CANTO XV - Ove l’autore è separato dalla sua guida e affronta un esame
Il processo s'arrestò alle rudi pendici
D'un colle ove torrion svettò dura
Indistinta alla petra su cui mise radici
E fermò Salimben in quivi radura
Ove giungnea da lontano una rivera
Ad anellare in un fosso d'acqua pura
Lo forte che da sette mura cinto era
E sette porte, più l'un d'altra difesa
Da sette guardian che ne la vita primera
Furon saggi e più in tal distesa
Dov'ebber de meditar tempo e modo.
"Si faccia un avanti" fe de grida tesa
Le visa di chi fe a Francesco un nodo.
Partì uno ch'io mai ho cagnosciuto
E s'incamminò, immergendo nel brodo
Pria le caviglie, i polpacci e il pube irsuto
E dovea aver già bagnato in quella chiazza
Poiché il capo non fu da noi veduto
Ch'a riva scrutammo ov'avesse fazza.
Infin riapparve all'altro capo di Lete
Ben più picciolo, per distanza, di stazza
Ma rapido, com'ebbe estinto una sete
E recossi al primo dei portal di fero
A discuter col prio ch'ivi intenderete.
Sembrò soddisfar lo guardian primero
Che potè violar la consacrata porta.
"Non sia lo vostro viso così a nero!"
Decantò chi menosse nostra scorta
"Iddio ignora tempo alcheduno,
Cale indi quante fiate la luna è sorta?
Il figliol prodigo accese al suo raduno
Tanto quanto chi sempre fu fedele."
Allor lo gruppo, d'incredultà degiuno,
Noi pur spinse verso Babele.
"Duca, duca" Chiamollo io temendo
Che il distacco fra noi ora procede
In mezzo a quell'affluir tremendo
Che più grande par del rivo e suoi getti.
"Che gridi?" Riprende uno cui pendo
Per la pressa che ci faceva stretti.
"Io cerco il mio maestro, Vergilio,
Che qui portossomi e quivi stetti
Da lui fesso e quinci sanz'ausilio."
"Se fu lui che portoste te ben tosto"
Quello a me "Ascolta il mio concilio:
Maestro fu a molti in questo posto
E non credo sia stato un coincidente
Ma che vino vol trar dal tuo mosto."
Allor'io replicossi immantinente
"Non sia il tuo parlar sì chiuso
E fa sì che lo tuo nom si sente
Poiché quando mai vedrò il tuo muso
E il mondo dei morti e ciò che tiene?
Il sonno che reggemi qui assuso
Scivol via da queste mie vene."
Quello allor si contrasse a sè tutto
"Anco tu da vivo ivi te'n vene?"
A quel dir si fe il mio parlar sdutto
Ch’io non potei chieder cagione
E trascinato fui forzato al flutto
Dove opinai a chi fe da Cicerone
“Novello son’a chest’ordalia
E non saccio la di sua questione.
Sparmiatemi oggi e doman torneria.”
“Cheta la paura, fratello emiliano”
Rispose il frate “S’è ver che novo sia
Che conta? Se quel gran sovrano
Accetta i marci, gl’acerbi non sprezza
Or va, e la tua fede indicherà il piano.
Alma fortuita, ch’oggi il corpo spezza
E sanza attesa vien a la gran prova.”
E sanza una parola, la folla ch’impazza
Me gitta nell’acque che lo spirto giova.
Son verdi e chiare come il liscio vetro
Che da Murano soffiando si rinnova
E renoso lo fondo di qualche metro.
Il Ticin sol potria per sanitade
Competer per bontà di fonte e retro.
Stette in quell’istante sospeso l’Ade:
Le voci svaniron e li baglior sinistri
Ed un senso de pace lo petto pervade
Sinché credetti estinti i giorni tristi.
Ma risalir dovetti, perché pur bona
D’acqua non fan polmoni acquisti
E accorsi a dove mi fan d’aria dona.
“Nata, nata a che l’etra rivera!”
Quell’austera voce a incitare intona
Incitando il mio approdar alla fe’ vera.
Nel silenzio mi trassi sozzo de cristallo
E della legger chiazza che mi gravera,
Gionsi in fronte al guardian del vallo:
“Dì, buon Cristiano, sanza paventi:
fede che è?”. Chiedea dallo stallo
E tosto ebbi de lettur mementi:
“fede è sustanza di cose sperate
e argomento de le non parventi!”
E d’altro apersi: non virtù mertate
Ma robando a chi più canoscette
Quand’in terra lessi le parol pregiate
E il prio mur passai pe’ truffe nette.
Il secondo d'un vecchio era guardiano
Ch'una spada avea in nocche strette:
Più salda parea ch'ebbe san Galgano
Ch'infitta nella roccia tutt'ora igiace
Al Monte de Siepi ed estrarla è vano.
"O giovine, se la vita inver ti piace"
Partì a disquisire il venerando canuto
"Dì che forma avea Cristo in verace."
"Homo fu, da donna in figlio avuto"
Replicai e lui riprese "Chi fu lo padre?"
"Colui ch'al Getsemani pregò in aiuto."
"Come son le parole tue leggiadre!
Avegnacché consegue che fu creato
Dall'altissimo che da lì noi ci squadre."
"Tu lo dici, creato dal suo substrato."
E al mio risponder gli brillò nell'occhio
Un riflesso che appena vidi balenato
E continuò, com'il cor facesse crocchio
"Quando pensi caschi la creazion di elli?"
Chiese movendo li bracci da rocchio
"S'all'oratorio frequentato a la picciol Monticelli
Mi disser ciò ch'al ver propinque
Credo che'l mese del sacr'anielli
Caschi a Dicembre il venticinque."
Quelli se rabbuiò tutto come notte
Però mi prese, de livor pinque
"Men che da lo stesso Nembrotte
Mai odii tanto lordume a parole!"
Gridosse e minaccia rempirmi di botte
Ch'io scolorissi come pentita prole.
Stavvi ai lati de petra due imbuti
E quei indeciso fu ove mover mole.
"Meglio facesti a farmi scena muti
Piuttosto ch'a invocar idarno Iddio
Ch'or vol vendetta pe' falli ricevuti.
Che fossi de Ario fu il judicio mio
Al tuo primario errare, m'al secondo
Compresi fosti d'ignoranza rio.
Rallegrati o prava, che questo mondo
Punisce più il primo ch'el seguente
Poiché più semplice colmar un tondo
Che triangol far da forma differente.
Fosti seguace dell'insano eresiarca
Jettato t'avrei pel manco recipiente
Ove già gittammo, in infernal arca,
Con piacer mio proprio e personale
Chi troppo fidò la platonica barca
E naugragò nel paganesmo sleale:
Chi usò chiamarsi Gemisto di Mistra
E or tanto "idiota" come nome vale.
Ei giace lì in fondo, in acqua salmistra,
Pien de murene sì fiere e velnose
Che bubbonica sembra piaga sinistra
E irriconoscibil l'è da ogn'altre cose
C'abitano in fondo la gran vasca.
M'ahimè tu merti ben più lieve dose
Sicché Cataro né Valdese è la tua frasca
Bensì sol de chi non auscultò bene
Perciò nella destra convien che casca
Ov'avrai modo, attraverso le tue pene,
D'aderir più saldo a lo pensiero justo
E se sarai bon de trarti abbi spene.
Addio" e trabuccò nel tenebroso fusto.