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Autore: Marghe    26/05/2005    4 recensioni
non so cosa commentare. u_u''''
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il fosso melmoso si tendeva fiaccamente verso il mare

Le tristezze ignote.

 

Il fosso melmoso si tendeva fiaccamente verso il mare. L’ultimo acquazzone era stato tre giorni prima e del tumultuoso piccolo fiume che aveva galoppato fino a tuffarsi nel mare nero era rimasta una sottile distesa d’acqua spiegata sulla spiaggia come una vecchia vela. Un gabbiano che saltellava come un pollo facendo versi da pollo fra i ciottoli verdi, e qualcuno che si concedeva una passeggiata sotto il sole di maggio.

Il mare era muto, un grosso pozzo senza voce. Ma come tutti i grossi pozzi, aveva un gorgoglio lontano anche il mare, un gorgoglio che veniva dalle sue viscere più profonde, dalla selva di mostri che erano i suoi fondali.

Pisolava tranquillo, il mare, senza dare fastidio a nessuno. Eppure niente escludeva che un giorno quel mare sarebbe stato increspato dallo sprofondare di una grossa pietra e si sarebbe rivoltato, abbattendosi con tutto il suo peso sulla spiaggia corta così sonnacchiosa alla domenica mattina.

O poteva anche darsi che un giorno il mare si essiccasse, lasciando soltanto fango nella cavità accidentata che lo aveva ospitato, piante marine che si afflosciavano morendo e pesci degli abissi che agonizzando nel sole trattenevano la stupida anima di pesce con le loro fauci spaventose.

Poteva essere anche che il mare, piano piano, senza che nessuno se ne accorgesse subito, salisse e salisse e continuasse a crescere come un grosso gigante che lentamente si sveglia e si alza sovrastando gli uomini e facendoli sentire piccoli e deboli nella sagoma della sua ombra. Un giorno tutti avrebbero sentito quel gorgoglio di fondo avvicinarsi, sempre di più. E magari un giorno non troppo lontano il mare avrebbe mangiato ogni cosa.

 

Dopo due anni tornai a quella spiaggia. Due anni dopo il mio trasferimento, ovvero due anni dopo aver visto quella spiaggia corta per l’ultima volta. Non la scoprii tanto diversa. Forse perché in fondo non me la ricordavo neanche tanto bene.

In due anni io ero molto cambiato. Parlavo in modo diverso e soprattutto pensavo in modo diverso, e ciò era stato il cambiamento più radicale ma anche il più spontaneo. Era maggio, come l’ultima volta, ma non aveva piovuto negli ultimi giorni e dell’acqua oleosa di fosso che ricordavo non era rimasto niente, solo sabbia con dei sassi verdi che ci affogavano dentro. Il gabbiano-pollo non c’era, ma c’erano le solite persone che passeggiavano, anche se non erano mai le stesse.

Ora però mi pareva che camminassero più veloci.

Sentivo dentro un senso d’angoscia tale che avrei potuto sciogliermi e trasformarmi in fango. Non sapevo da dove venisse questa tristezza, questa sofferenza soffocata. Usciva dalle mie mani, dalla punta delle mie dita, come smorzata da un cuscino o da qualcosa di simile che ne impediva la completa espulsione. E il risultato era una specie di grido che non mi andava di gridare. Però lo sentivo che stava in gola, e la sua incapacità di manifestarsi ne faceva una piaga ancora più dolorosa.

Cercai invano di trovare le ragioni di questo sentore.

Forse non le cercai nel modo giusto o forse ero troppo orgoglioso, troppo testardo, troppo stupido, troppo bambino per vedere con esattezza cosa c’era che non andava.

Avevo degli amici, o comunque delle persone con le quali potessi trascorrere momenti piacevoli. Avevo delle persone con le quali poter parlare, se avevo un problema. C’erano delle persone che amavo, delle persone a cui volevo bene. Naturalmente non c’erano persone con le quali potessi condividere ogni piccolo momento di follia. Ma forse questo era un problema tutto mio.

Il lavoro andava bene. Avevo i soldi che mi servivano per vivere decentemente. A vederla così, e a voler esser grati a un qualche Qualcosa per ogni grande piccola fortuna che mi faceva piovere in testa, non c’era proprio niente che non andava.

Potrebbe darsi che fossi solo convinto di avere degli amici; potrebbe darsi che il mio problema fosse quello, che volevo stare da solo, e mi ricordavo di quando ero adolescente, che mi facevo questi problemi, come un cretino.

Adesso ero cresciuto. Mi lasciavo alle spalle le onde passate e  non mi preoccupavo dei nuovi cavalloni, come un sasso arenato sul bagnasciuga. Ma forse più che un sasso ero un’alga. Un’alga flaccida incapace di solidità. Non avevo principi fermi, né fermi desideri, né chiare ambizioni. Forse mi ero troppo sistemato nel mio mondo, o nel mondo degli altri che mi ero fatto piacere, per essere veramente solido come una pietra.

Magari, non ero cresciuto affatto. E il mio cambiamento era pari a quello della spiaggia alla quale ero tornato dopo due anni: ovvero era nullo. Quella spiaggia alla quale ero tornato dopo un così radicale cambiamento in me, aspettandomi che anche tutto il resto fosse tanto cambiato, aspettandomi qualche bella sorpresa anche dalla spiaggia; quella spiaggia che in realtà era un luogo sempiterno. Perché era lì che ero nato, lì che il mio corpo era cresciuto e aveva trascorso i suoi anni, senza appesantirsi mai, perché l’aria del mare è salubre, lo dicono tutti. La spiaggia avrebbe potuto cambiare migliaia di volte e non me ne sarei accorto. Sarebbe sempre stata casa mia.

Avrei sempre avuto questo tipo di schiavitù: la spiaggia non mi apparteneva ma io appartenevo a lei. Ed era la mia gabbia, era il posto dove, che ne fossi consapevole o no, avrei sempre desiderato tornare, giorno dopo giorno, ogni volta che fossi stato lontano, avrei avuto paura di perderla, paura che d’un tratto non fosse più lì, e avrei sempre avuto quella disgustosa consapevolezza: lei non mi sarebbe mai appartenuta. Aveva la facoltà di possedere quanti uomini e donne volesse, ma non sarebbe mai appartenuta a nessuno. Quant’ero geloso.

Sentivo che in gola si stava formando una specie di nodo, caldo e dal pessimo sapore come quelle acque di fosso che avevo visto stendersi sulla spiaggia due anni prima. Cercando di reprimerlo, perché sentivo che avrei potuto vomitarlo, fissai lo sguardo su un punto qualsiasi del paesaggio. Non avevo stabilità nella gambe e ondeggiavo come una canna secca.

Mi accorsi che la luce stava diventando azzurra e il mio sguardo un abbaglio intermittente di macchie fosforescenti. I cavalli galoppanti emettevano versi dolci e sommessi, mutando la loro corsa in un passo evanescente che passava del tutto inosservato, come il passaggio tranquillo, da una stanza all’altra, di tua madre, alla quale sei così abituato. Sudavo nei miei abiti troppo pesanti per le braccia e la mani del sole, che mi assillavano la pelle con una carezza tormentosa e rozza. E cominciavo ad avvertire anche un certo giramento di testa, che mi indusse a restare assolutamente immobile, perché sentivo che avrei potuto cadere a terra se avessi mosso gli occhi, abbagliato. 

Vidi che sul punto che stavo fissando era comparsa lei. Morbida, calda, del colore della sabbia, dagli occhi tanto profondi da fare paura, come il mare, i capelli lunghi quanto lei che cadevano a terra in onde morbidissime.

Stava nuda sdraiata sulla sabbia tiepida, di fianco, appoggiata su un gomito. Appena mi accorsi della sua presenza, lei staccò l’una dall’altra le larghe cosce che mi avevano abbracciato quando ero piccolo, e il mio sguardo corse febbrilmente sui suoi fianchi ampi, i grandi e morbidissimi seni, il collo bagnato d’acqua salata, in quella piega che faceva con il viso.

Senza muoversi ancora mi invitò a raggiungerla. Lo faceva con gli occhi, con il sorriso aperto apparentemente semplice che le si disegnava sulle labbra calde; quel sorriso poteva nascondere miliardi di implicazioni, miliardi di segreti, sommersi nella cavità invitante piena di saliva, dove avevo sentito muoversi la sua lingua come una creatura degli abissi, che era capace di abbracciarmi, di avvilupparmi, di stritolarmi quasi.

Mi feci vicino a lei, incapace di reprimere il desiderio. Mentre mi inginocchiavo, nelle più totali bramosia e devozione, verso quel frutto polposo e bagnato, lei mi strinse con le braccia, e mi sentii investire da un odore incredibile, identico alla brezza del mare.

Era familiare, era proprio quello che ricordavo, e lo odiavo. Mi confermava tutto ciò che avevo pensato prima. Era un aroma di libertà, sull’aria del quale viaggiavano incessantemente i cavalli selvaggi, in un galoppo che non apparteneva a nessuno e che nessuno poteva fermare.

Mi rifugiai fra i suoi seni, tentando di affogarvi dentro, per scappare da quell’odore; e subito venni avvolto dal calore di un grandissimo abbraccio.

Dimenticai tutto, affogando nel suo miele.

Un corpo ampio, accogliente, nato dalle carezze che la bianca schiuma del mare faceva alla sabbia bollente che si protendeva verso di lui in soffici dune.

Lei mi accolse con tutto il suo calore, la sua pelle assorbì le mie lacrime amare, i suoi capelli mi coprirono dalla ridicola vita che non volevo più vedere. Il sole troppo forte non poteva raggiungere né me né lei. Mi accolse come aveva fatto quando ero piccolo, facendomi tornare a quei tempi, quando non mi permetteva di crescere. Mi diceva, mi perderai se cresci. Mi diceva di rimanere com’ero, di non andare mai via. Ma era disposta a perdonarmi, sempre, ne ero sicuro.

Avevo sempre questa sensazione, e cioè che per lei io non facessi la minima differenza. Ma nel suo marino abbraccio pulsante dal quale non potevo divincolarmi, avrei dimenticato qualsiasi cosa. Mi faceva sentire un uomo, mi faceva sentire una pietra, quando per tutto il resto del mondo restavo soltanto un’insignificante alga sulla battigia.

Quant’ero geloso, sì. A quanti lei aveva finto di appartenere, da quando esisteva – da sempre? A quanti dava le stesse sensazioni che dava a me, illudendoli di poter essere posseduta, poi tradendoli col suo vento di libertà, poi consolandoli di nuovo con le sue spezie marine?

Gioivo delle sue gioie e soffrivo delle sue sofferenze ma non potevo capire a fondo né le une né le altre. Potevo rimproverarla dei suoi errori soltanto per sentirmi ancora peggio, constatando che avrebbe continuato a commetterli, indipendentemente da me; o potevo soffrire per lei, solo per illudermi che lei avesse bisogno di protezione e compatimento, perché lei era fragile, sì, ma era anche testarda e capricciosa, e alla fine non le serviva nessuna pietà. La sua era una passione solitaria che investiva chiunque, senza saperlo, che non guardava in faccia a nessuno.

Calda, semplice e serena, come la costa sabbiosa che le dava le colline lisce e morbide, libera, complicata e irritabile, come le onde di quel mare che la faceva androgina.

Mamma, mamma, mamma, piangevo accoccolandomi nel suo abbraccio. Lei stava trasformandosi in sabbia.

Ma poi un cavallo si imbizzarrì riprendendo di colpo il suo galoppo; arrivò un’onda più lunga di tutte le altre, distrusse lei che si trasformò in schiuma marina e in vento, lei che si attaccò al carro salato e corse lontano coi gabbiani e con le onde, verso un orizzonte che non poteva appartenermi.

 

 

 

  
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