Everything’s
changing,
but…
nothing will really change.
07.
Drunk enough to say I love you?
«Papà?
Papà!»
La voce squillante di Margaret rimbombò lungo il corridoio del primo piano di
casa, attirando l’attenzione di Homer: quest’ultimo non aveva dormito così bene
e non avrebbe potuto nascondere niente a sua figlia, nemmeno le borse sotto
agli occhi o il segno del cuscino stropicciato sul volto. D’altronde lei da buona
osservatrice notava tutto e non mancava di esprimersi a riguardo. Solo con lui,
però, e non era mai riuscito a darsi una risposta.
«Dimmi, cuore.»
La ragazzina gli balzò al petto, stringendolo forte. «Buongiorno!» Pareva
particolarmente vivace quel pomeriggio, e il padre tentava di reggere il ritmo
del suo umore per non incupirlo con la propria autocommiserazione.
«Come è andata a scuola oggi?»
«Una palla…» la piccola si discostò e parlò dondolando con i talloni sul
parquet. «però mi sto impegnando, lo giuro!»
«Lo so, tesoro, lo so.» L’espressione di immenso affetto aveva donato un po’
più di colore al volto coperto dalla barba ispida «So che fai sempre del tuo
meglio. E questo basta.»
Lei gli sorrise di nuovo, scappando in camera sua attaccandosi allo smartphone,
cuffie alle orecchie, di nuovo separata dal mondo.
Homer rimase ritto su quello stesso corridoio consumato dai passi di tutti i
familiari: suo padre, i suoi figli, sua moglie… a parte Maggie, sentiva gli
altri così lontani da non avvertirne nemmeno più il calore, l’amore. Aveva dato
se stesso fino all’ultima punta di energia per fare un
buon lavoro come padre, almeno con lei. Aveva sbagliato con Bart, non riuscendo
a gestire la rabbia che l’ipereccitabilità del ragazzo gli provocava… aveva
mancato il bersaglio con Lisa, non sentendosi mai alla sua altezza e provando
anzi vergogna nei confronti di una persona tanto dotata. E
arrogante.
No.
Si massaggiò le tempie cercando di eliminare l’intrusione della sua voce
interiore, quella che tentava di dare una spiegazione pratica a tutti i suoi
fallimenti. Non doveva darle ascolto, non di nuovo. Non doveva giustificarsi
per essere stato un pessimo genitore. Era così e basta, e ne portava già
abbastanza le conseguenze addosso, dopo l’allontanamento spontaneo dei primi
due figli. I suoi “come vorrei” avevano una valenza pari a zero, dopo tutto
quel tempo.
Peccato che gli ronzavano attorno portandolo spesso a distrarsi, a isolarsi, ad
accusarsi.
“Come vorrei averli ancora qui.”
Avresti dovuto tenerteli stretti.
“D’accordo, ma ho fatto quello che
potevo…”
Mettendo le mani addosso a tuo figlio o dimenticandoti dei progetti di tua
figlia?
“L’alcool non aiutava…”
Ahhh, vuoi dirmi che eri sempre ubriaco? Non ti pare facile nascondersi dietro
a una scusa patetica come la birra?
Sì: l’ennesimo esame di coscienza durato un minuto e mezzo aveva portato
alla solita conclusione: “sono nato una merda, sono cresciuto di merda, sono un
padre di merda. Morirò solo, come si merita una merda.”
«Guarda, Marge, ti giuro: come cucini tu non cucina nessuno. Devi assolutamente
insegnarmi, così almeno potrò sdebitarmi con voi.» Lenny si rabbuiò un attimo
prima di riprendere il consueto buon umore: gli pesava parecchio essersi
accasato dai Simpson per quel difficile periodo di transizione, anche se
cercava di rendersi utile in ogni modo.
«Oh, Lenny, non ti preoccupare. Se vuoi posso farti spiare il ricettario della
famiglia Bouvier, tranne le pagine dedicate agli opossum. Quelli me li tengo e
me li porterò nella tomba.» Era sollevata Marge, sollevata di poter scambiare
qualche parola con qualcuno.
Chiunque, sostanzialmente.
Che il collega del marito fosse un po’ logorroico era perfetto per lei,
l’aiutava a distrarsi da quei meccanismi intrusivi in cui si era incastrata negli
ultimi mesi: il pensare convulsamente a trovare soluzioni per problemi troppo
grandi per lei era deleterio.
«Dai, non ti preoccupare, quelli li salto volentieri! Lavo i piatti, già che ci
sono. Lo vuoi un caffè?»
La risposta arrivò da due voci diverse.
Marge si bloccò e fece un semplice cenno del capo a confermare il suo sì,
mentre l’entusiasmo se n’era tanto veloce quanto era sfociato. La risposta di
Homer l’aveva colta di sorpresa.
Disabituata ad averlo a casa a quell’ora.
Gli si avvicinò, lo salutò con un cenno e un abbraccio stanco e si portò al
centro della cucina, fingendo di avere qualcosa di importante da fare che non
fosse passare del tempo utile con il marito.
Il borbottio della macchinetta del caffè riempì la stanza, tanto era vuota di
suoni la cucina. E alla coppia questo faceva male, ma chi era troppo impegnato
a cercare nuove soluzioni non era pronto per affrontare chi invece tentava
invano di disfarsi dei vecchi, inutili metodi di riappacificazione targati
Simpson. Per quanto quei due stessero soffrendo… per quanto fossero fisicamente
vicini, non erano mai stati tanto distanti, muti, incapaci di sentirsi.
Il mondo congelato riprese calore con l’arrivo di Margaret, presa d’assalto
dalla madre senza possibilità di obiezione. «Maggie, ti va di venire con me al
centro commerciale? Hanno aperto un nuovo negozio. Pensavo sarebbe stato carin-»
«Ti fermo già, mamma. Volevo andare con papà in centro.»
Marge strinse le dita dietro la schiena, non voleva mostrare di esserci rimasta
male per un rifiuto tanto netto. «E cosa dovresti fare in centro che non possa
fare io con te?»
«Ovvio, stare con papà.»
La naturalezza con cui la ragazzina le aveva risposto non l’aveva presa in
contropiede, aveva cresciuto già due figli nel pieno periodo adolescenziale.
Quello che trovò incredibile era che Margaret preferisse la compagnia del padre
alla sua.
Per quale motivo poi? Cos’aveva lui di speciale, in fondo?
Era stata lei a crescerli, nutrirli, istruirli, sgridarli e riempirli d’amore.
Lei a prendersi tutte le responsabilità, a stargli accanto quando erano malati,
a portarli all’ospedale, dal dentista o al parco. Lei e solo lei, mentre Homer
era impegnato al lavoro, alternandolo al bar di quartiere.
Un pensiero tanto tossico che non avrebbe aiutato affatto a riavvicinare marito
e moglie.
«Papà, tu pensi che la mamma mi odi?»
Il gelato al pistacchio andò di traverso. Homer tossì, preso alla sprovvista da
una domanda così diretta quanto assurda.
«Ma no, pulcina. Cosa ti salta in mente? Tua madre
non potrebbe mai odiarti. Scherziamo? Lei ti ama tanto, Maggie.»
“E vorrei poterti amare io almeno un decimo di quello che fa lei…”
«Ma no, sul serio. Sai perché lo penso?»
Quanto era diventata pesantemente scomoda la panchina di fronte alla gelateria.
«No, tesoro. Dimmi perché lo pensi.» Avrebbe anche preferito non saperlo,
forse, ma vista l’instabilità della moglie che rendeva tutto molto più
complesso da gestire, perfino il dialogo… ogni informazione sarebbe stata
preziosa.
Margaret poggiò la coppetta di carta vuota, giocherellando con il cucchiaino
colorato. Avrebbe detto quello che pensava veramente? Si sarebbe tolta un peso
finalmente, e forse il padre avrebbe potuto aiutarla nella situazione attuale
in casa. «Lo so che mi odia. Non sono un maschio come Bart, non sono un disastro, quindi non sente di dovermi dare tutto l’affetto
che mi verrebbe negato dagli altri. Non sono perfetta come Lisa, non do
soddisfazioni, non sono brava in niente. Sono solo nella media, papo. Niente di speciale. Lei ama il meglio e il peggio, io
sono solo una stupida via di mezzo…» Stava piangendo. E non le interessava
minimamente di mascherarlo. Era un pensiero particolarmente semplice il suo,
frutto di anni di crescita in un nucleo caotico e mal mescolato. «Tu sei più
semplice, sbagli spesso, dici parolacce, dormi fino a tardi e russi… russi
tanto da svegliarmi, pensa!»
Homer stava cercando di capire quale fosse il punto di arrivo della
conversazione: era impossibile lei gli volesse così bene. Era uno scherzo della
vita, un ripudiato in una società dove contava far parlare di sé più che essere
ed esistere.
«E poi mangi in modo disordinato, ridi quando non devi, hai la testa tra le
nuvole e sogni cose che non puoi avere…»
La guardò, il gelato ormai sciolto colava tra le dita doloranti a causa di anni
di lavoro tra i reparti e le attività più impensate.
«Sei imperfetto, anzi, qualche volta fai anche schifo.»
Homer sentì pungere gli occhi, incapace di guardarla. Faceva schifo, ecco.
L’unica e ultima speranza di provare un briciolo di soddisfazione nell’aver
fatto qualcosa di buono se ne stava andando.
«Però facciamo un po’ schifo tutti, e tu almeno non fai finta vada tutto bene.
Tu sei la persona più sincera che conosca, e sei l’unico che riesco a capire e
che mi capisce. Per questo ti voglio bene, papo.
Perché io e te siamo tanto vicini.»
Homer quel giorno pianse, anche lui fregandosene della gente che passava e lo
guardava. Si sentiva amato e apprezzato non per ciò che aveva fatto, ma per
quello che era. Sua moglie aveva smesso di farglielo sapere, di farglielo
capire. Aveva perso la speranza di valere qualcosa in più di un semplice niente
però aveva la certezza di aver fatto almeno una cosa buona nella vita: farsi
apprezzare dalla figlia in modo genuino, naturale, anche se strano.
Apprezzato.
«Vi sembra questa l’ora di tornare a casa?»
Marge era furiosa: si era fatto buio da un pezzo, la cena ormai si era freddata
e non aveva nessuna intenzione di scaldarla nuovamente. Aveva avuto modo di
scambiare quattro chiacchiere con Lenny cercando di smussare gli spigoli del
proprio umore pomeridiano, riuscendoci dopo un tè caldo e del sano gossip Springfieldiano, ottenendo
soltanto maggiore carica nell’arrabbiatura successiva. Il loro coinquilino se
ne stava in disparte, voleva sparire: era la prima volta in cui assistiva a una
sfuriata della donna, dopo chissà quanti anni. Era spaventosa. Aveva ben poco della
ragazzina che aveva conosciuto da bambino e di cui si era invaghito, prima di
scoprire di avere ben altri interessi. Non aveva più nulla della leggerezza di
carattere, della spensieratezza, del sorriso spontaneo e contagioso. La Marge
Bouvier che credeva di conoscere era sparita da troppo tempo. E di questo si
dispiaceva davvero, perché le aveva sempre voluto un gran bene; la loro
amicizia si era rinsaldata ulteriormente nel tempo ma nessuno dei due pareva
più recare traccia del passato più semplice. Troppe cose, tanti traumi, poche
soddisfazioni.
Forse questa era la cosa che accomunava maggiormente Lenny e Marge: una incessante
ricerca insopportabile dell’approvazione del prossimo, chiunque egli fosse. Un
prossimo che aveva portato a tanta delusione.
«Dove siete stati?»
«Mamma, sei stressante. Siamo solo usciti. Poi abbiamo mangiato il gelato, camminato, parlato. Insomma, abbiamo fatto
quello che fanno le persone normali.»
La donna era contrariata, cercava invano di mantenere un decoro che aveva
imparato a cucirsi addosso ma sapere di essere stata soppiantata dalla figura
di Homer nel pomeriggio che aveva organizzato per lei e la figlia… non lo
tollerava in alcun modo.
«Dovevamo andare noi due fuori.»
«Perché? Non si può uscire con papà adesso? Lo sapevo, sapevo che eri gelosa di
lui! Ah ma tu sei la mamma perfetta, tu sei la mamma
che ha salvato il teppista, o che ha cresciuto il genio della scuola elementare
di Springfield. Tu sei quella che ha sempre una parola buona per tutti, tu sei
quella che fa la cosa giusta in ogni momento. Sei solo un’ipocrita, e no, non
provare a interrompermi adesso. Devi smetterla di far pesare agli altri che il
mondo non sia come quello che vuoi tu. Sul serio, hai rotto le scatole. Dai la
colpa a papà per come sei, ma perché non ti guardi e non ti chiedi se è colpa
tua?»
L’aveva colpita davvero.
La mano aperta sulla guancia della figlia pizzicava terribilmente, anzi,
bruciava. Non era tanto la pelle però ad aver preso fuoco. L’ira che aveva
spinto Marge a schiaffeggiarla stava consumando ogni buon proposito per la
giornata. Non se n’era nemmeno accorta e aveva cominciato a tremare, spaventata
dalla stessa reazione che non riusciva a spiegare. La ragazzina le sussurrò
qualcosa di parecchio offensivo, si voltò verso il padre e affondò il volto
ricoperto di lacrime sul corpo panciuto e rassicurante. Homer non si espose
subito, abbracciò la figlia che singhiozzava silenziosa, le carezzò la testa
confortandola al massimo delle proprie esigue capacità e catturò sguardo e
attenzione della moglie, sicuro di essere sentito chiaramente:
«Non osare farle una cosa del genere.»
«Ma stai scherzando?! Mettevi le mani addosso a tuo figlio e adesso mi tratti
come se mi fossi abbassata al tuo livello?!» Marge era in panico, la voce
usciva stridula e la cattiveria acuta. «Non fare il santerellino dopo tutto lo
schifo che hai fatto ai tuoi figli!»
Lenny cambiò stanza, era troppo: li aveva visti e sentiti litigare, ma mai
aveva partecipato da spettatore così coinvolto. Stava avvertendo il peso delle
grida, le accuse lanciate e rimbalzate da uno all’altra, tornando indietro con
il doppio della cattiveria, erano al limite del ridicolo. Pensò a quanto
potesse star soffrendo Margaret in quel momento, ancora stretta al padre, avvinghiatagli
come stesse tentando di non affondare.
Quanto ancora sarebbe durato quel matrimonio?
«Capisci, Lenny? Non l’avevo mai vista perdere la… la pazienza così…»
La taverna di Moe era vuota a quell’ora della notte, ormai tarda persino per gli
standard dello stesso titolare che stancamente stava cercando di scacciare un
terribile mal di testa con l’ennesima birra. Pessima scelta, ma almeno poteva
godere della compagnia – non certo qualificata in quel momento – dei pochi amici
che ancora gli erano accanto. Homer lisciava il bordo del boccale, guardando amaramente
sparire la frizzantezza della Duff che gli era stata servita venti minuti prima;
nonostante volesse bere fino a perdere la cognizione di tempo, spazio e delle
cose, non ce la faceva.
Aveva promesso a Marge di smettere con l’alcool, o almeno tentare di limitarsi
e non abusarne… dannazione a lui, ci stava riuscendo e pure nel momento peggiore,
cioè quando effettivamente l’alcool avrebbe potuto essere la soluzione ai suoi
problemi. Non poteva dire lo stesso di Lenford, steso
sul bancone di legno, aggrappato con le poche forze levate dal sonno alla bottiglia
di vetro, l’ennesima, che aveva richiesto quella sera.
«Ho… Homer, senti… come, come fai?» Trascinava le sillabe, voleva farsi capire,
doveva. «Homer, Homer come… come fai? Sai, io se, spetta, aspetta so… so cosa de-devo
dire.» Bevve ancora un sorso, uno di quelli che sapevano di acqua e di lacrime,
l’agro della birra che aveva ordinato non lo percepiva nemmeno più. «Come fai a…
a amarla così?»
Moe si girò verso di lui, urlandogli addosso, sputando aggressività: non poteva
dire sul serio, non poteva stare parlando di Marge, della donna di cui si era
innamorato e che ancora portava stretta nel petto, nella speranza di ricevere
da lei una parola gentile, uno sguardo interessato. No, non era ammissibile una
simile affermazione. Lo schernì apertamente, prima di tornare alla sua solitudine
di un metro quadro e al suo silenzio perplesso e scontroso.
«Moe, non… non puoi capire. Ahahah, sembra di stare,
credimi, sembra di… di stare in un inferno lì dentro.»
Homer osservò perplesso l’amico che ormai stava parlando a ruota libera. C’era
qualcosa di sbagliato in ciò che stava dicendo: d’accordo, la situazione non
era delle migliori, ma dal suo punto di vista ne aveva passate ben di peggiori.
Almeno era ciò di cui era convinto.
E stava sbagliando.
Lenny rise di nuovo. «Marge parla male tutto il tempo di… di te, Homer. Mio caro sei, sei veramente fregato. Si… si è… pffff! Si è pentita di averti, aspetta, come si dice cazzo…»
si grattò il mento, bevve un altro abbondante sorso e poi scoppiò a ridere. «si è pentita di averti sposato. Ma tanto, tanto, sì tanto
tempo fa.»
Si
è
pentita.
Homer l’afferrò per il colletto, lo sbatté contro al bancone e rovesciò i boccali
a terra, i cocci a riempire il pavimento appiccicoso. Moe tastò nel retro del
mobile alla ricerca della fidata arma illegale che deteneva nel caso le cose si
mettessero male. «Homer, non costringermi a sparare un colpo d’avvertimento. Non
vorrai avere qui la polizia a quest’ora. È completamente ubriaco, lascialo
stare.» Non l’avrebbe fatto di sicuro, ma spaventare i suoi clienti era il modo
migliore per evitare di dover poi agire davvero. «È solo ubriaco. Non è messo
meglio di te, starà parlando la sua rassegnazione.»
Lenny non fece resistenza, anzi, sfidò l’amico apertamente a fare qualunque cosa
desiderasse in quel momento. «Vuoi colpirmi? Dai, dai Homer. Fallo. Non… non sei
capace di fare di… didi più di così, vero? Per questo si è ammalata, per questo
odia… la sua vita con te. Ti odia, PAPI.»
Lo schernì con il nome con cui la moglie lo chiamava ancora quando andava tutto
bene. Era tanto che non lo sentiva pronunciare.
Il pugno arrivò ben assestato, dritto sullo zigomo. Non certo forte, ma
abbastanza significativo da mettere un bel punto alla situazione. «Ti voglio fuori
da casa mia. Due giorni, e te ne andrai.»
Lenford aveva lasciato il locale barcollando, rideva
di lui, di Homer, della situazione in cui si era andato a cacciare. Le strade
deserte di quello specifico quartiere di Springfield non erano di compagnia, e
non sapeva nemmeno dove sarebbe andato a finire. Era arrivato da Moe accompagnato
da Homer, aveva parlato troppo, e adesso sarebbe dovuto tornare a casa Simpson
per poi raccattare le sue cose e andarsene. Che male aveva fatto a esporre la
verità? Non che Marge avesse usato esattamente le stesse parole, ma ciò che lui
aveva sentito, colto e interiorizzato equivaleva a ciò che aveva esposto all’amico.
In fondo, dire la verità non era il modo migliore di aggiustare le cose?
O romperle definitivamente, ecco.
Almeno si sarebbero mosse in una direzione precisa, piuttosto che rimanere in equilibrio
su un filo pieno di nodi e rattoppi, sfilacciato, consumato.
Alzò gli occhi al cielo, le stelle erano così belle, parevano dei fiori di
cotone quanto erano sfocate. Gli occhi di Lenny le notavano ovattate e lontane,
forse per l’alcool, forse per gli occhi lucidi. Non coglieva molto delle
conseguenze che avrebbe scatenato, non ne era capace in quel dato momento, ma
sapeva niente sarebbe stato come prima.
Aveva rotto la fiducia decennale con Homer, aveva sputtanato la sua situazione
con terzi e l’aveva fatto ridendo.
«Bel risultato, Lenny. Bravo, bravo, bravo.» E continuava a ridere, ridere e
piangere. «Bravo e stupido.»
La chiave nella toppa era entrata fluida, al primo colpo. Un record,
considerato l’orario. Homer nello standard era sempre tornato ubriaco a quell’ora,
ma non era questa l’attuale situazione: il poco alcool ingerito di malumore pareva
dissolto dopo le parole acide dette da Lenford, tanto
acide da provocargli un moto di rabbia che non aveva mai espresso così
fortemente contro di lui. Così Marge non lo sopportava più, eh…
Beh, non che ci fosse voluto un genio, ne aveva combinate tante, troppe,
davvero troppe per riuscire a rinsaldare qualcosa di sgretolato come l’emotività
della moglie. Entrato in casa si adagiò in salotto, al buio, affondando
pesantemente sul divano. Accovacciato come quando non era capace di affrontare
il peso del mondo su di sé.
Aveva perso la fiducia di due di tre figli, ma sempre aveva contato sull’instancabile
Marjorie Bouvier; sull’ingrigita, stanca e instabile
Marge. Le aveva tolto anni di vita con le sue cazzate, i suoi errori, le sue
leggerezze. E nient’altro glieli avrebbe potuti restituire in nessun modo. L’aveva
prosciugata, ma questo l’aveva già capito durante il lungo colloquio con il Dott.
Hibbert dopo le dimissioni della moglie dal ricovero.
Aveva sbagliato tanto, non aveva dato abbastanza e sicuramente avrebbe potuto
fare di meglio, ma sempre aveva agito pensando di fare del bene per lei.
Ora sapeva non aver fatto ciò che poteva, doveva o voleva.
E comunque, non era stato sufficiente.
Era riuscito a farsi odiare dall’unica persona che l’aveva sostenuto, amato e
accettato. Il suo universo stava cadendo, e l’ultimo pezzo a sostegno del
proprio equilibrio aveva ceduto un paio di ore prima.
Nel dormiveglia, avvolto dal silenzio plumbeo della casa, ricordò un volto
sorridente, capelli blu vivace, tanta speranza ancora cucita addosso, anche se
alla bene e meglio. Lui e Marge erano giovani ma avevano ancora tanta voglia di
crescere assieme, di migliorarsi, di dare tutto…
«Sei abbastanza ubriaco da dirmi che mi ami?»
«Sì, Marge, sì! Sono abbast… abbastanza ubriaco!»
Ridevano, non avevano nulla se non un appartamentino da pochi spiccioli, un arredo
spoglio, gli oggetti portati via in fretta dal tetto famigliare per cominciare
una nuova vita assieme.
«Sì cosa?» Erano euforici, inesperti della vita, ma una cosa la sapevano…
«Sì, ti amo!»
Marge abbracciò Homer, Homer abbracciò Marge. E così era cominciata.