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Autore: Cladzky    12/06/2023    1 recensioni
Leggendo l'Eneide l'autore si addormenta e finisce in un terribile oltretomba scritto in terzine ma anti-Dantesco, dove non sono i morti a essere puniti, ma i suoi peccati letterari. Il buon Virgilio, come al solito, recupera la sua funzione di guida in questo inferno laico, traghettandolo da un'anima furiosa all'altra, pronta a randellarlo. Un'opera per ridere, ma anche di riflessione interiore e soprattutto di insulti, piena di personaggi storici.
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Parodia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CANTO XV - Ove l’autore è separato dalla sua guida e affronta un esame

 

Il processo s'arrestò alle rudi pendici

D'un colle ove torrion svettò dura

Indistinta alla petra su cui mise radici

 

E fermò Salimben in quivi radura

Ove giungnea da lontano una rivera

Ad anellare in un fosso d'acqua pura

 

Lo forte che da sette mura cinto era

E sette porte, più l'un d'altra difesa

Da sette guardian che ne la vita primera

 

Furon saggi e più in tal distesa

Dov'ebber de meditar tempo e modo.

"Si faccia un avanti" fe de grida tesa

 

Le visa di chi fe a Francesco un nodo.

Partì uno ch'io mai ho cagnosciuto

E s'incamminò, immergendo nel brodo

 

Pria le caviglie, i polpacci e il pube irsuto

E dovea aver già bagnato in quella chiazza 

Poiché il capo non fu da noi veduto

 

Ch'a riva scrutammo ov'avesse fazza.

Infin riapparve all'altro capo di Lete

Ben più picciolo, per distanza, di stazza

 

Ma rapido, com'ebbe estinto una sete

E recossi al primo dei portal di fero

A discuter col prio ch'ivi intenderete.

 

Sembrò soddisfar lo guardian primero

Che potè violar la consacrata porta.

"Non sia lo vostro viso così a nero!"

 

Decantò chi menosse nostra scorta

"Iddio ignora tempo alcheduno,

Cale indi quante fiate la luna è sorta?

 

Il figliol prodigo accese al suo raduno

Tanto quanto chi sempre fu fedele."

Allor lo gruppo, d'incredultà degiuno,

 

Noi pur spinse verso Babele.

"Duca, duca" Chiamollo io temendo

Che il distacco fra noi ora procede

 

In mezzo a quell'affluir tremendo

Che più grande par del rivo e suoi getti.

"Che gridi?" Riprende uno cui pendo

 

Per la pressa che ci faceva stretti.

"Io cerco il mio maestro, Vergilio,

Che qui portossomi e quivi stetti

 

Da lui fesso e quinci sanz'ausilio."

"Se fu lui che portoste te ben tosto"

Quello a me "Ascolta il mio concilio:

 

Maestro fu a molti in questo posto

E non credo sia stato un coincidente

Ma che vino vol trar dal tuo mosto."

 

Allor'io replicossi immantinente

"Non sia il tuo parlar sì chiuso

E fa sì che lo tuo nom si sente

 

Poiché quando mai vedrò il tuo muso

E il mondo dei morti e ciò che tiene?

Il sonno che reggemi qui assuso

 

Scivol via da queste mie vene."

Quello allor si contrasse a sè tutto

"Anco tu da vivo ivi te'n vene?"

 

A quel dir si fe il mio parlar sdutto

Ch’io non potei chieder cagione

E trascinato fui forzato al flutto

 

Dove opinai a chi fe da Cicerone

“Novello son’a chest’ordalia

E non saccio la di sua questione.

 

Sparmiatemi oggi e doman torneria.”

“Cheta la paura, fratello emiliano”

Rispose il frate “S’è ver che novo sia

 

Che conta? Se quel gran sovrano

Accetta i marci, gl’acerbi non sprezza

Or va, e la tua fede indicherà il piano.

 

Alma fortuita, ch’oggi il corpo spezza

E sanza attesa vien a la gran prova.”

E sanza una parola, la folla ch’impazza

 

Me gitta nell’acque che lo spirto giova.

Son verdi e chiare come il liscio vetro

Che da Murano soffiando si rinnova

 

E renoso lo fondo di qualche metro.

Il Ticin sol potria per sanitade

Competer per bontà di fonte e retro.

 

Stette in quell’istante sospeso l’Ade:

Le voci svaniron e li baglior sinistri

Ed un senso de pace lo petto pervade

 

Sinché credetti estinti i giorni tristi.

Ma risalir dovetti, perché pur bona

D’acqua non fan polmoni acquisti

 

E accorsi a dove mi fan d’aria dona.

“Nata, nata a che l’etra rivera!”

Quell’austera voce a incitare intona

 

Incitando il mio approdar alla fe’ vera.

Nel silenzio mi trassi sozzo de cristallo

E della legger chiazza che mi gravera,

 

Gionsi in fronte al guardian del vallo:

“Dì, buon Cristiano, sanza paventi:

fede che è?”. Chiedea dallo stallo

 

E tosto ebbi de lettur mementi:

“fede è sustanza di cose sperate

e argomento de le non parventi!”

 

E d’altro apersi: non virtù mertate

Ma robando a chi più canoscette

Quand’in terra lessi le parol pregiate

 

E il prio mur passai pe’ truffe nette.

Il secondo d'un vecchio era guardiano

Ch'una spada avea in nocche strette:

 

Più salda parea ch'ebbe san Galgano

Ch'infitta nella roccia tutt'ora igiace

Al Monte de Siepi ed estrarla è vano.

 

"O giovine, se la vita inver ti piace"

Partì a disquisire il venerando canuto 

"Dì che forma avea Cristo in verace."

 

"Homo fu, da donna in figlio avuto"

Replicai e lui riprese "Chi fu lo padre?"

"Colui ch'al Getsemani pregò in aiuto."

 

"Come son le parole tue leggiadre!

Avegnacché consegue che fu creato

Dall'altissimo che da lì noi ci squadre."

 

"Tu lo dici, creato dal suo substrato."

E al mio risponder gli brillò nell'occhio

Un riflesso che appena vidi balenato

 

E continuò, com'il cor facesse crocchio

"Quando pensi caschi la creazion di elli?"

Chiese movendo li bracci da rocchio

 

"S'all'oratorio frequentato a la picciol Monticelli

Mi disser ciò ch'al ver propinque

Credo che'l mese del sacr'anielli

 

Caschi a Dicembre il venticinque."

Quelli se rabbuiò tutto come notte

Però mi prese, de livor pinque

 

"Men che da lo stesso Nembrotte

Mai odii tanto lordume a parole!"

Gridosse e minaccia rempirmi di botte

 

Ch'io scolorissi come pentita prole.

Stavvi ai lati de petra due imbuti

E quei indeciso fu ove mover mole.

 

"Meglio facesti a farmi scena muti

Piuttosto ch'a invocar idarno Iddio

Ch'or vol vendetta pe' falli ricevuti.

 

Che fossi de Ario fu il judicio mio

Al tuo primario errare, m'al secondo

Compresi fosti d'ignoranza rio.

 

Rallegrati o prava, che questo mondo

Punisce più il primo ch'el seguente

Poiché più semplice colmar un tondo

 

Che triangol far da forma differente.

Fosti seguace dell'insano eresiarca

Jettato t'avrei pel manco recipiente

 

Ove già gittammo, in infernal arca,

Con piacer mio proprio e personale

Chi troppo fidò la platonica barca

 

E naugragò nel paganesmo sleale:

Chi usò chiamarsi Gemisto di Mistra

E or tanto "idiota" come nome vale.

 

Ei giace lì in fondo, in acqua salmistra,

Pien de murene sì fiere e velnose

Che bubbonica sembra piaga sinistra

 

E irriconoscibil l'è da ogn'altre cose

C'abitano in fondo la gran vasca.

M'ahimè tu merti ben più lieve dose

 

Sicché Cataro né Valdese è la tua frasca

Bensì sol de chi non auscultò bene

Perciò nella destra convien che casca

 

Ov'avrai modo, attraverso le tue pene,

D'aderir più saldo a lo pensiero justo

E se sarai bon de trarti abbi spene.

 

Addio" e trabuccò nel tenebroso fusto.

 
   
 
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