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Autore: _aivy_demi_    15/06/2023    10 recensioni
Questa long partecipa all'iniziativa WRITOBER2022, lista mista.
#writober2022 #fanwriter.it
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Le età dei vari personaggi verranno equilibrate nel giusto contesto, creando uno spazio temporale coerente ai fini di trama.
Mi auguro la lettura sia di vostro gradimento in questo che è l'approdo a un nuovo fandom per me ^^
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Diritti alle fanart: @Spikermonster @Pink
Genere: Angst, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Bart Simpson, Lisa Simpson, Maggie Simpson, Marge Simpson
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Everything’s changing,
but…
nothing will really change
.

07.
Drunk enough to say I love you?

 


«Papà? Papà!»
La voce squillante di Margaret rimbombò lungo il corridoio del primo piano di casa, attirando l’attenzione di Homer: quest’ultimo non aveva dormito così bene e non avrebbe potuto nascondere niente a sua figlia, nemmeno le borse sotto agli occhi o il segno del cuscino stropicciato sul volto. D’altronde lei da buona osservatrice notava tutto e non mancava di esprimersi a riguardo. Solo con lui, però, e non era mai riuscito a darsi una risposta.
«Dimmi, cuore.»
La ragazzina gli balzò al petto, stringendolo forte. «Buongiorno!» Pareva particolarmente vivace quel pomeriggio, e il padre tentava di reggere il ritmo del suo umore per non incupirlo con la propria autocommiserazione.
«Come è andata a scuola oggi?»
«Una palla…» la piccola si discostò e parlò dondolando con i talloni sul parquet. «però mi sto impegnando, lo giuro!»
«Lo so, tesoro, lo so.» L’espressione di immenso affetto aveva donato un po’ più di colore al volto coperto dalla barba ispida «So che fai sempre del tuo meglio. E questo basta.»
Lei gli sorrise di nuovo, scappando in camera sua attaccandosi allo smartphone, cuffie alle orecchie, di nuovo separata dal mondo.
Homer rimase ritto su quello stesso corridoio consumato dai passi di tutti i familiari: suo padre, i suoi figli, sua moglie… a parte Maggie, sentiva gli altri così lontani da non avvertirne nemmeno più il calore, l’amore. Aveva dato se stesso fino all’ultima punta di energia per fare un buon lavoro come padre, almeno con lei. Aveva sbagliato con Bart, non riuscendo a gestire la rabbia che l’ipereccitabilità del ragazzo gli provocava… aveva mancato il bersaglio con Lisa, non sentendosi mai alla sua altezza e provando anzi vergogna nei confronti di una persona tanto dotata. E arrogante.
No.
Si massaggiò le tempie cercando di eliminare l’intrusione della sua voce interiore, quella che tentava di dare una spiegazione pratica a tutti i suoi fallimenti. Non doveva darle ascolto, non di nuovo. Non doveva giustificarsi per essere stato un pessimo genitore. Era così e basta, e ne portava già abbastanza le conseguenze addosso, dopo l’allontanamento spontaneo dei primi due figli. I suoi “come vorrei” avevano una valenza pari a zero, dopo tutto quel tempo.
Peccato che gli ronzavano attorno portandolo spesso a distrarsi, a isolarsi, ad accusarsi.
“Come vorrei averli ancora qui.”
Avresti dovuto tenerteli stretti.
“D’accordo, ma ho fatto quello che potevo…”
Mettendo le mani addosso a tuo figlio o dimenticandoti dei progetti di tua figlia?
“L’alcool non aiutava…”
Ahhh, vuoi dirmi che eri sempre ubriaco? Non ti pare facile nascondersi dietro a una scusa patetica come la birra?
Sì: l’ennesimo esame di coscienza durato un minuto e mezzo aveva portato alla solita conclusione: “sono nato una merda, sono cresciuto di merda, sono un padre di merda. Morirò solo, come si merita una merda.”


«Guarda, Marge, ti giuro: come cucini tu non cucina nessuno. Devi assolutamente insegnarmi, così almeno potrò sdebitarmi con voi.» Lenny si rabbuiò un attimo prima di riprendere il consueto buon umore: gli pesava parecchio essersi accasato dai Simpson per quel difficile periodo di transizione, anche se cercava di rendersi utile in ogni modo.
«Oh, Lenny, non ti preoccupare. Se vuoi posso farti spiare il ricettario della famiglia Bouvier, tranne le pagine dedicate agli opossum. Quelli me li tengo e me li porterò nella tomba.» Era sollevata Marge, sollevata di poter scambiare qualche parola con qualcuno.
Chiunque, sostanzialmente.
Che il collega del marito fosse un po’ logorroico era perfetto per lei, l’aiutava a distrarsi da quei meccanismi intrusivi in cui si era incastrata negli ultimi mesi: il pensare convulsamente a trovare soluzioni per problemi troppo grandi per lei era deleterio.
«Dai, non ti preoccupare, quelli li salto volentieri! Lavo i piatti, già che ci sono. Lo vuoi un caffè?»
La risposta arrivò da due voci diverse.
Marge si bloccò e fece un semplice cenno del capo a confermare il suo sì, mentre l’entusiasmo se n’era tanto veloce quanto era sfociato. La risposta di Homer l’aveva colta di sorpresa.
Disabituata ad averlo a casa a quell’ora.
Gli si avvicinò, lo salutò con un cenno e un abbraccio stanco e si portò al centro della cucina, fingendo di avere qualcosa di importante da fare che non fosse passare del tempo utile con il marito.
Il borbottio della macchinetta del caffè riempì la stanza, tanto era vuota di suoni la cucina. E alla coppia questo faceva male, ma chi era troppo impegnato a cercare nuove soluzioni non era pronto per affrontare chi invece tentava invano di disfarsi dei vecchi, inutili metodi di riappacificazione targati Simpson. Per quanto quei due stessero soffrendo… per quanto fossero fisicamente vicini, non erano mai stati tanto distanti, muti, incapaci di sentirsi.
Il mondo congelato riprese calore con l’arrivo di Margaret, presa d’assalto dalla madre senza possibilità di obiezione. «Maggie, ti va di venire con me al centro commerciale? Hanno aperto un nuovo negozio. Pensavo sarebbe stato carin
«Ti fermo già, mamma. Volevo andare con papà in centro.»
Marge strinse le dita dietro la schiena, non voleva mostrare di esserci rimasta male per un rifiuto tanto netto. «E cosa dovresti fare in centro che non possa fare io con te?»
«Ovvio, stare con papà.»
La naturalezza con cui la ragazzina le aveva risposto non l’aveva presa in contropiede, aveva cresciuto già due figli nel pieno periodo adolescenziale. Quello che trovò incredibile era che Margaret preferisse la compagnia del padre alla sua.
Per quale motivo poi? Cos’aveva lui di speciale, in fondo?
Era stata lei a crescerli, nutrirli, istruirli, sgridarli e riempirli d’amore. Lei a prendersi tutte le responsabilità, a stargli accanto quando erano malati, a portarli all’ospedale, dal dentista o al parco. Lei e solo lei, mentre Homer era impegnato al lavoro, alternandolo al bar di quartiere.
Un pensiero tanto tossico che non avrebbe aiutato affatto a riavvicinare marito e moglie.


«Papà, tu pensi che la mamma mi odi?»
Il gelato al pistacchio andò di traverso. Homer tossì, preso alla sprovvista da una domanda così diretta quanto assurda.
«Ma no, pulcina. Cosa ti salta in mente? Tua madre non potrebbe mai odiarti. Scherziamo? Lei ti ama tanto, Maggie.»
“E vorrei poterti amare io almeno un decimo di quello che fa lei…”
«Ma no, sul serio. Sai perché lo penso?»
Quanto era diventata pesantemente scomoda la panchina di fronte alla gelateria.
«No, tesoro. Dimmi perché lo pensi.» Avrebbe anche preferito non saperlo, forse, ma vista l’instabilità della moglie che rendeva tutto molto più complesso da gestire, perfino il dialogo… ogni informazione sarebbe stata preziosa.
Margaret poggiò la coppetta di carta vuota, giocherellando con il cucchiaino colorato. Avrebbe detto quello che pensava veramente? Si sarebbe tolta un peso finalmente, e forse il padre avrebbe potuto aiutarla nella situazione attuale in casa. «Lo so che mi odia. Non sono un maschio come Bart, non sono un disastro, quindi non sente di dovermi dare tutto l’affetto che mi verrebbe negato dagli altri. Non sono perfetta come Lisa, non do soddisfazioni, non sono brava in niente. Sono solo nella media, papo. Niente di speciale. Lei ama il meglio e il peggio, io sono solo una stupida via di mezzo…» Stava piangendo. E non le interessava minimamente di mascherarlo. Era un pensiero particolarmente semplice il suo, frutto di anni di crescita in un nucleo caotico e mal mescolato. «Tu sei più semplice, sbagli spesso, dici parolacce, dormi fino a tardi e russi… russi tanto da svegliarmi, pensa!»
Homer stava cercando di capire quale fosse il punto di arrivo della conversazione: era impossibile lei gli volesse così bene. Era uno scherzo della vita, un ripudiato in una società dove contava far parlare di sé più che essere ed esistere.
«E poi mangi in modo disordinato, ridi quando non devi, hai la testa tra le nuvole e sogni cose che non puoi avere…»
La guardò, il gelato ormai sciolto colava tra le dita doloranti a causa di anni di lavoro tra i reparti e le attività più impensate.
«Sei imperfetto, anzi, qualche volta fai anche schifo.»
Homer sentì pungere gli occhi, incapace di guardarla. Faceva schifo, ecco.
L’unica e ultima speranza di provare un briciolo di soddisfazione nell’aver fatto qualcosa di buono se ne stava andando.
«Però facciamo un po’ schifo tutti, e tu almeno non fai finta vada tutto bene. Tu sei la persona più sincera che conosca, e sei l’unico che riesco a capire e che mi capisce. Per questo ti voglio bene, papo. Perché io e te siamo tanto vicini.»
Homer quel giorno pianse, anche lui fregandosene della gente che passava e lo guardava. Si sentiva amato e apprezzato non per ciò che aveva fatto, ma per quello che era. Sua moglie aveva smesso di farglielo sapere, di farglielo capire. Aveva perso la speranza di valere qualcosa in più di un semplice niente però aveva la certezza di aver fatto almeno una cosa buona nella vita: farsi apprezzare dalla figlia in modo genuino, naturale, anche se strano.
Apprezzato.


«Vi sembra questa l’ora di tornare a casa?»
Marge era furiosa: si era fatto buio da un pezzo, la cena ormai si era freddata e non aveva nessuna intenzione di scaldarla nuovamente. Aveva avuto modo di scambiare quattro chiacchiere con Lenny cercando di smussare gli spigoli del proprio umore pomeridiano, riuscendoci dopo un tè caldo e del sano gossip Springfieldiano, ottenendo soltanto maggiore carica nell’arrabbiatura successiva. Il loro coinquilino se ne stava in disparte, voleva sparire: era la prima volta in cui assistiva a una sfuriata della donna, dopo chissà quanti anni. Era spaventosa. Aveva ben poco della ragazzina che aveva conosciuto da bambino e di cui si era invaghito, prima di scoprire di avere ben altri interessi. Non aveva più nulla della leggerezza di carattere, della spensieratezza, del sorriso spontaneo e contagioso. La Marge Bouvier che credeva di conoscere era sparita da troppo tempo. E di questo si dispiaceva davvero, perché le aveva sempre voluto un gran bene; la loro amicizia si era rinsaldata ulteriormente nel tempo ma nessuno dei due pareva più recare traccia del passato più semplice. Troppe cose, tanti traumi, poche soddisfazioni.
Forse questa era la cosa che accomunava maggiormente Lenny e Marge: una incessante ricerca insopportabile dell’approvazione del prossimo, chiunque egli fosse. Un prossimo che aveva portato a tanta delusione.
«Dove siete stati?»
«Mamma, sei stressante. Siamo solo usciti. Poi abbiamo mangiato il gelato,  camminato, parlato. Insomma, abbiamo fatto quello che fanno le persone normali.»
La donna era contrariata, cercava invano di mantenere un decoro che aveva imparato a cucirsi addosso ma sapere di essere stata soppiantata dalla figura di Homer nel pomeriggio che aveva organizzato per lei e la figlia… non lo tollerava in alcun modo.
«Dovevamo andare noi due fuori.»
«Perché? Non si può uscire con papà adesso? Lo sapevo, sapevo che eri gelosa di lui! Ah ma tu sei la mamma perfetta, tu sei la mamma che ha salvato il teppista, o che ha cresciuto il genio della scuola elementare di Springfield. Tu sei quella che ha sempre una parola buona per tutti, tu sei quella che fa la cosa giusta in ogni momento. Sei solo un’ipocrita, e no, non provare a interrompermi adesso. Devi smetterla di far pesare agli altri che il mondo non sia come quello che vuoi tu. Sul serio, hai rotto le scatole. Dai la colpa a papà per come sei, ma perché non ti guardi e non ti chiedi se è colpa tua?»
L’aveva colpita davvero.
La mano aperta sulla guancia della figlia pizzicava terribilmente, anzi, bruciava. Non era tanto la pelle però ad aver preso fuoco. L’ira che aveva spinto Marge a schiaffeggiarla stava consumando ogni buon proposito per la giornata. Non se n’era nemmeno accorta e aveva cominciato a tremare, spaventata dalla stessa reazione che non riusciva a spiegare. La ragazzina le sussurrò qualcosa di parecchio offensivo, si voltò verso il padre e affondò il volto ricoperto di lacrime sul corpo panciuto e rassicurante. Homer non si espose subito, abbracciò la figlia che singhiozzava silenziosa, le carezzò la testa confortandola al massimo delle proprie esigue capacità e catturò sguardo e attenzione della moglie, sicuro di essere sentito chiaramente:
«Non osare farle una cosa del genere.»
«Ma stai scherzando?! Mettevi le mani addosso a tuo figlio e adesso mi tratti come se mi fossi abbassata al tuo livello?!» Marge era in panico, la voce usciva stridula e la cattiveria acuta. «Non fare il santerellino dopo tutto lo schifo che hai fatto ai tuoi figli!»
Lenny cambiò stanza, era troppo: li aveva visti e sentiti litigare, ma mai aveva partecipato da spettatore così coinvolto. Stava avvertendo il peso delle grida, le accuse lanciate e rimbalzate da uno all’altra, tornando indietro con il doppio della cattiveria, erano al limite del ridicolo. Pensò a quanto potesse star soffrendo Margaret in quel momento, ancora stretta al padre, avvinghiatagli come stesse tentando di non affondare.
Quanto ancora sarebbe durato quel matrimonio?


«Capisci, Lenny? Non l’avevo mai vista perdere la… la pazienza così…»
La taverna di Moe era vuota a quell’ora della notte, ormai tarda persino per gli standard dello stesso titolare che stancamente stava cercando di scacciare un terribile mal di testa con l’ennesima birra. Pessima scelta, ma almeno poteva godere della compagnia – non certo qualificata in quel momento – dei pochi amici che ancora gli erano accanto. Homer lisciava il bordo del boccale, guardando amaramente sparire la frizzantezza della Duff che gli era stata servita venti minuti prima; nonostante volesse bere fino a perdere la cognizione di tempo, spazio e delle cose, non ce la faceva.
Aveva promesso a Marge di smettere con l’alcool, o almeno tentare di limitarsi e non abusarne… dannazione a lui, ci stava riuscendo e pure nel momento peggiore, cioè quando effettivamente l’alcool avrebbe potuto essere la soluzione ai suoi problemi. Non poteva dire lo stesso di Lenford, steso sul bancone di legno, aggrappato con le poche forze levate dal sonno alla bottiglia di vetro, l’ennesima, che aveva richiesto quella sera.
«Ho… Homer, senti… come, come fai?» Trascinava le sillabe, voleva farsi capire, doveva. «Homer, Homer come… come fai? Sai, io se, spetta, aspetta so… so cosa de-devo dire.» Bevve ancora un sorso, uno di quelli che sapevano di acqua e di lacrime, l’agro della birra che aveva ordinato non lo percepiva nemmeno più. «Come fai a… a amarla così?»
Moe si girò verso di lui, urlandogli addosso, sputando aggressività: non poteva dire sul serio, non poteva stare parlando di Marge, della donna di cui si era innamorato e che ancora portava stretta nel petto, nella speranza di ricevere da lei una parola gentile, uno sguardo interessato. No, non era ammissibile una simile affermazione. Lo schernì apertamente, prima di tornare alla sua solitudine di un metro quadro e al suo silenzio perplesso e scontroso.
«Moe, non… non puoi capire. Ahahah, sembra di stare, credimi, sembra di… di stare in un inferno lì dentro.»
Homer osservò perplesso l’amico che ormai stava parlando a ruota libera. C’era qualcosa di sbagliato in ciò che stava dicendo: d’accordo, la situazione non era delle migliori, ma dal suo punto di vista ne aveva passate ben di peggiori.
Almeno era ciò di cui era convinto.
E stava sbagliando.
Lenny rise di nuovo. «Marge parla male tutto il tempo di… di te, Homer. Mio caro sei, sei veramente fregato. Si… si è… pffff! Si è pentita di averti, aspetta, come si dice cazzo…» si grattò il mento, bevve un altro abbondante sorso e poi scoppiò a ridere. «si è pentita di averti sposato. Ma tanto, tanto, sì tanto tempo fa.»
Si
è
pentita.

Homer l’afferrò per il colletto, lo sbatté contro al bancone e rovesciò i boccali a terra, i cocci a riempire il pavimento appiccicoso. Moe tastò nel retro del mobile alla ricerca della fidata arma illegale che deteneva nel caso le cose si mettessero male. «Homer, non costringermi a sparare un colpo d’avvertimento. Non vorrai avere qui la polizia a quest’ora. È completamente ubriaco, lascialo stare.» Non l’avrebbe fatto di sicuro, ma spaventare i suoi clienti era il modo migliore per evitare di dover poi agire davvero. «È solo ubriaco. Non è messo meglio di te, starà parlando la sua rassegnazione.»
Lenny non fece resistenza, anzi, sfidò l’amico apertamente a fare qualunque cosa desiderasse in quel momento. «Vuoi colpirmi? Dai, dai Homer. Fallo. Non… non sei capace di fare di… didi più di così, vero? Per questo si è ammalata, per questo odia… la sua vita con te. Ti odia, PAPI.»
Lo schernì con il nome con cui la moglie lo chiamava ancora quando andava tutto bene. Era tanto che non lo sentiva pronunciare.
Il pugno arrivò ben assestato, dritto sullo zigomo. Non certo forte, ma abbastanza significativo da mettere un bel punto alla situazione. «Ti voglio fuori da casa mia. Due giorni, e te ne andrai.»


Lenford aveva lasciato il locale barcollando, rideva di lui, di Homer, della situazione in cui si era andato a cacciare. Le strade deserte di quello specifico quartiere di Springfield non erano di compagnia, e non sapeva nemmeno dove sarebbe andato a finire. Era arrivato da Moe accompagnato da Homer, aveva parlato troppo, e adesso sarebbe dovuto tornare a casa Simpson per poi raccattare le sue cose e andarsene. Che male aveva fatto a esporre la verità? Non che Marge avesse usato esattamente le stesse parole, ma ciò che lui aveva sentito, colto e interiorizzato equivaleva a ciò che aveva esposto all’amico.
In fondo, dire la verità non era il modo migliore di aggiustare le cose?
O romperle definitivamente, ecco.
Almeno si sarebbero mosse in una direzione precisa, piuttosto che rimanere in equilibrio su un filo pieno di nodi e rattoppi, sfilacciato, consumato.
Alzò gli occhi al cielo, le stelle erano così belle, parevano dei fiori di cotone quanto erano sfocate. Gli occhi di Lenny le notavano ovattate e lontane, forse per l’alcool, forse per gli occhi lucidi. Non coglieva molto delle conseguenze che avrebbe scatenato, non ne era capace in quel dato momento, ma sapeva niente sarebbe stato come prima.
Aveva rotto la fiducia decennale con Homer, aveva sputtanato la sua situazione con terzi e l’aveva fatto ridendo.
«Bel risultato, Lenny. Bravo, bravo, bravo.» E continuava a ridere, ridere e piangere. «Bravo e stupido.»


La chiave nella toppa era entrata fluida, al primo colpo. Un record, considerato l’orario. Homer nello standard era sempre tornato ubriaco a quell’ora, ma non era questa l’attuale situazione: il poco alcool ingerito di malumore pareva dissolto dopo le parole acide dette da Lenford, tanto acide da provocargli un moto di rabbia che non aveva mai espresso così fortemente contro di lui. Così Marge non lo sopportava più, eh…
Beh, non che ci fosse voluto un genio, ne aveva combinate tante, troppe, davvero troppe per riuscire a rinsaldare qualcosa di sgretolato come l’emotività della moglie. Entrato in casa si adagiò in salotto, al buio, affondando pesantemente sul divano. Accovacciato come quando non era capace di affrontare il peso del mondo su di sé.
Aveva perso la fiducia di due di tre figli, ma sempre aveva contato sull’instancabile Marjorie Bouvier; sull’ingrigita, stanca e instabile Marge. Le aveva tolto anni di vita con le sue cazzate, i suoi errori, le sue leggerezze. E nient’altro glieli avrebbe potuti restituire in nessun modo. L’aveva prosciugata, ma questo l’aveva già capito durante il lungo colloquio con il Dott. Hibbert dopo le dimissioni della moglie dal ricovero. Aveva sbagliato tanto, non aveva dato abbastanza e sicuramente avrebbe potuto fare di meglio, ma sempre aveva agito pensando di fare del bene per lei.
Ora sapeva non aver fatto ciò che poteva, doveva o voleva.
E comunque, non era stato sufficiente.
Era riuscito a farsi odiare dall’unica persona che l’aveva sostenuto, amato e accettato. Il suo universo stava cadendo, e l’ultimo pezzo a sostegno del proprio equilibrio aveva ceduto un paio di ore prima.
Nel dormiveglia, avvolto dal silenzio plumbeo della casa, ricordò un volto sorridente, capelli blu vivace, tanta speranza ancora cucita addosso, anche se alla bene e meglio. Lui e Marge erano giovani ma avevano ancora tanta voglia di crescere assieme, di migliorarsi, di dare tutto…

 

«Sei abbastanza ubriaco da dirmi che mi ami?»
«Sì, Marge, sì! Sono abbast… abbastanza ubriaco!»
Ridevano, non avevano nulla se non un appartamentino da pochi spiccioli, un arredo spoglio, gli oggetti portati via in fretta dal tetto famigliare per cominciare una nuova vita assieme.
«Sì cosa?» Erano euforici, inesperti della vita, ma una cosa la sapevano…
«Sì, ti amo!»
Marge abbracciò Homer, Homer abbracciò Marge. E così era cominciata.
 

   
 
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