Tooru intrecciate alle proprie, accostarsi lentamente fino a posargli un bacio goffo sulla fronte e sentirlo sussultare piano, rimanendo in silenzio.

*

«Almeno stavolta non ci hai chiamati già dall’aeroporto!» esclama la voce di Hanamaki, il tono divertito ma anche quello di una frecciatina. Hajime sorride, mentre sta poggiato con la schiena contro la parete, conscio di doverglielo concedere. Sente la voce di Matsukawa dire qualcosa in sottofondo che non coglie e, pochi secondi dopo, è proprio lui a dire «Sei sicuro di voler fare una cena con noi quando tornate?» chiede Matsukawa e Hajime sa che la vera domanda è sei sicuro di voler mettere così presto Tooru nella stessa stanza con un alfa?

Sa che Matsukawa non può vederlo - e, in effetti, avrebbe potuto semplicemente videochiamarli -, ma Hajime si lascia scappare un sorriso. Quei due, più di chiunque altro, hanno vissuto con lui la sparizione di Tooru. Da adulto, si rende conto che forse Matsukawa ha compreso da solo e prima di molti altri la natura omega di Tooru. Forse già dagli anni del liceo. Sapere della necessità di Tooru di essere ricoverato, nonostante Hajime non abbia mai menzionato come ci sia finito, deve in qualche modo aver pesato più su Matsukawa che su Hanamaki.

«Sono sicuro.» gli dice, occhieggiando verso il corridoio dove sa esserci anche l’ufficio della dottoressa Wayne. Non si stupisce né di vederla comparire con Tooru al seguito, né del suo notarlo e rivolgergli un cenno e un sorrisetto. A Hajime sembra quasi di sentirle dire “visto?”.

«Vedo la dottoressa, meglio se vado.»
«Sì. Scrivete quando partite e atterrate.» dice Matsukawa, mentre la voce di Hanamaki gli urla dietro, da chissà dove, un «Mattsun sembri mia madre!» che fa ridere Hajime di cuore, togliendogli di dosso un po’ di tensione.
«Matsukawa?»
«Mh?»
«Non è colpa di nessuno. Tooru ha bisogno di amici, non di un capro espiatorio.» gli dice e lo sente solo sbuffare dall’altra parte del telefono, riuscendo a figurarselo come se lo avesse davanti, con quel mezzo sorriso con cui lo ha conosciuto adolescente. Chiude la chiamata, Hajime, dopo un saluto breve e si muove verso la dottoressa; a vederli così, da dove si trova, già intuisce che la donna deve aver passato gli ultimi dieci minuti a rifilare al suo paziente più problematico una serie di raccomandazioni - Tooru ha l’aria esasperata, la stessa che Hajime gli vedeva in viso quando andava a prenderlo a scuola e sua madre non la smetteva più di ricordargli tutte le cose che potenzialmente poteva aver dimenticato, con l’affetto di chi non ha occhi che per suo figlio dal giorno in cui è nato. 

La dottoressa, quando ormai Hajime è così vicino da distinguere parola per parola cosa si stanno dicendo, punta gli occhi su di lui e incurva le labbra in un sorriso: «Hajime» pronuncia quel nome che lui le ha permesso di usare dopo il primo anno di saltuari incontri basati sul percorso psicologico di Tooru «ho delle raccomandazioni anche per te.» pronuncia, con un sottinteso divertimento nella voce. Specie quando Tooru alza gli occhi al cielo, assume l’aria di chi non può credere a quello che sente, e se ne esce con un: «Ancora?!»

Hajime sospira, ma è ben contento di ascoltarle una per una. Se ne ha da fare è solo perché Tooru, finalmente, può uscire da quella clinica.

*

Tooru se ne sta fermo lì, sulla soglia di un luogo che lo ha ospitato tra le sue mura per più di due anni, se si conta anche il periodo prima che Hajime venisse contattato da Evans. Sono bloccati nello stesso punto da quasi cinque minuti di orologio, neanche ci fosse una forza invisibile a fare da muro tra loro adesso che Hajime è uscito e Tooru è, a tutti gli effetti, ancora dentro. 

In parte Hajime lo capisce, perché ne hanno parlato diverse volte quando le sedute insieme hanno cominciato ad andare in una certa direzione e quando Tooru, nelle sue sessioni da solo, gli raccontava poi di star facendo progressi. Di starne facendo davvero. Per lui quella soglia è molto più di una linea da oltrepassare per uscire - è riprendere la sua vita, è scendere a patti con quello che è, accettarlo e affidarsi a qualcuno che gli ha promesso di fare tutto ciò che può anche se non è il massimo assoluto. Tooru è spaventato da morire, Hajime lo vede in tutte le piccole microespressioni del suo viso: nel modo in cui aggrotta appena le sopracciglia, in come stringe appena i pugni lungo i fianchi e poi li riapre subito dopo, nel suo mordersi l’interno della guancia che è qualcosa di infinitesimale a cui Hajime ha cominciato a badare non sa bene nemmeno lui quando. 

«Cosa facciamo» comincia a parlare quando Hajime sta iniziando ad arrendersi ad aspettare almeno altri cinque minuti lì, fermo e immobile in attesa «se appena tornati in Giappone incrocio per caso qualche alfa e il mio corpo reagisce anche se non dovrebbe?»
«Ho gli inibitori nella borsa, ci allontaniamo verso i bagni e aspettiamo che passi.»
«Andrò in calore regolarmente.»
«Lo so.»
«E dovrai esserci tu.»
«Lo so.»
«Non sarà come… voglio dire, potrebbe non finire presto perché–»
«Lo so, Tooru. Ne abbiamo parlato in un sacco di sedute.»
«Ma dovrai fare sesso con me sul serio, se succede!»
«Non penso proprio che sarà un grande sacrificio.» gli fa presente Hajime, occhieggiandolo come se non ci volesse credere di dover dire una cosa del genere a chiare lettere a un uomo di trent’anni come lui. Eppure quell’insicurezza di chi ha tra le mani qualcosa a cui aveva rinunciato, abbandonandosi alla disperazione di una prigione di medici, gli fa tenerezza. Pensare che Tooru lo desideri ancora come lo ha sempre desiderato quando erano ragazzi, senza dirselo, concedendosi solo i goffi tocchi con la scusa di un calore arrivato a tradimento per non ammettere di volere qualcosa non da un alfa, ma da un beta - da una persona - gli scatena l’irrefrenabile istinto di abbracciarlo e dirgli che andrà bene. Molto, molto meglio di com’è andata negli ultimi dieci anni.

«Iwa-chan» Tooru lo chiama in un soffio, sbircia in sua direzione e allunga una mano, titubante «cosa facciamo se è diverso da come lo hai immaginato?»

Hajime lo guarda, sospira lentamente e gli prende la mano. Intreccia le dita con le sue e non lo tira, non lo forza a compiere quel passo. Lo aspetta, come a dire sono qui, quando sei pronto perché trovare le parole giuste non è facile; forse perché non ce ne sono e basta.

«L’ho immaginato con te.» gli dice soltanto, perché è l’unica verità che può condividere senza doverla abbellire in qualche modo che non è nemmeno da lui: «Non ci sono aspettative che puoi deludere.»

Non pensa che Tooru gli creda del tutto, dal sorrisetto che gli fa. Eppure gli stringe finalmente la mano e oltrepassa la soglia, uscendo con lui. 

   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Haikyu!! / Vai alla pagina dell'autore: Shichan