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Autore: Soul of Paper    05/06/2023    5 recensioni
[Imma Tataranni - Sostituto procuratore]
Lo aveva baciato e gli aveva ordinato di dimenticarselo. Ma non poteva certo pretendere dagli altri ciò che non riusciva nemmeno a fare lei stessa. Imma Tataranni - Imma x Calogiuri
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nessun Alibi


Capitolo 80 - La Vocazione


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


Il lieve rumore di russare le ricordò un poco le fusa di Ottavia e le strappò un sorriso intenerito: Calogiuri stava dormendo in una posizione assurda, mezzo seduto, mezzo sdraiato, nella stanza privata che avevano assegnato loro. Uno dei pochi vantaggi di essere sotto scorta.

 

Avrebbe dovuto svegliarlo per spedirlo a letto, invece che stare appollaiato sulla sedia, ma sentire il calore del suo fiato sul lenzuolo, che le soffiava sulla mano, le dava un senso di pace al quale non voleva rinunciare ancora, dopo tutto quello che era successo.

 

Per fortuna Francesco lo stavano tenendo la Santa Maria, Irene e Ranieri, pregando che non li facesse dannare. Ottavia stava con Rosa.

 

Non aveva ancora visto nessuno, a parte Calogiù, ma sperava di poter incontrare presto almeno Valentina. Doveva solo riuscire ad addormentarsi per fare arrivare veloce la mattina, ma ogni volta che provava a chiudere gli occhi aveva la sensazione di cadere e si svegliava di colpo.

 

Rassegnata, recuperò il cellulare e cominciò a scorrere le notizie, per vedere se fosse uscito qualcosa su quanto successo in tribunale.

 

Era pieno di articoli, con titoloni non solo sulla sentenza ma anche sul suo breve sequestro. Per fortuna, però, non sembravano essere usciti dettagli intimi e sensibili. C'erano foto di lei avvolta nella toga, sotto braccio a Calogiuri, e la definivano "La fiera e coraggiosa PM", "Un'eroina contemporanea", "La salvatrice di Matera", "La guerriera di Matera", c'era persino un articolo in cui la paragonavano alla dea della giustizia. E non erano manco prese per il culo, no, erano seri.

 

Lei ed Irene venivano osannate quasi unanimemente: dopo quello che aveva combinato Romaniello, i giornalisti non avevano potuto fare altro che unirsi in una ferma condanna e commentare positivamente la sentenza. Come cambiava veloce il vento in Italia, se pensava a cosa scrivevano di lei fino a ventiquattro ore prima.

 

Eugenio Romaniello doveva star desiderando ardentemente di ammazzare il fratello. E chissà, forse lo avrebbe fatto fare davvero. Si domandò cosa avrebbe provato in tal caso, ma si rispose che non era più un suo problema. Quello che doveva fare l'aveva fatto, era giunto il momento di andare avanti e non permettere più ai Romaniello di condizionarle la vita, anche se non sarebbe stato facile.

 

Scacciando l'immagine mentale del ghigno di Romaniello, aprì l'ennesimo articolo, intenzionata a scorrerlo velocemente, ma si trovò a leggerlo con inaspettata attenzione: era scritto molto bene, con un sacco di dettagli sul processo, sui sospettati ed anche una descrizione accurata ma rispettosa del momento del sequestro.

 

Secondo fonti autorevoli, grazie al sangue freddo della dottoressa Tataranni e del capitano Calogiuri... 

 

Al leggerlo capitano le venne un piccolo colpetto allo stomaco, e non era la piccoletta. Si voltò e gli sfiorò teneramente la guancia: era sempre così bello e innocente quando dormiva.

 

…la situazione si è potuta risolvere rapidamente. Purtroppo la guardia predisposta a sorvegliare Romaniello ha perso la vita. La dottoressa Ferrari ha già garantito un'indagine interna e che ci sarà un nuovo processo a Romaniello, per questi ulteriori capi d'imputazione. Rimane tuttavia improbabile che Saverio Romaniello possa riavere un giorno la libertà e credo di esprimere un sentimento comune nell'augurarmi che episodi come quello di oggi non abbiano a ripetersi.

 

Le sarebbe quasi sicuramente toccato rivederlo al processo e l'idea di ritrovarsi con lui in tribunale le causò un piccolo conato, mentre la piccoletta tirava un calcetto come per dire lasciami dormire.

 

E teneva ragione, teneva.

 

Per distrarsi, controllò per curiosità di chi fosse l'articolo.

 

Frazer.

 

E bravo!

 

Di solito non l'avrebbe fatto, ma voleva dare a Cesare quello che era di Cesare e doveva in qualche modo far passare il tempo.

 

Quindi selezionò il profilo social di Frazer - che il numero era sparito col vecchio telefono - e gli scrisse dal profilo che non usava mai.

 

Bell'articolo, complimenti. Non ci si abitui però!

 

Inviò, convinta che lo avrebbe letto il giorno dopo - forse avrebbe potuto cogliere l'occasione per capire come stesse procedendo la situazione e che notizie fossero circolate - quando le arrivò la notifica di risposta.

 

Come sta? Ho saputo che è in ospedale, spero nulla di grave.

 

Le pigliò un colpo.

 

Quanti lo sanno? Sta già girando la notizia?

 

No, stia tranquilla. L'ho saputo solo io, credo, e sto cercando di tenere la notizia riservata. Capisco perfettamente la delicatezza del momento. Non è una cosa che i lettori sono tenuti a sapere e al massimo verrà fuori con il nuovo processo a Romaniello, o se se la sentirà di parlarne in futuro. Ma sta bene?

 

Insomma… ma si guarda avanti. Ma come l'ha saputo che sono in ospedale?

 

Se leggerà le notizie nei prossimi giorni, potrebbe trovare una sorpresa. Spero che le piacerà e non deve preoccuparsi: nulla di negativo, anzi!

 

Stava per rispondergli che, quando uno le diceva di non preoccuparsi, era perché l'aveva già fregata tre volte, quando il "a chi scrivi a quest'ora?" di Calogiuri la fece sobbalzare, ed eccalà un altro calcetto.

 

"Scusa, non volevo farti agitare…"

 

Trovò i suoi occhi nella penombra e notò che era preoccupato ma anche… un poco geloso?

 

Le sfuggì un sorrisetto.

 

"Con un uomo bello, alto, moro, ben piazzato e con tanti capelli. Quasi come i tuoi…"

 

L'espressione di Calogiuri era tutta un programma e le venne da ridere, pentendosene subito, visto quanto dolevano i muscoli.

 

"Non dirmi che sei geloso pure con me conciata così! E comunque era Frazer. Ha scritto un bell'articolo, molto preciso, gli ho fatto i complimenti e… si vede che soffre di insonnia pure lui."

 

Calogiuri tornò dalla gelosia alla preoccupazione, ma c'era qualcosa di strano.

 

"Che c'è, Calogiù?"

 

"Niente, niente."

 

"Non raccontarmi storie, che mi fai preoccupare e non mi devo agitare. Che c'è?"

 

Lo vide sospirare e fare la faccia di quando non sapeva come darle una notizia che non le sarebbe piaciuta.

 

"Allora?"

 

"Adesso che ci penso… Frazer era seduto accanto a Valentina al processo. E poi l'ha aiutata a raggiungermi, quando si è scatenato il panico."

 

Altro che nausea! Altro che non agitarsi!

 

"Devo sentire Valentì. Mo!" proclamò, sbloccando lo schermo, ma Calogiuri le bloccò il polso.

 

"Se la chiami ora le fai prendere un colpo. Può aspettare fino a domani, no? Tanto verrà a trovarti e ne parlerete di persona."

 

"Ma magari le ha carpito delle informazioni e…"

 

"E finora non è uscito niente. E comunque Valentina non è stupida: di sicuro non va a raccontare cose al primo che passa."

 

"Speriamo…" sospirò, prendendo un respiro per calmarsi e facendo scorrere il polso in modo da afferrargli la mano, "sei sempre più saggio, Calogiuri."

 

"Faccio quello che posso per starti dietro, dottoressa."

 

"Non che mi dispiaccia quando mi stai dietro, ma ora che ne diresti di starmi un poco a fianco?" chiese, facendo segno al pezzetto di letto vuoto.

 

"Lo so che lo abbiamo già fatto ma… e se ti tocco per sbaglio la pancia nel sonno?"

 

"Sei così delicato che in ogni caso non c'è problema, Calogiù. E poi, in quel caso, ci penserà la piccoletta a svegliarti."

 

Calogiuri aveva gli occhioni lucidi ma era ancora un poco esitante.

 

"E dai: non riesco a dormire altrimenti! E poi occupi ancora poco posto, anche se oggi hai tirato fuori una forza incredibile. Pensavo che lo avresti ucciso!"

 

"Se non mi avessi fermato, forse lo avrei fatto davvero," sospirò lui, stringendo i pugni e la sua mano, "come va?"

 

"A parte la pancia, i dolori vanno un po' meglio, non ti preoccupare."

 

"Non intendo solo quelli ma… di testa come va? Lo so che devi riposare ma… con tutto quello che ci è successo, se l'offerta è sempre valida, forse un po' di terapia ci farebbe bene."

 

Si ricordò di quella proposta, fattagli quando era poco più di pelle ed ossa ed aveva toccato il fondo.

 

"Te l'ha suggerito qualcuno?"

 

"Sì, sia la ginecologa che Mancini.  E forse… forse ne abbiamo bisogno, anche perché saranno settimane complicate."

 

"Non sono molto tipo da terapia, Calogiù, ma se ci sei anche tu per me va bene. E in effetti è meglio non rischiare di traumatizzare l'inquilina più di quanto già farei normalmente."

 

Calogiuri le baciò la mano, sollevato, ma un dubbio le provocò un’altra botta d'ansia.

 

"Ma, se poi alla terapia non passiamo i test, non è che ce la portano via?"

 

"Mica è un esame! E, in ogni caso, figuriamoci se tu non passi qualcosa, dottoressa!"

 

Gli diede un pizzicotto in viso e poi se lo tirò a sé per piantargli un bacio.

 

Fece di nuovo segno al lenzuolo e Calogiuri, con la sua solita cura e attenzione, si stese accanto a lei. Gli prese la mano e il calore del fiato che le solleticava il collo finalmente la fece cadere in quel sonno di cui aveva tanto bisogno.

 

*********************************************************************************************************

 

"No! No! No!"

 

Le mani di quello schifoso che la stringevano, si sentiva come in una morsa.

 

“Imma! Imma!”

 

Calogiuri! Ma non lo vedeva, non riusciva a vederlo e voleva che la trovasse, ma non che la vedesse in quel modo e-

 

“Imma!”


“Calogiù!”

 

Con un mezzo urlo ed un sobbalzo gli occhi le si spalancarono, trovando davanti a sé non l’azzurro serpentino di Romaniello, ma gli occhioni buoni e preoccupati di Calogiuri, che la fissavano, pieni di terrore.

 

Era tutta avvolta nel lenzuolo: era quello che la stringeva. Calogiuri le sfiorava solo un braccio, con quella delicatezza che fece evaporare il panico e l’aiutò a tranquillizzarsi.

 

“Scusa, ma… ho fatto un sogno…”

 

“Eh… lo so…” sospirò lui, con l’aria di chi stava deglutendo un rospo in gola, e si chiese quanto e cosa avesse urlato.

 

Sollevò una mano ancora un po’ tremebonda, ad accarezzargli il viso, per tranquillizzarlo e tranquillizzarsi, nonostante le sue dita fossero gelate e la guancia di Calogiuri le sembrasse bollente.

 

C’era così tanta sofferenza in quei occhi, che rifletteva la sua, e si chiese se e come se ne sarebbe mai andata.

 

“Fatemi passare! Devo vederla!”

 

Quell’urlo, così poco consono a un ospedale, la distrasse e sia lei che Calogiuri si voltarono verso la porta.

 

“Fatemi passare! Mi hanno detto che oggi potevo vederla ed è già mattina!”

 

“Valentì…” sospirò, scuotendo il capo: sua figlia non si smentiva mai, “ma che ore sono?”

 

“Le otto, dottoressa, le otto.”

 

“Fosse stata così mattiniera quando doveva andare a scuola! Che a volte ce la dovevo trascinare giù da quel letto, ce la dovevo!” esclamò, anche se una parte di lei era commossa da tutta quella preoccupazione.

 

E Calogiuri lo sapeva, la conosceva troppo bene.

 

“Vado a dire di farla entrare?” propose infatti lui, con un sorriso.

 

Stava per annuire ma non ce ne fu bisogno, perché successero tre cose praticamente in contemporanea.

 

Bussarono alla porta.

 

L’agente di guardia entrò mortificato con un, “scusate, ma c’è una visita, posso farla passare?”

 

E Valentina lo superò agevolmente, la guardò, urlò un “mamma!” da spaccarle i timpani e se la ritrovò a piangere attaccata al suo povero collo.

 

Un moto di tenerezza, pur in mezzo alle fitte alla cervicale, mentre cercava di tranquillizzarla con qualche pacca sulla schiena.

 

Si guardò con Calogiuri che, se da un lato era preoccupato per l’irruenza di Valentina e stava lì a controllare che non la toccasse dove non doveva, dall’altro era commosso pure lui.

 

Infatti fece per alzarsi con un “vi lascio sole…” tremendamente da lui, ma in quel momento dalla porta fece capolino timidamente pure una chioma assai familiare, lo sguardo molto imbarazzato, oltre che intenerito.

 

Penelope.

 

Come se ne avesse percepito l’ingresso in stanza, Valentina si staccò un poco da lei, il viso lavato di lacrime, e si voltò verso la sua ragazza, che le sorrise in modo incoraggiante.

 

Imma ne approfittò per abbrancare la mano di Calogiuri e tornare a farlo sedere vicino a lei: e che cavolo!

 

E poi non voleva staccarsene, non ancora, pure se era felicissima di vedere Valentì e avrebbe dovuto prima o poi parlarle da sola.

 

Valentina tirò su col naso, si asciugò il viso come poteva con le mani, prima che Calogiuri le porgesse la confezione di fazzoletti dal comodino, in quel modo così naturale che aveva solo lui.

 

Mentre Valentina si ricomponeva, Imma fece cenno con la mano a Penelope di avvicinarsi pure.

 

“Tranquilla, non mordo. E tranquilla pure tu, Valentì, sto abbastanza bene: mi toccherà restare bloccata così per non so quanto, ma sto bene, non ti devi preoccupare, hai capito?”

 

Tra uno svuotamento del naso e l’altro, Valentina annuì, ma si intuiva dal modo in cui si mordeva il labbro che aveva davvero avuto tanta paura.


Del resto non era mica scema Valentì.

 

Le diede una carezza al viso umido e Valentina tornò per un attimo ad abbracciarla, per fortuna un poco meno a morsa, prima di staccarsi e dare un’ultima soffiata al naso.

 

“Stai davvero bene? Hai male da qualche parte? La… la piccoletta come sta?”

 

Una fitta ma piacevole: alla fine faceva tanto la dura ma, forse, all’idea della sorellina un poco si stava affezionando pure lei.

 

“Un poco sballottata, diciamo che si è fatta un po’ di giri in lavatrice, ma per ora non molla. Capa tosta, di famiglia,” proclamò, facendole l’occhiolino e lanciando un’occhiata di avvertimento a Calogiuri, come a dirgli e mo saranno cavoli tuoi!

 

Se il tentativo di alleggerire la situazione un poco con Valentina funzionava, con Calogiuri no, ma la capiva e tanto bastava.

 

“E tu? Tu come stai?”

 

“Eh… pure io un poco sballottata, Valentì, ma potevo stare peggio. Tengo solo un poco di male alla capa e le tue urla melodiose non aiutano.”

 

“Parli proprio tu, mà!” la sfotté Valentina, beccandosi volentieri un pizzicotto sul fianco e Imma si trovò con un bacio stampato sulla guancia.

 

“Non sono morta, Valentì, lo sai, sì, vero?” scherzò, perché erano anni che Valentina non era così fisicamente affettuosa, “per l’estrema unzione tocca ancora aspettare.”

 

“Mamma…” sospirò Valentina, per poi guardare Calogiuri e pronunciare un “ma tu come fai a sopportarla?” carico di affetto.

 

Fu il turno di Calogiuri di piantarle un bacio sull’altra guancia e quel momento così sdolcinato da farle pizzicare gli occhi, le impose anche di schiarirsi la voce.


“E tu come va, Penelope? Ti fa tanto disperare Valentì?” domandò, per cambiare argomento.

 

Penelope sorrise, con quel sorriso che la illuminava e illuminava la stanza. Almeno su quello lei e Valentina avevano gusti simili.

 

“No, no, anzi, Vale è forte, non si deve preoccupare. E anche lei-”

 

“Anche tu-” le ricordò Imma: Penelope, per quanto era alternativa, faceva una fatica immane ad essere informale con lei, specie se non si vedevano per un po’.

 

“Anche tu. E poi… fighi i capelli! Molto punk!”

 

Al commento di Penelope, che non era manco di sfottimento ma solo divertito, si ricordò improvvisamente di quelle dannate ciocche verdi e rosa. Con tutto quello che era successo, l’errore di tinta era stato l’ultimo dei suoi pensieri.

 

“Eh… maledetto hennè! Però potrei valutare seriamente di farlo diventare parte permanente del mio look, così da far inghiottire la bile a qualche procuratore capo in più.”

 

“Quello precedente altro che inghiottire la bile…” ironizzò Valentina e il modo in cui Calogiuri tossicchiò ed il suo sguardo, per un attimo torvo, la portarono a dargli un pizzicotto e un altro bacio.

 

“Vi direi di trovarvi una stanza, ma ci state già!”

 

Si staccò subito per assestare un altro pizzicotto, a Valentina stavolta.

 

Mentre, seppur immobile, li vedeva interagire, tra uno sfottimento e l’altro, si rese conto di quanto era fortunata e di quanto aveva rischiato di perdere.

 

E doveva fare di tutto perché non succedesse, perché anche la piccoletta, che contribuiva solo con un debole calcetto ogni tanto, stesse bene e potesse andare a completare quel casino ingarbugliato, ma che non avrebbe mai cambiato per nulla al mondo, che era la sua famiglia.

 

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“C’è qualcosa che devi dirmi?”

 

L’aveva beccata in contropiede, quando Penelope e Calogiuri erano usciti per lasciarle sole, e notò subito l’agitazione nello sguardo di Valentina.

 

“In… in che senso?”

 

“Nel senso che stanotte ho letto un articolo di Frazer e gli ho scritto un messaggio e… mi sembra che sappia un po’ di cose che non dovrebbe sapere. E che pensi? Che non ho notato che eravate seduti vicini al processo?”

 

Era una bugia, ovviamente, non aveva notato nulla, ma i bluff a fin di bene aveva imparato a farli per deformazione professionale.

 

Valentina sbiancò e poi arrossì.

 

Cattivissimo segno. Pessimo, proprio.

 

“Valentì…”

 

“Aspetta! Prima che ti preoccupi, o ti arrabbi, ho qualcosa da farti vedere.”

 

“Eh, quando dici così, finisce che mi preoccupo già tre volte.”

 

Valentina le passò il cellulare con il pdf di quella che era evidentemente la bozza di un articolo.

 

Cominciò a leggerlo e il panico la prese fin dalle prime frasi.

 

Tutto cominciò con una scritta sotto casa, rossa come il sangue. TATARANI TROIA SEI MORTA! Tutto maiuscolo ma con una enne sola perché, come dice sempre mamma, citando Murphy, più grande è la scritta, più grande sarà l’errore. Allora non capivo, non capivo il perché mia madre si ostinasse a fare quel lavoro, a metterci in pericolo, per come la vedevo io, a impedirmi, con le sue preoccupazioni e i suoi problemi, di avere un’adolescenza normale. Mio padre mi disse che noi eravamo normali: chi non lo era, chi doveva vergognarsi era chi quelle scritte le faceva, chi viveva nella criminalità. Allora non lo capivo ma ora lo capisco e, anche se questi anni non sono stati per niente facili, sono fiera di mia madre e grata per tutto quello che mi ha insegnato con il suo esempio.

Dopo quella scritta, per un po’ le cose parvero calmarsi, almeno fino a quando trovarono Don Mariano Licinio, morto in un campo. Da lì la nostra vita sarebbe cambiata per sempre, anche se non mi rendevo ancora conto di quanto.

 

“Valentì, che significa?”

 

“Che… Frazer mi ha chiesto di raccontare la storia dal mio punto di vista, dal punto di vista dei materani. Se non vuoi che lo faccia uscire lo capisco, mà, però… a me è sembrata una buona idea, visto che tu certe cose non le puoi dire, ma io sì”

 

Il mal di testa non aveva fatto altro che aumentare. Pure se, più leggeva, e più le toccava ammettere che l’articolo era abbastanza ben scritto, anche se forse in modo un po’ naif. E poi non diceva nulla di troppo sensibile. Era più un racconto emozionale - come avrebbero detto quelli che creavano quelle installazioni da rapina per i turisti - che un resoconto dei processi. Ma era accurato, per quello che narrava. La firma finale era sia di Frazer che di Valentina stessa.

 

“Ma… pure la firma?”

 

“Sì, me l’ha detto lui che voleva firmassi anch’io. Ci siamo sentiti un po’ di volte, per i miei post che ho fatto su questa storia. E sì, gli ho dato una mano per l’articolo che ha fatto uscire, quello che hai letto stanotte, correggendo alcune cose e-”

 

“E tu gli hai detto che stavo all’ospedale.”

 

“Sì, perché avremmo dovuto vederci per terminare la scrittura di questo ultimo articolo, ma ovviamente ero in ospedale e avevo cose più importanti a cui pensare. Comunque lui mi ha garantito che non avrebbe detto niente e ha mantenuto l’impegno, no?”

 

Imma sospirò, toccandosi le tempie che pulsavano.


“Sì, Valenti, mo ha mantenuto l’impegno. Per poche ore. Chissà se lo manterrà più a lungo. E comunque bisogna stare attenti coi giornalisti: anche i migliori comunque fanno il loro mestiere, non ci si può fidare così e-”

 

“E non ti agitare mà, per favore. Se vuoi, questo articolo lo cestino e non uscirà.”

 

Sospirò di nuovo: e che le poteva dire? Alla fine era un suo diritto dire la sua, soprattutto dopo tutti quegli anni così complicati anche per lei.

 

“Valentì, io non voglio soltanto che ti bruci, in tutti i sensi, che stai attenta a chi dai la tua fiducia.”

 

“Ma Frazer mi è sempre sembrato una persona seria e mi sembra di aver scelto la persona giusta a cui dare fiducia, al di là del giornalista.”

 

Un altro tuffo al cuore e un nodo allo stomaco.

 

“Valentì… ma non è che ti piace sto Frazer?”

 

Valentina spalancò gli occhi e scoppiò a ridere.

 

“Mà, te l’ho già detto, le storie con grande differenza d’età le lascio a te e a Calogiuri. Io sono felice con Penelope e, dopo tutto quello che abbiamo passato, me la voglio tenere stretta.”

 

“Eh ma Frazer magari ha il suo fascino e tu non puoi sapere le intenzioni di lui quali sono.”

 

“A me piace quello che scrive e a lui piace quello che scrivo. Stop. E, se anche avesse certe intenzioni… ho imparato da te su come reagire, no?”

 

Valentina mimò una ginocchiata da manuale e, pure se le fece un male cane ai muscoli,  non poté evitare di ridere.

 

Forse non era stata del tutto un fallimento come madre e sperava davvero di avere una seconda possibilità di fare di meglio con la piccoletta, con tutto quello che aveva imparato, volente o nolente, con e da Valentina.

 

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“Allora?”

 

Erano ormai giorni e giorni che era lì, immobile su quel letto. Per fortuna non avevano dovuto indurle il parto, ma cominciava ad essere stufa. La ginecologa l’aveva appena visitata, dopo averle fatto una miriade di test. Nella stanza c’erano solo loro due e Calogiuri, apprensivo ma di supporto come sempre.

 

“Allora Imma, ho una buona notizia e una cattiva.”

 

“Risparmiamoci la manfrina, che succede?” tagliò corto, perché su quell’argomento non aveva né tempo né voglia per i giochetti.

 

“La situazione pare essersi sufficientemente stabilizzata da non portare a temere un peggioramento della situazione nell’immediato, ma a patto che tu mantenga il riposo assoluto.”

 

“E quindi?”

 

“E quindi non è più necessario il ricovero qui-”

 

A quelle parole si illuminò, come se le avessero dato la migliore notizia del mondo.

 

“MA non puoi tornare a casa. L’ideale è che tu rimanga fino al parto in una struttura di lungodegenza, specializzata in casi come questo. Così potrai essere monitorata ed evitare gli sforzi.”

 

Altro che illuminazione, il buio più totale. Altri mesi bloccata a letto, chissà dove.

 

Si sentì stringere la mano da Calogiuri, che la guardava, deciso.

 

“Quello che serve per il bene tuo e della piccoletta, ricordi?”

 

E certo che si ricordava la promessa che gli aveva fatto, mica era scema!

 

“Ma… ma dove si trovano strutture del genere?”

 

“Ce ne sono diverse, ma personalmente mi sento di consigliarne una, che è la migliore, ecco qua.”

 

La dottoressa aprì la sua valigetta e le mostrò un opuscolo su questa fantomatica struttura. A parte il nome latino, che pareva un canto di chiesa, notò subito una cosa: suore, suore ovunque.

 

“Ma-”

 

“Le strutture di questo tipo sono quasi tutte gestite da religiosi o, come in questo caso, da religiose. Ma è una struttura molto seria e-”

 

“Ma hai presente la situazione mia e di Calogiuri, no? Ci mancano solo le suore che mi giudicano perché viviamo nel peccato fuori dal sacro vincolo del matrimonio!”

 

La ginecologa, per tutta risposta, rise.

 

“Non dico che alcune non siano così, ma conosco personalmente la superiora. Era compagna di corso di mio zio a medicina, una delle prime donne a diventare medico in Italia. Ha una mentalità apertissima, te lo garantisco, e anche la maggior parte delle suore che lavorano lì. Sono professioniste.”

 

Si guardò con Calogiuri, che aveva un’aria tra il preoccupato e l’imbarazzato.

 

“Ma voglio avere Calogiuri con me. E Francesco e Ottavia!”

 

La ginecologa sospirò.

 

“Hanno anche delle specie di mini appartamenti, per chi deve rimanere più a lungo, quindi… credo sia possibile. Ma non devi fare sforzi Imma, né con una micia né con un bimbo piccolo che richiede attenzioni.”

 

“Sì, ma non lo posso abbandonare mo, di punto in bianco. Ho preso un impegno e intendo mantenerlo. E anche Ottavia. Qua non si abbandona nessuno. O tutti o niente!” proclamò, decisa, cercando il supporto di Calogiuri che annuì, commosso.

 

“Vedrò cosa posso fare.”

 

“E la retta astronomica che ci sarà da pagare?”

 

“Per quella non ti devi preoccupare, sei sotto protezione, ricordi?”

 

“Sì, ma non è che mo i contribuenti devono accollarsi tutte le mie spese mediche.”

 

“Tranquilla, che in qualche modo risolviamo.”

 

“Quando mi dicono che devo stare tranquilla-”

 

“Mi preoccupo già tre volte!” pronunciarono all’unisono sia la dottoressa che Calogiuri.

 

Si coalizzavano pure mo, mannaggia a loro!

 

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“Benvenuti.”

 

Asciutto ma non apertamente ostile, così era stato il saluto della superiora, una donna altissima e sottile, la cui postura non sembrava essere stata più di tanto scalfita dagli anni. Non avesse avuto la tonaca e il velo, sarebbe potuta sembrare una ex ballerina di danza classica, tra il fisico e il portamento.

 

Le scocciava dover essere in sedia a rotelle, spinta da un solerte Calogiuri, che però ebbe un mezzo sussulto. Si voltò per guardarlo e pareva in forte imbarazzo, sicuramente frutto dell’educazione ricevuta su religione e figure religiose.

 

“Lei è?” domandò Imma alla superiora, con un tono altrettanto asciutto, di chi non si sarebbe fatta intimidire.

 

“Suor Elisabetta. Le consorelle mi chiamano madre.”

 

“Io una madre già lo avuta, anche se non è più tra noi, grazie. E che la chiami sorella… non so se le conviene, dottoressa.”

 

La superiora sospirò, ma parve sorpresa che sapesse del suo titolo medico. Poi però annuì e fece segno di seguirla.

 

Calogiuri riprese a spingere la carrozzina, con ritmo ancora più lento che agli inizi: probabilmente, oltre al timore reverenziale, neanche lui era così entusiasta di essere lì, anzi.

 

Sentiva i passi dei ragazzi della scorta, che li seguivano a distanza.

 

La superiora infilò la mano in una tasca, nascosta tra le pieghe della veste, e ne estrasse una chiave. Aprì una porta che dava sul cortile interno della struttura e fece segno di passare.

 

Calogiuri, con un paio di manovre, riuscì a farle superare la soglia. Il mini appartamento non era piccolissimo, anzi, intravedeva la stanza da letto e quello che doveva essere il bagno: più o meno, come dimensioni, era paragonabile al loro appartamento di Roma.

 

Ma il paragone lì finiva, perché era tutto impersonale, asettico, austero, assai peggio pure dell’ospedale. Sembrava una cella monacale o una-

 

“Sembra di stare in caserma.”

 

Il sussurro di Calogiuri all’orecchio la fece sorridere. Perché sì non aveva, purtroppo e per fortuna, mai visto la stanza di lui in caserma, ma immaginava non dovesse essere molto dissimile come stile.

 

La suora entrò, non facendo cenno se avesse sentito meno, ma la squadrò, e lei ricambiò sentitamente.

 

Dopo un po’ di tempo passato a studiarsi, si voltò di nuovo verso Calogiuri, ma solo per chiedergli, “ci lasceresti un attimo da sole? Credo che abbiamo alcune cose da dirci.”

 

Calogiuri era sorpreso e anche preoccupato, ma lo incitò con lo sguardo a fidarsi di lei. Calogiuri sospirò, annuì e fece un cenno verso l’esterno, che era un se hai bisogno, sono subito qua! non verbale.

 

Anche la madre superiora sembrò presa in contropiede, ma si limitò ad aspettare che uscissero e chiudessero la porta, per poi farle cenno di parlare.

 

Imma le indicò una sedia, per ridurre il gap di altezza tra loro, ma la superiora rimase dov’era, dritta come un fuso.

 

“Senta, dottoressa. Lo so benissimo che la situazione mia e di Calogiuri non è convenzionale, almeno secondo i dettami della chiesa cattolica. Ma sono qua per portare a termine la gravidanza, mio malgrado, e mi auguro vivamente che non ci saranno problemi, ostilità o pregiudizi e-”

 

Per tutta risposta, la religiosa scoppiò in una risata sarcastica che le diede ancora più sui nervi.

 

“Ecco, tipo questo e-”
 

“Figliola,” esordì, fermandosi alla sua occhiataccia, “dottoressa va meglio?”

 

Imma alzò gli occhi al soffitto e annuì.

 

“Dottoressa, qua mi sembra che i problemi, l’ostilità e i pregiudizi li abbia lei. Per carità, non potrà sposarsi in chiesa o fare la comunione - cosa che dubito la turbi particolarmente - e indubbiamente alcune mie sorelle, o alcuni sacerdoti, o gente più in alto potranno non vederla di buon occhio. Ma a me, di quello che lei fa nella sua vita privata - e con chi - non interessa. Mi interessa che esca di qui in salute, possibilmente con sua figlia. Il resto sono paranoie sue.”
 

A quella parola, paranoie, tutti gli istinti protestarono, ma la suora alzò una mano, per bloccare la sua replica stizzita.

 

“Senta, parliamoci chiaro, da dottoressa a dottoressa, anche se in due campi diversi. Sono nata in una famiglia benestante ma molto tradizionalista, in un’epoca in cui le donne avevano scarsissima indipendenza e potere decisionale. Volevo studiare medicina e volevo decidere io della mia vita, non essere l’appendice di un uomo. E la via religiosa per me è stata la strada migliore in questo senso. Ho potuto laurearmi, esercitare in una qualche forma e guidare una comunità. Siamo due professioniste e tanto basta. A me delle sue credenze, religiose o no, importa assai meno del suo quadro clinico e degli esiti dei suoi esami. Su quelli sì che sarò implacabile, se lo aspetti.”

 

Ammazza!

 

Messa così, forse, poteva funzionare.

 

“E le consorelle? Tutte professioniste come lei?”

 

“Ma certo! Abbiamo altro di cui occuparci che di lei e del giovanotto qua fuori. Basta che non faccia i capricci-”

 

“I capricci?!” urlò, incredula e indignata: non era una bambina!

 

E, di nuovo, la suora rise.

 

“Ho quasi il doppio dei suoi anni, dottoressa. Per me lei potrebbe essere una bambina. E comunque, basta che non ci dia problemi e che collabori con le terapie. Poi può fare quello che vuole. Già le è stato concesso molto, mi pare, no?”

 

Imma sospirò, ma che poteva dire? Effettivamente, le sue richieste di portarsi dietro anche Ottavia e Francesco erano state accolte.

 

“Ora la saluto. A proposito, riguardo al gatto.”

 

“Gatta.”
 

“Ecco riguardo alla gatta, evitate di farla uscire. Ci potrebbero essere pazienti con allergie e ci manca solo questo.”

 

“Ottavia non esce mai. Se potesse, vivrebbe in clausura lei.”
 

“Ma io no, che dio me ne scampi!”

 

Facendosi il segno di croce e con un’ultima raccomandazione non verbale, che le ricordò la buonanima di sua madre, quando le intimava di non fare casini, la superiora aprì la porta ed uscì. Incrociò Calogiuri che per poco non cascò, con il balzo che fece per farla passare, senza starle troppo vicino.

 

Sarebbero stati mesi lunghissimi.

 

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MEEOOOOOOOOWWWWW!

 

La sentì già dal trasportino, che Calogiuri faticava a tenere in mano, tanto ci si agitava dentro.

 

"Ottà, buona, buona!"

 

Si udiva benissimo anche il fischio che era un col cavolo! non verbale.

 

"Non so se va bene farla uscire. Se è offesa e ti salta addosso?"

 

"Di solito quando è offesa, al limite, ci ignora. Dai, liberala, prima che ti si riapre la ferita al braccio."

 

Calogiuri sospirò, posò il trasportino e con una raccomandazione di "piano piano, eh!", lo aprì.

 

Non fece nemmeno in tempo a prenderla per la collottola, perché una pallina tigrata schizzò fuori, precipitandosi verso il letto e verso di lei.

 

MEEOOOOOOOOWWWWW!

 

La sentì prima su una gamba e poi direttamente attaccata al collo, che le faceva solletico con la lingua ruvida. Altro che offesa! Un groppo in gola che non andava giù. Manco con Calogiuri post ritorno dall'esilio era stata così.

 

"Guarda che non sono mica sporca io, non mi devi ripulire!"

 

Ma Ottavia continuò a miagolare, a leccarla, fino a darle un paio di testate tenere sulla guancia, guardandola come a dire ora non mi scappi più! Mi occupo io di te!

 

Poi, all'improvviso, smise con le coccole, inclinò il capo per studiarla - che manco lei coi sospettati - si voltò, la coda ritta ritta che ondeggiava, e miagolò verso la pancia. Stava per fermarla, quando Ottavia ci appoggiò il muso ma delicatamente, come se fosse in ascolto.

 

La piccoletta, che piano piano si stava riprendendo, tirò uno dei suoi calcetti.

 

Per tutta risposta, Ottavia miagolò, si voltò a guardarla e successivamente cominciò a fare le fusa alla pancia, come se volesse calmare sia lei che la piccoletta.

 

"Mannaggia a te, mannaggia!" le uscì con voce un poco strozzata.

 

Calogiuri pure aveva quegli occhioni enormi, di quando era a tanto così dal commuoversi.

 

Allungò la mano per tirarlo a sé in un bacio ed eccallà! le proteste da buoncostume di Ottavia.

 

Altro che le suore!

 

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Qualcuno bussò alla porta, in una maniera talmente debole che quasi non si sentiva.

 

Ma abbastanza per risvegliare Ottavia, che non la mollava un attimo e che era balzata ai piedi del letto, in posizione d’attacco, soffiando come avvertimento.

 

“C’ho pure la gatta da guardia mo, non bastavate tu e la scorta!” ironizzò con Calogiuri che, dopo aver dato una carezza e un’occhiata di avvertimento ad Ottavia, si avvicinò alla porta.


“Chi è?”

 

“Suor Cecilia. Avete visite.”

 

Le venne da sorridere, a sentire la esse particolarissima e il forte accento dell’ecuador con cui la suorina pronunciava l’iniziale del suo nome. Era la meno peggio lì dentro, infatti persino Ottavia si calmò un poco. Forse, come a lei, faceva tenerezza.

 

La porta si aprì ed entrò la giovane suora, gli occhi scurissimi mezzi abbassati. Appena incrociò Calogiuri, li abbassò del tutto ed arrossì, come faceva sempre quando lo vedeva, allontanandosi di un paio di passi. Calogiuri, quasi a specchio, fece esattamente lo stesso, il suo color rosato a rivaleggiare con quello più aranciato delle guance della suorina.

 

Ottavia miagolò e si voltò verso di lei con un’occhiata che era un chiarissimo questi sono tutti scemi! 

 

Ma lei li trovava adorabili: le persone timide, di poche parole, semplici, nel senso migliore del termine, le facevano sempre quell’effetto.

 

“Si può?”

 

Ottavia, a quella voce, iniziò a fare le fusa. Quello invece era assai meno spiegabile, ma tant’era.

 

Dalla porta, regale come sempre, entrò Ia ex gattamorta, seguita da un rumore degno di una sirena.

 

Il cuore le mancò un battito mentre udiva finalmente di nuovo il pianto di Francesco, che fece il suo ingresso in braccio ad un Ranieri che aveva visto giorni migliori.

 

Ottavia smise con le fusa e fece un miagolio stranito. Francesco si voltò: il suo viso tutto arrossato e i suoi occhioni pieni di lacrime mutarono in un momento di stupore, prima di quelle sillabe che per lei erano un regalo.

 

“Im-ma! Im-ma!” ululò, sporgendosi verso di lei, mulinando, che manco un elicottero, con manine e piedini.

 

Calogiuri si affrettò a prenderlo dalle braccia di Ranieri. Francesco non smise di piangere, anzi, protestò con un altro “Im-ma! Im-ma!” ancora più forte.


“Va bene, ma devi stare tranquillo, capito?”

 

“Mettimelo qua vicino, Calogiù, prima che ci facciamo cacciare con sti decibel!”

 

E Calogiuri, piano piano, glielo appoggiò vicino alle gambe. Francesco subito smise di piangere e prese a gattonare verso di lei, facendo segno di prenderlo in braccio.

 

Per tutta risposta, gli diede due carezze e poi si mise a fargli il solletico, per distrarlo per un po’, ma non sarebbe stato facile.

 

Sentì un peso sulla mano ed era Ottavia che, a sorpresa, invece di fuggire come al suo solito, era atterrata sulla pancia di Francesco e gli stava leccando il viso, facendolo ridere ancora di più.

 

Forse le era mancato, in fondo in fondo, o forse voleva tenerlo buono per il bene delle sue orecchie.

 

Ma, nel suo modo strano di farlo giocare con lei, non poteva non vederci anche un tentativo di non farle fare sforzi.

 

A dirlo ad alta voce l’avrebbero presa per pazza, ma Ottavia capiva più di quanto si potesse pensare, da sempre.

 

“Ma stanno tutto il tempo così, o parlano anche?” si sentì sussurrare in un orecchio ed era Irene, che osservava divertita Calogiuri e suor Cecilia, che parevano due statue di sale.

 

“Magari si zittisse pure qualcun altro!” sospirò, riferendosi al piccolo ululatore seriale, mentre Ottavia miagolava con approvazione.

 

Un motivo c’era, se aveva sempre apprezzato i felini.

 

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“E dai, se mi sta appoggiato non è come portare pesi, no?”

 

“Imma, non si può, lo sai… lo tengo io per un po’, va bene?”

 

Imma alzò gli occhi al soffitto, e lo vedeva che era più che nervosa, cosa che peraltro avrebbe dovuto evitare.

 

Ma farle prendere in braccio Francesco sarebbe stato ancora peggio, era proprio da escludere. Solo che Francesco, a parte alcuni momenti in cui si distraeva con lui o con Ottavia, era molto insistente: stare solo vicino a Imma non gli bastava, voleva di più.

 

E come non capirlo il piccoletto? Ma non era il caso mo.

 

Lo prese in braccio, meglio che poteva, e gli fece fare il vola vola. Alla fine Francesco cedette a un risolino, anche se lui non sentiva più i muscoli ed Imma non sembrava affatto sollevata, ma ancora più nervosa.

 

Vedeva che picchiettava con le dita e persino con il piede, sotto al lenzuolo. Era iperattiva, lo sapeva, non era abituata a stare ferma con le mani in mano.

 

“Almeno posso prendere la carrozzina e farmi un giro in giardino? Non ne posso più di stare ferma qua!”

 

“Lo sai che sarebbe meglio muoversi il meno possibile. La carrozzina solo quando è necessario ai fini terapeutici e-”

 

“Ma a me manca l’aria e-”

 

Un altro suono di bussare, molto basso.

 

La porta si aprì e gli venne spontaneo fare un salto indietro, alla vista di suor Cecilia e del suo imbarazzo: non sapeva come comportarsi con lei. Di solito le donne gli si volevano avvicinare, non scappare, e non sapeva come fare. Un po’ come quando piangevano: gli veniva male al cuore a far star male le persone, o a metterle a disagio.

 

“Devo… devo fare l’iniezione…”

 

La dose quotidiana di eparina, per evitare trombosi, non potendo appoggiare le gambe. Imma sbuffò di nuovo, ma poi abbassò il lenzuolo e scoprì la parte superiore delle cosce, ormai piene di lividi, visto che non poteva fare le punture nella pancia.

 

“Manco se mi avessero menato, sarei ridotta così!” sottolineò Imma, chiaramente dolorante e spazientita.

 

Francesco, non più distratto dal movimento, forse percependo il malessere di lei, ricominciò a piangere e a chiamare “Im-ma! Im-ma!”

 

Ottavia, invece, soffiò leggermente verso la suora, come per avvertimento.

 

Suor Cecilia già era un po’ tremante di suo, al soffio di Ottavia lo divenne ancora di più e prelevò a fatica il liquido dalla boccetta.

 

“Se… se volete posso fare io…” provò ad offrirsi, date le circostanze.

 

“Che vuol dire se volete? Certo che lo voglio!”

 

Alle parole di Imma, la suorina tremò ancora di più, mortificata. Si diede dello scemo: non era quella la sua intenzione.


“Non… non posso far somministrare farmaci ad altri, se succede qualcosa la responsabilità è mia!”

 

“Magari succede che non mi riempio di lividi, peggio di un pugile in un incontro!”

 

Il labbro di suor Cecilia prese a tremare come le mani: stava per piangere. Imma non era in sé, anzi era la Imma che faceva tremare tutti in procura. Ma di solito era così con chi se lo meritava, non con persone timide e schive come suor Cecilia.

 

E come te! - gli ricordò la voce di Irene.

 

Nonostante tutto, suor Cecilia prese un respirone ed inserì l’ago in un punto non ancora livido della coscia destra di Imma che, per tutta risposta, cacciò un urlo.

 

“Ahia! Ma dove ha imparato a fare le punture, eh? Al tiro a segno?! Porca miseria, se non è in grado neanche di fare un’iniezione, magari dovrebbe cambiare mestiere, altro che vocazione e-”

 

Un singhiozzo. Poi un altro e un altro ancora.

 

Successero tre cose contemporaneamente: suor Cecilia scappò via piangendo, lasciando la siringa ancora piantata nella gamba di Imma e sbattendo la porta.

 

Francesco smise di urlare e guardò Imma, spaventato.

 

Ottavia, con un balzo, fuggì in cima all’armadio, dandole la coda, come quando disapprovava qualcosa.

 

“Ma che ce l’avete tutti con me mo?!” esclamò Imma, guardandolo negli occhi, ancora nervosa.

 

Prese un paio di respiri per calmarsi, appoggiò Francesco nel lettino - che stranamente continuò a non emettere suono - si avvicinò a lei e, senza guardarla, terminò l’iniezione. Infine, mise via la siringa, come aveva visto fare tante volte a suor Cecilia, per evitare contaminazioni.

 

“Calogiuri…”

 

La voce di Imma alle sue spalle. Si voltò. Imma aveva quello sguardo, di quando una parte di lei si stava rendendo conto di aver esagerato, ma il suo orgoglio non voleva ammetterlo.

 

“Devi scusarti con lei.”

 

Gli era uscito, dritto, asciutto. Lo sapeva che Imma odiava il verbo dovere e l’uso dell’imperativo, tranne se venivano da lei stessa. Ma quando era troppo era troppo.

 

“Calogiuri…”

 

“Calogiuri niente! Lo capisco che sia difficile stare qui ferma. Pensi che io mi diverta a vederti così e a non potere far niente? Ma non è colpa di nessuno di noi e non puoi sfogarti in questo modo. Mi criticavi quando ero in convalescenza, che sembravo un adolescente, ma mo tu sei peggio di una bambina!”

 

E adesso era il labbro di Imma a tremare e fu il suo turno di scoppiare a piangere.

 

Cosa che, nonostante tutto, lo faceva sempre sentire in colpa.

 

“Imma…” sussurrò, toccandole la spalla e sedendosi accanto a lei.

 

“Lo so che hai ragione, lo so. Ma… sono sti maledetti ormoni! A parte il mio brutto carattere!”

 

“Non hai un brutto carattere, hai carattere e basta. Almeno di solito.”

 

Imma doveva aver riconosciuto la citazione, perché scoppiò in una lieve risata, in mezzo al pianto. E poi sentì le sue dita sulla guancia. Un brivido, quasi come una volta, anche perché ormai i momenti di contatto erano pochi.

 

“Sei un angelo, Calogiù! Io chissà quante volte mi ci sarei già mandata! Altro che in Messico sarei scappata al posto tuo, forse manco l’Australia è abbastanza lontana.”

 

“Ma manco per sogno! Però, almeno tra di noi, ci dobbiamo sostenere, per te e per la piccoletta.”

 

Imma annuì e poi si schiarì la voce e domandò, “a proposito, quando è la prima seduta con la psicologa?”

 

“Tra una settimana, in teoria, perché?”

 

“Perché forse è meglio anticipare.”

 

Quest’affermazione lo stupì e lo preoccupò moltissimo, venendo da lei.

 

“E dai, Calogiù! Che mi guardi così? Lo sai che, se prendo un impegno, lo mantengo. E prima è, meglio è. Via il dente e via il dolore.”

 

“Non penso che con la terapia funzioni proprio così, dottoressa. Ma come vuoi tu,” la rassicurò, prendendole la mano.

 

“Mo che dici se ci vediamo un film, finché l’ululatore sta buono? Che qua altro non possiamo fare.”

 

“Ormai li stiamo esaurendo tutti anche se… quando nascerà la piccoletta mi sa che il tempo per vedere i film non ce l’avremo più, almeno per un po’. E nemmeno di riposare.”

 

“E pure di fare altro…”

 

Lo sguardo e il tono di Imma gli diedero un altro brivido, ancor prima di percepire il pizzicotto sul sedere.

 

“Imma!”

 

“Ma che Imma e Imma! Va bene che qua sono tutte suore, Calogiù, ma io il voto di castità non l’ho fatto. E nemmeno tu, spero!”

 

Il modo in cui lo guardava, mordendosi le labbra, avrebbe dovuto essere vietato, vista la condizione in cui erano.

 

“Imma… non possiamo, lo sai.”

 

“Veramente le mani le posso ancora usare…”

 

Sentì tutto il sangue andargli alla testa e meglio non dire dove, mentre Imma rideva divertita.

 

“Mi prendi in giro, eh?”

 

“Diciamo che, tra il piccoletto e la buoncostume in stanza, le sorelle che stanno appostate qua fuori, più la scorta, giusto qualche metro più in là, magari quello te lo risparmio. Ma almeno due coccole te le potrò fare o no? Coccole vere.”

 

Sospirò, ma si avvicinò per darle un bacio, lasciandosi abbracciare. Si sentì prendere la mano libera, che Imma si mise sul fianco.


“Imma…”

 

“Va bene l’assoluto riposo, eccetera eccetera, ma due carezze me le puoi fare, mica mi rompo.”

 

“Lo so ma… non so se…”

 

Imma lo capì, si capirono senza bisogno di parole, come sempre. Tra quello che aveva passato e i lividi che ancora aveva, non voleva farle male o riportarla a brutti ricordi.


“Te l’ho già detto. Le tue mani non mi faranno mai paura, Calogiù. E mo coccolami come si deve, o mi toccherà assumere un massaggiatore professionista, con questi muscoli così tesi, sempre qua ferma, la postura sbagliata e-”

 

Le tappò la bocca con un bacio e la strinse a sé più che si poteva senza farla muovere.

 

Non tanto per la gelosia, che quella c’era per carità, ma ormai la sapeva controllare, ma perché Imma era sempre Imma, quando non esagerava, nonostante tutto quello che aveva passato. E, quando faceva così, gli ricordava ogni volta di più, perché si fosse perdutamente innamorato di lei e perché l’avrebbe sempre amata.

 

Sempre.

 

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Il telefono per poco non le fece prendere un colpo.

 

Erano le nove di sera e a quell’ora non la chiamava nessuno - anzi, non la chiamava nessuno in generale, anche con Penelope le videochiamate cercavano di concordarle in anticipo.

 

Gli unici che ancora usavano il telefono erano sua madre e suo padre. E, in entrambi i casi, viste le circostanze, il pensiero andò subito al peggio.

 

Afferrò il telefono, col cuore in gola, e il nome che ci lesse da un lato diminuì e dall’altro incrementò l’apprensione.


Frazer

 

In effetti anche lui come età era un po’ boomer. Ma che voleva mo?

 

“Pronto?”

 

“Valentina, ciao. Ti disturbo?”

 

E che poteva dirgli? Per disturbare non disturbava, visto che Penelope era tornata a Milano, ma…

 

“Ma è successo qualcosa?”

 

“No, cioè sì, ma solo cose belle, tranquilla.”

 

“Cioè?”

 

“Gli articoli che abbiamo fatto sono piaciuti tantissimo, sia al direttore del giornale, che a quello del canale per cui lavoro. Anche quello che hai scritto tu. Hanno avuto un ottimo riscontro come numeri, che non fa mai male.”

 

“Bene,” rispose, un po’ intimidita, non sapendo come reagire, a parte esserne felice.

 

“E quindi ti chiamavo per due motivi. Il primo è che il direttore del canale vorrebbe un’intervista a tua madre e a Calogiuri ma… non so se sia il caso, viste le sue condizioni. Quindi, prima di contattarla, volevo chiedere a te cosa ne pensavi.”

 

“Mia madre non si può muovere e non è proprio il momento, no.”

 

“Va bene, va bene.”

 

Il tono sembrava leggermente deluso, ma anche rassegnato: per fortuna non aveva insistito.

 

“Per il resto… visto quanto sono piaciuti gli articoli, abbiamo parlato di te col direttore anche.”

 

“Eh?”

 

“Sì. Lo so che stai studiando altro e non so se ti possa interessare ma… ho visto che ti stai per laureare, giusto?”

 

“Sì, mi mancano due esami e sto scrivendo la tesi, ma come fai a saperlo? Che fai le ricerche su di me?”

 

“Diciamo deformazione professionale.”

 

“Ho presente,” sospirò, perché quando faceva così le ricordava sua madre.

 

“Però, ecco, vorremmo offrirti un tirocinio qua al giornale. All’inizio sarebbe solo un rimborso spese, per cominciare, ma potresti avere buone possibilità per una borsa di studio, per un master in giornalismo qua a Milano.”

 

Un misto di eccitazione e panico la scombussolò completamente.

 

“Ma… ma… io non voglio favoritismi e, se è per l’intervista a mia madre-”

 

“Valentina, conosco da un po’ tua madre, ormai, no? Se non si vuole far intervistare non cambierà idea, nemmeno se vieni a lavorare con me. Anzi, probabilmente sarebbe solo un deterrente ulteriore a concedermi qualsiasi possibilità in futuro.”

 

Trattenne una risata perché era vero.

 

“Ma hai talento, davvero, e vorrei offrirti l’opportunità di capire se puoi fare questo a livello professionale, sempre se ti interessa.”

 

“Ma… quale sarebbe il master?”

 

Al nome della facoltà e del corso, il cuore riprese a batterle all’impazzata: dalle ricerche che aveva fatto era il migliore, almeno a Milano, uno dei migliori in Italia, ma anche dei più costosi.

 

“Ma… ma con quello che costa…”

 

“Ma avresti le spese principali rimborsate da noi e, se ottieni la borsa di studio, con quello a Milano ci vivi tranquillamente. Certo, magari potrai avere pochi extra ma… per un paio di anni si può fare, no? Non che poi sia una carriera dove ti riempiano di soldi, preparati, ma se ti piace… io non me ne sono mai pentito.”

 

“Posso pensarci un po’ su?”

 

“Certo. Però c’è solo un mese di tempo per attivarsi per l’iscrizione per il master. Quando pensi di laurearti?”

 

“In primavera.”

 

“Anche il master comincia in primavera. Se ti laurei come da programma, non ci dovrebbero essere problemi ad accedere. Ma appunto devi farmelo sapere per tempo, va bene?”

 

“Va bene. Ci penserò, grazie.”

 

Chiuse la chiamata con due consapevolezze: che una parte di lei ci aveva già pensato e sapeva benissimo la risposta e che l’altra non sapeva proprio come fare a comunicarlo a sua madre.

 

Già non poteva fare sforzi, come minimo le sarebbe preso un colpo!

 

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“Buongiorno dottoressa, capitano. Sono la dottoressa De Angelis. Se volete, potete chiamarmi Livia. Di solito in terapia si usano i nomi propri, per comodità e per creare un ambiente più familiare. Se siete d’accordo, naturalmente.”

 

Notò subito l’apprensione di Calogiuri. Erano loro due da soli, nella loro stanza. Ottavia era in bagno e Francesco se l’era preso suor Cecilia, che però ancora a stento le parlava. Avrebbe dovuto farsi perdonare e tranquillizzarla in qualche modo, ma mica era facile.

 

“Noi ad usare i nomi propri non siamo molto capaci, vero, Calogiù?”

 

“Calogiù è il cognome?” domandò la dottoressa, estraendo un taccuino dalla borsa e consultandolo.

 

“Calogiuri, Ippazio. Ma lo chiamo da sempre Calogiuri, Calogiù per abbreviare."

 

“Ah…” commentò la dottoressa, senza aggiungere altro, ma iniziando a prendere nota.

 

Cominciavano bene, cominciavano!

 

“Quindi come vuole essere chiamato, capitano?”

 

“Non lo so, ma non capitano. Ippazio mi ci chiamano in pochi, ma come preferisce.”

 

“Vada per Calogiuri, allora,” stabilì la dottoressa, prendendo di nuovo nota, “e lei, dottoressa?”

 

“In pochissimi mi chiamano Imma, ma immagino che dottoressa possa confondere in questo caso?”

 

“Se con Imma si sente a disagio, posso chiamarla dottoressa, almeno per ora.”

 

Sospirò: e che le poteva dire?

 

“Basta che non mi chiami Immacolata, cosa che proprio non sono, poi mi chiami come vuole, arriviamo al dunque.”

 

“Al dunque?”

 

“Sì, al sodo. Al motivo per cui siamo qui.”

 

“E perché siete qui?”

 

“Non li ha letti i giornali, dottoressa?” domandò, fregandosene della cosa dei nomi propri, che non le veniva naturale.

 

“Li ho letti, sì, ma non sono qua per intervistarla o per farle un interrogatorio sui fatti. Ciò che mi interessano sono le sue sensazioni a riguardo, cosa ha provato. Anzi, cosa avete provato.”

 

Lanciò uno sguardo a lui, perché era più facile dirsi che farsi: come spiegare cosa aveva provato?

 

“Se preferite, visto che si tratta di argomenti delicati, potremmo prendere dei momenti di terapia individuale, in modo che possiate parlare liberamente e-”

 

“Non ci sono segreti tra me e Calogiuri!” la interruppe, preoccupatissima, perché col cavolo che voleva stare da sola con lei!

 

Se aveva accettato era anche e soprattutto perché c’era pure Calogiuri.

 

La dottoressa alzò un sopracciglio.

 

“Tutti abbiamo segreti, dottoressa, cose più intime e riservate e-”

 

“Ma non su questo argomento. Anche perché… Calogiuri ha… ha visto tutto. Era in collegamento video quando… è successo quello che è successo in tribunale.”

 

La psicologa spalancò gli occhi, presa in contropiede, e segnò due cose di fretta, prima di schiarirsi la voce e proseguire, “non… non mi avevano avvertito di questo ma, a maggior ragione, vivere ed assistere ad eventi simili è un evento molto traumatico, che forse meriterebbe la libertà di essere espresso, senza magari temere di ferire l’altro, o di scaricargli addosso le proprie paure e-”

 

“Non ha capito. Calogiuri e io ci parliamo liberamente da… non dico da quando ci conosciamo ma quasi. E, se una volta magari c’era qualche argomento che evitavamo, per svariate ragioni, ormai non ci sono segreti. Anzi, ci capiamo con uno sguardo: lui sa cosa provo e io so cosa prova, senza bisogno di tante parole.”

 

Calogiuri sorrise e le strinse la mano. La dottoressa, invece di fare battute sul diabete, come avrebbe fatto Valentina, o sembrare rassicurata, cominciò anzi a scrivere ancora di più, tradendo una certa apprensione.

 

Forse l’essere abituata a leggere il linguaggio del corpo altrui per gli interrogatori non aiutava la terapia: i pensieri degli altri li beccava subito, sempre.

 

“Scusi ma che c’è di male?”

 

“Di male?”

 

“Sì, ha fatto uno sguardo preoccupato, manco fossimo… che ne so… la classica coppia killer che è completamente codipendente e ammazza i vicini di casa troppo rumorosi.”

 

“Perché? Vi ritenete codipendenti?”

 

“O madonna mia! Non mi dica che sarà tutta così la terapia! Almeno un poco di sforzo in più.”

 

“Sforzo?”

 

“Sì, per non fare domande banali e scontate, ripetere ciò che dico, estrapolando una singola parola, quando è chiaro che è una voluta esagerazione, e domandare il perché a ogni pié sospinto, come quegli psicologi terribili delle fiction.”

 

La dottoressa aveva l’espressione che avevano certi suoi nuovi sottoposti, quando la incontravano per la prima volta. Quella di non essere pagati abbastanza per avere a che fare con lei. Solo che lei era pagata otto volte tanto loro, come minimo.

 

Calogiuri, invece, aveva la solita aria dolcemente esasperata di quando lei dava il meglio e il peggio di sé.

 

“Dottoressa, la terapia non è un contradditorio da vincere, non ci sono sentenze alla fine e non deve essere interessante. L’importante è che sia utile per portarla a riflettere su se stessa e a ragionare sui motivi per cui è qui. E ripeto, perché è qui? Al di là del trauma, intendo.”

 

Si era un poco ripresa, glielo doveva concedere.

 

“Perché sono incinta, bloccata a letto da settimane, ho per l’appunto avuto un trauma e vorrei, anzi vorremmo evitare di traumatizzare pure la povera creatura che si spera nascerà? Ma che domanda è?”

 

La dottoressa si segnò ancora un paio di cose, che Imma si chiedeva che ci stava da segnare, visto che fino a mo erano state dette solo banalità. In confronto Calogiuri ai tempi in cui si annotava pure chi era Giuseppe Verdi era niente.

 

“Quindi ha un senso di inadeguatezza rispetto alla maternità?”


“E chi non ce l’ha? Quanti tra i suoi pazienti non incolpano la madre e i suoi comportamenti della maggior parte dei traumi che si portano dietro?”

 

“E lei? Anche lei incolpa sua madre?”

 

Si guardò con Calogiuri, che le sorrise, mentre lei mandava accidenti alla se stessa del passato. Cosa c’aveva avuto in testa quando aveva pensato che fare la terapia fosse una buona idea, che l’avrebbe in qualche modo aiutata a sfogarsi un po’?

 

“Mia madre, pace all’anima sua, ha fatto quello che ha potuto.”

 

“Ma ciò non significa che sia stato giusto o che sia bastato.”

 

Era vero, verissimo, ma ciò non le impedì di alzare gli occhi al soffitto.

 

“Sinceramente, più che di mia madre mi preoccuperei di quella di Calogiuri e pure della mia ex suocera volendo, se proprio proprio. O di mio padre, anzi, dei miei padri. Cosa di cui immagino lei sarà al corrente, no?”

 

La psicologa aveva l’aria di chi sì, già sapeva tutto.

 

“Ma… ma un conto è leggerlo sui giornali, un conto è sentirlo raccontato da lei, dottoressa. Come le ho detto, non contano i fatti, sempre se ci sono fatti, ma cosa lei ha provato.”

 

“Cosa ho provato a sapere che mio padre non era il mio padre biologico e che non avevo i geni di un alcolizzato ma di un boss mafioso? Ma che cosa devo aver provato secondo lei?”

 

“Non lo so, non mi è mai successo. Me lo dica lei.”

 

Si guardò di nuovo con Calogiuri, che pareva attendere che lei esplodesse e che intervenne infine con un, “forse non è il caso che ti agiti così. Senta, dottoressa De Angelis, capisco che la terapia debba scavare ma, viste le condizioni di Imma…”

 

“Ma è la dottoressa che si agita, anche se è normale che succeda, soprattutto alle prime sedute. E che continua a guardarla, per distrarsi e per deflettere. Per questo forse sarebbe più utile la terapia da soli, specie quando non si tratta di argomenti di coppia.”


“Senta, deflettere o non deflettere, lei dovrebbe essere in grado di fare il suo lavoro pure così. Come io riesco a far confessare gentiluomini che sparano cazzate dalla mattina alla sera. E Calogiuri da qua non si muove, o non se ne fa niente, chiaro?”

 

“Le ho già detto che non è un interrogatorio, dottoressa. E a me non importa la verità, non più di tanto, ma come aiutarla ad affrontare più serenamente questi mesi, quello che ha passato. A capire come affrontare il futuro.”

 

“Tanti auguri!” le venne spontaneo sbottare, perché, se il buongiorno si vedeva dal mattino, dubitava che le sarebbe servito ad alcunché, se non ad incazzarsi con qualcuno che non fossero Calogiuri o la povera suorina.

 

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Scusa, puoi uscire un attimo?

 

Il messaggio lo preoccupò e lo stupì pure un poco.


“Che succede? Problemi? Chi ti scrive?”

 

Imma, ovviamente, aveva notato subito tutto.

 

“Niente, niente. Scocciature. Esco un attimo a prendere un po’ d’aria, va bene?”

 

“Le scocciature hanno un nome e un cognome?”

 

Prese un respiro, perché Imma non perdeva un colpo. Da quando non poteva sfogarsi muovendosi era un fascio di nervi.  La terapia, invece di migliorare le cose, pareva averle peggiorate, anche se, almeno la sera dopo la seduta, era stata un po’ più stanca e meno vogliosa di litigare. Ma stava recuperando gli arretrati mo.

 

“Imma…” la avvertì, con lo sguardo di quando stava esagerando e poi, senza aspettare risposta, perché non c’era un modo di mentirle senza farsi beccare, abbandonò per un attimo il campo ed uscì nel giardino della clinica.

 

Trovò poco distante Valentina, sorvegliata a vista da una suora di mezza età molto arcigna e torva, di cui non ricordava il nome, perché per fortuna non dovevano averci a che fare molto spesso.

 

Raggiunse Valentina e la salutò con un cenno del capo, trovandosi stretto in un mezzo abbraccio che lo stupì. La suora li guardò ancora peggio.


“Visto che Valentina è con me, lei può anche andare, no?”

 

Era quella che Imma avrebbe definito una domanda retorica.

 

La suora sbuffò per un attimo e si allontanò di qualche metro, rimanendo comunque di vedetta, anche se a distanza.


“Ma sono tutte così?” chiese Valentina, preoccupata.

 

“No, no, per fortuna no.”

 

“Mamma com’è come umore?”

 

“Hai una domanda di riserva?” ironizzò, ma Valentina parve ancora più spaventata.


“Dai, lo sai com’è fatta, no? Ma sono sicura che le farà piacere vederti e poi… can che abbaia non morde…”

 

“Eh… magari! Non lo so… è che… ho una cosa da dirle e… temo che non la prenderà bene…”

 

“Sei incinta?” domandò, senza riuscire a trattenersi, perché dal tono da funerale non riusciva a presumere nient’altro.


“E di chi? Dello spirito santo? Guarda che io sono fedele a Penelope!”

 

“Va bene, va bene, ma è che… hai fatto una faccia come se… come se dovessi darle la notizia peggiore del mondo e-”

 

“E forse lo è.”

 

“Stai male?”

 

Dire che fosse preoccupato era dire poco: ci mancava solo quello.


“No, no, anzi, sto bene e… forse per la prima volta in vita mia sto bene e so cosa voglio fare della mia vita. Ma non so se mamma approverà.”

 

“Vuoi fare un… un reality o come si chiamano?”

 

Valentina rise, mentre cercava di sforzarsi di capire cosa ci fosse di peggio di un reality per Imma e-

 

E poi gli vennero in mente gli articoli e Frazer e Valentina insieme.


“No… non mi vorrai dire che…?”

 

Altro che spaventato, era terrorizzato. Specie quando Valentina spalancò gli occhi e comprese che aveva capito, con uno sguardo simile ad Imma quando succedeva loro di comunicare senza parole. Ed annuì, con una timidezza così poco da Valentina che, proprio per quello, era sintomo di quanto fosse seria la cosa. Quanto ci tenesse.

 

Per un attimo rimasero in silenzio, a guardarsi senza parlare, perché non sapeva che fare.

 

“Ma… ma non puoi aspettare dopo il parto per dirglielo?”

 

Valentina alzò gli occhi al cielo con un “cuor di leone!” che era degno di sua madre.

 

“Speravo mi aiutassi a trovare un modo per comunicarglielo, senza farla agitare.”

 

“Salvo imbottirla di tranquillanti, che non può prendere, non credo ci sia un modo e lo sai anche tu, Valentina. Per questo ti dico, non puoi aspettare a darle la notizia?”

 

“No, perché… perché devo iscrivermi a un master tra meno di un mese. Forse ci riesco anche senza i soldi di mamma e potrei chiedere un anticipo a papà, finché mi arriva, si spera, la borsa di studio. Ma dovrò andare a Milano, se mi prendono, e… e non voglio fare le cose di nascosto e rischiare che lo scopra da altri. Anche perché so come ci si sente. E poi… non dico che voglio avere la sua benedizione ma… non mi voglio nascondere da lei.”

 

Un mal di testa pulsante gli faceva ping pong tra le tempie: cercò di massaggiarle per farselo passare.

“E non cambierai idea. Né sul master, né su dirlo a tua madre,” intuì, perché aveva la stessa espressione di Imma quando si metteva in testa una cosa.

 

“No, quindi… se mi puoi dare una mano…”


“Valentì, tua mamma la mano me la mozza,” scherzò, per alleggerire l’atmosfera, facendola sorridere.

 

“E dai… che come la fai rilassare tu non la fa rilassare nessuno…”

 

Si sentì avvampare, specie dopo tutte le battute di Valentina negli anni sulle attività rilassanti che facevano lui ed Imma.

 

“Non intendo in quel modo, che per una volta che può tornarmi utile non si può fare!”

 

“Valentì!” esclamò, ormai bollente.

 

Ma almeno Valentina rideva, che era già qualcosa.

 

“Non so… se potessi entrare in argomento in qualche modo… preparare il terreno.”

 

Gli venne in mente Capozza e il suo modo terribile di preparare il terreno con la signora Diana sulla possibile paternità di quell’angelo di Assuntina.

 

“Per esperienza personale, a preparare il terreno con tua madre si fa solo peggio, credimi.”

 

“Ma e allora?”

 

“E allora io adesso vi prendo un bel gelato, anzi un sorbetto, che quelli tua madre li può mangiare, una bella camomilla e ve li porto. Quando gli zuccheri e la camomilla avranno fatto effetto, gliene parli, cercando di non essere troppo diretta come al tuo solito. Anzi, al vostro solito. Ma neanche andando troppo per gradi, che poi Imma fiuta la fregatura e si agita già preventivamente. Io sto fuori dalla porta, se serve, e posso entrare con Francesco, per distrarla, se proprio non funziona nient’altro.”

 

“E quando lavoravi con lei e Francesco non ci stava come facevi, fammi capire?”

 

“Facevo che di solito tua madre non si arrabbiava con me, anzi, ma quando succedeva… erano dolori. A quanto dice, però, gli occhioni aiutavano, ma non lo so… a me vengono naturali.”

 

“Mannaggia a me che gli occhi li ho presi da lei e non da papà, che marroni non funzionano evidentemente!”


“Potresti usare quelli di Ottavia come scudo umano, anzi no, felino?”

 

Valentina sospirò ma poi si trovò stretto in un altro mezzo abbraccio, con tanto di pacche sulle spalle.

 

“Grazie… e dovrei proprio imparare da te… ma temo di aver preso il carattere da mamma.”

 

“E che devi imparare da me?”

 

“Tutto. Come essere disarmante, soprattutto.”

 

“Ed è una cosa bella o una cosa brutta?” chiese, un po’ confuso.


“Ecco appunto…” sospirò Valentina, scuotendo il capo ma guardandolo con una specie di affetto che gli scaldò un poco il cuore.

 

Forse un minimo le era stato utile, in fondo.

 

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“Buono il sorbetto, no?”

 

“Anche se è mezzo squagliato, ma del resto qua chissà fin dove è dovuto andare Calogiuri per recuperarlo. Mi tengono a stecchetto, tutto controllatissimo, secondo me in carcere sono meno ligi.”

 

Valentina sorrise ma aveva uno sguardo strano, anzi, era da quando era entrata che era strana. Calogiuri era sparito per poi tornare con sorbetto e camomilla, una combo che di solito la rilassava particolarmente.

 

Ma quello, unito alla sparizione di Calogiuri - prima e dopo l’arrivo di Valentina - e al fatto che si fosse portato dietro Francesco, se da un lato era da lui, discreto come sempre, dall’altro…

 

“Valentì, c’è qualcosa che mi devi dire?”

 

Valentina prese a tossire, che per poco non si strozzava. Le era andato di traverso il sorbetto.

 

Per fortuna riuscì a riprendersi, perché lei neanche poteva muoversi, al limite poteva chiamare le suore e non era il caso.

 

Marcava male, malissimo.

 

“Valentì?”

 

Valentina si asciugò gli occhi, pieni di lacrime da mancato soffocamento, e poi diede un altro paio di colpi di tosse.

 

“Ma… ma come fai?”

 

“Non è che tu e Calogiuri siete proprio discreti, quando vi mettete d’accordo su qualcosa. Allora?”

 

“Come fa a sopportarti quel poveretto non lo so!”

 

“Allora? Ti avviso che in questo periodo sono ancora più suscettibile del solito, quindi non ti conviene, signorina. Sputa il rospo.”

 

“Eh… diciamo che per me non è un rospo ma… ma per te potrebbe esserlo.”

 

“Hai rivisto il figlio di Vitali?” chiese, perché era la prima cosa che le venne in mente.

 

Valentina rise e scosse il capo. Ma poi si fece più seria.

 

“No, è che… è una cosa che so che non ti piacerà ma io sono felice e ne sono convinta, mamma.”

 

“Hai fatto più o meno lo stesso discorso su Penelope e poi non è stato così male. Non è che stavolta sei incinta, vero?”

 

“No, mà, no. Certo che tu e Calogiuri siete uguali.”

 

“Perché?”
 

“Perché mi ha chiesto anche lui la stessa cosa quando gliel’ho detto e…”

 

“Quindi Calogiuri già sa?”

 

“Sì, e mi ha detto di parlarti in modo abbastanza diretto ma non troppo. Ma non è facile. E poi… non ho i maledetti e benedetti occhi dei Calogiuri, io.”

 

“Guarda che, se la cosa è grave, manco gli occhi dei Calogiuri bastano. E dovresti saperlo pure tu.”

 

Valentina sospirò.

 

“Allora? Senti, facciamo così, come ha reagito Calogiuri quando glielo hai detto?”

 

“Mi ha detto che ti sarebbe venuto un colpo e di rimandare a dopo il parto.”

 

“Ah, bene! Andiamo bene, proprio! Che mo manco possiamo aspettare dopo il parto, che già c’ho l’ansia che mi aumenta qua!”

 

“In ogni caso, devo prendere una decisione entro un mese. Anzi, l’ho già presa, ma te la volevo comunicare, prima di farlo ufficialmente.”

 

“E che dovresti decidere entro un mese? Vuoi… vuoi mollare l’università?”

 

Capì dallo sguardo di Valentina che non era proprio quello, ma c’era vicina.

 

“Sei indietro con gli esami? Guarda che anche se ci vuole qualche mese in più non-”

 

“No, anzi, vorrei proprio laurearmi in primavera e farò di tutto per riuscirci. Anche perché voglio iscrivermi a un master.”

 

Dire che fosse perplessa era dire poco.

 

“Scusa, Valentì, ma da quando il fatto che tu voglia studiare è un problema? Se è per i soldi, in qualche modo tra io e tuo padre ce la caveremo e-”

 

“No, no, forse ho una borsa di studio, anche perché il master sarebbe a Milano.”

 

“Come a Milano?” domandò, sbalordita, ma anche un po’ piacevolmente sorpresa.

 

Forse Valentina lo sarebbe stata meno ma… magari avrebbero potuto vedersi più spesso di quanto aveva pensato. Valentina avrebbe potuto vedere la sorellina crescere, sempre se fosse andato tutto bene e-

 

“Perché il master che mi hanno proposto si trova lì ed è uno dei migliori in Italia.”

 

“Proposto? Chi te lo ha proposto? I tuoi insegnanti ti spediscono fino a Milano? E poi… che master si fa dopo assistente sociale? Pensavo che, dopo il tirocinio, ci fosse l’esame di stato e-”

 

“E non voglio fare l’assistente sociale. Non più. Non… non è la mia passione, ecco.”

 

Deglutì, cercando di mordersi la lingua, perché una parte di lei lo sapeva, lo aveva sempre saputo, ma Valentina una passione vera e non passeggera non ce l’aveva mai avuta. E doveva trattenere l’istinto, ereditato da sua madre, di reagire come quando si era messa in testa di abbandonare la scuola per la cucina.

 

“E quale sarebbe la tua passione, Valentì? Almeno per il momento?”

 

“Non è per il momento! Quando scrivo… quando scrivo mi sento in pace con il mondo, come se tutto mi fosse improvvisamente chiaro, mi sembra di essere al posto giusto e al momento giusto, ovunque mi trovi. E poi potrei scrivere per ore e-”

 

“Oddio, non dirmi che vuoi darti ai romanzetti, Valentì! Cioè come pensi di camparci, scusa? Che in Italia la gente che legge più di un libro all’anno è pochissima-”

 

“No, non voglio scrivere romanzi, mà, e-”

 

“E allora cosa? Film? Le fiction? Che mo tutti sono impazziti per ste maledette serie tv, che sembra che non ci sia altro da fare nella vita! Oppure-”

 

“La giornalista, mà. Voglio fare la giornalista.”

 

Il cuore le saltò un battito, la gola era peggio del Sahara, un colpo dritto allo sterno che le levò il fiato, ancor prima che la piccoletta si facesse sentire con due calcetti di protesta, più vigorosi di quanto erano stati ultimamente.

 

Ma lei manco li sentiva, non sentiva più niente. Incredula su come avesse fatto a non capire prima, a non aver capito subito, a non cogliere i segnali di allarme, le bandiere rosse, anzi no, pure nere e-

 

“Ma come ti salta in testa, Valentì?!”

 

L’urlo le uscì prima di riuscire a trattenerlo, tanto che si beccò altri due calci ancora più incazzosi.

 

Ma mo a essere incazzata era lei.

 

Non si era mai chiesta come si dovesse essere sentito Giulio Cesare, dopo la prima pugnalata, ma probabilmente più o meno così. A parte che i colpi lì erano stati posteriori e non anteriori.

 

“Mà! Lo so che non ti va a genio e che probabilmente non approverai ma-”

 

“PROBABILMENTE?! Valentì, ma… ma… piuttosto era meglio se mi dicevi che volevi fare l’avvocato penalista, guarda! Ma ti rendi conto di che covo di serpi-”

 

“Ma non devono essere tutte serpi, non sono tutte serpi!”

 

“Ah no? E chi non lo è? Frazer, ad esempio? Dimmi la verità: è stato lui a metterti in testa sta roba? Eh, beh, certo, lui è di Milano e-”

 

“E allora?”

 

“E allora chissà quello che mire c’ha in testa! Magari vuole solo gli scoop, magari vuole altro e-”

 

“E certo, perché un professionista non può pensare che ho talento a fare qualcosa, senza avere un secondo fine! Perché io per te non sono capace di fare niente, non è vero?”

 

Fu peggio di uno schiaffo, sia le parole che gli occhi pieni di lacrime di Valentina, stavolta non per il soffocamento.

 

Si sentì come quando aveva detto a sua madre che voleva fare legge, fare il magistrato e lei l’aveva guardata come se fosse matta. Poi alla fine aveva ceduto, a patto che lavorasse pure, ma con l’aria di chi sta dando un contentino a una che non avrebbe mai potuto farcela.

 

Ma lei ce l’aveva fatta, ce l’aveva fatta eccome e lo scetticismo di sua madre - oltre ai soldi che portava a casa a fatica per pagarle gli studi, fin da bambina - erano stati per lei una grande motivazione.

 

Ma Valentina non era come lei, era più sensibile, come Pietro, su certe cose.

 

Vide la porta socchiudersi e lo sguardo preoccupato di Calogiuri. Gli fece un cenno che era tutto a posto, anche se non lo era veramente, prima che entrasse con tutta la cavalleria.

 

Prese un respiro e cercò di afferrare la mano di Valentina, ma lei la ritrasse, prima una e poi l’altra.

 

“Valentì… non intendevo questo, lo sai. Ma… è un mondo di lupi là fuori, soprattutto in certi ambienti.”

 

“E che non lo so, mà, però-”

 

“Tu sei proprio sicura che sia quello che vuoi fare? Perché fare il giornalista, se vuoi farlo bene - sempre se c’è un modo per farlo bene - mica è solo scrivere: bisogna fare orari assurdi, andare in posti magari pericolosi, girare come trottole, senza festività, senza comodità, senza-”

 

“Mica devo fare l’inviata di guerra, mà! E comunque lo so, anzi, lo stesso discorso tuo l’ho fatto con Penelope, perché questi dubbi li avevo anche io. Ma… ma Penelope è disposta a supportarmi oltre che a sopportarmi, a seguirmi se sarà necessario. E… ci voglio almeno provare, per non avere rimpianti. Prima mi laureo, naturalmente, così sei contenta e-”

 

“Ma mica devi laurearti per fare contenta me! E perché non mi hai detto prima che non ti trovavi bene ad assistente sociale? Avremmo anche potuto cambiare e-”

 

“Perché… perché non sapevo nemmeno io cosa volevo fare, quindi, anche se avessi cambiato, sarebbe stato inutile. Invece ora so cosa voglio e non sono mai stata così sicura di qualcosa, se non di Penelope, forse.”

 

“Forse?” ripeté, in automatico, perché effettivamente a Valentina brillavano gli occhi e non solo per le lacrime, in un modo che non aveva mai visto, quasi neanche con Penelope.

 

“Non è come con la cucina, te lo prometto. Sono anche cresciuta, mà, non è una fuga.”

 

Si morse le labbra e dovette trattenere le lacrime, mentre deglutiva il groppo in gola: sì, era cresciuta davvero. Tanto.

 

“No, ti prego, mà, non piangere mo: preferivo quando urlavi, piuttosto! E poi, se dopo il master dovesse andare male, ti prometto che mi cercherò un lavoro qualunque, al limite farò anche sto famoso esame di stato per l’assistente sociale, ma-”

 

“E va bene, Valentì. Va bene.”

 

Le era uscito a fatica, con la voce strozzata, ma Valentina spalancò gli occhi in un modo tragicomico, peggio di quando da bambina aveva scoperto che lo zucchero filato non era cotone e si poteva mangiare.

 

“Come?”

 

“Ti ho detto che va bene, Valentì. Che mi sei diventata sorda, mo? Va bene che urlo, ma-”

 

“Ma… ma… ma…”


“Spero che alle interviste sarai più eloquente di così, che se no stiamo freschi, proprio, e-”

 

Si trovò due braccia al collo, il cui incavo divenne un lago nel giro di tre secondi. Valentina piangeva proprio, anzi, singhiozzava.

 

“Valentì!” provò a calmarla con qualche pacca sulle spalle, mentre Calogiuri di nuovo sbucò e lei gli fece segno che poteva cavarsela da sola.

 

Cosa di cui non era in realtà realmente convinta, ma il sorriso commosso di Calogiuri le fece intuire che forse qualcosa di buono lo aveva fatto, che ci aveva azzeccato.

 

“Valentì… mo basta, però… calmati, che qua dobbiamo stare tutti calmi. Un altro po’ di camomilla?”

 

Sentì la vibrazione del riso di Valentina sul collo e poi l’aria fredda colpirle la pelle bagnata, mentre Valentina si ritraeva, asciugandosi gli occhi come poteva, cioè male.

 

Le allungò la scatola di fazzoletti che ormai era sempre sul comodino, a portata di mano per i suoi sbalzi ormonali e di umore.

 

Valentina si soffiò rumorosamente il naso, peggio di lei. La delicatezza era di famiglia, proprio.

 

“Valentì… un bel respiro, dai, su!”

 

“Lo so, ma è che… non mi aspettavo di… insomma mi aspettavo battaglia e-”

 

Le venne da sorridere ma anche una fitta di senso di colpa, perché sì, forse in alcuni momenti della crescita di Valentina aveva esagerato un po’ troppo.

 

“Valentì, capo primo, la battaglia mo non me la posso proprio permettere. Manco una scaramuccia posso fare qua,” sospirò, toccandosi il pancione sempre più one, prima di aggiungere, seria, “e poi… e poi non voglio che tu abbia rimpianti, perché so come ci si sente e… e so anche cosa si prova ad avere la fortuna di fare un lavoro che si ama. Perché forse non sarà come diceva quel cretino che teneva persino più maglioni a collo alto di Calogiuri, che è come non lavorare mai. Col cavolo! La fatica si fa lo stesso, ma poi vedi i risultati e quello ti ripaga di tutto. Però non è facile, non bisogna mollare, andare fino in fondo e-”

 

“E io non mollerò e-”

 

“E invece voglio che tu sappia che puoi pure mollare e che, se tieni dubbi o problemi, puoi venirmene a parlare, senza paura. Lo so che oramai sei grande e che… di tempo insieme ne abbiamo sempre passato poco e… non esattamente di qualità, come direbbe tuo padre, ma… non devi dimostrare niente a nessuno, Valentì, tantomeno a me. Voglio che tu sia felice, hai capito? Non fare come la scema di tua madre, che poi ha dovuto recuperare tutto fuori tempo massimo e-”

 

Un altro abbraccio, ancora più forte del precedente, e stavolta il calcetto della piccoletta fu chiarissimo e sentì dalla risata e da come si staccò subito che lo aveva percepito anche Valentina.


“Tranquilla, piccoletta, che tra poco potrai godertela quasi sempre solo tu, nel bene e nel male…” ironizzò Valentina e sentì le dita di lei sulla pancia, con una delicatezza inusitata e commovente.


“Valentì… e comunque ho da darti due brutte notizie.”

 

“Cioè?” domandò, ritraendo la mano, preoccupata.


“La prima è che ti vieto formalmente di occuparti dei miei casi i futuro. Conflitto di interessi.”

 

“Agli ordini, dottoressa!” la sfottè, con tanto di saluto marziale.

 

“Su quello devi prendere lezioni da Calogiuri, altro che gli occhioni!”

 

“E la seconda brutta notizia?”

 

“Che probabilmente la piccoletta non sarà l’unica a godere della mia presenza nel prossimo futuro, a parte Calogiuri.”

 

“E cioè? Adottate Francesco?”

 

Il tono di Valentina era sorpreso ma non spaventato, o deluso, come lo aveva immaginato, di fronte a quella prospettiva.

 

Sì, era proprio cresciuta, tantissimo.

 

“No, Valentì, magari! Direi che è praticamente impossibile. Intendo che la mia prima figlia, anche se ormai presumibilmente non più unica, se vorrà, potrà godere più frequentemente della mia sgraditissima presenza. Perché è molto probabile che io e Calogiuri saremo a Torino o a Milano. Penso a Milano come abitazione.”

 

“Come?”

 

“Eh abbiamo chiesto i trasferimenti e… sappiamo di avere buone possibilità, mettiamola così.”

 

“Ma che fai, mà, mi segui?”

 

“O sei tu che segui me?”

 

Per un attimo quella domanda le fece tornare in mente il finale di Rosmersholm, ma qua non ci stava nulla di tragico, al massimo di tragicomico.

 

“Mà…”

 

“Insomma, ovviamente avrai tutti i tuoi spazi, per te e Penelope, perché immagino vivrete insieme, no?”


“Beh… così mi eviterei il costo dell’affitto. Certo, contribuirei alle spese, ma non è come con Samuel: io e Penelope ci conosciamo bene e sono più matura e-”

 

“E ti ho detto niente in proposito?”

 

Valentina deglutì le ulteriori proteste, ormai automatiche.


“Non ci sono abituata a te che sei così conciliante, mà!”

 

Alzò gli occhi al soffitto: proprio vero che come fai sbagli!

 

Ma la mano sulla spalla e quella sul pancione, insieme al sorriso di Valentina, le fecero capire che sì, forse qualcosa di buono lo aveva fatto davvero.

 

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“Un altro po’ di sorbetto prima che si ghiacci del tutto?”

 

Calogiuri aveva fatto segno verso il piccolo frigo e freezer, dove tenevano giusto le cose essenziali, al di fuori dei pasti principali, gestiti dalle suore.

 

Un rumore ben poco pacifico di bussare alla porta.

 

No, non era suor Cecilia, decisamente no.

 

“Chi è?”

 

La porta si aprì, senza che avesse nemmeno dato il permesso, cosa che già la irritò, ed entro la più arcigna delle suore, talmente brusca che manco si era mai presentata col suo nome, vero o preso coi voti che fosse.

 

“Devo farle le terapie. E l’orario di visita è finito.”

 

“Veramente qua non ci sarebbe proprio un orario di visita,” specificò, perché era stata una delle garanzie della superiora nella trattativa prima di andare lì - purché non fosse tardissimo o prestissimo, ovviamente, ma non ci teneva manco lei a trovarsi scocciatori all’alba o in piena notte.

 

La suora la fulminò con un’occhiataccia disapprovante e poi guardò verso Calogiuri e Valentina.

 

“Lui in ogni caso deve uscire, che non è decoroso.”

 

“Si rende conto che, se sono qui, non è per un’immacolata concezione e che Calogiuri ha già visto le mie gambe e non solo?”

 

La suora strinse i pugni, ancora più rabbiosa, e poi squadrò Valentina, forse ancora peggio di Calogiuri, che era tutto dire.


“Mia figlia direi che mi ha vista in tutte le salse, dato che la conosco da tutta la sua vita e l’ho partorita.”

 

“Una volta certe cose erano inconcepibili,” sibilò la suora.

 

“Come?”

 

“Nessuna regola, nessun rispetto. Lei qua è ospite!”

 

“Ospite pagante, sottolineerei. E gli ospiti, solitamente, andrebbero trattati con educazione.”

 

Ma la suora squadrò ancora peggio prima lei e poi Calogiuri che, conciliante come al suo solito, abbozzò con un, “va beh… io esco, se hai bisogno basta che chiami e sto qua, appena fuori dalla porta.”

 

Conciliante ma non troppo, era chiaro il messaggio implicito per la simpaticissima sorella.

 

La suora restò con le braccia conserte a fissare Valentina e, di nuovo, c’era qualcosa di strano nel modo in cui lo faceva, che le diede una certa inquietudine, anche se non avrebbe saputo dire il perché.

 

“Che c’ha da guardare?”

 

E brava Valentì!

 

La religiosa però non fece una piega e continuò a fissarla, facendo cenno verso la porta.

 

“Va beh, mà, tanto è tardi, ti lascio qui con sorella Alberta!”

 

“Giuditta, sorella Giuditta.”

 

Imma alzò gli occhi al cielo, mentre sia a lei che a Valentina veniva un poco da ridere, perché chiaramente alla sorella mancavano totalmente i riferimenti televisivi nazionalpopolari. Del resto, magari era stata in convento già da prima che andasse in onda la suora più odiata della fiction italiana.

 

Valentì praticamente non era manco nata, ma era riuscita ad essere traumatizzata lo stesso da una delle mille repliche, viste con la buonanima di sua madre.

 

Valentina si avvicinò, a sorpresa, le diede un bacio e poi uscì. Imma si chiese se lo avesse fatto apposta, per dare ancora più sui nervi alla puritanissima suora, che pareva schifata da qualsiasi manifestazione d’affetto.

 

Di sicuro, in caso, la missione era stata compiuta.

 

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Il suono di una notifica in contemporanea sul cellulare suo e su quello di Calogiuri.

 

“Mancini?” domandò, stupita, cercando gli occhi di lui che annuì.

 

“Se fosse una cosa grave sarebbe venuto di persona, no, dottoressa?”

 

“Eh… speriamo. Anche se magari sa che non è… molto gradito, capitano.”

 

“Gli posso sempre presentare suor Giuditta, così magari si concentra su di lui, per una volta.”

 

Imma rise ma poi tornò seria, perché la lucetta della notifica le ricordava che forse qualcosa era successo.

 

“Apriamo insieme?” domandò Calogiuri e Imma annuì.

 

Dallo sguardo sollevato di Calogiuri, capì che avevano ricevuto lo stesso identico messaggio.

 

Mi hanno scritto dalla procura di Torino per comunicarmi che la richiesta di trasferimento del capitano è stata accettata: prenderà servizio a fine gennaio. Inoltre ho appena avuto conferma dal procuratore di Milano che intende avere la dottoressa nel suo organico, non appena terminerà il periodo di maternità. Seguirà comunicazione ufficiale. La nostra collaborazione non è stata sempre facile ma perdo due dei migliori elementi mai avuti da quando faccio questo lavoro. Spero che tutto proceda al meglio possibile, tenetemi aggiornato, se vi va.

 

Calogiuri era felice e ansioso insieme, proprio come lei.

 

“Imma…”

 

“Qua conviene organizzarci, Calogiuri, che trovare un alloggio in pochi mesi non è facile. E poi… chissà che freddo farà a Torino a gennaio. Altro che i lupetti! Ma almeno dovrai stare ben coperto, che le donne del nord sono pericolose.”

 

Calogiuri scosse il capo e rise.

 

“Mai come te, dottoressa!”

 

“E mai come te, Calogiù!”

 

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Il telefono squillò.


Una telefonata.

 

Era un numero di Roma ma sconosciuto.

 

Non sapeva se rispondere o meno. In più, Calogiuri era andato in procura per smaltire alcune pratiche riguardo ai loro trasferimenti, che dovevano essere completate di persona.

 

Rimase per un attimo incerta, ma alla fine la curiosità ebbe la meglio.

 

“Pronto?” domandò, con una voce il più neutra possibile, per rendersi poco identificabile, se fossero stati malintenzionati.

 

“Dottoressa Tataranni?”

 

“Chi parla?”

 

“Sono l’assistente sociale.”

 

Un tuffo al cuore e lanciò in automatico un’occhiata al lettino, dove Francesco stava facendo il pisolino pomeridiano. Una delle conquiste di quei giorni.

 

“Che succede?”

 

“Sarei voluta venire di persona ma… la sua situazione è particolare, dottoressa, e ho ritenuto che fosse meglio chiamarla prima, per avvertirla.”

 

“Per avvertirmi di cosa?”

 

“Abbiamo terminato i colloqui con la signorina Russo. Sembra stare molto meglio, non solo fisicamente ma anche psicologicamente. I medici che l’hanno in cura ci hanno confermato che a breve potrà uscire dall’ospedale. Mi rendo conto che forse per voi non sia il periodo più adatto ma… ci sarebbe da ricominciare il percorso di reinserimento per lei e il piccolo Francesco.”

 

Altro che colpo al cuore! Le venne una botta di magone assurda e si rese conto solo dopo un attimo di avere le guance bagnate.

 

“Dottoressa?”

 

“La… la posso richiamare tra un po’? Devo… la richiamo.”

 

Mise giù il telefono, odiando la voce roca e quasi balbettante che le era uscita, odiando le lacrime che non riusciva a fermare, odiando i maledetti ormoni, odiando il non sentirsi pronta e il non riuscire a immaginare un momento in cui lo sarebbe stata.

 

Come se lo avesse percepito, Francesco scelse proprio quel momento per scoppiare a piangere e cominciare a urlare, come lei avrebbe tanto voluto fare.

 

Ma non aveva neanche più la voce per quello.


Nota dell’autrice: Ed eccoci qua, a cifra tonda, al capitolo numero 80, che mai e poi mai avrei pensato di raggiungere quando ho iniziato a scrivere questa storia. So che ultimamente ci sono stati ritardi con le pubblicazioni. Purtroppo la vita reale mi lascia assai meno tempo libero di una volta, ma spero di riuscire a fare di meglio in estate, a parte la pausa di agosto. Ormai non mancano moltissimi capitoli e voglio davvero riuscire a portare a termine quello che ho iniziato ormai quasi quattro anni fa.

Spero che la storia continui a piacervi, nel prossimo capitolo accadrà un evento tanto ma tanto atteso da tutti. Vi ringrazio di cuore per i messaggi che mi mandate e che mi motivano tantissimo a proseguire, per tutte le recensioni, che mi danno una grande carica e sono utilissime per capire cosa funziona e cosa no. Un grazie anche a chi ha messo la mia storia nei preferiti e nei seguiti.

Il prossimo capitolo, visti anche i contenuti, sarà abbastanza lungo ma spero davvero di riuscire a pubblicarlo domenica 25 giugno. In caso di ritardi, vi avviserò sulla pagina autrice.

Grazie ancora e a presto!

 
   
 
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