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Autore: shilyss    21/06/2023    13 recensioni
“Ho ricevuto entrambe le tue lettere, ma nell’ordine sbagliato. Questo ha creato un increscioso contrattempo.”
“Un lungo contrattempo,” mormorò lei. Il suo abito era color avorio, stretto in vita da una cintura di seta di un verde chiarissimo, che a Loki ricordò certi laghi di montagna. Lo stesso verde era stato usato per ricamare i bordi dell’abito con eleganti figure di foglie e di fiori.

Ci sono discorsi che possono essere sussurrati solo in una notte di primavera, una di quelle in cui i profumi inebriano e l'aria è dolce.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Loki, Sigyn
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Oscure, insidiose notti

 

 

 

Cap 1

 

Era una di quelle sere di primavera in cui l’aria è fresca e dolce e la notte indugia dietro un cielo sfumato di rosa, di viola e di rosso. Loki Odinson si concesse un momento per ammirare quello spettacolo d’incredibile bellezza, poi bevve l’ultimo sorso d’acqua della sua borraccia e risalì a cavallo. All’animale, spossato quanto lui, promise un’ultima galoppata fino alla residenza estiva di Freya, la cui sagoma scura si intravedeva oltre la valle. Dopo, mormorò suadente, carezzando il collo del destriero, dopo per te ci saranno fieno e acqua in abbondanza, e una stalla accogliente. Storse le belle labbra sottili in una smorfia, la mano ancora posata sul pelo scuro del suo cavallo. Lui non sarebbe stato altrettanto fortunato. Per un momento desiderò essere lontano, ad Asgard, nelle proprie stanze ingombre di libri, immerso in una vasca piena d’acqua calda. Mentre purificava il proprio corpo togliendosi di dosso il fango e il sangue che lo ricopriva, regalo dell’ultima incursione portata a termine per volere di Odino, avrebbe liberato la mente da tutti i pensieri che gravavano sulle sue spalle, dagli oscuri ragionamenti che gli infettavano l’anima – no, non erano ragionamenti, quanto ovvie riflessioni, lucide analisi che non poteva far finta di non considerare. Tutti sostenevano che fosse un uomo sagace e brillante: ammiravano la chiarezza dei suoi discorsi, si stupivano o infuriavano, a seconda dei casi, quando si scontravano contro la sua logica affilata, ma qual era il prezzo da pagare per educare la propria intelligenza affinché fosse sempre pronta e reattiva? Abbandonare ogni illusione. O, almeno, lasciar scivolare via le patetiche menzogne in cui sarebbe stato più facile crogiolarsi, come l’idea che Odino, il potente dio delle forche e della magia, non favorisse sempre Thor anziché lui. Certo, Loki non era così sciocco da credere di essere del tutto immune dal conforto che solo le bugie che ci raccontiamo sanno regalare. Anche lui, come tutti, filtrava la realtà basandola sulle proprie personali convinzioni. Per quanto si sforzasse di analizzare ogni cosa da più punti di vista, per quanto tentasse con ogni fibra del suo essere di padroneggiare quel concetto inesistente che si chiama verità e che non è altro se non un agglomerato di visioni soggettive e parziali, sprofondava spesso nell’errore comune di raccontarsi la propria sciocca e personale fiaba riguardo l’esistenza.

Forse era l’aria dolce di Vanheim e quella sera primaverile così bella, a fargli desiderare, per contrappasso, di essere altrove, nell’ancora gelida Asgard o più a nord, nell’impietosa Jotunheim dove la neve non si era sciolta, né lo avrebbe fatto. Eppure, nonostante fosse esausto, spronò l’altrettanto sfinito destriero lungo il sentiero che portava alla residenza estiva di Freya. Doveva farlo, e il suo trafelato arrivo, insieme all’aspetto scarmigliato e allo sguardo tanto acceso da sembrare febbricitante, avrebbero, almeno in parte, giustificato l’estremo ritardo con cui aveva messo piede a Vanheim. L’orizzonte si era fatto di un indaco acceso e cupo, screziato dell’ultimo oro dei raggi solari e già avvolto nell’azzurro sempre più intenso e scuro della notte. Il palazzo di Freya non era più una sagoma stagliata in lontananza, ma un edificio fiocamente illuminato di cui poteva distinguere con chiarezza l’architettura sobria e lineare. Quello, però, era un effetto della distanza. Loki sapeva che nella residenza estiva dei sovrani di Vanheim si festeggiava la primavera e che, presto, i bagliori fiochi si sarebbero trasformati in grandi fuochi e il vento gli avrebbe portato i canti e le risa degli occupanti. Spronò il cavallo già schiumante a un galoppo ancora più serrato – era impazienza, quella che sentiva dentro di sé?

 

L’ingresso di Loki fu irruento e plateale. Varcò il grande arco che immetteva nel giardino di Freya senza smontare di sella, suscitando esattamente lo scalpore che si aspettava. I suonatori si interruppero e, al cessare improvviso della musica, molte teste si voltarono nella sua direzione. Nonostante avesse cavalcato per diverse ore, scese dal proprio destriero con l’abituale agilità e si guardò intorno, sfoggiando il suo aspetto volutamente feroce e una certa aria sprezzante. Il divertimento che aveva interrotto, del resto, era possibile perché c’era chi, come lui e Thor, sceglieva una vita diversa – impugnava le armi e lottava. La bellissima e regale Freya gli venne incontro emergendo dalla folla, col suo passo lieve e aggraziato. Dopo averlo squadrato da capo a piedi, piegò appena le labbra tinte di rosso in un sorriso. “Benvenuto, figlio di Odino. Sembri esausto. Ti farò preparare immediatamente un bagno ristoratore.” Nel dirlo, gli fece strada verso il palazzo, sotto gli occhi dei presenti.

“Più tardi. Prima devo svolgere un compito,” fu la replica asciutta del principe degli Æsir. Agli sguardi avidi che lo circondavano, rispose raddrizzando ancora di più le spalle e la testa, rendendo la sua camminata già altera ancora più regale.

Devi o vuoi, Loki?” insinuò Freya, scrutandolo di sottecchi.

“Non rendiamo le cose più complicate di così,” sibilò Loki. Non fissava la sua bella interlocutrice. La sua attenzione era rivolta altrove – cercava qualcuno con lo sguardo e, a un tratto, finalmente, lo trovò. Una figura snella di donna, parzialmente girata, intenta a conversare con un uomo. Da quella distanza poteva ammirarne il profilo delicato e ben fatto, la linea del naso leggermente appuntito, le labbra morbide e i capelli dorati, acconciati una pettinatura che lasciava le ciocche sciolte e sparse sulla schiena. Lei dovette sentirsi gli occhi del dio dell’inganno addosso, perché si voltò completamente. Lo fissò per un lungo momento, seria in volto. Poi, si rivolse di nuovo al suo interlocutore, regalandogli un sorriso che, Loki lo intuiva, era radioso quanto l’occhiata a lui riservata era stata gelida.

“Va’ da lei, se lo ritieni giusto,” intervenne Freya. Non le era sfuggito nemmeno un particolare della scena, ma qualcosa, nel suo tono, spinse Loki a voltarsi finalmente verso di lei, in attesa che si spiegasse.

“Secondo me,” iniziò la Vanir, facendo attenzione a scegliere le parole con molta cura, “dovresti mettere qualcosa sotto i denti e riposarti. Ti darà modo di pensare.”

“Mi confondi con mio fratello Thor, temo. Ho avuto molto tempo per pensare. Qualcuno direbbe persino troppo.”

“Nondimeno, questo è il consiglio che ti offro dopo che hai visto come ti ha accolto.”

“Non mi aspettavo certo che mi sarebbe corsa incontro per abbracciarmi.”

“Tu credi di essere meno impulsivo di Thor,” insistette la donna. “Ti crogioli nella tua superiorità, nella forza della tua intelligenza, nella tua indubbia sagacia. Ma questa è una situazione delicata. Ci saranno conseguenze.”

“Ci sono già state delle conseguenze,” le ricordò Loki tetro.

“A quelle ci siamo abituati. Al resto, no.”

L’ingannatore scosse la testa e rise – una risata bassa e roca, fatta solo con la bocca e non con gli occhi. “E credi che si possa dire, di me, che non valuto ogni singola possibilità, ogni aspetto di una data questione?”

“Sì, ma pensi solo a te stesso,” lo rimproverò Freya.

Loki la fissò con freddezza. Avrebbe voluto ribattere che, ultimamente, non gli riusciva così tanto bene fare i propri interessi: se così fosse stato, non avrebbe passato mesi lontano da Asgard, in costante pericolo di vita. L’unica cosa su cui Freya aveva ragione era il suo essere esausto. Negli occhi della donna, d’un blu vivido e brillante, Loki lesse una sicurezza calma e granitica. Risponderle sarebbe stato una controproducente perdita di tempo. La bella e prepotente Freya era abituata ad avere una precisa opinione di ogni cosa, avvenimento o persona. Non cambiava idea facilmente, e, di certo, non l’avrebbe fatto in pochi minuti. Per convincerla gli ci sarebbe voluta una notte intera, forse persino qualcosa di più. Tempo che lui non aveva e, a ogni buon conto, non avrebbe di certo speso per lei. Era a qualcun’altra che doveva riservare la propria abilità retorica, una che, dopo aver smesso di conversare, si era voltata appena per lanciargli un’occhiata e, rapida, aveva raccolto le gonne incamminandosi verso l’interno palazzo.

 

La raggiunse, ma sarebbe più corretto dire che la inseguì lungo gli ampi corridoi affrescati del castello, fino a una stanza ampia, dove la fresca brezza serale penetrava attraverso le alte finestre semichiuse, portando con sé i profumi dei molti fiori che puntellavano la vallata. L’aria gonfiava le tende di lino bianco, conferendo alla camera in penombra un aspetto spettrale e sospeso allo stesso tempo, come se Loki si trovasse all’interno di un sogno, di una sua personale illusione. Si chiese se, in realtà, non si fosse addormentato mentre cavalcava in direzione del palazzo. Se il magnifico tramonto e le dolci temperature primaverili di Vanheim non l’avessero tradito, facendolo cadere in un sonno incantato simile a quello delle fiabe. L’altro pensiero che gli attraversò come una freccia la mente era più doloroso – più disturbante, perché aveva le fattezze di un sospetto strisciante e velenoso, secondo cui lui non era affatto scampato alla morte per poi raggiungere Vanheim. Scacciò via quei pensieri allucinati, attribuendoli alla stanchezza. Sentiva troppo dolore e fame e stanchezza per aver raggiunto il Valhalla. Il suo corpo soffriva e quella sofferenza indicava che era vivo. La spalla gli doleva e così il fianco – galoppare tanto a lungo aveva peggiorato le sue condizioni.

Una figura gli venne incontro, staccandosi dalla penombra. Una sottile ed eterea, che avrebbe riconosciuta tra mille e che, muta, attendeva fosse a lui a parlare, a spiegare, a raccontare.

“Sigyn, come vedi sono qui, finalmente,” esordì allargando le braccia, sforzandosi di non osservare nient’altro all’infuori di lei. “Ho ricevuto entrambe le tue lettere, ma nell’ordine sbagliato. Questo ha creato un increscioso contrattempo.”

“Un lungo contrattempo,” mormorò lei. Il suo abito era color avorio, stretto in vita da una cintura di seta di un verde chiarissimo, che a Loki ricordò certi laghi di montagna. Lo stesso verde era stato usato per ricamare i bordi dell’abito con eleganti figure di foglie e di fiori.

“So che è stato difficile e penoso,” riprese, muovendo un passo verso di lei – ma con cautela, come se Sigyn fosse pericolosa. E, in un certo senso, quella notte lo era. Dietro l’apparente tranquillità e fermezza che ostentava, sotto le ciglia scure e lo sguardo liquido e grigio, oltre il sorriso enigmatico e severo, c’era qualcosa che bruciava. Lei moriva dalla voglia di dire o di fare altro, ma si tratteneva, consapevole, come Loki, che quella notte di primavera avrebbe deciso il corso delle loro esistenze. Qualunque decisione avessero preso.

“È stato doloroso,” confermò Sigyn, gli occhi che sfavillano, “ma penoso no, assolutamente. Guarda,” disse, indicando un punto della stanza, e c’erano orgoglio e gioia nella sua voce trepidante, ridotta a poco più di un sussurro. Loki la squadrò con il suo sguardo più fosco e terribile, tanto acuto da sembrare che potesse leggere fin dentro l’anima delle persone, per poi seguire la mano esile e delicata di lei. Gli sarebbe bastato avanzare di un passo per vedere e rendere una situazione intricata e incresciosa, di cui si era parlato e scritto e ragionato fin troppo, reale, viva. Strinse la mascella affilata, serrò le mani a pugno e non riuscì a nascondersi di temere quel momento. Aveva paura. Una sensazione per nulla insolita, che il dio dell’inganno aveva imparato a conoscere bene sui campi di battaglia, nella furia degli scontri in cui si lanciava mulinando in aria il proprio elmo o armato di una coppia di lunghi pugnali affilati. Era la paura, una ragionevole paura di morire, che lo aveva tenuto in vita fino ad allora, facendogli valutare con la dovuta lucidità situazioni, eventi, possibilità. Era un’alleata, purché non si cedesse al terrore. E Loki, suo malgrado, aveva provato anche quest’ultimo. Ricordò la sensazione dei muscoli che si irrigidivano, il respiro che si faceva corto, il cuore che accelerava il suo battito. Tra le dita improvvisamente fredde stringeva la lettera arrivata per errore prima dell’altra, quella che annunciava una sciagura fatale. All’inizio l’aveva letta quasi distrattamente, saltando da una frase all’altra, ma a un certo punto si era fermato, scorrendola daccapo dall’inizio alla fine, con tutta l’attenzione di cui disponeva. Se si trovava in quel momento al cospetto di Sigyn, era per il terrore improvviso provato grazie a un insignificante imprevisto. Se il tempo era formato da una serie di scelte possibili, di varianti, infinite come le decisioni che prendiamo ogni giorno, esisteva un mondo dove lui aveva ricevuto le missive nell’ordine giusto e la sua volontà iniziale non era mutata. Ma nella sua realtà, quella che abitava, lui aveva letto le due missive nell’ordine invertito e il terrore, un gelido, spaventoso terrore, gli si era infilato sotto la pelle, incuneandosi nelle ossa, nelle vene, nella carne viva.

 

Avanzò di un passo e il pavimento di legno scricchiolò sotto gli stivali infangati, fino a vedere la culla. Dentro, c’era un bimbo di pochi mesi che dormiva un sonno beato, rotto appena da un piagnucolio – sognava, forse, che fosse giunto il momento di mangiare. I lineamenti erano dolci, la bocca schiusa, le mani, strette a pugno, così piccole da fare impressione. Era una cosina fragile e delicata, inerme, innocente come i sogni che senz’altro faceva. Loki lo fissò senza celare una smorfia, con le sopracciglia aggrottate, cercando una somiglianza che, a detta di tutti, pareva chiara e ben visibile. Era difficile immaginare che quell’esserino minuscolo potesse, un giorno, brandire una spada, tagliare la gola a un avversario, chinarsi con circospezione, ancora sporco del sangue dei propri nemici, a osservare suo figlio appena nato. Ma nel tempo che sarebbe trascorso prima che quel neonato si trasformasse in un guerriero, qualcuno avrebbe dovuto proteggerlo, prendersi cura di lui. Si portava dietro un retaggio ingombrante – il patronimico Lokason, carico di oscure aspettative e di giudizi, e il sangue ribollente di una stirpe di re feroci e potenti, spietati. Loki, che pure era immensamente fiero del suo nobilissimo lignaggio, conosceva bene quanto pesasse essere un Æsir e uno Jotunn. I primi erano famosi per essere un popolo di pirati sagaci e arroganti, i secondi avevano il privilegio di essere i cupi antagonisti delle più terrificanti fiabe che si raccontavano ai bambini.

Loki, a cui nell’infanzia e nella primissima giovinezza non erano stati risparmiati i truci racconti delle malefatte compiute dagli invidiosi e maligni Jotnar, alla fine aveva accettato la propria natura. Di più, la sfoggiava a viso aperto, vantandosene persino, come se fosse una caratteristica rara e preziosa. E per lui lo era, rara e preziosa, ci credeva, ma si dispiacque che quell’esserino inconsapevole e fragile nascesse con un tale fardello. Un pensiero gli attraversò la mente, un ragionamento affilato più di un coltello e altrettanto doloroso: che quel sentimento tanto simile alla pietà era lo stesso che aveva spinto Odino figlio di Bor a salvarlo dalla morte certa.

A suo figlio che storie avrebbero sussurrato?

 

Sigyn, intanto, lo osservava in silenzio. Di certo non le era sfuggito il disagio di Loki, la rigidità con cui si era sporto per vedere il bimbo assopito. Cosa si aspettava, da lui? Attendeva quell’incontro da mesi e l’ingannatore, per quanto fosse sagace e perspicace, non riusciva a indovinare quali fossero i suoi pensieri, cosa osasse sperare per sé e per quel figlio che aveva messo al mondo da sola. Per poco non era morta nell’intento – solo le cure tempestive di Freya l’avevano salvata – li avevano salvati. Il bimbo emise un vagito, mosse i pugnetti e si agitò, contrariato da chissà cosa. Anche lei si avvicinò alla culla e, nel farlo, il viso le si illuminò di una dolcezza nuova e sconosciuta, come radioso era il sorriso che rivolse al piccolo Vali – questo era il suo nome. Vali Lokason.

Sostenevano che gli assomigliasse. Nella stanza fiocamente illuminata, Loki distinse un ciuffo chiaro sulla testa del piccolo. Lo vide aprire gli occhi assonnati, di un colore indefinibile – sarebbero stati acutissimi e verdi, come i suoi, o avrebbero assunto la sfumatura grigia di Sigyn? – esplodere in un pianto breve e volitivo e finire tra le braccia esperte e amorevoli di sua madre, che lo cullò brevemente fin quando non si tranquillizzò, per poi puntargli addosso quel suo sguardo orgoglioso e trepidante insieme.

Gli tornarono in mente le parole di Freya e quelle che Odino gli aveva scritto prima che partisse alla volta di Vanheim. Poche frasi laconiche e brevi, ma cariche di sottintesi che gli avevano fatto aggrottare le sopracciglia – insinuazioni profetiche, velate da uno scetticismo beffardo.

“Vuoi tenerlo?” gli propose Sigyn, fissandolo con quei suoi magnifici occhi grandi e rotondi, che aveva sempre trovato belli, in cui ora leggeva un velo d’ansia. Temeva che avrebbe rifiutato Vali, o di essere stata troppo precipitosa nel proporgli di prenderlo in braccio. Loki, in effetti, deglutì, riluttante. Era inzaccherato di fango, sporco di sangue e sudore. Gli pareva di commettere un gesto empio, nel toccare la candida coperta di lana leggera in cui era avvolto suo figlio. Allo stesso tempo, però, gli venne in mente che quando Odino lo aveva raccolto sul picco di ghiaccio su cui gli Jotnar lo avevano abbandonato, il suo aspetto non dovesse essere poi tanto diverso. Così allungò le braccia, perché sentiva di voler risparmiare a quell’esserino fragile e gorgogliante il destino che era toccato a lui. La sua innata eleganza, quella capacità di muoversi in maniera disinvolta in qualunque frangente, lo abbandonò nel momento in cui Sigyn gli porse il piccolo Vali. Si rese immediatamente conto di non avere idea di come dovesse tenerlo e della fragilità del bimbo, che spalancò gli occhi assonnati fissandolo con una certa indispettita curiosità. All’espressione sconcertata e severa di Loki, rispose accennando un piagnucolio e agitando le manine chiuse a pugno. Era una piccola cosa urlante e indifesa – era suo figlio, e nelle vene gli scorreva qualcos’altro di lui, oltre al sangue: quella capacità innata di mutare aspetto, quel seiðr che andava incanalato e addomesticato con lo studio e la temperanza. La sua pelle assunse una sfumatura fredda e bluastra: il sottotono tipico degli Jotnar, spiegò a Sigyn, che, pallida in volto, assisteva per la prima volta a quel fenomeno mai visto. Il dio dell’inganno, pur essendo venuto a patti con la propria natura, non amava l’aspetto dei giganti di ghiaccio, del popolo che lo aveva lasciato a morire perché giudicato troppo debole per sopravvivere. Gli Æsir ritenevano mostruosi i colori degli Jotnar e Loki, pur reputandosi superiore a tali pregiudizi, abbracciava il gusto estetico del popolo presso cui era nato e cresciuto. Eppure, vedendo che il piccolo Vali gli assomigliava anche in questo, per la prima volta gli venne da pensare che non c’era nulla di orribile nelle fattezze e nella diversità del popolo di Jotunheim. Ciò che aveva valutato sempre alla stregua di un fastidioso difetto, ora che lo vedeva ereditato da suo figlio gli apparve un segno della propria eternità: una caratteristica sua propria, di Loki, che gli sarebbe sopravvissuta anche dopo che lui avrebbe raggiunto il Valhalla, se così volevano le Norne. Si ritrovò a provare orgoglio per quel rapido mutamento che tanto aveva spaventato Sigyn, per una manifestazione del seiðr così potente e magnifica perché innata.

Forse, facendo leva su un’abilità così pericolosa e difficile da gestire, avrebbe convinto Sigyn, alla fine. Gli ridiede il bambino e lei lo mise di nuovo nella culla, avendo cura di coprirlo a dovere. Se, come molte donne di Vanheim, avesse affidato il figlioletto alle tate e alle balie, forse tutto sarebbe stato più semplice, si disse, ma nello stesso istante in cui fece questo ragionamento si rese conto di quanto fosse fragile una simile convinzione.

Lei lo amava. Li amava entrambi – di questo, era dolorosamente convinto.

 

Continua…

 

 

L’angolo di Shilyss

Care Lettrici e cari Lettori del mio cuore ♥ ♥!

Eccomi qui con una storia breve (nella mia testa e sulla carta) su Loki e Sigyn, naturalmente. Nasce grazie all’Angolo di Madama Rosmerta, per la challenge Tanti piccoli semi per far fiorire nuove storie” indetto sul gruppo L’Angolo di Madama Rosmerta.

Ho usato due pacchetti, “Rosa” e “Viola”. In questo capitolo, in particolare, potete leggere il bonus di Viola (tende che svolazzano) e parte della situazione (A e B devono prendersi cura di un neonato – B approfitta dell’occasione per parlare del suo futuro con A). La citazione è presente nei prossimi capitoli, mentre il prompt “weekend fuori porta” è il viaggio breve che Loki sta compiendo nella residenza estiva di Vanheim. Il secondo capitolo di questa storia e parte del terzo sono già scritti, quindi spero di non metterci cent’anni a concluderla.

Per sapere che fine ho fatto c’è fb. Cercatemi anche lì, è l’unico social che riesco a gestire. Spero che la lettura ti sia gradita, o Lettore ♥!

Ringrazio con tutto il cuore chi listerà, recensirà o semplicemente leggerà questa storia: sono piccole cose, ne convengo, ma danno più di quanto crediate e so’ pure gratis XD. A parte gli scherzi (lokini) siete importanti e sappiate che leggo tutti i vostri commenti e non vi mangio. Spesso non rispondo pubblicamente, ma se vi palesate lo faccio e sono molto alla mano, ecco.

Ricordo che il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Non vi autorizzo a ispirarvi o peggio a questa versione o alle altre storie da me postate né qui né altrove (peggio mi sento con le fiabe, come questa) e lo stesso vale per gli headcanon su Vanheim, su Loki o su Asgard stessa. Creare un mondo con usi e costumi non è uno scherzo.

A presto e grazie per tutto l’affetto/sostegno/cose, vi si lovva sempre!

Vostra,

Shilyss

 

 

   
 
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