Le
tristezze ignote.
Il fosso melmoso si tendeva fiaccamente verso il
mare. L’ultimo acquazzone era stato tre giorni prima e
del tumultuoso piccolo fiume che aveva galoppato fino a tuffarsi nel mare nero
era rimasta una sottile distesa d’acqua spiegata sulla spiaggia come una
vecchia vela. Un gabbiano che saltellava come un pollo facendo
versi da pollo fra i ciottoli verdi, e qualcuno che si concedeva una
passeggiata sotto il sole di maggio.
Il mare era muto, un grosso pozzo senza voce. Ma come tutti i grossi pozzi, aveva un gorgoglio lontano anche il
mare, un gorgoglio che veniva dalle sue viscere più profonde, dalla selva di
mostri che erano i suoi fondali.
Pisolava tranquillo, il mare, senza dare fastidio a
nessuno. Eppure niente escludeva che un giorno quel mare sarebbe stato
increspato dallo sprofondare di una grossa pietra e si sarebbe rivoltato,
abbattendosi con tutto il suo peso sulla spiaggia corta così sonnacchiosa alla domenica mattina.
O poteva anche darsi che un giorno il mare si essiccasse, lasciando soltanto fango nella cavità
accidentata che lo aveva ospitato, piante marine che si afflosciavano morendo e
pesci degli abissi che agonizzando nel sole trattenevano la stupida anima di
pesce con le loro fauci spaventose.
Poteva essere anche che il mare, piano piano, senza che nessuno se ne accorgesse
subito, salisse e salisse e continuasse a crescere come un grosso gigante che
lentamente si sveglia e si alza sovrastando gli uomini e facendoli sentire
piccoli e deboli nella sagoma della sua ombra. Un giorno tutti avrebbero
sentito quel gorgoglio di fondo avvicinarsi, sempre di
più. E magari un giorno non troppo lontano il mare
avrebbe mangiato ogni cosa.
Dopo due anni tornai a quella spiaggia. Due anni
dopo il mio trasferimento, ovvero due anni dopo aver
visto quella spiaggia corta per l’ultima volta. Non la scoprii tanto diversa. Forse
perché in fondo non me la ricordavo neanche tanto bene.
In due anni io ero molto cambiato. Parlavo in modo
diverso e soprattutto pensavo in modo diverso, e ciò
era stato il cambiamento più radicale ma anche il più spontaneo. Era maggio,
come l’ultima volta, ma non aveva piovuto negli ultimi giorni e dell’acqua
oleosa di fosso che ricordavo non era rimasto niente, solo
sabbia con dei sassi verdi che ci affogavano dentro. Il gabbiano-pollo
non c’era, ma c’erano le solite persone che passeggiavano, anche se non erano
mai le stesse.
Ora però mi pareva che camminassero più veloci.
Sentivo dentro un senso d’angoscia tale che avrei
potuto sciogliermi e trasformarmi in fango. Non sapevo da dove venisse questa tristezza, questa sofferenza soffocata.
Usciva dalle mie mani, dalla punta delle mie dita,
come smorzata da un cuscino o da qualcosa di simile che ne impediva la completa
espulsione. E il risultato era una specie di grido che
non mi andava di gridare. Però lo sentivo che stava in
gola, e la sua incapacità di manifestarsi ne faceva una piaga ancora più
dolorosa.
Cercai invano di trovare le ragioni di questo
sentore.
Forse non le cercai nel modo giusto o forse ero
troppo orgoglioso, troppo testardo, troppo stupido, troppo bambino per vedere
con esattezza cosa c’era che non andava.
Avevo degli amici, o comunque
delle persone con le quali potessi trascorrere momenti piacevoli. Avevo delle
persone con le quali poter parlare, se avevo un problema. C’erano delle persone
che amavo, delle persone a cui volevo bene.
Naturalmente non c’erano persone con le quali potessi
condividere ogni piccolo momento di follia. Ma forse
questo era un problema tutto mio.
Il lavoro andava bene. Avevo i soldi che mi
servivano per vivere decentemente. A vederla così, e a voler esser grati a un qualche Qualcosa per ogni grande piccola fortuna che mi
faceva piovere in testa, non c’era proprio niente che non andava.
Potrebbe darsi che fossi solo convinto di avere
degli amici; potrebbe darsi che il mio problema fosse quello, che volevo stare da solo, e mi ricordavo di quando ero
adolescente, che mi facevo questi problemi, come un cretino.
Adesso ero cresciuto. Mi lasciavo alle spalle le
onde passate e non
mi preoccupavo dei nuovi cavalloni, come un sasso arenato sul bagnasciuga. Ma
forse più che un sasso ero un’alga. Un’alga flaccida
incapace di solidità. Non avevo principi fermi, né fermi
desideri, né chiare ambizioni. Forse mi ero troppo sistemato nel mio mondo, o
nel mondo degli altri che mi ero fatto piacere, per
essere veramente solido come una pietra.
Magari, non ero cresciuto affatto. E il mio cambiamento era pari a quello della spiaggia alla
quale ero tornato dopo due anni: ovvero era nullo. Quella spiaggia
alla quale ero tornato dopo un così radicale cambiamento in me, aspettandomi
che anche tutto il resto fosse tanto cambiato, aspettandomi qualche bella
sorpresa anche dalla spiaggia; quella spiaggia che in realtà era un luogo
sempiterno. Perché era lì che ero nato, lì che
il mio corpo era cresciuto e aveva trascorso i suoi anni, senza appesantirsi
mai, perché l’aria del mare è salubre, lo dicono tutti. La spiaggia avrebbe
potuto cambiare migliaia di volte e non me ne sarei accorto. Sarebbe sempre
stata casa mia.
Avrei sempre avuto questo tipo di schiavitù: la
spiaggia non mi apparteneva ma io appartenevo a lei. Ed era la mia gabbia, era il posto dove, che ne fossi
consapevole o no, avrei sempre desiderato tornare, giorno dopo giorno, ogni
volta che fossi stato lontano, avrei avuto paura di perderla, paura che d’un
tratto non fosse più lì, e avrei sempre avuto quella disgustosa consapevolezza:
lei non mi sarebbe mai appartenuta. Aveva la facoltà di possedere quanti uomini
e donne volesse, ma non sarebbe mai appartenuta a
nessuno. Quant’ero geloso.
Sentivo che in gola si stava formando una specie di
nodo, caldo e dal pessimo sapore come quelle acque di fosso che avevo visto stendersi sulla spiaggia due anni prima.
Cercando di reprimerlo, perché sentivo che avrei potuto vomitarlo, fissai lo
sguardo su un punto qualsiasi del paesaggio. Non avevo stabilità nella gambe e ondeggiavo come una canna secca.
Mi accorsi che la luce stava diventando azzurra e
il mio sguardo un abbaglio intermittente di macchie
fosforescenti. I cavalli galoppanti emettevano versi dolci e sommessi, mutando
la loro corsa in un passo evanescente che passava del tutto inosservato, come
il passaggio tranquillo, da una stanza all’altra, di tua madre, alla quale sei
così abituato. Sudavo nei miei abiti troppo pesanti per le braccia e la mani del sole, che mi assillavano la pelle con una
carezza tormentosa e rozza. E cominciavo ad avvertire anche un certo giramento
di testa, che mi indusse a restare assolutamente
immobile, perché sentivo che avrei potuto cadere a terra se avessi mosso gli
occhi, abbagliato.
Vidi che sul punto che stavo fissando era comparsa
lei. Morbida, calda, del colore della sabbia, dagli occhi tanto profondi da
fare paura, come il mare, i capelli lunghi quanto lei che cadevano
a terra in onde morbidissime.
Stava nuda sdraiata sulla sabbia tiepida, di
fianco, appoggiata su un gomito. Appena mi accorsi della sua presenza, lei
staccò l’una dall’altra le larghe cosce che mi avevano abbracciato
quando ero piccolo, e il mio sguardo corse febbrilmente sui suoi fianchi
ampi, i grandi e morbidissimi seni, il collo bagnato d’acqua salata, in quella
piega che faceva con il viso.
Senza muoversi ancora mi invitò
a raggiungerla. Lo faceva con gli occhi, con il sorriso aperto apparentemente
semplice che le si disegnava sulle labbra calde; quel
sorriso poteva nascondere miliardi di implicazioni, miliardi di segreti,
sommersi nella cavità invitante piena di saliva, dove avevo sentito muoversi la
sua lingua come una creatura degli abissi, che era capace di abbracciarmi, di
avvilupparmi, di stritolarmi quasi.
Mi feci vicino a lei, incapace di reprimere il
desiderio. Mentre mi inginocchiavo, nelle più totali
bramosia e devozione, verso quel frutto polposo e bagnato, lei mi strinse con le
braccia, e mi sentii investire da un odore incredibile, identico alla brezza
del mare.
Era familiare, era proprio quello che ricordavo, e
lo odiavo. Mi confermava tutto ciò che avevo pensato prima. Era un aroma di
libertà, sull’aria del quale viaggiavano incessantemente i cavalli selvaggi, in
un galoppo che non apparteneva a nessuno e che nessuno poteva fermare.
Mi rifugiai fra i suoi seni, tentando di affogarvi
dentro, per scappare da quell’odore; e subito venni avvolto dal calore di un grandissimo abbraccio.
Dimenticai tutto, affogando nel suo miele.
Un corpo ampio, accogliente, nato dalle carezze che
la bianca schiuma del mare faceva alla sabbia bollente
che si protendeva verso di lui in soffici dune.
Lei mi accolse con tutto il suo calore, la sua pelle assorbì le mie lacrime amare, i suoi capelli mi
coprirono dalla ridicola vita che non volevo più vedere. Il sole troppo forte
non poteva raggiungere né me né lei. Mi accolse come aveva fatto
quando ero piccolo, facendomi tornare a quei tempi, quando non mi permetteva
di crescere. Mi diceva, mi perderai se cresci. Mi
diceva di rimanere com’ero, di non andare mai via. Ma era disposta a
perdonarmi, sempre, ne ero sicuro.
Avevo sempre questa sensazione, e cioè che per lei io non facessi la minima differenza. Ma nel suo marino abbraccio pulsante dal quale non potevo
divincolarmi, avrei dimenticato qualsiasi cosa. Mi faceva sentire un uomo, mi faceva sentire una pietra, quando per tutto il resto del
mondo restavo soltanto un’insignificante alga sulla battigia.
Quant’ero
geloso, sì. A quanti lei aveva finto di appartenere, da
quando esisteva – da sempre? A quanti dava le stesse sensazioni che dava a me, illudendoli di poter essere posseduta, poi
tradendoli col suo vento di libertà, poi consolandoli di nuovo con le sue
spezie marine?
Gioivo delle sue gioie e soffrivo delle sue sofferenze ma non potevo capire a fondo né le une né le
altre. Potevo rimproverarla dei suoi errori soltanto per sentirmi ancora
peggio, constatando che avrebbe continuato a commetterli, indipendentemente da
me; o potevo soffrire per lei, solo per illudermi che lei avesse bisogno di
protezione e compatimento, perché lei era fragile, sì, ma era anche testarda e
capricciosa, e alla fine non le serviva nessuna pietà. La sua era una passione solitaria che investiva chiunque, senza
saperlo, che non guardava in faccia a nessuno.
Calda, semplice e serena, come la costa sabbiosa
che le dava le colline lisce e morbide, libera,
complicata e irritabile, come le onde di quel mare che la faceva androgina.
Mamma, mamma, mamma,
piangevo accoccolandomi nel suo abbraccio. Lei stava trasformandosi in sabbia.
Ma poi un cavallo si imbizzarrì
riprendendo di colpo il suo galoppo; arrivò un’onda più lunga di tutte le
altre, distrusse lei che si trasformò in schiuma marina e in vento, lei che si
attaccò al carro salato e corse lontano coi gabbiani e con le onde, verso un
orizzonte che non poteva appartenermi.